Trump dà armi ai sauditi alla faccia di Khashoggi

Donald Trump è uno che non ha paura di andare alla ‘guerra dei mondi’: declinando gli slogan che sono i suoi mantra, “Make America great again” e “America first”, ingaggia partite a braccio di ferro con la Cina e la Russia, con l’Iran e i suoi partner europei, su fronti strategici e commerciali. Ma ci sono ‘stelle polari’ d’amicizia e alleanza che non tradisce mai: Israele e l’Arabia saudita. La prima missione all’estero di Trump a Ryad gli fruttò affari per oltre 100 miliardi di dollari in dieci anni.

Per compiacere l’Arabia saudita e il principe ereditario Mohammad bin Salman, cui al G20 non esitò a stringere la mano, nonostante l’intelligence lo avesse avvertito che c’è lui dietro l’assassinio a Istanbul dell’editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi, il presidente sfida il Congresso e autorizza la vendita di armi per otto miliardi di dollari – aerei da guerra e munizioni, soprattutto – giustificando la mossa con le tensioni con l’Iran, che lui stesso alimenta. L’Amministrazione ha formalmente notificato al Congresso il ricorso a una clausola d’emergenza che le consente di vendere armi all’Arabia saudita, e pure agli Emirati Arabi Uniti, senza attendere l’avallo di deputati e senatori, anzi ignorando addirittura il loro divieto a farlo. La mossa avrà come effetto l’inasprimento dei rapporti già tesi su più fronti tra Trump e il Congresso, che tra l’altro gli rimprovera, in modo bipartisan, l’ambiguo atteggiamento tenuto dopo l’uccisione di Khashoggi. La clausola di emergenza invocata è insita nell’Arms Export Control Act e dà al presidente il potere di procedere a una vendita di armi, già pianificata, senza che il Congresso possa bloccarla. Deputati – alla Camera, i democratici sono maggioranza – e senatori sono infuriati: quelle armi non serviranno a intimorire l’Iran, ma a continuare a combattere la guerra nello Yemen, che ha già fatto decine di migliaia di vittime civili.

Il segretario di Stato Mike Pompeo prova a gettare acqua sul fuoco: è un’operazione una tantum per “dissuadere l’aggressione dell’Iran” (un riferimento agli incidenti nello Stretto di Hormuz registrati nei giorni scorsi e la cui origine non è stata accertata). Ma, in realtà, la mossa rischia d’accentuare l’escalation delle tensioni con Teheran, che vede in Ryad il principale antagonista nel Golfo. Possibili attacchi iraniani a Paesi alleati e a forze americane nella Regione avevano già giustificato l’invio in Medio Oriente di una squadra navale Usa guidata dalla portaerei Lincoln.

Da settimane, Trump alterna verso l’Iran atteggiamenti contraddittori, più sovente minacciosi, ma talora distensivi. Anche Teheran, dal canto suo, alterna toni di sfida, anche ad uso interno, e aperture al dialogo. Il ministro degli Esteri iraniano Mohammad Javad Zarif ha di recente avuto incontri con senatori americani – come la senatrice democratica Dianne Feinstein – per “contrastare l’impatto di gruppi di pressione come il ‘gruppo B’ sull’opinione pubblica Usa”. Il ‘gruppo B’ indica una cerchia di persone che starebbero sollecitando Trump a fare la guerra all’Iran: John Bolton, consigliere per la sicurezza nazionale, Benyamin Netanyahu, premier israeliano, e i principi ereditari saudita Mohammad bin Salman e degli Emirati arabi uniti Mohammad bin Zayed.

Tredicenne denuncia: “Pestata da coetanee per un post su Fb”

Ci sarebbe un post su facebook non gradito dietro il presunto caso di bullismo di cui sarebbe rimasta vittima una ragazzina 13enne, straniera d’origine e residente a Giugliano in Campania (Napoli), per mano di coetanee italiane. Indagano i carabinieri che hanno acquisito un video che riprende il momento in cui la vittima viene strattonata e trascinata dalle coetanee, mentre tante persone guardano senza intervenire. Sono diversi gli aspetti della vicenda che però devono essere chiariti. Il fatto sarebbe accaduto nel pomeriggio del 22 maggio, il giorno dopo la ragazzina con la madre si è presentata dai carabinieri per denunciare l’aggressione, allegando anche il referto medico con cinque giorni di prognosi per varie escoriazioni e contusioni. La 13enne ha affermato di essere stata aggredita per un post pubblicato su facebook, non gradito dalle coetanee. Però il 24 un’altra 13enne, italiana, ha fatto un’altra denuncia: sembra che abbia preso parte al fatto, ma dichiara di essere stata lei la vittima e di avere avuto la peggio, per quanto non abbia avuto giorni di prognosi dopo la visita al pronto soccorso. La Procura della Repubblica dei Minori di Napoli dovrà fare chiarezza.

“Viola il silenzio elettorale” sulla pelle di Desirée Mariottini Fiore (Fn) finisce in Questura

Fiori (e qualche striscione) da posizionare sulla cancellata esterna al tugurio dove, l’ottobre scorso, trovò la morte la 16enne Desirée Mariottini. Guarda caso, proprio il giorno prima delle Europee. L’apparente trovata elettorale di Roberto Fiore, ieri, è costata al leader di Forza Nuova qualche ora in Questura a Roma, dove gli agenti della Digos lo hanno portato dopo averlo fermato a San Lorenzo, all’imbocco di via dei Lucani – dove fu ritrovata morta la ragazza – dal lato di piazza dei Campani. “Accertamenti”, hanno spiegato da San Vitale, perché con il suo “omaggio” alla ragazzina stuprata e lasciata morire in un edificio abbandonato (delitto di cui sono accusati quattro persone di origine africana) l’ex leader di Terza Posizione potrebbe aver violato il silenzio elettorale. Il movimento neofascista, infatti, partecipa per la prima volta alle Europee grazie al collegamento a un partito europeo, l’Apf (Alliance for Peace and Freedom) fondato proprio da Fiore nel 2015 e di cui fa parte anche l’eurodeputato Jean-Marie Le Pen (padre di Marine, fondatore del Front national francese, oggi Rassemblement national). Rapporti con gli estremisti europei che il leader forzanovista mantiene da decenni, anche grazie alla sua lunga militanza estremista, da quando, condannato per associazione sovversiva e banda armata nel 1985, riparò in Inghilterra insieme al co-fondatore di Fn, Massimo Morsello, entrambi protetti (pare) dai servizi segreti britannici e certamente in grado di fare grandi affari. La latitanza durò 20 anni.

Ieri Fiore era accompagnato da pochissimi militanti. In realtà, stando a quanto girava sui social fino a venerdì sera e da quel poco che è stato riferito dal leader romano di Forza Nuova, Giuliano Castellino, ci si attendeva un corteo in piena regola, con partenza dalla sede di via Taranto in direzione Scalo San Lorenzo, dove ad attenderlo ci sarebbero stati 400 esponenti dei comitati antifascisti. Ieri mattina, invece, la sezione era chiusa e di militanti neofascisti non c’era nemmeno l’ombra.

Doping, si rivede Magnini: “Perché la Procura non sente Federica Pellegrini e lei tace?”

“Perché Federica Pellegrini non è mai stata sentita? È una domanda che mi sono posto anche io in questi due anni. Mi fa strano che non abbia a sua volta rilasciato una dichiarazione o una qualche parola su tutta questa vicenda, ma ognuno fa le sue scelte”. Lo ha detto l’ex nuotatore azzurro Filippo Magnini, squalificato per 4 anni in appello dal Tribunale Nazionale Antidoping, a proposito della sua ex fidanzata in merito al caso di doping che ha coinvolto il pesarese. Magnini, che ieri ha fatto una conferenza stampa per ribadire la sua innocenza, si interroga anche sulla giustizia sportiva, che lo ha condannato, mentre nel procedimento penale, che coinvolge il nutrizionista Guido Porcellini (in primo grado sanzionato 30 anni dal Tna), è stato scagionato perché ritenuto estraneo ai fatti. Ma poi si chiede “come mai un procuratore che dovrebbe cercare di avere una posizione più chiara su tutta la vicenda non senta la persona che in quegli anni, in quel momento, era la mia compagna, con la quale convivevo – ha proseguito Magnini –. Avevamo un rapporto professionale con la stessa squadra, anche lei era seguita dal dottore Porcellini. Sono sicuro che la sua verità avrebbe confermato il fatto che il dottor Porcellini non ha mai proposto o dato integratori illeciti agli atleti”.

Emorragia al fegato e fratture: “Leonardo ucciso a 20 mesi” Fermati la mamma e il compagno

Le ferite non sono quelle di una caduta dal lettino, ma sono segno di “una violenza inaudita, non degna di un essere umano”, dice il procuratore di Novara, Marilinda Mineccia. L’emorragia al fegato, l’occhio tumefatto, le fratture e i lividi su addome, schiena e addirittura sui genitali, fanno pensare a dei maltrattamenti tanto gravi da ucciderlo. Secondo gli investigatori il piccolo Leonardo Russo, 20 mesi, è stato ammazzato giovedì mattina da sua madre Gaia Russo, 22 anni, e dal compagno di 23 anni, Nicholas Musi. All’alba di ieri sono stati fermati per omicidio volontario pluriaggravato. Lui è in carcere e lei – incinta – in una struttura dove rimarrà ai domiciliari in vista della decisione del giudice, attesa domani. La Procura ha emesso il fermo dopo gli esiti dell’autopsia secondo la quale le ferite sono incompatibili con quelle di un incidente domestico.

Giovedì verso le 11 la coppia aveva chiamato l’ambulanza perché Leonardo, nato da una precedente relazione di Gaia, aveva smesso di respirare. Al personale del 118 la madre aveva spiegato che era caduto dal lettino. In ospedale non c’è stato niente da fare. Musi, preso dalla rabbia, ha minacciato infermieri, medici e agenti di polizia e spaccato una porta del triage. Interrogati, i due hanno taciuto. “Musi mi ha detto che aveva la ‘coscienza pulita’”, ha spiegato il sostituto procuratore Ciro Caramore, titolare dell’indagine condotta dalla Squadra mobile diretta da Valeria Dulbecco. Musi aveva assunto cocaina, ma non si sa ancora se al momento della morte di Leonardo fosse sotto l’effetto della droga. Sul suo conto, poi, sono emerse una condanna definitiva per furto e denunce pendenti per violenza sessuale, detenzione e spaccio di droga e maltrattamenti. La questura di Biella (fino ad alcuni mesi fa abitava lì) aveva chiesto la sorveglianza speciale e si attendeva la decisione del Tribunale.

Il vescovo alla festa dei massoni. La Cei: “Sconcertati”

Un arcivescovo al compleanno di una loggia massonica. Come i vegani alla sagra del prosciutto. E la Chiesa è sconcertata. È accaduto una settimana fa nel palazzo della Provincia di Arezzo, una città con una lunga storia di grembiulini, dal piduista Licio Gelli al sindaco Aldo Ducci, illustre libero muratore fino a Banca Etruria, schiantata da un’oscura vicenda di vendette massoniche. Monsignor Riccardo Fontana, l’arcivescovo del capoluogo toscano, era il gradito ospite del Grande Oriente d’Italia, in sigla Goi – l’obbedienza massonica con più iscritti – per una celebrazione importante: un convegno per i 150 anni della loggia Benedetto Cairoli.
Il gran maestro Stefano Bisi ha accolto con orgoglio il monsignore che ha presenziato al dibattito pubblico dal titolo “Il nostro lavoro per il perfezionamento dell’uomo”.

Anziché citare, seppur in un educato Bignami, le differenze che rendono incompatibili la religione cattolica e l’esoterismo massonico, l’arcivescovo Fontana ha sottolineato “i valori condivisi, come il rispetto, il dialogo, la solidarietà”, riporta con fierezza il sito del Goi.

Il caloroso saluto tra il gran maestro Bisi e monsignor Fontana, nell’iconica Arezzo, va oltre uno scambio di convenevoli: rappresenta un vanto per i massoni, un ponte nel vuoto di uno scontro che dura da sempre. La soddisfazione del gran maestro Bisi è logica, come logica è la reazione indignata che fa trapelare la Conferenza episcopale italiana con due parole: “Stupore e sconcerto”.

Monsignor Fontana, toscano di Forte dei Marmi, s’è insediato ad Arezzo nel 2009 al posto di Gualtiero Bassetti, oggi cardinale creato da papa Francesco, arcivescovo di Perugia e proprio presidente della Cei. A quel tempo il pontefice era Benedetto XVI, il già stimato prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, l’ex Sant’Uffizio, che il 26 novembre 1983 firmò una “dichiarazione sulla massoneria”: “Rimane immutato il giudizio negativo della Chiesa nei riguardi delle associazioni massoniche, poiché i loro principi sono stati sempre considerati inconciliabili con la dottrina della Chiesa e perciò l’iscrizione a esse rimane proibita. I fedeli che appartengono alle associazioni massoniche sono in stato di peccato grave e non possono accedere alla Santa Comunione. Il sommo pontefice Giovanni Paolo II, nel corso dell’udienza concessa al sottoscritto cardinale prefetto, ha approvato la presente dichiarazione, e ne ha ordinato la pubblicazione”.

Il Vaticano non ha ritirato mai la “scomunica”, la Chiesa non ha sostituto il crocifisso e il rosario con la squadra e il compasso e nell’ultimo periodo lo scontro tra i vescovi e i massoni si è amplificato.

Monsignor Corrado Lorefice, vescovo di Palermo, in una terra ad alta densità di logge, ha emanato un decreto che esclude massoni, mafiosi e condannati dalle confraternite religiose. Un documento che ha innescato le proteste del gran maestro Bisi per l’accostamento alla malavita organizzata. Lorefice serafico, però, ha ripetuto che Chiesa e logge sono inconciliabili. E il cardinale Bassetti, ovvio, benedice la linea di Lorefice. Che poi ai compleanni, se complicati, è meglio mandare un biglietto.

Travolto da un muro in uno scavo, muore operaio nel torinese

Si stava occupando dell’allacciamento alla rete fognaria, in uno scavo alto circa tre metri, quando gli è crollata addosso una parete laterale. È morto così Kastrijot Ndou, operaio albanese di 44 anni, vittima di un incidente sul lavoro ieri in un cantiere edile di La Loggia (Torino). L’uomo lavorava da 15 anni per una ditta di escavazioni di Moncalieri che, in strada Nizza 39, si occupa della realizzazione di un nuovo capannone per l’acetificio “Varvello”. I carabinieri di Vinovo hanno acquisito le immagini delle telecamere per ricostruire l’accaduto. Le denunce di infortunio sul lavoro presentate all’Inail nel primo trimestre di quest’anno (ultimo dato disponibile) sono state 157.715, in aumento di circa 2.900 casi (+1,9%) rispetto alle 154.820 del primo trimestre del 2018. Quelli con esito mortale sono stati 212, un dato che conferma quello del primo trimestre 2018. Dall’analisi territoriale emerge un calo dei casi mortali solo nel Nord del Paese: nove in meno nel Nord-Ovest (da 66 a 57) e 12 in meno nel Nord-Est (da 56 a 44). Incrementi si rilevano, invece, nel Centro e Mezzogiorno, con cinque decessi in più al Centro (da 39 a 44) e otto casi in più sia al Sud (da 35 a 43) che nelle Isole (da 16 a 24).

Da Pantani alla fine appresa da Facebook

Nel novembre scorso l’annuncio di un rilancio in grande stile: Refitting dei punti vendita, investimenti sull’online, il raddoppio delle vendite in quattro anni e l’impegno a valorizzare le 1850 risorse interne. Venerdì scorso la dichiarazione di fallimento del Tribunale di Milano, con i dipendenti che hanno appreso della perdita del posto da un tam tam sui social network. Nessuna comunicazione dall’azienda.

“Ho saputo della chiusura dalla chat dei colleghi su Whatsapp” dice Daniele, dipendente del negozio di Bertinoro (Forlì), “ma c’è chi non sta sui social ed è andato al lavoro sabato mattina trovando chiuso”. È l’epilogo, l’ennesimo, della crisi di Mercatone Uno, storico marchio della grande distribuzione dell’arredamento, terzo per fatturato in Italia dopo Ikea e Mondo Convenienza, noto per essere stato lo sponsor di Marco Pantani. Oltre a spiazzare dipendenti e sindacati, visto che il 30 maggio si sarebbe dovuto tenere un incontro sulla crisi al ministero dello Sviluppo, il fallimento ha lasciato allibiti centinaia di clienti, che avevano fatto ordini, accettati fino a due giorni fa, e si sono ritrovati con le serrande abbassate. “C’è chi ha lasciato anticipi di 3-4mila euro per una cucina o un salotto e ora è inferocito”, dice un altro dipendente. In allarme anche le oltre 500 aziende fornitrici, che vantano 250 milioni di crediti.

Un fallimento lascia aperte alcune domande. L’azienda fondata negli anni 70 come rivendita di elettrodomestici dall’imprenditore di Imola Romano Cenni, al massimo del suo sviluppo, dieci anni fa, fatturava più di 800 milioni. Colpita dalla crisi economica del 2010, era finita nel 2015 in amministrazione straordinaria sotto il peso di 450 milioni di debiti. Dopo una serie di bandi di vendita a vuoto, nel giugno dell’anno scorso i commissari del Tribunale avevano raggiunto un accordo per la cessione di 55 negozi in tutta Italia, il magazzino, la logistica e la sede centrale.

Acquirente è stata la Shernon holding per 15 milioni (i rimanenti negozi li ha presi il gruppo di Teramo Cosmo, marchio Globo). Una società da un milione di euro di capitale fondata sei mesi prima e controllata da due soci svizzeri ma residenti in Italia, Valdero Rigoni e Michael Tahlman, attraverso una società di diritto maltese, la Star Alliance Limited. Due società senza bilanci, di cui si sa poco o nulla. Già dopo pochi mesi, a febbraio scorso, Shernon ha chiesto il concordato preventivo, respinto dal tribunale a causa dell’indebitamento. I soci prendono tempo e negli incontri al Mise e con i sindacati sono prodighi di rassicurazioni.

Nell’ultima riunione, nell’aprile scorso, si parla un iniezione da 20 milioni. Ma i sindacati sono scettici. “I magazzini non avevano ricambio, la poca merce era di pessima qualità, e i fornitori lamentavano i mancati pagamenti”, dice Sabina Bigazzi della Filcams Cgil dell’Emilia Romagna, “anche se i 20 milioni fossero arrivati, non sarebbero bastati”. Nel frattempo la proprietà della Shernon holding viene fatta passare dalla oscura società maltese alla Maiora Invest, una srl di Padova con 10 mila euro di capitale, sempre controllata dai due soci italo-svizzeri. Venerdì scorso, infine, il fallimento. Il curatore fallimentare ha riscontrato per la Shernon un debito di 90 milioni in soli nove mesi, con perdite di 5-6 milioni al mese, senza fidi bancari e fornitori.

La vicinanza alle urne ha scatenato un florilegio di dichiarazioni. Salvini ha detto che si impegnerà personalmente. Luigi Di Maio, l’unico titolato a trattare le crisi d’impresa, ha convocato un tavolo per domani al ministero.

Torino è sempre più lontana Fiat vuole l’asse con Renault

L’annuncio potrebbe arrivare tra martedì e mercoledì: Fca avrebbe trovato un’intesa di collaborazione con la francese Renault. Per cosa? Qui comincia il giallo: potrebbe trattarsi sia di un primo passo (un accordo su alcuni modelli) o invece (ed è la previsione più accreditata) di un’alleanza immediata. In questo caso, una mossa che sposterebbe sempre di più in una dimensione internazionale il marchio erede della Fiat, lontano dall’Italia e da Torino. Ma con quali quote reciproche di partecipazione e con quale ruolo per il gruppo italo-americano in mano agli eredi Agnelli? Su questo, il mistero è fitto. La notizia aveva cominciato a circolare a Torino venerdì sera e, ieri, ha trovato conferma sul Financial Times: “Fiat Chrysler è in trattative avanzate per un’ampia collaborazione con la francese Renault: le due case automobilistiche starebbero cercando di unire le forze… L’accordo potrebbe portare Fca ad aderire in futuro all’alleanza Renault-Nissan-Mitsubishi (quest’ultima arrivata solo nel 2016, mentre le prime due si erano accordate nel 1999, ndr)”.

E se quest’ipotesi finale si rivelasse fondata, il risultato sarebbe la nascita di un colosso dell’auto: il primo gruppo mondiale capace di vendere 15,6 milioni di vetture l’anno. Volkswagen si ferma a 10,8 milioni. Un gruppo che avrebbe tre teste sicure, Parigi, Tokyo e Detroit, e una quarta per ora possibile, Torino, il cui ruolo dipenderà dagli effettivi rapporti di forza.

Fca e Renault già collaborano per i veicoli commerciali, con la produzione, in Francia, del furgone Talento. La società italo-americana “costruita” da Sergio Marchionne ha sempre dichiarato di essere “aperta a valutare tutte le proposte favorevoli”. Per Renault poi, scrive ancora il FT, “Fca sarebbe un alleato importante: la maggior parte delle sue attività è in Nord America, area da cui Renault è assente. Inoltre, possiede i marchi Alfa Romeo e Maserati, che occupano un segmento di mercato particolarmente redditizio e in cui Renault non c’è”.

Nessuno smentisce e nessuno conferma né in Fca né in Renault, anche se i rumors di venerdì avevano già incontrato qualche asciutto “no comment” negli uffici del Lingotto, l’avamposto torinese di una multinazionale ormai con il cuore negli Usa e le sedi legale e fiscale tra l’Olanda e l’Inghilterra. Tutto fatto, dunque? A calmare le analisi di ieri sera, più che le prudenze del giornale di Londra (“le discussioni potrebbero fallire”) c’è una precisazione: “Non è chiaro fino a che punto la Nissan giapponese sia stata coinvolta finora”. Un riferimento alla complessa situazione giudiziaria della partecipazione incrociata Renault-Nissan.

Dal dicembre 2018, infatti, lo storico ad Carlos Ghosn è stato arrestato più volte a Tokyo per frode sui propri compensi e false comunicazioni alla Borsa. Un collasso manageriale che ha rimesso in moto gli equilibri tra Parigi e Tokyo e che adesso, sempre secondo il Financial Times, potrebbe assumere un ruolo nel futuro accordo con Fca: “Renault, che è il partner dominante nell’alleanza con Nissan (possiede il 43% delle azioni dell’azienda giapponese, contro il 15 per cento delle proprie, ndr), sta cercando di assicurare un futuro per la partnership dopo l’uscita di scena di Ghosn”. E l’alleanza con Fca potrebbe tirarsi dietro anche “un percorso complicato che implicherebbe la conquista definitiva della Nissan”. Se si realizzasse, l’assetto finale allontanerebbe il baricentro dal Giappone, spostandolo su un asse tra Europa (con Parigi prevalente) e Usa (con Detroit).

Ed è proprio il futuro italiano di Fca a tener banco. Giorgio Airaudo, storico leader della Fiom torinese, chiede un immediato intervento del governo: “La produzione dell’auto nel nostro paese vale ancora l’1% del Pil. Per decenni, i governi hanno regalato alla Fiat una politica protezionista. Da qualche anno, Fca è stata lasciata libera di comportarsi con molta ingratitudine. A questo punto, deve essere convocata a Roma per dare notizie certe sul suo futuro”.

La “gamification” o Lulù Massa e la povera bestia di Amazon & C.

Come diceva sconsolato il Lulù di Gian Maria Volonté “anche lo scimpanzè crede di essere uomo, povera bestia”. L’operaio Massa di cognome e di fatto ci è tornato in mente leggendo giorni fa sul Washington Post della splendida idea di Amazon, che in alcuni dei suoi enormi magazzini americani sta sperimentando l’applicazione di videogiochi al lavoro degli operai della logistica: “Pensate a Tetris, ma con scatole vere”. In sostanza, mentre accumulano pacchi, pacchetti e scatoloni da consegnare, su uno schermo prende vita un videogioco con tanto di punti e premi: vince, ovviamente, chi smaltisce più lavoro nel minor tempo possibile. Il premio – giurin giurello – sono magliette, gadget e altre cazzate aziendali. È la cosiddetta gamification, cioè l’applicazione dei contenuti dei giochi e del game design al lavoro, già largamente sperimentato da aziende come Uber che mette in palio premi in (poco) denaro per chi raggiunge obiettivi scelti dall’azienda (tipo 60 corse a settimana). Come dice il Washington Post: “L’esperimento di Amazon fa parte di una più ampia spinta alla gamification dei lavori meno qualificati, in particolare perché storicamente la bassa disoccupazione ha fatto salire gli stipendi”. Son problemi. Il più grosso è questo: dopo un po’, dicono gli esperti, la competizione non è più divertente, specie per quelli che perdono. Anche l’operaio di Amazon si crede uomo, povere bestia, direbbe Lulù Massa: la gamification, ai tempi de La classe operaia va in paradiso, si chiamava cottimo e aveva almeno il pregio dell’onestà.