I sordi e gli “udenti”: un ristorante a Roma per lasciare il segno

Prima regola: non chiamateli “non udenti”, perché quel “non” è un marchio privativo. I sordi possono fare tutto tranne sentire. Seconda regola: non chiamateli “sordomuti”, perché la capacità fonica è intatta e se non parlano bene è solo perché, non sentendo i suoni, non possono riprodurli. Terza regola: non chiamate la Lis “linguaggio dei segni”: se solo foste a conoscenza della grammatica, della fonologia e delle componenti orali, il tedesco vi sembrerebbe semplice. La Lis è una lingua, anche se visivo gestuale.

Ecco, se accettate queste regole e volete immergervi in un’esperienza sensoriale unica – e non è il volantino di una spa – dovrete varcare la soglia di un ristorante romano nel quartiere Garbatella. Si chiama “One sense” e la proprietaria è Valeria Olivotti, Valla per gli amici, è una ragazza sorda di trent’anni, che nella vita si era stancata di sentirsi inabile a fare un lavoro come gli altri, nonostante una formazione da barman e manager. E allora, quale occasione migliore per dimostrare che i sordi possono fare tutto (tranne sentire) se non quella di aprire un locale tutto suo? Dopo una lunga ricerca, Valla ha individuato il posto giusto: un ex deposito di prodotti audiovisivi. E insieme con la madre – udente – ha lanciato la sfida. Una parte del personale è sordo, l’altra ha dovuto apprendere i rudimenti della Lis. Ma è questa la magia: l’integrazione, la capacità di mescolare lingue, culture e – perché no – suoni. In molti a questo punto staranno pensando a un’operazione “di nicchia”, a un luogo gestito da “disabili” (la sordità è, tra le disabilità, quella invisibile) da sostenere quando ci sono le petizioni a favore delle minoranze. Non è affatto così, anzi. Scordatevi il buonismo (anche perché i sordi, giustamente, si incazzano quando li si tratta da “minorati”). Accompagnato da un menu di alto livello, in un locale moderno dove si può ascoltare – sì, ascoltare – musica, One Sense è la dimostrazione che la diversità è soprattutto arricchimento. Non serve conoscere la Lis per mangiare, basta indicare sul menù ai camerieri sordi il numero cui corrisponde il piatto scelto. Ma vedere segnare i sordi e, spesso, anche i clienti udenti, genera la curiosità di avvicinarsi a una nuova lingua. E pure a una nuova cultura, che ha con noi molte caratteristiche in comune, ma che ha vissuto per troppi secoli relegata nei convitti. Fino a non molti anni fa, infatti, la Lis era bandita, le persone sorde erano obbligate ad anni di massacrante logopedia per imparare a parlare come noi. Oggi, per fortuna, non è più così e, anzi, in molti Paesi si sta facendo strada una nuova teoria: comunicare con i neonati attraverso le lingue dei segni, per far sviluppare precocemente le loro capacità di apprendimento. In Italia siamo ancora appesi al riconoscimento legislativo della Lis e i sordi sono discriminati nelle scuole e nelle università – basta pensare a un insegnante che spiega girato verso la lavagna in assenza di un interprete – ma è proprio per questo che esperienze come quella di Valla possono incidere. Anzi, è il caso di dire, lasciare un segno.

Il ritorno dell’eterna tragedia greca, quando i vincitori rispettavano i vinti

Si va a Siracusa ad assistere a Le Troiane di Euripide e ci si ritrova come da piccoli – per i vicoli, tra gli slarghi del paese – quando si facevano le squadre: greci e troiani. Al modo cavalleresco di mettere insieme – e in pari grado – vincitori e vinti. Si giocava alla guerra e gli schieramenti – ecco Achille, ecco Ettore – si mantenevano nel dopo, anche nelle partite di pallone.

I vittoriosi e gli sconfitti erano celebrati in eguale dignità e onore. Ed era, quello, un tempo in cui la scuola elementare aveva familiarità con gli Dei, col Cavallo di Troia e con Odisseo, anzi: con Ulisse. E il Signor Maestro, con Eschilo, così scriveva sulla lavagna col gessetto – e questo faceva trascrivere nel quaderno degli alunni – “I vincitori non si salveranno mai se non rispetteranno i templi e gli dei degli sconfitti”. Nei pomeriggi di maggio, assolati, invece che i compiti gli scolari – greci e troiani, sempre insieme – sperimentavano l’epica già accompagnando ciascuno il proprio papà in campagna. Ci si ruzzolava tra le spighe di grano e lì – era alla contrada Perciata – tra gli aguzzi rostri di calcare, si poteva scorgere Atena, appunto, Minerva. Tale e quale, Atena, a quella che gli spettatori della stagione 2019 dell’Inda – ovvero l’Istituto nazionale del dramma antico di Siracusa – vedono ergersi dalla roccia alla propria destra rispetto alla scena (dal lato opposto c’è Poseidone).

Il bambino che giocava ai “greci e troiani”, oggi seduto sulle pietre del Teatro Greco, la vede e la riconosce: è turrita, è armata e parla ancora a lui – come al tempo della scuola – facendo proprie le vicende degli umani, le più tragiche su tutte, per farlo piangere con Astianatte. L’innocente figlio di Ettore – Astianatte interpretato da Riccardo Scalia – è strappato alle braccia della madre e poi gettato dalle rupi di Ilio affinché, crescendo, non faccia tornare il padre. Questo è il pensiero di Odisseo – appunto, Ulisse – di multiforme crudeltà oltrechè ingegno.

La famosa guerra di Troia, scoppiata a causa di Elena, l’hanno vinta i greci, la distruzione che artiglia in petto il bambino che giocava ai “greci e troiani” gli si svela – seguendo la tragedia – attraverso la sorte delle donne dei trucidati, le troiane, assegnate ai vincitori. Si chiama catarsi questo assistere alla messa in scena, ci si libera dal male, e il bambino che giocava “ai greci e troiani”– con la sua Atena seduta accanto – ritrova nelle parole di Euripide, nel dialogo tra Ecuba (Maddalena Crippa) ed Elena (Viola Graziosi), l’eterno rimpallo sui motivi della sciagura in armi e poi ancora quel tutto eternamente uguale che si ripete e torna: i vincitori che parlano con Taltibio (Paolo Rossi) e i vinti. Un greco come Euripide che rende omaggio ai troiani – ai nemici – è l’inaudito che non ci sarà mai e poi mai in questo nostro tempo dove chi vince non rispetta i templi e gli Dei degli sconfitti, anzi, ne fa tabù.

Cassandra (Marial Bajma Riva) si agita e squassa la carne con le sue piroette; Menelao (Graziano Piazza) che tra le donne di Troia si riprende Elena – la sua infedele sposa – ne fa preda quando dannatamente sempre e solo lui è la preda; Astianatte – un cadaverino adagiato sullo scudo del padre Ettore – è un acuto di lutto così grande da far lacrimare il fuoco che brucia Troia, tanto la regia di Muriel Mayette-Holtz, fa catarsi nel sentimento di tutti, i vincitori e i vinti.

La settimana incom

 

Bocciati

Dio c’è. Domenica scorsa una bufera si è abbattuta sulla casa del Grande Fratello. No, non si tratta dei soliti squallidi pettegolezzi, di bestemmie o tette di fuori. Ma proprio di un fulmine che, abbattendosi sulla casa di Cinecittà, ha provocato la sospensione della messa in onda. Il fulmine ha mandando in tilt l’audio dalla casa mentre l’acquazzone ha allagato alcune aree della casa-studio. La diretta è stata ripristinata all’1.30 di lunedì mattina dopo gli interventi dei tecnici. Gli spettatori, allarmati dalla sospensione del programma, sono stati “rassicurati” da una diretta social della conduttrice (che ovviamente è Barbara D’Urso). Può sempre piovere, per piacere?

Lato B. A Ciao Darwin va in onda un fondamentale confronto star del web contro volti della televisione. Culmine del dibattito, il dialogo tra Laura Cremaschi e Karina Cascella (se non sapete chi sono non preoccupatevi, manco noi). “Noi siamo autori di noi stessi, creiamo i contenuti e ci facciamo un mazzo così”, aveva esordito la Cascella. Risposta: “Si parla di farsi un mazzo così, ma io vedo che i culi li fate solo vedere sui profili”. Tutto per smentire Darwin.

The end. Noi della vicenda di Pamela Prati, del suo finto matrimonio, dell’indecoroso circo che per settimane ha speculato in favore di audience, non ci siamo occupati. Ora che è finita, e che è finita come era ovvio dal primo secondo, ci limiteremo a dire che non è il cinismo a essere chiamato in causa. Non è la mancanza di umanità, di empatia, di pudore. È che, sia detto senza far morali che non ci competono né addicono, fate proprio schifo.

 

Promossi

Quello che le donne dicono. Fiorella Mannoia sui social: “Quando la mia sinistra, quella che ho sempre votato da quando ne ho diritto dai Pci, Pds, Ds, L’Ulivo, Pd e tutte quelle altre diavolerie di nomi che gli hanno affibbiato nel corso di questi decenni, chiederà scusa a me e una larga percentuale di gente che ha votato da un’altra parte perché si è sentita tradita, solo allora chiederò scusa anche io. Chiedetevi dove sono andati a finire tutti i voti persi e perché. A volte tanta gente di ‘sinistra’ con la loro intolleranza e saccenza, si comporta come la peggiore destra”. La verità non ha bisogno di commenti, a dispetto dei soliti webeti che l’hanno criticata.

Come va, come va, come va. Mahmood è arrivato secondo all’Eurovision Song contest, per la gioia di chi a Sanremo a dispetto del nome è arrivato secondo rosicando assai. Detto ciò, “Soldi” ha totalizzato oltre un milione e mezzo di stream sulla piattaforma Spotify nelle 24 ore successive alla finale. E il video della performance sul canale YouTube dell’Eurovision contava circa quattro milioni e mezzo di visualizzazioni. Come va? Bene, decisamente.

Traditi da Netflix: una serie tv è meglio di una notte di sesso

State frequentando una persona e il momento dell’innamoramento è vicino? Prima di buttarvi, chiedetele se possieda o no un account Netflix. Perché secondo una ricerca condotta dalla società di consulenza statunitense Hsi fatta su un campione di abbonati Netflix, uno su dieci ha ammesso di aver frequentato una persona non tanto per un attaccamento romantico, ma per avere la disponibilità di un account. Tanto diffuso è il password sharing, oltre alla condivisione dei sentimenti, sembra che molte persone continuino a usare i codici di accesso dell’ex partner anche dopo la fine della storia. Perché l’amore passa, ma Netflix deve restare: da altri risultati della stessa ricerca, infatti, emerge l’esistenza di una vera e propria dipendenza dalla piattaforma. E il 30% degli intervistati ha ammesso di essere “prontissimo” a sacrificare una notte di passione pur di seguire una serie in streaming.

La connessione tra la nota piattaforma di serie tv e il calo della libido nelle coppie, e non solo di lunga data, era stata già evidenziata da una ricerca dell’anno scorso della Lancaster University, pubblicata sulla rivistaEnergy Research and Social Science: era stato notato che mentre un tempo, con la tv generalista, si spegneva la luce alle 22 (quando ancora, magari, non si era troppo stanchi), oggi il picco di connessione inizia alle 22 fino alle 23 e oltre. Logico che si passi dal tablet – nascosto ormai sotto le lenzuola perché la maggioranza vede le serie tv nel letto – direttamente al sonno, visto che, tra l’altro, le emozioni forti si sono vissute durante la visione. Il fatto è anche questo: a differenza della vecchia tv, che aveva le sue pause commerciali, magari anche lunghe, nelle serie in streaming non c’è interruzione, proprio quella che, magari, poteva spingere alla tentazione. Le conseguenze sono anche demografiche, visto che il calo delle nascite, ha ipotizzato il Wall Street Journal, potrebbe essere dovuto anche a un eccesso di connessione digitale, visto che stando a una ricerca pubblicata dallo stesso giornale un intervistato su quattro ha ammesso di aver rifiutato l’intimità a favore dello streaming.

Ma oltre a ridurre la passione, Netflix sembrerebbe anche fonte di aspro conflitto tra i coniugi. Il 33% degli intervistati ha ammesso di aver fatto discussioni molto accese con la persona amata rispetto a cosa guardare, mentre è nato anche una forma di tradimento molto particolare, il Netflix cheating, in altre parole quando un partner “flirta” con una nuova serie senza aver aspettato l’altro. Certo, oggi il problema è risolto con due tablet e due cuffiette e ognuno si guarda ciò che vuole: lui violenza, droga e saghe medioevali lei, magari, serie sentimentali o ambientate nella campagna inglese (ma può essere vero anche l’inverso). Il fatto che talvolta è proprio la scelta delle serie a rivelare la vera essenza del partner, magari fino a quel momento parzialmente camuffata.

C’è anche, però, chi getta acqua sul fuoco. “No, Netflix non sta uccidendo la vita sessuale delle persone”, scrive la rivista Slate, che invita a recuperare lo slogan NetflixandChill, termine slang che equivale a un invito a fare sesso con sottofondo di Netflix. Anzi la visione insieme è considerata di qualità e, in fondo, a differenza della vecchia televisione se si decide di interrompere per fare altro c’è sempre il replay. Ma forse più che discutere sull’effetto della piattaforma più amata al mondo sulla vita sessuale delle coppie sarebbe meglio riflettere sulle conseguenze sul nostro modo di vedere il mondo. Perché il vero problema è che gli algoritmi che governano Netflix da un lato ci suggeriscono di vedere cose simili a quelle già viste, dall’altro decidono come costruire la prossima serie, scena per scena, in base a ciò che è piaciuto. Insomma, più che lo scarso sesso, è in gioco il pluralismo. Forse, un danno persino peggiore delle lenzuola immacolate.

Il futuro della Fiorentina in mano a un expat

Bye bye Della Valle, arrivano Rocco Commisso. La Fiorentina è stata (quasi) venduta: il nuovo proprietario della Viola sarà il miliardario Usa di origini italiane, presidente del colosso della tv via cavo Mediacom, oltre 4 miliardi di dollari di patrimonio personale e una passione per il calcio, che aveva già provato l’anno scorso a comprare il Milan e finalmente riuscirà ad avere una squadra italiana. Affare tra i 155 e i 165 milioni di dollari (in euro circa 140). La notizia rivelata dal New York Times trova conferma anche in Italia: secondo quanto risulta al Fatto, ci sarebbe addirittura un preliminare d’acquisto già firmato, da perfezionare nelle prossime settimane. Prima, però, c’è da giocare la decisiva partita di stasera contro il Genoa, l’ultima dell’era Della Valle, che però dopo l’incredibile serie di 5 sconfitte consecutive è diventata ormai anche un drammatico spareggio salvezza: in caso di sconfitta (e contemporanea vittoria dell’Empoli a San Siro con l’Inter), sarà Serie B. E retrocedere o meno può fare tutta la differenza del mondo, se non per la cessione che non pare in discussione, sicuramente per il futuro viola.

Dopo 17 anni finisce l’era di Diego e Andrea Della Valle, caratterizzata da risultati altalenanti e un feeling mai sbocciato del tutto con la città nonostante i due fratelli abbiano recuperato il club dalla C2, dopo il fallimento di Cecchi Gori. Finisce tra insulti e contestazione, e nel punto più basso della storia recente, con la squadra a un passo dalla retrocessione. Quello più alto sono stati i quarti posti in Serie A (ben 5) e le due semifinali di Coppa Uefa/Europa League, l’ultima nel 2015 proprio con Vincenzo Montella in panchina. Non è passato neanche troppo tempo, eppure sembra una vita fa: oggi la squadra è allo sbando, non ha più un progetto e rischia la Serie B, il ritorno di Montella è stato un autentico disastro, il rapporto con l’ambiente è rotto in maniera irrimediabile, ma in fondo era incrinato già da tempo. Semplicemente, i Della Valle si sono stufati hanno deciso di vendere. Anzi, di svendere. In passato avevano chiesto fino a 300 milioni, ora si accontentano quasi della metà. Una somma inferiore all’effettivo valore del club, che non ha debiti e conta su un parco giocatori notevole. Va bene anche così, è tutto fatto.

Dalla società non confermano ma neppure smentiscono: “Pensiamo alla partita di domani, poi dalla prossima settimana si aprirà la discussione sul futuro societario”. La Fiorentina diventerà la quinta squadra della Serie A di proprietà straniera, dopo Inter, Milan, Roma e Bologna, presto potrebbe aggiungersi anche la Sampdoria; il campionato è sempre meno italiano. Nato nel 1962 a Marina di Gioiosa Ionica, aveva lasciato la Calabria all’età di 12 anni e ci ritornò da miliardario e patron calcistico: negli Usa ha già i New York Cosmos, la squadra che fu di Pelè e Chinaglia, in Italia aveva provato a comprare il Milan dal cinese Yonghong Li e ora avrà la Fiorentina. Il suo obiettivo sarà portare il brand viola all’estero, in particolare negli Usa. E soprattutto – ciò che più interessa ai tifosi – riportare la Fiorentina dove merita, in alto in campionato e possibilmente in Europa. Senza spese folli –non ha fama di “spendaccione” – ma con investimenti mirati, a partire da quello stadio che per i Della Valle era diventato quasi un’ossessione e ha finito per essere uno dei tanti motivi dell’addio. Salvo imprevedibili colpi di scena, non manca molto per l’inizio della nuova era: due-tre settimane per concludere il passaggio societario, poi Commisso diventerà ufficialmente il nuovo proprietario. Sperando di aver comprato un grande club di Serie A, e non una squadra qualsiasi di Serie B.

Tra Nibali e Roglic vince Carapaz. Salta ascesa al Gavia

Il barone Nibali non ama l’arrogante Roglic. Lo sloveno se ne frega se il siciliano ha vinto due Giri, un Tour e una Vuelta: si sente lui il nuovo padrone del gruppo. Nibali non ci sta: “Prima lo dimostri”. Così, appena si parte da Cervinia, per una tappa breve ma micidiale – cinque colli, ma in 131 chilometri con un dislivello complessivo di oltre 4mila metri – i due arrotano i pedali. Subito scintille. Roglic allunga, Nibali reagisce, sia pure in lievissimo ritardo: ma quando lo fa è imperiale. In un amen raggiunge il rivale, lo affianca, gli fa capire che non è aria. Poi ordina ai suoi di andare all’arrembaggio. Roglic dovrà sputare l’anima. Sulle rampe asfissianti del Colle San Carlo, il clou di giornata – 10,5 km di salita al 9,8% di pendenza media – salta la maglia rosa Polanc, scoppia Zakarin, il vincitore di Ceresole Reale, rema l’olandese Mollema, annaspa Simon Yates. Pedalate di selvaggia energia. Esce allo scoperto la Movistar. La squadra più compatta. Schiera due punte: Richard Carapaz, scalatore ecuadoregno già vincitore a Frascati (e l’anno scorso a Montepergine), e il formidabile Miguel Angel Landa. Tra questi giganti dei tornanti, si arrabatta il corsaro Giulio Ciccone: conquista altri preziosi punti per la sua maglia azzurra. A tre chilometri dallo scollinamento del San Carlo, scappa via Carapaz. Roglic accusa. Nibali pure. Carapaz s’invola. Piglia tappa e maglia rosa. In due giorni di salite, ha recuperato quattro minuti. Tocca alla Movistar difendere il primato, ha gli uomini giusti. Nibali, purtroppo, ha un nemico in più. Anzi due: il sornione Landa è pronto ad arpionarlo. Roglic si è difeso con astuzia. Se poi la sua furbizia maschera una crisi, lo capiremo oggi che si arriva a Como, dopo il muro di Sormano, in una sorta di replica del Giro di Lombardia. Vinto due volte da Nibali. In serata si è saputo, invece, che il maltempo fermerà martedì la Coppi-Gavia.

Che dolor per Pedro: vince il “Parasite” L’Italia resta a secco

Vince la Palma all’unanimità Parasite del coreano Bong Joon-ho, e per il grande favorito Pedro Almodóvar c’è solo Dolor. O, meglio, c’è Gloria per interposta persona, Antonio Banderas, che si aggiudica il Prix d’interprétation masculine per il ruolo di Salvador Mallo, un regista che Almodóvar ha ispirato a se stesso. Detto così, si capisce, fa ancora più male, povero Pedro. “Lo rispetto, l’amo, l’ammiro, mi ha donato tutto”, lo ricompensa Antonio sul palco del Grand Théâtre Lumière.

A Pedro, scrivevamo nel toto-Palma, potrebbe dare mucho dolor il coreano Bong Joon-ho, primatista per la critica (3.5 stelle su 4) con Parasite, e così è stato: la sua dark-comedy formato famiglia dopo stampa e pubblico ha messo d’accordo anche la giuria presieduta da Alejandro Gonzalez Iñárritu. Potremmo ribattezzarlo Sporchi affari di famiglia, e chissà se Academy Two non lo distribuirà davvero così, certo, l’assonanza tematica con la Palma d’Oro dello scorso anno, Affari di famiglia del giapponese Kore-eda Hirokazu, è lampante: un nucleo familiare solidale e marginale, l’espediente criminale per sopravvivere, l’empatia – nel caso di Parasite anche lo splatter – quale bonus poetico, la riflessione sulle disforie del neocapitalismo in campo con intelligenza. Un’altra Palma, dunque, che se ne va in Estremo Oriente, e non deve stupire: da quelle parti si ostinano ancora a raccontare storie col cinema, e lo fanno anche dannatamente bene. Bong cita Claude Chabrol, non fa una grinza.

Per il resto, il palmarès apparecchiato da Iñárritu e soci – Alice Rohrwacher per l’Italia – è uno dei più discutibili del Terzo millennio: non ne hanno azzeccata una. Bravissimo Banderas, altroché, ma la Palma a Dolor y gloria e Pierfrancesco Favino migliore attore no? No, Il traditore di Marco Bellocchio se ne esce a mani vuote, come già La famosa invasione degli orsi in Sicilia di Lorenzo Mattotti a Un Certain Regard. Ha ben dire Iñárritu che il verdetto riflette solo l’opinione di nove persone, il concetto di pars pro toto in Messico non è arrivato?

Tre donne sulle quattro in lizza a premio (!), il secondo più importante, il Grand Prix Speciale della Giuria, va ad Atlantique della franco-senegalese Mati Diop, noiosa sul palco, confusa dietro la macchina da presa: l’amore al tempo delle morti in mare, dell’Africa piagata dal Primo Mondo, con aggiunta di zombi, ha pagato, vabbè. Prix d’interprétation féminine alla slavata Emily Beecham dell’ignavo Little Joe di Jessica Hausner, con quello de la mise en scène (regia) Alejandro & Co. si sono superati: Jean-Pierre e Luc Dardenne per uno dei vertici bassi della loro carriera, Le jeune Ahmed, tallonamento di un preadolescente radicalizzato islamico che i fratelli belgi intendono quale “apertura agli stranieri e ode alla vita, che è la vocazione del cinema”. Viceversa, Michael Moore cita Picasso “L’arte è la bugia che realizza la verità” per infilzare Trump, “È la menzogna che ci permette di dire altre menzogne”, e poi premia trumpiano per la giuria: ex-aequo il francese Ladj Ly di Les Misérables e i brasiliani Kleber Mendonça Filho e Juliano Dornelles di Bacurau. Ciliegina sull’imbarazzo, migliore sceneggiatura per Céline Sciamma: Portrait de la jeune fille en feu avrebbe meritato di meglio, avrebbe meritato per altro. Snobbati Malick, Tarantino – in sala da turista – e soprattutto il cinese The Wild Goose Lake di Diao Yinan, Cannes 72 non è stata annata eccezionale, comunque migliore di quel che verdetto di Iñárritu lascerebbe intendere. Peccato.

“Ho avuto grane per le Br e passo da antipatica: però, se uno è scemo, è scemo…”

“Non ho mai giocato con le bambole, non ho mai pensato al velo da sposa; avevo una banda, io il capo, organizzavo i furti di frutta, una pera, una mela il bottino. Niente di che, solo per brivido. Poi mentre assaporavamo il maltolto, raccontavo alla combriccola il film che avevo visto nei giorni precedenti, il mio pezzo forte era Le spose di Dracula(horror del 1960). Mi piaceva l’attenzione. Per questo poi ho aperto un piccolo teatro nel garage di mio padre, con tanto di tenda: io da una parte, i ragazzini-spettatori dall’altra. Recitavo e obbligavo le mie sorelle a seguirmi: le vestivo, truccavo, davo le battute. Non erano contente, ma era la mia prima compagnia”. Il passo successivo di Anna Bonaiuto è stato “solo” quello di spiegare al padre la scelta di vita. “E mi ha cacciata da casa”.

Finta primavera romana, il profumo del limone in casa, libri ovunque, anche se ordinati, copioni, memorie, dvd. Si affaccia alla finestra e inquadra la sua vita attraverso uno scorcio: “Quando sono arrivata a Roma sognavo di poter godere un giorno di questa vista”.

L’ostilità di suo padre è stata di stimolo?

Alla lunga e forse anche alla corta, è una sensazione orribile, la mia vita era lì, insieme alle mie sorelle; d’altra parte quello strappo ha generato una forza pazzesca, ma con una ferita non rimarginabile. André Gide diceva: “È facile liberarsi, è difficile rimanere liberi”.

Come si manteneva?

Grazie a una borsa di studio dell’Accademia Silvio D’Amico, ma durava solo per i mesi dei corsi, l’estate restavo scoperta, e mi arrangiavo.

Tosta.

Anche l’inverno non era semplice: la sera mangiavo quasi sempre supplì, a un certo punto mi sono scoperta con qualche chilo in più, quell’over tipico di chi si nutre male.

La sua famiglia?

Borghese benestante, mi tagliarono i viveri con la convinzione che sarei tornata a casa, che non avrei retto.

Sua madre d’accordo?

Succube.

Le sorelle?

Complici con me, come la nonna, ma in casa regnava il terrore, la legge di papà; poi la sua sfortuna è l’aver avuto quattro figlie femmine, lui donnaiolo, era categorico nelle convinzioni.

Contrappasso.

Per lui le donne o si sposavano o erano perdute.

Quando ha scoperto che era un donnaiolo?

In adolescenza.

Uno choc…

Terribile, poi vivevamo in un paese, quindi lo sapevano tutti, tranne noi.

Roma negli anni 70.

Città meravigliosa, la Capitale era il regno degli artisti del mondo, scoprivano Roma attraverso le trattorie, le piazze, la bellezza diffusa; trovavi hippy, poeti, intellettuali mischiati.

Epoca da mezza porzione.

E il massimo dell’esotico poteva arrivare dalle penne alla vodka; però seduti a quei tavolini respiravi il mondo; i turisti neanche li ricordo, qualcuno lo trovavi a Fontana di Trevi, non a Trastevere, anche il Colosseo non era vissuto come oggi, diventato star mondiale anche grazie a film come Il Gladiatore e La grande bellezza.

La sua quotidianità.

Studiavo, e studiavo, amici, rapporti, scambio di idee, politica, manifestazioni, poi la domenica andavo a Porta Portese per cercare i vestiti, amavo gli abiti di seta degli anni 30, costavano mille lire.

Politicamente impegnata.

Mi sono trovata in mezzo a situazioni non semplici.

Più vicina al Pci o ad altre realtà?

Più extra.

Qualche compagno che si è “perso”, lo ha conosciuto?

Be’, sì. Pochi. E dei problemi li ho vissuti a causa del mio senso ironico.

Cosa è accaduto?

Un giorno in piazza Navona prendo un volantino, lo apro e trovo la stella a cinque punte. Lo leggo: era pieno di errori di grammatica: “Ma si può scrivere così?”, penso. Lo piego, lo metto nel borsellino, “i miei amici lo devono leggere”.

Poi?

Da vera brigatista perdo il borsellino, con il foglio accanto alla carta d’identità; da quel giorno ho passato l’inferno: interrogatori, perquisizioni in casa, controlli; ero talmente tranquilla da essermi presentata senza avvocato.

Ahi.

Non è finita: circa 15 anni fa mi chiamano i carabinieri: “Buongiorno, vorremmo interrogarla come persona informata sui fatti”. Quali? “Il rapimento Moro”.

È andata?

Per forza, ma alla fine è stata una chiacchierata; il bello è stato Paolo Sorrentino mentre preparava Il Divo: “In tre o quattro saggi dedicati a Moro ho trovato il tuo nome”.

Perfetto.

Secondo la tesi di un libro, il grande vecchio, chi orchestra tutto, è Marco Bellocchio e io sono l’assassina di Moro. Si rende conto?

Come si è salvata dagli anni Settanta?

Grazie al teatro: la mia vita era già quella, lo strappo con mio padre non poteva avere altro scopo, ma non per questo ho rinunciato al mio impegno civile. Nel 2001 sono andata a Genova, per salvarmi dagli scontri mi sono infilata dentro un portone di piazza Alimonda (dove hanno ucciso Carlo Giuliani); ero con mia sorella e mia nipote.

Stéphane Hessel nel 2010 ha pubblicato “Indignez-vous!”. Lei si indigna ancora?

Sì, specialmente in questo momento: c’è uno spegnimento del pensiero.

Anni fa ha individuato nella tv il “grande nemico”.

Informa ma non comunica, oramai funzionano solo le frasi da bar, quelle più aggressive; si è sdoganato tutto.

“Le parole sono importanti”, diceva Nanni Moretti.

È verissimo, ma oramai sono svuotate del loro senso profondo; sorrido quando vedo Massimo Cacciari che non si arrende, e offre l’etimologia dei termini.

Torniamo al teatro: lei e il palco.

Ancora tremo alle prime, e credo sia un bene: in teatro non bisogna essere troppo sicuri, mai arrendersi alle proprie presunte capacità; è fondamentale la lotta con il narciso insito in noi, è l’ego a impedire di guardare attorno.

Di narcisi è pieno.

Ce ne sono tantissimi; ho conosciuto i più grandi, e più grandi sono e meno pronunciavano il pronome “io”.

Carmelo Bene, sì.

Era il suo gioco, la sua invenzione, il suo “io” lo portava ad apparire alla Madonna: uno così non lascia eredi. L’ultima volta che l’ho visto recitare è stato sublime: alla fine della recita sono partiti venti minuti di applausi, un’ovazione. Lui usciva e rientrava. Usciva e rientrava. All’ennesima ha detto al pubblico: “Vi invidio”. Solo lui poteva.

Oltre agli spettacoli con gli amici, come nasce la sua passione?

Dalla televisione: negli anni Sessanta potevi trovare serate dedicate al teatro, con i più grandi del periodo impegnati ne I demoni, o ne I fratelli Karamazov, con dialoghi lunghi un quarto d’ora. E li vedevamo. Ora se una scena dura più di un minuto e mezzo, si cambia canale.

Siamo figli degli spot.

In molto cinema statunitense un’inquadratura dura un secondo e mezzo, massimo due; io stessa prima di andare a teatro domando “quanto dura?”; o è un capolavoro, o oltre l’ora e mezza mi suicido.

Si è impigrita?

Mi informo, non voglio brutte sorprese. Altrimenti a teatro soffro, non sopporto truffe.

Se qualcosa non le piace, lo dice?

Se sono amici, sì.

Come viene giudicata dai colleghi?

Da alcuni antipaticissima; poi chi mi conosce mi adora.

Di cosa l’accusano?

Dico ciò che penso; se poi giudico uno come cretino, quel giudizio appare nitido sul mio volto.

È pericolosa alle cene.

Vedo solo chi mi piace. Mai stata mondana.

Meglio mantenere un velo davanti all’ego.

Se una persona è un grande artista e la sua opera è alta, certi atteggiamenti, o debolezze, si perdonano.

Quali sono le sue debolezze?

Infinite, non si possono raccontare.

Nessuna?

Il più grande difetto è la scarsa ambizione, mai pensato “mo’ spacco tutto”, e poi sono una dissipatrice della vita e del tempo.

Come mai?

Un po’ sono stata fortunata: il primo ad avermi chiamata è stato Luca Ronconi, poi sono arrivati Carlo Cecchi, Mario Martone e Toni Servillo; insomma, sono sempre stata cercata, mai faticato.

È un’attrice cangiante.

È qui il divertimento, altrimenti pensi di bastare da sola; l’attore è un tramite, è un fiume carsico che entra in un modo e ne esce arricchito.

Si è mai sentita sexy?

No. Mai. Ho sempre ritenuto il mio corpo e il mio viso come l’aspetto meno interessante da offrire.

Nel manifesto de “L’amore molesto” lo è.

Adriano Sofri dalla galera mi chiese la locandina.

Anche in “Loro”…

Lì ero un mostro.

In “Loro” spiega così il rapporto tra il suo personaggio e Berlusconi: “Siamo legati da una lunga amicizia e dallo stesso chirurgo plastico”.

Battuta fantastica, è una delle genialità di Sorrentino: è un grande sceneggiatore.

L’ha voluta ne “Il Divo”.

Lì sono stata carina.

Se si definisce “carina” non è più credibile.

Allora diciamo che la parte è venuta bene, ma questo è un lavoro collettivo, e il regista è la chiave: la scena con me e Servillo, seduti mano nella mano, mentre vediamo Renato Zero, è merito della genialità di Sorrentino.

Il regista è fondamentale.

È il padrone nel bene e nel male, molto più che a teatro.

Si annoia a recitare nei film?

È meno interessante; a teatro entri con un passo e devi mantenerlo per delle ore, non puoi sbagliare, devi affrontare l’imprevisto e superarlo; nel cinema non è così, ora sto girando con Nanni Moretti e i ciak sono infiniti.

È celebre anche per questo.

A me sembrano tutti uguali, il primo come il secondo, forse variano per delle sfumature, ma lui arriva pure a trenta.

Ribadisco: è celebre.

Un perfezionista assoluto, ma i suoi film lasciano sempre un segno; poi è intelligente, spiritoso e soprattutto ha un’etica. Sorrido perché anche lui, come me, è considerato un grande antipatico.

Le piace andare in tournée?

Da sempre parto con la Guida Michelin e quella del Touring, così associo un posto da vedere a un ristorante di qualità, altrimenti è la morte.

Il post-teatro è fondamentale per gli attori…

E diventa esasperante, a volte di una noia micidiale: non sempre sai cosa dirti.

Cosa pensa del #MeToo?

Quando a mio padre chiesi “perché non posso diventare attrice”, lui rispose: “È una vita che si svolge prevalentemente di notte”. Ecco, vengo da quella storia lì, quindi conosco benissimo cos’è la violenza, che ha vari gradi e forme: da quella di gruppo, a quella sulle bambine fino a chi per strada urla “ma chi te se scopa, sei una racchia!”.

E…

È accaduto anche a me di ottenere un appuntamento con un produttore, lui lo fissava alle sette di sera e a un indirizzo; poi scoprivi che era casa sua, già organizzata con le luci soffuse e un bicchiere di whisky; ma nessuno mi ha mai messo un coltello alla gola o la pistola sul tavolo; dopo tre secondi capiva di aver sbagliato persona.

Woody Allen è boicottato negli Usa.

Qui sono combattuta.

Perché?

Il più grande regista del mondo è Charlie Chaplin ed era uno che sul piano personale era decisamente discutibile, con lati aberranti.

La soluzione?

Non ho la risposta. Trovo però che gli statunitensi hanno un atteggiamento puritano e ipocrita; secondo i loro parametri non dovrebbe girare più nessuno. Però resta un punto: è giusto denunciare e le donne devono restare unite e non sentirsi sole. Io sono una privilegiata, aiutata da carattere ed educazione.

Se dovesse scegliere, quale suo film riguarderebbe?

Teatro di guerra. Lì c’è un’attrice che litiga con il regista e per cambiare aria va in un teatro d’avanguardia, ma anche lì affronta delle stronzate.

Manda a quel paese i registi?

È successo.

Ha mantenuto intatti i suoi ideali da ragazza?

Ho realizzato ciò che volevo. Quindi penso di sì.

Lei alla regia.

Ci sto pensando. Finora ho rinunciato per timore… È finita?

Sì.

Le posso leggere una frase di Puškin? “Più della meschina verità mi è prezioso l’inganno che mi sublima, e su quest’inganno piangerò tutte le mie lacrime”.

 

“Macché, lo choc climatico è un’opportunità”

“È vero, le persone fanno fatica a percepire il cambiamento climatico come un’emergenza. Ma basterebbe guardare alle quantità enormi di denaro che spendiamo per la ricostruzione delle zone colpite e capire che i disastri aumenteranno al punto che sarà arduo trovare i soldi per ricostruire”. James Shaw, 46 anni, è un politico neozelandese particolare: oltre a essere leader del Green Party, è ministro del cambiamento climatico nel governo guidato dalla giovane Jacinda Ardern, laburista. La carica di ministro del Cambiamento climatico, per la verità, esiste in questo paese dal 2005. Perché qui ci si è resi presto conto che le coste erano a rischio erosione e i loro abitanti a rischio migrazione. Anni luce dall’Italia, dove una figura istituzionale simile sarebbe impensabile e dove, salvo estemporanee dichiarazioni pro-Greta e pochi slogan sull’ambiente nei programmi, ambiente e cambiamento climatico sono stati i grandi assenti della campagna elettorale per le europee.

Come viene percepita la sua figura nel suo paese?

Bene: il fatto è che i neozelandesi, e non solo, sono sempre più preoccupati e consapevoli e della necessità di limitare il riscaldamento globale e adattarsi agli impatti che già oggi si stanno verificando.

Quali emergenze avete dal punto di vista ambientale?

Abbiamo 15 mila chilometri di costa, e molte città sono costruite lì o vicino: siamo vulnerabili all’innalzamento del livello dei mari e all’erosione delle coste. Ma la Nuova Zelanda è anche una nazione di agricoltori, produce ed esporta cibo: siamo molto esposti dunque a eventi estremi come uragani e siccità.

Quali sono le soluzioni che state mettendo in atto?

Il governo sta vagliando una serie di opzioni per ridurre le emissioni di gas serra, che includono la piantumazione di un miliardo di alberi nei prossimi dieci anni, la riduzione drastica dei rifiuti per diminuire le emissioni da discarica, la formazione agli agricoltori perché introducano metodi tecnologici per mantenere la produttività e ridurre le loro emissioni. Infine stiamo riformando il nostro Ets (Emissions Trading Scheme) per renderlo più efficace e simile allo schema europeo, con l’aggiunta della piantumazione degli alberi.

È vero che state studiando uno status giuridico speciale per i rifugiati climatici?

La migrazione legata al clima non rientra nella Refugee Convention firmata anche da noi: ma noi dobbiamo sostenere le persone delle isole del pacifico che saranno colpite. E infatti nel 2018 il governo ha approvato il New Zealand Action Plan for Pacific Climate Change-Related Human Mobility, per sostenere i futuri spostamenti interni, e non solo. Inoltre, abbiamo commissionato robuste ricerche sul rapporto tra mobilità e clima nella regione pacifica.

È preoccupato dall’uscita degli Stati Uniti dall’accordo di Parigi?

Siamo stati delusi certo, ma nessuno li ha seguiti. Penso che la transizione globale verso emissioni più basse non si possa fermare. Voglio dire una cosa: le emissioni del mio paese sono meno dell’1 per cento, ma tutti i paesi che emettono l’1 per cento messi insieme contano un quarto del totale. L’impegno di tutti è importante.

Quale spera che sia l’esito delle elezioni europee?

Quale che sia, Europa e Nuova Zelanda resteranno partner sempre più connessi, sia per l’attuazione dell’accordo di Parigi che sull’importante accordo di libero scambio che stiamo negoziando, in cui lo sviluppo economico va di pari passo con alti standard ambientali. Anche l’Italia a livello internazionale ha risposto alle sfide del cambiamento globale.

Il problema per noi non sono gli accordi, ma un dibattito pubblico in cui il clima è assente.

Penso che possa aiutare presentare il cambiamento climatico non solo come un costo negativo, ma come un’opportunità per innovare. È una formidabile motivazione per investire in un futuro migliore per l’umanità. E, aggiungerei, anche per le altre forme di vita sulla terra.