L’indagata Comi, l’avvocatessa e le consulenze dal Pirellone

“Ne ho parlato con Toti in maniera molto generica, rappresentandogli la situazione (…) forse mi disse che se Marsico aveva bisogno, magari poteva rivolgersi a lui”. Così il governatore della Lombardia, Attilio Fontana, ha detto nei giorni scorsi ai pm milanesi che lo interrogavano per l’inchiesta in cui è indagato per abuso d’ufficio. Luca Marsico è il suo socio di studio, non rieletto in consiglio per Forza Italia e poi nominato nel Nucleo di valutazione degli investimenti pubblici lombardo. Toti, interpellato dal cronista, assicura: “Da quando sono arrivato io, nel 2015, Marsico non ha avuto alcun incarico. Ne sono certo”.

Eppure c’è un filone che lega l’europarlamentare milanese di Forza Italia Lara Comi e il centrodestra lombardo alla Liguria azzurra vicina a Toti. Lo rivelano altri passi dell’inchiesta. C’è un nome che collega i due mondi. Parliamo di Maria Teresa Bergamaschi, noto avvocato tributarista e presidente della Camera penale di Savona. Bergamaschi è tra i titolari dello studio legale Palazzo&Bergamaschi. Allo stesso indirizzo, in piazza Castello 4 a Pietra Ligure, ha la sede legale la Premium Consulting di Lara Comi. All’eurodeputata azzurra è contestato di aver ricevuto, nel gennaio 2019, un presunto finanziamento illecito da 31 mila euro dall’industriale bresciano e presidente della Confindustria Lombarda, Marco Bonometti. Tutto, ipotizzano i pm, passerebbe attraverso una consulenza alla Premium consulting.

Ma è solo la prima traccia che unisce i due mondi. La seconda parte sempre da Comi. L’inchiesta parla infatti anche di contratti di consulenza e di incarichi fiduciari per 38 mila euro affidati dall’Afol, cioè l’ente per il lavoro e la formazione della città metropolitana di Milano. I pm milanesi ritengono che sarebbero stati affidati all’avvocata savonese.

Bergamaschi è nota nel mondo legale e in quello politico. Gode della stima di personaggi politici che in Liguria oggi contano. Soprattutto uno, Angelo Vaccarezza, l’ex presidente forzista della Provincia di Savona che oggi è capogruppo del partito di Silvio Berlusconi in Regione. Un tassello molto importante nel mondo di Toti. Bergamaschi conosce bene Vaccarezza perché era sua compagna di scuola. Un legame che è arrivato fino a oggi: l’avvocato, quando Vaccarezza era presidente dalla Provincia, era stata nominata presidente di Tecnocivis, società partecipata dalla stessa Provincia. Non solo: era membro del collegio sindacate dell’azienda dei trasporti Tpl (dove la Provincia ha il 34 per cento delle azioni).

Un avvocato noto, Bergamaschi. Nel suo studio lavorò anche Roberta Gasco, ex consigliere regionale Udeur in Liguria (condannata in appello a due anni e due mesi per le spese pazze). Una passione per la politica, quella di Bergamaschi, che la portò anche a candidarsi alle Provinciali di Savona con una lista civica di centrodestra. Lei giura: “Non sono io il trait d’union tra il mondo della politica e degli affari a cavallo tra Lombardia e Liguria”.

Di certo ci sono tanti contatti. Comi, quando si candidò per le europee, venne in Liguria a fare campagna elettorale e fu capace di tessere relazioni che sono rimaste.

Del resto, da quando è arrivato Toti, in Liguria sono piovute tante figure dalle vicine regioni del Nord. In particolare dalla Lombardia. A cominciare dalla sanità; vedi il numero uno dell’Agenzia per la Sanità, Walter Locatelli. Mentre si annuncia lo sbarco di operatori privati della sanità lombarda.

L’era Toti ha fatto della Liguria anche un buen retiro per politici lombardi. Vedi il caso di Carlo Fidanza. Finito il mandato europeo e in attesa di finire in Parlamento, il rappresentante di Fdi restò parcheggiato in Liguria con un compenso, scrissero le cronache, di circa 80mila euro l’anno. Era Commissario straordinario dell’Agenzia regionale per la promozione turistica “In Liguria”. Molti storsero il naso: perché scegliere un politico lombardo che non pareva avere un curriculum specifico? Ma Toti non aveva dubbi.

Il Piemonte e 25 capoluoghi: oggi si vota anche qui

Oggi scelgono il loro sindaco quasi 4 mila comuni italiani. Tra questi ci sono 5 capoluoghi di Regione, Firenze, Bari, Perugia, Potenza, Campobasso, e altri 20 città, anche loro al voto tra le 7 di questa mattina e le 23: Ascoli Piceno, Avellino, Bergamo, Biella, Cremona, Ferrara, Foggia, Forlì, Lecce, Livorno, Modena, Pavia, Pesaro, Pescara, Prato, Reggio Emilia, Rovigo, Verbania, Vercelli e Vibo Valentia.

Si aprono i seggi anche in Piemonte, dove cerca la riconferma il governatore uscente, il Pd Sergio Chiamparino. Il favorito però al momento pare il suo sfidante, il candidato del centrodestra Alberto Cirio, oggi europarlamentare di Forza Italia, sostenuto anche dalla Lega. Per il Carroccio è una delle sfide più importanti, che segnerebbe l’en plein “verde” nelle amministrazioni del Nord (Lombardia, Veneto, ma anche Liguria e Friuli). Matteo Salvini, Giancarlo Giorgetti e Roberto Calderoli hanno investito parecchio anche sulle città dell’Emilia Romagna: un voto importante, considerando che qui, in settembre, si terranno le elezioni regionali.

Oliverio e i furbetti della propaganda

Nel tempo in cui gli appelli al voto si fanno soprattutto online, verrebbe da pensare che per i candidati valga un po’ tutto, difficile com’è tracciare sui nuovi media gli antichi confini della par condicio. Alcuni limiti, però, restano invalicabili anche nel far west digitale. È per questo che l’Agcom, l’autorità garante per le comunicazioni, ha appena strigliato il presidente della Calabria Mario Oliverio per aver utilizzato i canali istituzionali della Regione per fare propaganda per le Europee.

Il governatore del Pd, peraltro già alle prese con un’accusa di associazione per delinquere e con un’indagine per corruzione, dovrà dunque rimuovere dal sito della Regione sei articoli che secondo l’Agcom sono “privi dei requisiti di impersonalità e di indispensabilità” e pubblicare in home page un messaggio per informare i cittadini della “non rispondenza di detti articoli” a quanto previsto dalla legge. A sparire saranno, tra le altre, informazioni su alcuni tour ritenuti para-promozionali: la visita al Vinitaly, una giornata alla fiera del libro per ragazzi e l’incontro con le associazioni di categoria riguardo all’impiantistica sportiva. A denunciare il caso all’Agcom era stata la senatrice M5S Bianca Laura Granato, che si era lamentata di “un utilizzo distorto e propagandistico dei canali istituzionali della Regione”, circostanza adesso confermata dall’Autorità, secondo cui negli articoli ci sono “valutazioni e opinioni politiche che enfatizzano la particolare descrizione delle iniziative”, potendo così influenzare la campagna elettorale. Peraltro, nonostante la delibera sia giunta a Oliverio già 9 giorni fa, sul sito istituzionale ancora non trova posto il messaggio di rettifica ordinato dall’Agcom.

Ma tra le carte dell’Autorità non c’è solo Oliverio. In Veneto, per esempio, il sindaco Pd di Bassano del Grappa Riccardo Poletto ha dovuto interrompere la diffusione (cartacea e digitale) di un libretto celebrativo dei suoi cinque anni di mandato, in vista delle nuove amministrative. Secondo l’Agcom, anche in questo caso, si era persa ogni finalità istituzionale: “Nel libretto vengono utilizzate espressioni enfatiche e propagandistiche, unitamente all’editoriale del sindaco”. Circostanze simili a quelle denunciate dai 5Stelle a Messina, dove il sindaco Cateno De Luca ha inviato una lettera a 400mila persone nei 107 Comuni della provincia, invitando a votare la forzista Dafne Musolino alle Europee proprio nella sua “qualità di sindaco di Messina”. L’Agcom ha strigliato anche il Comune di Tombolo (Padova), dove stemma del municipio e nome di un assessore ricandidato, con tanto di numero di cellulare, comparivano sui manifesti di due sagre paesane, la “Festa del sorriso” e la “Festa di Primavera”. Stesso destino, come riporta il Gazzettino, per la vicesindaca e candidata prima cittadina leghista di Arzignano (Vicenza). Il motivo? Una vecchia intervista ripromossa sulle pagine istituzionali del Comune con intestazione: “Ancora indecisi sul voto?”. “Colpa dell’algoritmo di Facebook”, ha provato a difenderla il sindaco Giorgio Gentilin. Troppo poco per far desistere l’Autorità garante.

L’uomo invisibile sfida Decaro: Pd e forzisti si scambiano i voti

Bari è un’anomalia, una contraddizione, una luce che non si sa se sia alba o tramonto. È il luogo in cui il 28enne Alessio Lorusso inventa il futuro costruendo stampanti 3D e vincendo premi negli Usa, ma anche quello in cui il miglior collettore di voti sono le sale giochi e le preferenze si comprano a pacchetti, a volte con tanto di ricevuta. È il luogo in cui un brevetto del Politecnico fa nascere il distretto dell’automotive e pure la città che siede su una bomba a orologeria chiamata Popolare di Bari, l’ultima banca meridionale di qualche peso, malmessa dacché Bankitalia la “invitò” a caricarsi la disastrata Tercas e ora – tra inchieste della Procura e l’incazzatura di migliaia di azionisti – alle prese con un futuro incerto e il dissidio tra il manager protetto da Visco & C. (Vincenzo De Bustis) e gli eterni “padroni” dell’istituto (la famiglia Iacobini). E ancora: Bari è il luogo benedetto martedì dall’inatteso endorsement della Lonely Planet, che l’ha messa al quinto posto tra le mete estive del 2019, e pure quello che vede un simbolo della città come la Gazzetta del Mezzogiorno annaspare nelle difficoltà economiche e la squadra di calcio, “la Bari”, fallita e oggi in serie C, finita ad Aurelio De Laurentis, l’ennesimo salvatore, stavolta arrivato dalla rivale Napoli.

Bari è un’anomalia, una contraddizione, un’alba che forse è un tramonto ed è la città in cui “il candidato che non c’è” potrebbe persino arrivare al ballottaggio. Il candidato che non c’è ha un nome, ma non una faccia. Si chiama Pasquale Di Rella, corre da sindaco col centrodestra dopo aver vinto le primarie su mandato dell’avvocato berlusconiano Francesco Paolo Sisto: la volta scorsa, però, fu eletto col Pd. Di Rella – democristiano con pacchetto di preferenze annesso – non parla coi giornali e le tv, evita i confronti, disdegna la cartellonistica: in pochi lo riconoscono per strada, ma porterà a casa il suo 30% abbondante grazie a nove liste e ai portatori d’acqua e voti nelle periferie, posti come il “Cep” che quelli di Lonely Planet non sanno neanche dove siano e in cui la criminalità barese, anche se non più potente come un tempo o violenta come quella foggiana, fa ancora i suoi ricchi affari.

Se si votasse solo nella Città Vecchia o nel centro murattiano (se Parigi tenesse lu mere…) il candidato che non c’è forse arriverebbe terzo, dietro pure l’impalpabile grillina Elisabetta Pani, musicista e insegnante al Conservatorio, figlia d’arte nel senso che il padre fu in Giunta col centrodestra vent’anni fa, accreditata sì di un risultato a doppia cifra, ma in una città che alle Politiche 2018 diede al M5S il 51%.

Il motivo del crollo? “Faccio solo un esempio: qui nessuno neanche sa chi sia il senatore grillino eletto a Bari”, spiega Filippo Melchiorre (FdI) dall’alto dei suoi 25 anni di fila in Consiglio. Sarà proprio il risultato dei 5 Stelle, però, a stabilire quando vincerà, perché alla fine vincerà, il candidato che corre da solo: Antonio Decaro, sindaco uscente e presidente Anci, dem di rito renziano, ma in buoni rapporti anche con l’ingombrante Michele Emiliano, che dalla Regione guarda Bari per trarne auspici. Le 11 liste per Decaro disegnano un centrosinistra “vastissimo” molto zingarettiano e futuribile, ma soprattutto “chi vince a Bari vince in Regione” dice l’antica regola di Pinuccio Tatarella, per decenni capo locale dei post-fascisti. E la Puglia vota l’anno prossimo.

Per questo Emiliano s’è già dato da fare. A “sinistra” sono finiti l’ex sindaco di FI Simeone Di Cagno Abbrescia e Massimo Cassano, già sottosegretario di Renzi passato con Berlusconi e ora tornato indietro: il primo è presidente dell’Acquedotto, il secondo commissario di Arpal. Decaro ha rifiutato l’appoggio del duo, che però fa campagna pancia a terra per lui (Cassano ha promosso persino una lista).

Il sindaco ingegnere, in ogni caso, ha una sua forza autonoma: da Renzi ha ottenuto un discreto flusso di investimenti pubblici con cui ha riqualificato pezzi di città (l’ultima inaugurazione, giovedì sera, è il lungomare di San Girolamo, periferia nord) con cui prova a dare alla città una vocazione turistico-culturale finora incerta. È considerato un buon amministratore a differenza del “pasticcione” Emiliano, da cui lo divide anche un carattere meno portato all’istrionismo e al rapporto fisico con la città. Sarà lui a dover gestire l’anomalia Bari negli anni in cui si capirà se la luce così dolce eppure violenta che ne illumina bellezze e brutture sia alba o tramonto.

“Discriminati da Londra”. Gli expat minacciano denunce

Azioni legali contro il governo britannico sono in preparazione sulla scia delle accuse di “voto negato” ad alcuni cittadini di Paesi europei residenti nel Regno che avevano scelto di votare alle Europee per partiti e candidati d’Oltremanica giovedì 23, ma sono stati respinti ai seggi per ritardi burocratici sulle necessarie procedure di registrazione che avrebbero dovuto essere completate entro il 7 maggio. Lo scrive il Guardian citando John Halford, uno degli avvocati interpellati dall’associazione di expat “3million group”.

La vicenda, statisticamente marginale sul risultato delle elezioni (che si conoscerà oggi), non è destinata a rimettere in discussione la consultazione. Laddove le cause vadano in porto, l’obiettivo potrà essere semmai quello di ottenere risarcimenti (fino a 100 mila sterline, secondo il quotidiano). Per Halford si tratterebbe di “una discriminazione su larga scala”. E un attivista ha ipotizzato che sarebbero stati esclusi migliaia di elettori, seppure in minoranza rispetto al totale. Il Guardian è stato però finora in grado di confermare meno di mille casi.

I laburisti: “Sfiducia a qualunque premier tory”

Chiunque sarà il futuro primo ministro britannico, su di lui già incombe la sfida dell’opposizione: ieri John McDonnell, braccio destro di Corbyn, ha dichiarato che i laburisti sono pronti a mettere ai voti una mozione di sfiducia: “Crediamo che in queste circostanze qualunque primo ministro debba presentarsi di fronte al Paese e chiedere un mandato” attraverso elezioni politiche anticipate.

E intanto parte la corsa alla successione di Theresa May, che venerdì scorso ha annunciato le dimissioni. L’avversario da battere è Boris Johnson, un predestinato per nascita, educazione e frequentazioni, che secondo tutti i sondaggi sarebbe in testa di molti punti su tutti gli altri papabili. Ma ha già commesso un errore: dichiarare, subito, che il Regno Unito uscirà dall’Ue il 31 ottobre, scadenza fissata da Bruxelles, anche senza accordo di divorzio.

Una promessa di cui si comprende il senso politico: rosicchiare consenso al Brexit Party di Nigel Farage che sta letteralmente assimilando l’elettorato pro Leave. È un impegno facile se si sta all’opposizione: ma impossibile da mantenere per qualsiasi primo ministro. È un gioco delle parti: alla coerenza di Johnson non crede nessuno, tanto più in questo anticipo di campagna per la leadership, ma intanto lui già sconta l’aver alzato troppo la barra. Nel partito si levano, pubblicamente o meno, le voci di quelli che annunciano di non poter servire un premier disponibile a uscire senza accordo e si candidano a loro volta, come il ministro della Salute Matt Hancock e quello dello Sviluppo Internazionale Rory Stewart, giovani, energici e stimati per la loro competenza: facce nuove che potrebbero fare strada se i candidati più noti dovessero finire bruciati dalle troppe contraddizioni.

Gli altri candidati ufficiali sono il ministro degli Esteri Jeremy Hunt e Esther McVey, deputata semplice, ferocemente pro Brexit, E poi i pesi massimi che aspettano ad annunciare l’intenzione di correre: dalla veterana Andrea Leasdom al ministro dell’interno Sajid Javid, al grande opportunista Michael Gove, oggi ministro dell’Ambiente: uno che durante la campagna per il referendum nel 2016 ha pugnalato alle spalle prima David Cameron e poi Boris Johnson, due fra i suoi amici più cari: potrebbe decidere di fare da kingmaker o aspettare sul fiume il passaggio dei cadaveri dei nemici.

Sulla corsa di Johnson incidono due fattori. Il primo, a sfavore, è che negli ultimi anni, con le sue gaffes e giravolte politiche, ha perso il rispetto di molti parlamenti conservatori, e per passare la prima selezione deve ottenere il voto della maggioranza di loro. Il secondo, a favore, è che malgrado tutto è uno dei politici più popolari nel Paese, uno che porta i voti in un momento di drammatica emorragia di elettori conservatori e potrebbe unire il partito nella seconda fase del processo di selezione, quella in cui sono a chiamati a votare gli iscritti: ed essere il peggiore avversario dei laburisti, se alle elezioni anticipate si arriverà.

Solidarnosc, dalla rivoluzione democratica al sovranismo

Prima degli europei di calcio del 2012, che la Polonia organizzò con l’Ucraina, Danzica era un’altra città rispetto a quella odierna, sostiene Mikolaj Chrzan, cronista dell’edizione locale di Gazeta Wyborcza, il giornale più letto del Paese. “Era un posto di cantieri navali e industrie, lontano dal resto del Paese a causa di ritardi infrastrutturali. Gli europei ci hanno portato un nuovo stadio, fondi, turismo, strade e ferrovie migliori. Oggi si va a Varsavia in tre ore, e abbiamo un profilo da città europea”.

Danzica, centro baltico celebre per la produzione di ambra e di storia (qui scoppiò la Seconda guerra mondiale; qui nacque nel 1980 la leggenda di Solidarnosc), è pulsante e dinamica. Gli Europei furono la grande scommessa del sindaco Pawel Adamowicz, assassinato a gennaio con una pugnalata al petto. “Capì che Euro 2012 era un’occasione unica di crescita e fece di tutto per includere Danzica tra le città ospitanti”, spiega Chrzan, riferendo che proprio in quegli anni il sindaco cambiò corredo ideologico. “Viaggiò molto, scoprì la grande politica europea e maturò una visione aperta della società. Da politico di centro, per certi versi un po’ conservatore, divenne uomo liberale attento ai diritti di rifugiati e minoranze sessuali”. Nella Polonia governata dai populisti di Jaroslaw Kaczynski, che strizzano l’occhio a Viktor Orbán, Adamowicz aveva tanti nemici. Per la stampa filo-governativa aveva fatto di Danzica in un’entità avulsa dalla Polonia. Il suo omicidio è la conseguenza di queste campagne d’odio, sostengono in molti. Danzica e il mondo come comunità aperte: questa l’idea di Adamowicz. La moglie Magdalena la porterà all’Europarlamento. Per lei seggio sicuro nelle liste della Coalizione europea, trainata dalle forze liberali. Sarà testa a testa con Diritto e Giustizia, il partito di Kaczynski. Welfare generoso e irregimentazione di tv pubblica e magistratura: in breve, la storia di questo governo. Molti i manifesti della signora Adamowicz in città; molte le bandiere europee. Danzica è un bastione liberale, e i liberali pensano che il Paese debba diluirsi nell’Ue. I populisti sono per un’Europa minima, definita dal mercato unico e poche altre regole, e lavorano per un recupero di sovranità. Per Kaczynski la Polonia di oggi è ostaggio della dottrina liberale e dipende oltremodo dal capitale straniero. Un vincolo insano a suo avviso imposto dall’ala moderata di Solidarnosc, che gestì male la transizione del 1989, svendendo il Paese. L’ala moderata di Solidarnosc è quella di Lech Walesa, fondatore del sindacato-movimento che fece crollare il comunismo, dell’ex premier Donald Tusk e di Adamowicz. Tre uomini di Danzica. Anche Kaczynski militava in Solidarnosc, era consigliere di Walesa. Centrato l’obiettivo, la caduta del comunismo, le varie anime della rivoluzione entrarono in collisione. Ecco l’origine dell’odierna lotta tra populisti e liberali. I primi arrivano a sostenere che Wałesa e Tusk siano i liquidatori della Polonia; i secondi ritengono che Kaczynski la stia trascinando fuori. I toni resteranno a lungo infuocati, dato il ciclo elettorale: Europee domenica, Politiche in autunno, Presidenziali l’anno prossimo.

Il confronto tra gli eredi di Solidarnosc si misura bene, a Danzica. Il sindacato, che esiste ancora e qui ha la sede centrale, pende dalla parte di Kaczynski. “Ha fatto molte cose a livello sociale: assegni familiari, abbassamento dell’età pensionabile, farmaci gratuiti per gli anziani”, sottolinea il dirigente Bogdan Olszewski. E l’erosione di democrazia? Per Olszewski è allarmismo dei media, “l’80 per cento di quelli regionali, più alcune tv private nazionali”. Tra la sede del sindacato e il cancello dei cantieri navali, epicentro dei grandi scioperi anti-regime, ecco il Centro europeo Solidarnosc, il grande museo sulla lotta per la democrazia. Lo volle Adamowicz, ed è diretto da Basil Kerski, studioso di vedute liberali. Il governo ha tagliato il contributo del 30 per cento, e per Kerski le ragioni sono evidenti. “Avendo una visione positiva della transizione, siamo un partner impopolare”. Il buco di cassa è stato colmato con un crowdfunding. “Segno che tanti polacchi vogliono coltivare la memoria dell’89”.

I Vip pentiti del M5S per l’alleanza con Salvini vogliono il patto col Pd

Molti “pentiti”, tutti volti noti: l’esodo dei personaggi famosi dal Movimento 5 Stelle ha cause diverse, ma tutte collegate alla loro salita all’arrivo al governo e all’alleanza con la Lega di Matteo Salvini. I giornali hanno fatto a gara a riportare il pentimento degli ex simpatizzanti grillini famosi: se l’attore Michele Riondino biasima l’operato dei pentastellati perché “l’Ilva è ancora lì, e noi continuiamo a morire di acciaio”, la cantante Fiorella Mannoia sostiene di essere delusa perché “hanno aiutato i fascioleghisti a salire al governo”; Sabrina Ferilli ha invece detto addio al Movimento ritenendosi “offesa e delusa” da Virginia Raggi, dopo che la sindaca di Roma ha deciso di impedire le proiezioni dei ragazzi del Cinema America a Trastevere.

Insomma, se il sentimento di amarezza è diffuso, ognuno ritiene di avere le sue buone ragioni: lo storico ed editorialista di punta del Corsera Ernesto Galli della Loggia è tra i più lapidari: al Fatto spiega che l’esperienza del M5S al governo è un “fallimento” dovuto all’“assoluta impreparazione della sua classe dirigente e la mancanza di un’adeguata cultura per la maggior parte dei parlamentari”, da cui deriverebbe “la loro incapacità di orientarsi nel vasto mondo delle idee e dei fatti”. Con una postilla finale: “Non è che gli altri partiti siano meglio, intendiamoci…”.

Lo scrittore ambientalista Jacopo Fo, figlio del premio Nobel, più che deluso si ritiene invece “confuso”: “Non capisco molte delle cose che hanno fatto, come ad esempio il salvataggio a Salvini sul caso Diciotti”. Esempi virtuosi rimangono, come “il ministro della Salute Giulia Grillo che è riuscita a far risparmiare 2 miliardi di euro per la sanità, migliorando la somministrazione dei farmaci”, ma queste “punte di genialità” non bastano, e “nella sinistra, in generale, la situazione è altrettanto drammatica”. Per questo Fo non ripone le sue speranze nella politica istituzionale, quanto “nelle associazioni e nei gruppi che localmente riescono a realizzare cose straordinarie, senza curarsi delle bandiere”.

Tra i più ottimisti c’è il sociologo Domenico De Masi, tra i teorici del Reddito di cittadinanza più vicini al Movimento, che, al contrario di quanto sintetizzato dai giornali, al Fatto dice di “non sentirsi affatto deluso dai 5Stelle: “In un solo anno hanno fatto il decreto dignità, il reddito di cittadinanza e hanno proposto il progetto di legge per il salario minimo. Cose così di sinistra non si facevano da vent’anni”. Lo studioso ripone speranza nella creazione di un partito di sinistra forte e compatto, inesistente al momento ma realizzabile se “il Pd riuscisse a depurarsi dalle componenti renziane e calendiane, che sono notoriamente neoliberisti”, e parallelamente se il Movimento, composto da “una consistente fazione di persone che condividono le battaglie di sinistra”, si liberasse delle frange leghiste.

Anche perché “il Movimento è stata l’unica vera opposizione a Salvini, a livello parlamentare. Il Pd non è stato altrettanto efficace”. De Masi conclude con una critica alla categoria degli intellettuali italiani: “Sarebbe ora che scendessero in campo con delle idee politiche solide, e fresche. Prima di arrivare al cambiamento politico occorre un cambiamento culturale. La responsabilità è anche loro”.

Nardella desidera lo striscione d’altri

Lo striscione anti Salvini per Dario Nardella è diventato un piccolo boomerang elettorale. Il sindaco di Firenze durante la campagna ha usato la foto di uno dei messaggi comparsi a Firenze per contestare il ministro: “Portatela lunga la scala… sono al quinto piano” (riferimento ironico agli interventi dei vigili del fuoco per rimuovere le frasi di protesta indirizzate al leghista). Il problema è che l’autore di quello striscione non ha apprezzato particolarmente l’appropriazione “indebita” del primo cittadino fiorentino. E su Facebook ha voluto chiarire il suo orientamento: “Mi è appena giunta notizia che Nardella ha ingaggiato il mio striscione nella sua campagna elettorale. Non ho tempo adesso di farne e appenderne uno nuovo, mi affido a Photoshop per una piccola precisazione”. Et voilà, nella foto, accanto allo slogan antisalvini compare un altro striscione (virtuale): “Vota Bundu”. Ovvero Antonella Bundu, candidata sindaco della Sinistra. Allo scranno di Nardella.

A Polignano dal 3 luglio firme del Fatto e grandi autori

Il Festival del Libro Possibile di Polignano a mare (provincia di Bari) quest’anno compie 18 anni e decolla. Non solo per il tema (il 50ennale della conquista della luna) ma anche per il programma della manifestazione che si terrà dal 3 al 6 luglio. Alla presentazione, a Milano, venerdì c’erano con la direttrice artistica Rosella Santoro, scrittori del calibro di Maurizio De Giovanni e Richard Mason, l’autore inglese di “Anime alla deriva”. Oltre a Marco Tronchetti Provera, amministratore della Pirelli, che da due anni sostiene la crescita del Festival, divenuto una della maggiori manifestazioni culturali del sud. Il 3 luglio, dopo l’apertura in tema, affidata all’astronauta italiano Paolo Nespoli, si parte con Jonathan Lethem che racconterà “Il Detective Selvaggio”. Il 4 luglio tocca allo scrittore svedese Bjorn Larsson, con “La lettera di Gertrud” e gran finale il 6 luglio con Richard Mason che illustrerà anche la serie tv internazionale su Michelangelo a cui sta lavorando. Ci saranno le firme del Fatto: Antonio Padellaro presenterà il 5 luglio “Il gesto di Almirante e Berlinguer”. Marco Lillo, modera il 3 luglio il dibattito tra Salvatore Borsellino e il presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra per l’anteprima del libro di Paper First dedicato all’eredità morale di Paolo Borsellino. Marco Travaglio e Peter Gomez il 6 luglio chiuderanno la manifestazione. Tra gli ospiti Alessandro Di Battista che presenterà il suo nuovo libro “Politicamente scorretto” edito sempre da Paper First. Miguel Gotor presenterà il suo libro sui misteri del sequestro Moro assieme a Gian Carlo Caselli. Per la prima volta Sky Tg 24, diretto da Giuseppe De Bellis, seguirà il Festival. In cartellone serate con Roberto Saviano e Antonino Di Matteo. Dialoghi tra Enrico Mentana e Marco Tronchetti Provera e tra il presidente della Camera Roberto Fico e Bianca Berlinguer. E poi Gianrico Carofiglio, Brunello Cucinelli, Michele Ainis, Carlo Freccero, Carlo Cottarelli, Mimmo Lucano, Aboubakar Soumahoro e Maurizio Landini.