Caro governo, come mai Descalzi resta alla guida dell’Eni?

Esattamente cinque anni fa Matteo Renzi, appena insediato a Palazzo Chigi, dichiarò: “L’Eni è oggi un pezzo fondamentale della nostra politica energetica, della nostra politica estera, della nostra politica di intelligence. Cosa vuol dire intelligence? I servizi, i servizi segreti”. Il suo governo aveva appena giubilato Paolo Scaroni, capo di quel pezzo fondamentale di ogni cosa, per sostituirlo con Claudio Descalzi. Oggi i due sono insieme a processo per corruzione internazionale per la ormai celebre tangente da oltre un miliardo pagata in Nigeria per il giacimento Opl 245. Ma Descalzi è ancora alla guida dell’Eni. Le voci di palazzo dicono che sia stato Matteo Salvini a dire “Descalzi non si tocca”, mentre il contraente di governo Luigi Di Maio e il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, a quanto è dato capire, fischiettano. Renzi nominò anche, alla presidenza del colosso petrolifero pubblico, l’ex presidente della Confindustria Emma Marcegaglia, amica del sedicente eroe antimafia Antonello Montante, recentemente condannato a 14 anni di carcere per il suo sistema di potere parallelo che allungava i suoi tentacoli anche nel sistema Eni. Renzi nominò anche, come consigliere d’amministrazione, l’economista Luigi Zingales, l’unico, a distanza di cinque anni, costretto ad andarsene. Grazie a un’inchiesta della Procura di Milano, oggi sappiamo che il professore di Chicago, insieme a Karina Litvack, sono stati vittime di una montatura giudiziaria per la quale il pm di Siracusa Giancarlo Longo è stato arrestato circa un anno fa insieme con Piero Amara, per un’associazione a delinquere di cui era capo, secondo l’accusa, il responsabile degli affari legali dell’Eni, Massimo Mantovani. Appena nominati, Zingales e Litvack chiesero a Marcegaglia e Descalzi di fare chiarezza proprio sul ruolo di Mantovani nella vicenda nigeriana. Da quel momento per il vertice Eni, d’accordo tutto il cda, il problema furono i due consiglieri e non il comportamento delle cosiddette “strutture”. Il 15 aprile scorso, intervistato da Luca Chianca per Report, Amara ha detto che per le operazioni “non istituzionali” in favore dell’Eni prendeva ordini da Claudio Granata, braccio destro e forse anche sinistro di Descalzi.

Nei giorni scorsi la Procura di Milano ha perquisito l’abitazione di Amara. Secondo la pm Laura Pedio, non appena Amara fu arrestato, da una società del gruppo Eni sarebbe partito un pagamento di 25 milioni in favore della società Apag che farebbe capo proprio ad Amara (il suo avvocato nega). Secondo l’accusa, che stavolta vede l’Eni direttamente indagato, il pagamento fa ipotizzare il reato di “induzione alla falsa testimonianza”, cioè un incoraggiamento ad Amara perché non parlasse troppo. Nel frattempo l’Eni ha accertato che Amara ha incassato dalla struttura legale dell’Eni guidata da Mantovani parcelle per 7,6 milioni negli anni 2011-2017, cioè anche quando già si configurava l’inchiesta per il depistaggio organizzato per far fuori Zingales e Litvack e sabotare il processo Nigeria. Per tutto questo Mantovani è stato premiato. Prima è stato promosso alla guida della struttura Gas & Power dell’Eni. Poi, per curiosa coincidenza il giorno stesso della messa in onda di Report, e cioè a babbo morto e pure decomposto, consegnato a un esilio dorato a Londra, alla presidenza di una controllata norvegese con tanto di stipendio milionario.

Sorge spontanea la domanda alla quale Renzi, Salvini, Di Maio e Conte possono rispondere comodamente anche dopo l’esito delle Europee: ammesso che siano solo un po’ distratti, Marcegaglia e Descalzi sono in grado di continuare a guidare un pezzo fondamentale della nostra economia, politica estera e servizi segreti?

Bisogna aprire il cuore allo Spirito Santo e alla pace di Gesù

In quel tempo, Gesù disse [ai suoi discepoli]: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui. Chi non mi ama, non osserva le mie parole; e la parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto. Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. Avete udito che vi ho detto: ‘Vado e tornerò da voi’. Se mi amaste, vi rallegrereste che io vado al Padre, perché il Padre è più grande di me. Ve l’ho detto ora, prima che avvenga, perché, quando avverrà, voi crediate” (Giovanni 14,23-29).

Siamo dimora di Dio! Ci vengono offerte due immagini simboliche di Gerusalemme. Gli Atti degli Apostoli raccontano il primo incontro apostolico ufficiale, il cosiddetto concilio di Gerusalemme, nel quale la prima comunità cristiana decide se imporre o meno ai cristiani provenienti dal mondo pagano l’obbligo della circoncisione e di numerose osservanze rituali della tradizione mosaico-giudaica.

L’Apocalisse, invece, ci fa contemplare la Gerusalemme celeste che viene da Dio e risplende della sua gloria. Dio e l’Agnello sono il suo tempio e sua luce.

Se abbiamo bisogno di segni per incontrare e aprirci al mistero di Dio e riconoscerne la presenza nella nostra storia, dopo la morte lo contempleremo faccia a faccia, senza più mediazioni: immersi nella Sua vita e nella Sua luce! E i popoli tutti parteciperanno a questa lode (Sal 66,6-8) perché i nomi delle Dodici tribù d’Israele sono scritti sopra le dodici porte così come i nomi dei dodici Apostoli dell’Agnello poggiano sui dodici basamenti (Ap 21,14).

Se l’Agnello è la vera porta e nella sua Pasqua si compie la salvezza di Dio che dev’essere annunciata a tutte le genti, allora gli Apostoli, mediante l’illuminazione dello Spirito Santo (At 15,28), riconoscono che non è da imporre la circoncisione ai convertiti dal paganesimo. Infatti, per bocca di Pietro (At 15,11), viene insegnato che per grazia del Signore Gesù siamo salvati, così come loro.

Il Vangelo continua il discorso di addio. Gesù chiede amore per sé e promette ai discepoli lo Spirito Santo che li farà innamorare di lui. Questo supplemento vitale, stupendo e creativo viene dall’Alto e la Parola che voi ascoltate non è mia, ma del Padre che mi ha mandato. Non è sufficiente, ma viene garantita la continuità dell’assistenza: il Paràclito mandato dal Padre vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto.

Per questo non sono più necessarie circoncisione, prescrizioni, usanze cultuali che possono rendere opaco e non aprire appieno all’incontro con la rivelazione del mistero di Dio in Gesù Cristo. Basta dare tempo, bisogna fare spazio, è necessario aprire il cuore allo Spirito che viene dall’Alto.

Egli è il dono del Signore Risorto che afferra dal di dentro ogni umano pensiero, illumina con la Parola e fa volare verso l’Alto i nostri cuori. Gesù assicura la pace a chi accoglie la sua parola: vi do la mia pace. Viene donata la pace duratura, coraggiosa e sincera, capace di trasformare ogni contrarietà, paura e ostilità: Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore. La pace promessa è quella che, come insegna Papa Francesco, si costruisce personalmente, giorno dopo giorno, pazientemente, artigianalmente e, via via, diventa evento e storia di salvezza per tutti gli uomini.

*Arcivescovo emerito di Camerino – San Severino Marche

Una Repubblica di cattivo umore

Il Paese Italia, che da molto tempo era di umore pericolosamente instabile, e sembrava incline a celebrare con un po’ di serenità solo le feste comandate (quasi sempre religiose), a un certo punto è caduto nel malumore. Il malumore non è pessimismo (sarebbe un’idea cui seguirebbe fervida discussione). Piuttosto è una forma di depressione collettiva. Un Paese intero è di malumore. Vuol dire che – in tutta una comunità – ognuno prova fastidio per la presenza e l’attivismo degli altri. Ma il fatto nuovo è che questa continua manifestazione di malumore si manifesta sia tra persone e persone, sia tra gruppi e gruppi, sia da tanti contro uno.

Per esempio si sospettano i burocrati e i giudici di qualunque ordine e grado, si minacciano i medici, si picchiano gli insegnanti. Ma accade anche che l’anestesista si trovi al bar mentre la paziente muore in sala operatoria, che le maestre d’asilo debbano essere monitorate da telecamere quando sbattono i bambini sul pavimento, che i ragazzini più grandi diano pugni alle maestre (spesso con la partecipazione dei genitori). E da quel che sappiamo non si tratta di ritorsione o di risposta brutale, un qualche tipo di causa-effetto.

Al tempo del malumore è inevitabile che qualcuno aggredisca e qualcuno sia vittima. Per esempio, si è diffusa l’abitudine di picchiare i conduttori di autobus. E i conduttori di autobus saltano la fermata, se non gli piace il cliente (anche quando è l’ultima corsa della notte). D’altra parte, se un Papa in ritiro attacca, con malevoli insinuazioni e una buona claque, il Papa che lo ospita, è inevitabile che i cittadini si sentano incoraggiati a non nascondere il proprio malumore verso i diversi di tutti i tipi. Ma il malumore che ormai esonda, invadendo i piani terra delle nostre periferie, ha liberato una sorta di voglia, ma anche di necessità, di buttar via tutto ciò che è, o era o appariva “buono”. È come in un capodanno rovesciato. È diventato d’obbligo, e anzi una specie di cupo festeggiamento, togliere di mezzo qualunque cosa che possa recare beneficio o conforto ad altri, dal pane fresco per i bambini rom, che arrivano nel luogo che dovrebbe accoglierli, alla cacciata di nuovi inquilini in regola con la legge, che hanno appena avuto le chiavi, al proibire per giorni e giorni di toccare la terra ferma a naufraghi che stavano per morire in mare, e adesso sono solo a un miglio dalla salvezza.

Nell’epoca del malumore non hai voglia di cambiare la tua idea e di vaccinare i tuoi figli solo perché nella tua scuola c’è un bambino immuno-depresso che potrebbe morire. Per quale ragione dovrei farmene carico io? La terra è piatta, nella società del malumore. È uno scherzo lugubre e polivalente. Manda all’aria scienza e fantascienza, cultura e avventura, nega santi ed eretici, intende squalificare una legione di presunti maestri di cui molti, nella civiltà del malumore, hanno piene le scatole. È naturale che il malumore investa il Papa, primo perché presume di essere il vicario di Dio, ma un Dio allegro, che non sa neppure mandare fulmini ed epidemie. Secondo, perché il Papa si dedica all’accoglienza e alla misericordia, ed è inevitabile che, nel mondo del malumore, dia sui nervi. Come quando i suoi preti, invece di benedire regalmente dall’alto, si occupano dei fili della luce di un casamento rimasto al buio, con molti bambini e ammalati che hanno bisogno di aiuto. Ma il malumore induce a diffidare di tutti, estranei e stranieri, e ti suggerisce che è meglio avere armi, per difesa legittima o non legittima.

Gli stranieri sono un gradino sotto gli estranei perché vengono a casa tua non per rubare ma per restare. E allora, in un ambiente di malumore, il vero valore è la sicurezza, che vuol dire un mondo chiuso in cui non passa nessuno, non gli esseri umani, e non si può entrare nemmeno nascendo, perché nascere in Italia viene visto come un inganno, nonostante la lingua, la scuola, la cultura, un fatto che irrita perché viene interpretato come un travestimento. Non c’è da stupirsi se il malumore è crudele. In una scuola, i compagni di classe avvertono un bambino ebreo che i forni saranno di nuovo in funzione quando lui sarà grande, e loro, i compagni di classe, provvederanno. Nel quartiere di una città dove tutti sapevano tutto, la popolazione, riunita in chiesa, sceglie di schierarsi dalla parte dell’assassino morto, abbattuto in tempo da un pugno della figlia. In tal modo isolano e maledicono la ragazza che è riuscita a fermare botte e delitto. In chiesa dunque esplode un grande applauso per l’uomo che, oscurato dal furore e dall’alcol, stava per uccidere. I cittadini del malumore sono forse irritati dal fatto che una ragazza disperata e coraggiosa gli ha cambiato la notizia di cronaca, e li ha privati di tre salme (lei stessa, la madre, la nonna) da compiangere con sincera commozione, dopo avere taciuto sempre sulla loro persecuzione. D’altra parte, ai tempi del malumore, è necessario ogni volta trovare qualcuno che deve pagare.

Mail box

 

Accogliamo noi gli stranieri sbarcati dalla Mare Jonio

Gentile presidente del Consiglio, Prof. Giuseppe Conte, l’Italia non è quella che ci viene mostrata ogni giorno sugli schermi televisivi. Non è un Paese impaurito, rancoroso, ostile verso gli stranieri e i “diversi”. Non è il Paese dei respingimenti in mare, dell’indifferenza verso le sofferenze e le morti di donne e bambini, della chiusura di fronte a culture e religioni diverse. La paura e la fretta sono sempre cattive consigliere: ci spingono a rinchiuderci in fortini, ad alzare muri e a ignorare i diritti umani. È quanto farebbe il cosiddetto “Decreto sicurezza bis”, il cui fine dichiarato è impedire i salvataggi in mare mentre, come ha scritto Luigi Manconi, “il soccorso in mare costituisce il fondamento stesso del sistema universale dei diritti umani”. Un decreto che, oltre che eterogeneo, contrario alle leggi vigenti e ai trattati internazionali sottoscritti dall’Italia, è palesemente incostituzionale. L’Italia, paese di emigranti fin dal 1861, sa quanto sia doloroso lasciare la propria terra e quanto sia importante trovare accoglienza, e speranza, in paesi lontani. Noi vogliamo creare nuove relazioni con chi fugge dalla propria patria, offrire non soltanto accoglienza ma speranza, come prescritto dal troppo spesso dimenticato articolo 10 della Costituzione: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”. Per questo torniamo sulla nostra offerta di due settimane fa di accogliere, per tutto il tempo necessario, il gruppo di migranti sbarcati dalla “Mare Jonio”, tra cui due donne incinte, una bambina di un anno e altri quattro minori non accompagnati. Ci offriamo di farlo nel quadro delle procedure di accoglienza vigenti e con la collaborazione delle istituzioni ma senza alcun onere per lo Stato. Confidiamo che la nostra proposta sarà presa in esame e recepita.

Associazione Famiglie Accoglienti

 

Gli elevati costi della burocrazia europea

Una delle concause della sfiducia dei cittadini nelle istituzioni europee risiede sicuramente negli alti costi di gestione dell’apparato burocratico. Infatti il Parlamento europeo, unico caso al mondo, possiede tre sedi: una a Bruxelles, una a Strasburgo e una in Lussemburgo. Inutile poi dire che l’Ue ha rappresentanze diplomatiche presenti in tutti gli Stati dell’Onu.

Antonio Bovenzi

 

DIRITTO DI REPLICA

Il 16 maggio 2019, a pagina 6 del Fatto Quotidiano, è stato pubblicato, a firma della giornalista Sandra Amurri, un articolo dal titolo “‘Prima i romeni’: il leghista e gli affari delle Hogan false – I guai di Lucentini, candidato di Salvini alle Europee, con la tutela del made in Italy”, riguardante il candidato della Lega Mauro Lucentini. Già nel titolo e nel sottotitolo, si “gioca” sull’arguto accostamento di concetti che lasciano intendere un coinvolgimento dello stesso in vicende giudiziarie relative alla contraffazione del marchio “Hogan” screditandone la credibilità personale. Il Lucentini, infatti, non è gravato da precedenti penali né è mai stato coinvolto in procedimenti giudiziari relativi alla commercializzazione o alla produzione di calzature recanti marchi falsi. Non è mai entrato, neppure quale persona informata sui fatti, nell’inchiesta “Olympia”. Del tutto inaccettabile risulta, allora, alludere a ipotesi di connivenza sulla base di mere conoscenze, quasi come se il concorso nel reato si trasmettesse per osmosi da “contatto umano”. Il rapporto con il prevenuto Perticarini riguardava unicamente una società che aveva come oggetto la movimentazione di terra.

Relativamente al reato di bancarotta, si sostiene che l’estraneità del Lucentini ai fatti di reato deriverebbe solo dall’essere “formalmente non più socio” della L.M. Sviluppo Srl, non mancando di strumentalizzare la notizia per “associare” la figura del candidato a persone che stanno subendo sorti giudiziarie ben diverse e comunque ancora non concluse.

Il Lucentini però è stato assolto con l’ampia formula “per non aver commesso il fatto”. Non ha mai avuto alcun contatto con il Lolli teso alla fittizia immatricolazione di imbarcazioni e, anzi, in sentenza gli è riconosciuto, a discarico, il merito di aver allertato un istituto di credito in procinto di erogare un finanziamento milionario alla società “fallita” Rimini Yacht, così evitando l’incremento dei proventi illeciti a favore del Lolli.

Avv. Igor Giostra

 

Il titolo riassume, come ampiamente spiegato nel testo, che il candidato Lucentini, seppure non coinvolto nella truffa sulla contraffazione delle Hogan, ha amicizie e soci in altre società con quelle stesse persone coinvolte nella contraffazione delle scarpe prodotte in Romania e in Marocco e commercializzate anche nelle Marche dove lui è candidato. Con uno in particolare, Endrio Mancini, condannato in altre vicende giudiziarie, e prescritto anche nella truffa ai danni dello Stato, che posta i santini di Lucentini sulla sua pagina facebook e partecipa alle manifestazioni elettorali della Lega. Testo che non contiene “illazioni” bensì fatti documentati che confermiamo in toto da cui emerge una questione di opportunità: chi chiede la fiducia ai cittadini per andare in Europa, anche per combattere la contraffazione e difendere il Made in Italy, non può avere rapporti così stretti con chi è accusato di contraffazione e molto altro.

S. A.

Dove sono gli Olivetti di oggi? Chi crede più al “fare bene”?

“C’era in tutti un grande desiderio di esistere, di far bene. È il desiderio che prende all’indomani di una salutare sconfitta, insieme all’ottimismo per il genere umano se, fra gli scampati a un disastro, stai per conoscere persone intelligenti e potenti che sembrano proprio lì per progettare la vita nuova”.

Giorgio Soavi, da “Il tempo di Adriano Olivetti” di Furio Colombo con Maria Pace Ottieri Edizioni di Comunità

 

State leggendo un libro e, improvvisamente, anche se non lo avete completato, sentite il bisogno impellente di scriverne. Mi è capitato con l’“Adriano Olivetti” di Furio, e non soltanto perché sono legato all’inquilino della pagina accanto da una lunga e robusta amicizia. C’è qualcosa di più profondo che chiamerei nostalgia ma che poi, scavando scavando, ha il sapore delle delizie che ci suscitano certi film americani in bianco e nero degli anni 40, con William Powell e Myrna Loy, lui in smoking e lei in lungo. Neanche a farlo apposta proprio ieri sul “Corriere della Sera”, Jonathan Coe invita a diffidare di chi, come i populisti, “ci dicono che ieri eravamo più felici”. Mentono, sostiene lo scrittore inglese che racconta di sentirsi disturbato dall’etichetta della marmellata che ogni mattina egli spalma sul pane tostato. Vi sono stampate due parole: “Vecchi tempi” che, rivela, “mi lasciano perplesso e mi disturbano, al punto che hanno quasi cominciato a rovinarmi la colazione”. Anche se la nostalgia dell’epoca narrata da Colombo non ha niente a che fare con l’uso politico del passato di certi comizianti che “sguazzano nell’insoddisfazione del presente per ottenere i nostri voti” (Coe), tuttavia non posso fare a meno di pensare al profumo di quegli anni che forse è lo stesso della marmellata di Coe. Torniamo a Olivetti e all’incontro con il giovanissimo Furio nel suo ufficio di piazza di Spagna, a Roma. Sentite un po’: “Se eri un giovane un po’ disinvolto gli adulti ti incontravano nelle case, s’incuriosivano (…) allora c’era molta attenzione per i giovani e le offerte di lavoro ti piovevano addosso, era facile entrare nella vita della città”. Fermiamoci qui. La guerra è finita da poco, siamo un Paese vinto, le macerie ingombrano la strade delle città, nelle case della buona borghesia si risparmia sulla carne e i vestiti dei figli più grandi passano ai più piccoli. Il futuro sembra quanto mai incerto eppure “in tutti c’era un grande desiderio di esistere, di fare bene”. Qualche anno più tardi un giovane promettente entra in contatto con un industriale geniale e immaginifico che lo manda alla ricerca di nuovi talenti. Non doveva essere un lavoro difficile poiché “c’era molta attenzione per i giovani e le offerte di lavoro ti piovevano addosso”. E dunque perché mai, oggi, in condizioni materialmente incomparabili a quegli anni della ricostruzione, nessuno sembra credere più a quel desiderio di “far bene” che ha il sapore di una marmellata scaduta. Perché i giovani sono diventati un’entità astratta, misteriosa, una percentuale nelle statistiche della disoccupazione? Furio, cosa c’è successo? E dov’è finita Myrna Loy?

Xylella, i confini della zona contagiata tornano più a Sud

I comuni di Polignano e Conversano, in provincia di Bari, sono nuovamente fuori dalla zona cuscinetto dell’emergenza xylella fastidiosa, il batterio che provoca il disseccamento rapido dell’ulivo, mentre Monopoli torna a essere parzialmente indenne. È quanto emerge dalla Determinazione del Servizio fitosanitario regionale della Puglia del 21 maggio scorso che, come rileva Coldiretti, riporta la delimitazione delle aree infetta, contenimento e cuscinetto al 2018, prima che fosse ritrovato un ulivo infetto a Monopoli. Il limite viene spostato più a sud. “È una notizia – commenta il presidente di Coldiretti Puglia Savino Muraglia – che certamente fa tirare un sospiro di sollievo ed è l’unico risvolto positivo dello ‘strano caso’ dell’ulivo di Monopoli, un albero dichiarato infetto per 5 mesi, con gli immaginabili effetti negativi sull’agricoltura e sull’intera Puglia e la preoccupazione per la provincia di Bari. Eppure dopo 5 mesi, per non meglio precisate ‘anomalie nella catalogazione’, si ribalta il verdetto con nuovi campionamenti e relative analisi e risulta per fortuna sano, non infetto da Xylella”. Le nuove analisi erano arrivate dopo il sequestro dell’albero da parte della Procura.

“Non favori a imprese, ma incentivi alla scienza”

Gentile Direttore, è giusto chiarire e smentire alcuni aspetti dell’articolo Lazio di Zingaretti: 60 milioni senza gara in ricerche. Partiamo dal titolo che è chiaramente falso come si evince dal pezzo stesso: all’interno di quest’ultimo viene correttamente riportato che la Regione Lazio non ha finanziato 60 milioni di euro ma 16, di cui 3 ancora da erogare. Non solo falso ma anche diffamatorio è invece l’attacco dell’articolo: “Zingaretti e i vertici dei due più grandi enti pubblici di ricerca nazionali, si sono accordati per far arrivare milioni di euro a una azienda farmaceutica privata”.

La Regione Lazio non ha fatto altro che siglare un protocollo col Cnr, massima autorità pubblica in materia scientifica, per sostenere un ambizioso programma di ricerca, di cui nessuno può mettere in discussione la rilevanza scientifica e strategica. E il Cnr è stato l’unico soggetto con cui la Regione Lazio si è, come ovvio, relazionata. Come, inoltre, era stato spiegato alla sua giornalista (che non ha utilizzato le risposte fornite dagli uffici), alla presentazione dei progetti poteva partecipare chiunque.

Successivamente, ai sensi del protocollo, la cabina di Regia avrebbe visionato e valutato i materiali pervenuti. Quest’ultima ha ricevuto esclusivamente due progetti dal consorzio Cnccs. La firma dei protocolli è stata pubblicizzata attraverso una conferenza stampa e sui social della Regione Lazio. Insomma nessuna firma nelle segrete stanze. Per quanto riguarda l’assenza di gara, i protocolli di intesa tra soggetti pubblici non sono vietati ma anzi, rappresentano uno strumento utile per raggiungere risultati comuni: in questo caso la ricerca. Fuori luogo poi l’ironia sull’epidemia di Zika. Pochi mesi prima della presentazione dell’accordo, proprio nel Lazio, ma soprattutto in Italia, erano stati registrati diversi casi di Zika. Oltretutto immaginare che si lavori su un vaccino per utilizzarlo solo nel Paese dove è prodotto è ridicolo. Infine, non c’è mai stato alcun accordo tra la Regione Lazio e la Irbm.

Dispiace alla vigilia delle elezioni leggere articoli così superficiali e strumentali che trasformano la volontà di finanziare la ricerca italiana, la cui carenza di fondi è stata spesso denunciata anche dal Fatto Quotidiano, in un caso inesistente e fumoso. Per questo la Regione Lazio valuterà se adire le vie legali per tutelare la propria immagine.

Il Fatto ha ricostruito una complessa vicenda di erogazione discrezionale di fondi pubblici alla ricerca che finiscono a un’impresa privata sulla base dei documenti disponibili (e disponibili soltanto perché un ricercatore del Cnr nel cda ha condotto una battaglia di trasparenza). È vero che i fondi pubblici sono stati erogati anche dal ministero e dal Cipe, ma tutta la vicenda nasce nel Lazio e le fortune della Irbm si fondano sulla triangolazione con Cnr e Regione. Irbm è stata anche tra i finanziatori della fondazione Open di Matteo Renzi, negli stessi mesi della visita di Renzi e del governatore Nicola Zingaretti ai suoi laboratori. Nessuno discute la qualità della ricerca prodotta dalla Irbm, anche se alcuni risultati annunciati sono ancora in fasi preliminari. Ma questa è una storia emblematica di come in Italia ci siano molte zone grigie, soprattutto nella ricerca. E in nome del nobile principio del premiare l’eccellenza, si scelgono spesso procedure poco trasparenti e discrezionali che premiano sempre gli stessi soggetti. Solo un’agenzia terza, indipendente dalla politica, e con obiettivi misurabili e verificabili può garantire che i fondi per la ricerca vengano allocati nel modo più efficace ed efficiente e non in quello politicamente più vantaggioso.

“Il Cnr ridotto a notaio del Lazio per far arrivare soldi ai privati”

Il Fatto ha raccontato la vicenda della Irbm di Pomezia, un’azienda farmaceutica, che ha ottenuto almeno 50 milioni di fondi destinati alla ricerca pubblica senza bando, grazie anche alle decisioni di Nicola Zingaretti, governatore del Lazio e oggi leader del Pd, di Mariastella Gelmini (Fi) quando era ministro dell’Istruzione, del Cipe (il comitato governativo per gli investimenti) guidato da Luca Lotti, Pd. A sollevare il caso è stato un consigliere di amministrazione del Cnr, il Consiglio nazionale della ricerca: Vito Mocella. È lui che denuncia le anomalie nell’assegnazione di fondi al consorzio Cnccs, di cui fanno parte il Cnr stesso e l’azienda Irbm. Mocella è l’unico membro del cda del Cnr non nominato dalla politica ma eletto dai dipendenti. I ricercatori, per avere un rappresentante in cda, hanno lottato anni, anche se è previsto da una legge del 2009 in tutti gli enti di ricerca.

Vito Mocella, cosa ha visto nel cda del Cnr?

In una riunione del novembre 2015, il presidente del Cnr Massimo Inguscio ci informa di una serie di operazioni già avvenute ma mai vagliate dal Cda. Tra queste un protocollo di intesa con la presidenza della Regione Lazio per un programma di ricerca. Ci dice che era stata nominata una cabina di regia di esperti dalla Regione e dal Cnr per valutare i progetti che sarebbero stati presentati da vari gruppi di ricerca. Lo stesso Cnr, ci dice Inguscio, aveva sottoposto un progetto e la cabina di regia lo aveva approvato, assegnandogli l’intero fondo di 6 milioni. Ma quando il Cnr invia il progetto alla Regione, la cabina di regia non è ancora insediata. Così chiedo: chi ha redatto il progetto? Chi lo ha presentato? E a chi? Dov’è il bando? Per finanziamenti pubblici così consistenti deve esistere una forma di evidenza pubblica.

Cosa le rispondono?

Il 24 gennaio 2016 partecipano alla riunione l’imprenditore della Irbm, Pietro Di Lorenzo, due suoi ricercatori e due membri della cabina di regia. La procedura mi viene spiegata così: il consorzio Cnccs presenta ai finanziatori pubblici il progetto, se ottiene il gradimento poi lo consegna al Cnr affinché lo presenti all’istituzione pubblica nell’ambito della convenzione sottoscritta.

Tutto corretto?

Non è quello che prevede il Protocollo con la Regione: dovrebbe essere la cabina di regia a individuare i progetti. Ritengo illegittima l’intera procedura: il Cnr ha agito di fatto come notaio rispetto a una assegnazione diretta di fondi da parte della Regione nei confronti del Cnccs e poi dell’azienda Irbm.

Come sono state accolte le sue domande in Cda?

Non c’era l’abitudine a discutere le scelte che arrivavano dai soggetti politici e dai vertici del Cnr.

Il problema è solo nei rapporti con la Regione Lazio?

No. Ci sono altre due assegnazioni senza bando. Dal Cipe per 18 milioni. E 6 milioni all’anno che il ministero dell’Istruzione prende dal Fondo ordinario degli enti pubblici di ricerca. Almeno 44 milioni assegnati senza bando. Eppure, in base al decreto 218 del 2016, il Cnr dovrebbe presentare la richiesta di fondi in un piano triennale sulla cui base il ministero ripartisce il fondo. Fuori da quello, il ministero non può finanziare altri progetti. Dovrebbe preoccuparsi delle spese correnti del Cnr, già in grave difficoltà, prima di finanziare progetti di terzi.

Strage dei Georgofili, oggi le manifestazioni per il 26° anniversario

Oggi l’Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili a Firenze, supportata da Regione Toscana, Comune, Città Metropolitana e ministero dell’Istruzione, ricorderà il 26° anniversario dell’attentato della notte tra il 26 e il 27 maggio 1993 che uccise 5 persone e ne ferì altre 41. La bomba di Cosa Nostra provocò anche 41 feriti, sventrò la torre dove ha sede l’Accademia dei Georgofili, causò ingenti danni agli Uffizi, a Palazzo Vecchio, alla chiesa di Santo Stefano, al Ponte Vecchio e alle abitazioni tutt’attorno, lasciando moltissime famiglie senza un tetto. In Regione (Piazza Duomo, sala Pegaso) è previsto un incontro con gli studenti del Liceo scientifico Leonardo da Vinci alle 11, quindi il convegno sulla giustizia alle 16.30 con il prefetto Laura Lega, il procuratore aggiunto di Firenze Luca Tescaroli, la presidente dell’associazione Giovanna Maggiani Chelli e l’avvocato di parte civile Danilo Ammannato. Dalle ore 21 è in programma la commemorazione vera e propria densa, seguita da una serata nel salone del 500 di Palazzo Vecchio dove sarà messa in scena l’opera “I Pagliacci” di Leoncavallo.

Sciolti per infiltrazioni. Poi la mafia sparisce

“L’Amministrazione comunale intende attuare una politica di vicinanza ai nostri amici a quattro zampe”. A Ventimiglia non hanno dimenticato cani e gatti nei programmi elettorali. Decine di pagine di promesse. Manca, però, una parola: mafia. Come non esistesse. E pensare che Rosy Bindi, all’epoca presidente della Commissione Antimafia, quando venne da queste parti disse: “Imperia è la sesta provincia della Calabria”. La ’ndrangheta ha messo radici profondissime, condiziona l’economia e la politica.

Eppure nel programma di Gaetano Scullino, originario della Sicilia, quella parolina non la trovi fino a pagina 58, la penultima: “Che esista in Italia, soprattutto in alcune regioni del Sud, si è sempre saputo. È un pericolo assoluto che va combattuto senza tregua”, dice il candidato sindaco di centrodestra. Ma prima della mafia trovi ciucci gratis ai neonati, aiuti per le colonie feline e spiagge per cani.

Non va meglio, anzi, nel programma del candidato sindaco uscente, Enrico Ioculano (Pd). La parola mafia non c’è. “Noi non abbiamo niente da dimostrare, in cinque anni abbiamo combattuto le mafie a tutti i livelli”. Ioculano ricorda: “A scuola eravamo 21 e solo due erano liguri. Gli altri avevano parenti calabresi e siciliani. Io ho origini calabresi”. Già, la comunità calabrese qui decide le elezioni. In passato in consiglio comunale quasi la metà dei membri veniva dal Sud.

“La sentenza dell’inchiesta ‘la Svolta’ parla di ‘dimostrata capacità di condizionamento degli organi elettivi’ da parte della ’ndrangheta. E ancora oggi troppi candidati hanno frequentazioni, amicizie o addirittura parentele con famiglie ’ndranghetiste”, denuncia Christian Abbondanza, presidente della Casa della Legalità. Ricordò ancora Bindi: “Nel santuario della Madonna di Polsi, a San Luca, dove si riuniscono i boss delle ‘ndrine più feroci, c’è un fonte battesimale donato dal Comune di Ventimiglia”. Qui dove in cattedrale nel 2017 si svolsero i funerali di quello che gli investigatori indicavano come “personaggio di primissimo piano della mafia calabrese”. A portare la bara fuori dalla chiesa gremita c’era un giovane che poche settimane fa ha postato sui social una foto con Matteo Salvini: “A Verona con Matteo”. Altri giovani con frequentazioni pesanti si fanno selfie con Salvini e li postano su una pagina con foto del Padrino.

Chissà se la persona giusta per affrontare la questione ’ndrangheta sia Domenico Furgiuele, deputato ed ex coordinatore della Lega in Calabria, mandato qui a far campagna elettorale senza far caso che suo suocero avesse una condanna definitiva per estorsione aggravata dal metodo mafioso.

Sponsor di Scullino è Claudio Scajola cui a Reggio Calabria, dove è imputato per aver aiutato il latitante Amedeo Matacena, i pm hanno contestato l’aggravante mafiosa.

Se Scullino vincesse sarebbe un ritorno. Era sindaco (non indagato) nel 2012 quando il Comune fu sciolto per infiltrazioni dei clan. Il Consiglio di Stato annullò: “Presidente del collegio – conclude Abbondanza – era Franco Frattini, già ministro con Scajola e protagonista di un incontro a Ventimiglia, nel 2007, per la campagna di Scullino”.

Il candidato ombra alle elezioni di oggi a Ventimiglia è la ’ndrangheta. Ma nei programmi prima ci sono i cani.