Tempeste, canne, carbonare, Meloni e leghisti senza glutine

In pieno silenzio elettorale Daniela Garnerò Santanchè pubblica su twitter una fotografia dal sapore agreste, mentre lavora la terra di un orticello. È un raffinatissimo stratagemma per dare la sua indicazione di voto senza violare le regole: “Questo fine settimana io coltivo meloni”. Il gioco di parole è assai sofisticato: Santanchè è candidata all’Europarlamento con Fratelli d’Italia, il partito di Giorgia Meloni, “M” maiuscola.

D’altro canto, la politica è genio. Come altro definire l’eurocandidata leghista Ilenia Rento che pubblica un santino elettorale con Salvini e una promessa: “Scateniamo la tempesta a Bruxelles”. Alle spalle dei due, la fotografia dell’alluvione che si è abbattuta su Belluno lo scorso novembre. Inutile dire che gli elettori veneti non l’avranno presa benissimo (e Rento è candidata nel Nord-est). Tra i fantasiosi leghisti in corsa per un seggio a Bruxelles c’è anche il giovane Matteo Gazzini che fa politica anche per dire “no!” al frumento e ai farinacei: il nostro è un candidato senza glutine. E poi c’è Dante Cattaneo, che sfida il ridicolo indossando il berretto e la corona d’alloro del sommo poeta Alighieri e verga anche lui parole indimenticabili: “Questa Europa è un inferno, facciamola diventare un Paradiso! #votaLega #scriviDante”.

Il voto di oggi nelle città, in Piemonte e per l’europarlamento ha mobilitato, letteralmente, un esercito di candidati. Il materiale bestiale di santini, manifesti e slogan elettorali è quasi illimitato. Maria Rollo (Sinistra Comune, Lecce) ha trasformato il suo materiale elettorale in una specie di confezione di cartine, con su scritto: “Io Rollo Maria”. Sottilissima. Antonio Lacarbonara (Ostuni, Pd) pubblica il piatto di pasta tipico della cucina romana – guanciale, non pancetta – e lo slogan “Con noi c’è più gusto”. C’è l’ineffabile trovata dei candidati Laquaglia e Scopece della Lega pugliese: “Prima gli Italiani di Foggia”. In fondo, un piccolo, prezioso manifesto del salvinismo. Ci sono candidati vestiti da Star Wars, altri da Superman, altri da Avengers, altri da Iena. C’è chi invita il suo elettorato di riferimento così: “Scrivi Mussolini” (nel senso di Caio Giulio Cesare, candidato di Fratelli d’Italia).

Se non altro siamo all’ultima fermata: tra poche ore sarà tutto finalmente finito.

I laburisti in Olanda, i Verdi in Irlanda: chi ha “già vinto”

Oggi si aprono i seggi oltreché in Italia anche in Austria, Belgio, Bulgaria, Cipro, Croazia, Danimarca, Estonia, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Lituania, Lussemburgo, Polonia, Portogallo, Romania, Slovenia, Spagna, Svezia e Ungheria. Altri sei Paesi dell’Unione invece hanno già votato nei giorni scorsi. Giovedì è toccato agli olandesi e al Regno Unito, venerdì all’Irlanda, ieri si sono chiuse le urne in Lettonia, Repubblica Ceca, Malta e Slovacchia. Per ora conosciamo solo gli exit poll, ovvero i sondaggi effettuati sugli elettori all’uscita dei seggi. Lo spoglio delle schede, infatti, non può iniziare prima della chiusura dei seggi in tutti gli Stati membri.

In Irlanda, dove si è votato l’altroieri, in testa ci sarebbe il partito europeista di centrodestra Finn Gael (Ppe) dell’attuale primo ministro Leo Varadkar. Bene anche il Fianna Fail (Alde) di Michael Martin che si è attestato attorno al 23%. Cala di 3 punti al 12% lo Sinn Fein, stabile intorno al 6% il Labour. Il vero boom l’avrebbero fatto i Verdi, che sarebbero saliti dall’1,6 al 9%.

La Gran Bretagna, che al netto della Brexit resta un membro a pieno titolo dell’Ue almeno fino al 31 ottobre, ha deciso di non pubblicare exit poll fino a stasera. In Olanda invece hanno trionfato i laburisti di Frans Timmermans, mentre la destra di Wilders, che la settimana scorsa era a Milano alla manifestazione dei sovranisti con Matteo Salvini, secondo i sondaggi non avrebbe conquistato nemmeno un seggio.

In totale il Parlamento europeo – che è stato eletto per la prima volta nel 1979 e sta per iniziare la sua nona legislatura – verrà eletto da circa 400 milioni di cittadini. Ogni Stato membro può eleggere fino a un massimo di 96 parlamentari europei e un minimo di sei. La Germania è l’unico Paese che ha diritto a eleggerne 96 perché è il più popoloso dell’Unione europea (circa 82 milioni di abitanti). In teoria, in questa legislatura dovevano essere eletti soltanto 705 deputati, ma la proroga concessa al Regno Unito dal Consiglio europeo ha fatto sì che anche oggi se ne sceglieranno 751 come alle elezioni del 2014.

“Questo voto non è un derby tra gli europeisti e i populisti”

Barbara Spinelli, qual è la posta in gioco delle elezioni europee di oggi e qual è la sua speranza?

La priorità è una riforma radicale dell’Unione, per far fronte a quella che non è più una crisi ma un fallimento generalizzato. Per questo considero del tutto fuorviante, e fittizia, la contrapposizione che si è creata tra cosiddetti europeisti e sovranisti-populisti. L’ascesa delle destre estreme non è la causa del tracollo dell’Unione: ne è il sintomo. L’Ue è senza politica seria da due legislature – ha fallito le politiche migratorie, sociali, ha fallito in politica estera allineandosi a Trump sul Venezuela e mostrandosi incapace di dialogare con la Russia – e quest’afasica inettitudine spiega il rigetto.

Abbiamo parlato molto di Europa in questi anni, ma alla fine c’è stata la solita campagna tutta nazionale.

Non solo in Italia. In molti Paesi quello di oggi è un referendum sui governanti di turno: in Italia si vota su Salvini e il governo, in Francia su Macron. La migrazione è però un tema di cui si è capita la natura europea.

Anche in Germania le elezioni rischiano di mettere fine alla stagione di Angela Merkel. La presa della Germania sull’Europa si allenterà?

Oggi è un po’ più debole economicamente. Ma la centralità tedesca non dipende soltanto da Angela Merkel, è strutturale, ai tempi di Kohl non era diversa.

In Parlamento finirà l’era della grande coalizione tra socialisti e popolari che ha dominato le ultime legislature. Cosa succederà?

Penso che socialisti e popolari si alleeranno ancor più con i liberali dell’Alde e questi saranno rafforzati dai parlamentari di Macron. Quindi non vedo la fine del blocco centrale e conservatore dello status quo che abbiamo conosciuto. La battaglia per avere un’Unione con parametri sociali vincolanti scritti nel trattato non l’abbiamo vinta finora e non la vinceremo nella prossima legislatura, con questa maggioranza. Anche Salvini, sui temi sociali, è neoliberista come il blocco che domina il Parlamento. Perché il migrante africano non diventi capro espiatorio occorre più welfare sociale per tutti.

Che figura ci vorrebbe alla guida della Commissione europea dopo Juncker, diventato il simbolo di tutto ciò che rende l’Ue poco popolare?

Qualcuno che rifiuti il dilemma europeisti-eurocritici, riconoscendo sinceramente che il problema non sono i populisti, ma i fallimenti dell’Unione: sulla Brexit, sulla Grecia, in politica estera. E sulla migrazione, dove Consiglio e Commissione si sono resi complici di pesanti violazioni dei diritti dei rifugiati e del diritto del mare. Hanno sulla coscienza migliaia di morti in mare e nei lager libici.

In che senso sulla Brexit?

Il negoziato è stato gestito bene dall’Ue. Parlo dell’evento Brexit: il referendum è stato cavalcato dall’Ukip, ma l’elettorato che ha scelto di lasciare l’Ue è anche quello degli emarginati, delle vittime dell’austerità. Basta vedere i film di Ken Loach per capirlo. Su questo, nessuna autocritica Ue.

Auspica un secondo referendum o una soluzione drastica?

Sono contraria a un’uscita senza accordo formale di recesso. Sarebbe un disastro perché lascerebbe senza tutela l’Irlanda del Nord e i cittadini europei – 3,5 milioni – che vivono in Gran Bretagna. L’accordo di recesso è un trattato con regole vincolanti: senza di esso rischia di ricominciare la guerra in Irlanda del Nord. Il secondo referendum sarebbe una soluzione. Il pericolo, però, è che i remainers lo perdano di nuovo, considerato il successo del partito Brexit.

Veniamo all’Italia. Con la Commissione che emergerà dopo le elezioni, per noi sarà più facile negoziare su deficit e bilancio?

No. L’Ue sarà retta da un’alleanza popolari-socialisti-liberali e quindi le accuse contro l’Italia di avere un debito eccessivo e di non rispettare i parametri continueranno. Nel Consiglio, dove siedono i governi, i Paesi nordici faranno blocco con Austria e Francia contro l’Italia, la useranno come capro espiatorio dei problemi dell’Unione. In più, faranno poco per superare in maniera seria le paure, gonfiate ma reali, che ci sono da noi sulle migrazioni.

Lega e M5S sono litigiosi ma in coalizione in Italia, mentre a Bruxelles sono e saranno su fronti parlamentari diversi. È un equilibrio sostenibile?

Il comportamento del M5S e della Lega nel Parlamento europeo continuerà a essere diverso. Oggi litigano in Italia, ma a Bruxelles divergono da sempre. C’è una certa sintonia sui temi dell’immigrazione, da quando Di Maio bollò purtroppo le Ong come “taxi del mare”, ma su temi essenziali come l’Europa sociale, l’evasione fiscale, la libertà del web e l’iniqua legge sul copyright, i trattati commerciali, il clima, i rapporti con il Venezuela, Cinque Stelle e Lega non hanno niente a che fare l’uno con l’altro. Sui costi dell’Ue, a cominciare dalla trasparenza sulle esorbitanti “spese generali” dei parlamentari Ue, la battaglia progressista è stata fatta dai Cinque Stelle e dal mio gruppo, la Sinistra europea. Non dalla Lega.

Cinque anni fa la novità era il leader greco Alexis Tsipras, a capo di una nuova sinistra. Oggi?

I Verdi sono in ascesa, soprattutto in Germania. Una parte dei socialisti, in Spagna e Portogallo ma certo non Italia col duo Zingaretti-Calenda, si è spostata a sinistra.

I ragazzi del Volt: giovani, carini e antisovranisti

Un pacco (confezionato) di tortillas, qualche cartoccio di patatine fritte, birre a volontà. Intorno ai tavolini di “The First” in Place Jourdan, ai piedi del quartiere europeo, spiccano tipo macchie viola le magliette dei militanti e candidati di Volt, movimento “paneuropeo” che per la prima volta si presenta alle elezioni. Applauso e ovazione quando arriva – a sorpresa – direttamente dall’Inghilterra, Andrea Venzon, uno dei tre fondatori (insieme a Colombe Cahen-Salvador e Damian Boeselager). È italiano, ma si è presentato lì, visto che nel nostro paese Volt (parola uguale in tutte le lingue, che sta per l’unità di misura del potenziale elettrico) le firme non è riuscito a raccoglierle. Ventotto anni, bocconiano, due anni come consulente alla Mckinsey, brillante, sicuro di sé, ma “fermamente” alla mano, Venzon non rigetta la definizione per lui e i suoi compagni di avventura di “giovani di successo che vogliono fare politica dal basso”. Sì, perché c’è il colore delle magliette che ricorda il Popolo viola che fu, il crowdfunding come forma di finanziamento e i meet-up come base per l’organizzazione, memori dei 5stelle delle origini. “Ma noi in politica portiamo la competenza”, spiega “la differenza”. Veronica Favalli, nata a Verona, italo-croata di origine, policy advisor a Bruxelles e a 32 anni già svariate esperienze nelle istituzioni europee. Si presenta in Belgio ed è il profilo-prototipo del movimento (che pure conta membri che vanno dai 16 ai 72 anni).

Internazionale, giovane, di successo o almeno in carriera. Per quelli di Volt, la “rivoluzione” (termine decisamente più vicino a generazioni precedenti) significa migliorare l’Europa. E dunque, renderla davvero federale, con un presidente eletto dai cittadini e un primo ministro dal Parlamento. Qualche idea, contenuta nella Dichiarazione di Amsterdam, il documento fondativo: snellire i processi decisionali (eliminando il potere di veto), creare l’Unione bancaria e un vero ministro delle Finanze. E poi reddito minimo e tassa per le multinazionali al 15%. Per quel che riguarda i migranti si parla di “gestire i flussi di rifugiati da paesi extra-Ue, istituendo un sistema europeo unificato”, mettendo “un meccanismo di risoluzione delle controversie contro gli Stati che rifiutino di adempiere alle proprie responsabilità”. Torna la parola “verde”, si pensa al voto elettronico e a delle politiche di genere.

Tutto molto equilibrato, molto razionale. “Non siamo né di destra, né di sinistra”, ci tiene a spiegare Veronica. Che poi chiarisce: “Ma siamo fermamente contro il sovranismo”. Abbastanza per scaldare gli animi? Fino a un certo punto. Volt si presenta in 7 paesi (Belgio, Olanda, Lussemburgo, Germania, Spagna, Svezia, Uk, Bulgaria), ma riuscirà ad eleggere (forse) un unico eurodeputato. Lo stesso Venzon o più probabilmente il tedesco Boeselager. Loro si dichiarano soddisfatti per essere riusciti a iniziare un’avventura. In Italia hanno rifiutato la corte del Pd e quella di + Europa, per evitare di snaturarsi.

E a Place Jourdain, in una serata che potrebbe davvero svolgersi in qualsiasi paese europeo, sia come clima che come atmosfera, è un brindisi dopo l’altro. Anima la situazione Marcela Valkova, la biondissima ceca che lavora per la Commissione e si presenta in Belgio. Mentre il compito di garantire patatine per tutti è di Christophe Calis, capolista in Belgio, che lavora per il Ministero delle Finanze. Giovani, carini e disoccupati, recitava un film degli anni 90. Un tormentone. Parafrasandolo potrebbe diventare “Giovani, carini e integrati”. Però, neanche Volt resiste alla coreografia tipica degli anni 2000: tutti pronti per il selfie di gruppo. L’Europa è una cosa seria, ma il pop non può mancare.

Il paradosso italiano a Bruxelles. Il Pd conterà più dei gialloverdi

La (relativa) tenuta dei socialisti e il conseguente peso del Pd, mentre si appresta a un risultato non certo brillante, sono tra gli elementi da “attenzionare” nella tornata elettorale che stasera si avvia alla conclusione. Il Pse è in crisi, ma l’emorragia dovrebbe essere contenuta: dai 192 eurodeputati della legislatura appena finita dovrebbe passare a 165 (compresi i laburisti inglesi) e dunque rischiare di arrivare a 145 a Brexit fatta. Il paradosso è che, più per demeriti altrui che per meriti propri, il Pse si troverà a pesare ancora molto, essendo il secondo gruppo a Strasburgo. Frans Timmermans ha concluso la sua campagna elettorale ieri in Austria col vento in poppa degli exit poll che vedono i socialisti primo partito in Olanda: non se lo aspettava nemmeno lui. Chi lo ha accompagnato nella corsa come Spitzenkandidat, cioè presidente della Commissione Ue, parla della trasformazione di un euroburocrate in un leader politico, che adesso può aspirare in un posto al sole a Bruxelles. Questo si vedrà, ma il Pse con ogni probabilità sarà nella maggioranza che guiderà l’Unione da domani.

Tra le conseguenze ce n’è una paradossale che riguarda anche l’Italia: il Pd, pur dimezzando i suoi voti rispetto alle scorse Europee, e arrivando probabilmente terzo in Italia stasera, peserà tra Bruxelles e Strasburgo più di Lega e Cinque Stelle.

Cinque anni fa, i democratici di Renzi toccarono il record del 40,8%. Oggi i sondaggi li danno poco sopra al 20%. Dunque, scenderanno da 31 eurodeputati a circa 16-18 (M5S dovrebbe averne circa 19-20 e la Lega 24). Ma i dem saranno comunque la prima o la seconda delegazione all’interno del secondo gruppo dell’Europarlamento: il primo posto se lo contendono con gli spagnoli di Pedro Sanchez.

Le previsioni della vigilia “vedono” un’alleanza delle forze europeiste: Ppe, Pse, Alde (i liberali) e Verdi. Così il Pd farà parte della maggioranza mentre le due forze di governo italiane no. Nella scorsa legislatura i dem avevano il presidente del gruppo (Gianni Pittella), un vicepresidente del Parlamento (David Sassoli) e due presidenti di commissione (Silvia Costa per la Cultura e Roberto Gualtieri per Economia e Bilancio). Dimezzerà le cariche, ma una vicepresidenza dovrebbe strapparla e Gualtieri, se sarà eletto, tenersi la poltrona.

Non solo. Il Pd potrà incidere persino sulla nomina dei commissari: il Regolamento prevede che il Consiglio europeo (i governi) proponga i nomi e che le Commissioni competenti degli eletti le ratifichino. Non a caso, i democratici già dicono che per il commissario italiano voteranno solo una figura “tecnica”, tipo il ministro Enzo Moavero Milanesi (nome che circola, ma non entusiasma Lega e 5 Stelle). Il paradosso si completa constatando che Matteo Salvini, pur avendo la prima delegazione italiana (e tra le maggiori in generale) ed essendo al governo a Roma, nella governance europea peserà poco o nulla: l’alleanza sovranista crescerà, ma non abbastanza.

Accanto ai numeri dell’Europarlamento pesano anche quelli del Consiglio europeo, vero dominus dell’Ue. Se il voto danese del 5 giugno confermerà i sondaggi, il Pse si troverà ad avere 7 rappresentanti in Consiglio europeo (più Alexis Tsipras, che sta nel gruppo più a sinistra, Gue); otto ne avranno i Liberali, nove il Ppe. Restano fuori Italia e Polonia. Al Consiglio di Sibiu, in Romania, Pedro Sanchez ha incontrato il portoghese Costa (socialista), l’olandese Rutte (liberale) e il belga Charles Michel per provare a stabilire le regole del gioco: cercare di spostare gli equilibri a sinistra, facendo sponda coi liberali, a danno anche del Ppe. Resta da vedere come si comporterà il governo italiano: ad esempio voterà in Consiglio contro le proposte della Commissione?

Matteo tace? Per lui parla la Rai

C’è il silenzio elettorale, d’accordo. E poi c’è la Rai. Salvini ieri ha usato il servizio pubblico per continuare a fare campagna elettorale malgrado i limiti imposti dalla legge. La viva voce del “Capitano” è andata in onda nell’edizione del TgR delle 12,25 su Rai3. Di fronte a un placido microfono, il ministro si è potuto vantare dell’assunzione di quasi 2000 persone nell’organico delle forze dell’ordine. La scorrettezza del Tg Rai – denunciata dal parlamentare dem Davide Faraone – è stata riconosciuta anche dal direttore della Tgr Rai Alessandro Casarin: “Chiedo scusa a tutti di quanto accaduto. Ho subito chiesto di appurare la catena di responsabilità che ha causato questo incidente”. Salvini intanto parla attraverso la Rai anche sui suoi profili social. Ieri il capo della Lega ha pubblicato un servizio del (solito) Tg2 della scorsa settimana sui migranti in Svezia. Un’inchiesta girata a Stoccolma, dagli spunti quasi drammatici. “Un Paese in origine accogliente ha dovuto fare i conti con un’immigrazione incontrollata… Un modello che ha fallito… Alcune zone sono totalmente fuori controllo… la polizia non entra… sono oltre 60 i quartieri come questo, soprannominato ‘Mogadiscio’ per l’alta presenza di somali, dove vige la sharia, la legge islamica”. Parole del Tg2 rilanciate ieri dal Capitano al grido di “Svezia invasa, stop Eurabia!”.

Salvini viola il silenzio elettorale, Di Maio quasi

Matteo Salvini viola il silenzio elettorale, Luigi Di Maio quasi. I due vicepremier e leader della maggioranza gialloverde passano così la vigilia delle elezioni europee. Con il capo della Lega che nel primo pomeriggio twitta: “Domani dalle 7 alle 23 scriviamo insieme il Futuro. Domenica voto Lega, stavolta voto, stavolta voto Lega”. Le opposizioni non la prendono bene. E tra i tanti batte subito un colpo Matteo Renzi: “Il ministro dell’Interno dovrebbe dare l’esempio rispettando il silenzio elettorale che invece sta violando. Non utilizzo il suo metodo facendo propaganda, gli ricordo solo le figuracce che l’Italia ha fatto per colpa di parlamentari assenteisti come lui”. E allega un video in cui il socialista francese Marc Tarabella dà all’ex eurodeputato del “fannullone”. Invece Di Maio presenzia al varo di una nave della Fincantieri e poi pranza in una pizzeria di Sorrento, vicino Napoli, assieme alla fidanzata Virginia Saba e alcuni amici. E visto che c’è pubblica una foto su Instagram in cui la ragazza lo bacia, con annessa esortazione: “Questa giornata l’abbiamo passata insieme, ma tra poco ci separiamo. Stiamo tornando entrambi a casa per fare il nostro dovere: andare a votare. Fatelo anche voi”.

Trivelle, la Lega ci riprova con il segnale ai petrolieri

La Lega riprova a sbloccare i permessi per la ricerca e la prospezione di petrolio e gas attraverso un emendamento al decreto legge Crescita, ma la manovra fallisce. Resta la prova che il compromesso faticosamente raggiunto con il Movimento 5 Stelle a gennaio 2019, con il via libera all’emendamento al decreto Semplificazioni (anche grazie al voto della stessa Lega), in realtà al Carroccio non è mai andato giù. Quell’accordo prevede uno stop alle ricerche in mare per 18 mesi, il tempo necessario a realizzare il “Piano per la transizione energetica sostenibile delle aree idonee (Pitesai)” che dovrebbe indicare dove è possibile ottenere i permessi per le ricerche, ma anche l’aumento di 25 volte dei canoni annuali di coltivazione e stoccaggio per i petrolieri. Quattro mesi fa c’è voluto l’intervento del ministro dell’Ambiente Sergio Costa per sbloccare lo stallo e a far sì che i pentastellati portassero a casa la moratoria tanto cara al vicepremier Luigi Di Maio.

L’intesa aveva comunque lasciato irrisolti diversi problemi, tra permessi da sospendere, eventuali risarcimenti e concessioni salve. Salvini, non trattenendo il disappunto, l’aveva salutata in modo sprezzante: “Adesso incominceremo a imporre un po’ di sì, garantito”. Ed ecco che, a pochi giorni dalle elezioni europee, dal cui esito dipende anche il futuro energetico del continente, le trivelle tornano a essere terreno di scontro, l’ennesimo, tra Lega e M5S.

Perché il Carroccio ha tentato un colpo di mano con un emendamento al decreto Crescita firmato da Laura Cavandoli e depositato nelle Commissioni riunite Bilancio e Finanze. D’altro canto lo aveva preannunciato, a marzo scorso, il sottosegretario leghista alla presidenza del Consiglio Giancarlo Giorgetti che all’Offshore Mediterranean Conference & Exhibition di Ravenna aveva garantito l’impegno per sbloccare le estrazioni di gas nel mare Adriatico. “Serve un approccio di buon senso e di equilibrio – aveva detto – in un settore che fa riferimento alla sovranità e allo sviluppo di un Paese”. Di fatto, però, l’intento non si è concretizzato, almeno per il momento. Il testo della Lega è stato dichiarato inammissibile per estraneità della materia. Ma cosa prevedeva in concreto?

Se l’accordo di gennaio blocca tutti i permessi di ricerca e prospezione (sia le istanze sia i titoli già ottenuti) in attesa dell’adozione del Piano delle aree, l’emendamento della Lega avrebbe invece consentito alle compagnie di continuare ad operare fino a che non fosse stato pronto il Pitesai. Il Carroccio ha proposto di modificare la sospensione sui permessi già ottenuti (non su quelli pendenti) e bloccati dalla moratoria. In Italia sono 78: 46 permessi di ricerca su terraferma, 6 in Sicilia, 26 in mare. Non solo. Alla data di adozione del Pitesai, chiedeva la Lega, le concessioni di coltivazione già ottenute alla data di conversione del decreto Crescita (anche in regime di proroga e anche nelle aree in cui le attività di coltivazione risultino incompatibili con quanto previsto dal piano), avrebbero mantenuto la loro efficacia sino alla scadenza, pur non essendo ammesse nuove istanze di proroga. La proposta della Lega, infine, avrebbe rinviato l’aumento dei canoni dal 1 giugno 2019 al 1 dicembre 2020.

“Al momento queste proposte non sono passate, ma è questione di tempo e stupisce che le compagnie petrolifere restino a guardare” spiega a Enzo Di Salvatore, costituzionalista del comitato promotore del referendum No Triv. Una risposta è da ricercare nel fatto che il Ministero dello Sviluppo Economico non ha adottato un provvedimento amministrativo per la sospensione dei permessi. Nei mesi scorsi, proprio i No Triv hanno posto il problema dell’effettiva attuazione della moratoria senza tale provvedimento, temendo che si offrisse alle compagnie la possibilità di continuare a fare ricerca. In una nota diffusa ad aprile, il Mise ha precisato che “l’articolo 11-ter del decreto Semplificazioni dispone direttamente la sospensione” senza demandare a successivi atti amministrativi l’attuazione del dettato normativo. Si pone, però, una questione tecnica. “Le compagnie che volessero ricorrere al Tar – commenta Di Salvatore – non possono farlo senza un atto amministrativo da impugnare”. Sulla questione si è espressa anche la deputata di Leu, Rossella Muroni, presentando un’interrogazione a Mise e Ministero dell’Ambiente.

Resta il fatto che all’interno della maggioranza si sta consumando l’ennesimo scontro sul fronte delle trivelle. Non è dato sapere cosa accadrà fino all’11 agosto 2020, data ultima per l’approvazione del Pitesai. La dichiarazione di inammissibilità del testo è una vittoria per i pentastellati che, per ora, sono riusciti a mantenere la moratoria. Eppure la presentazione di un emendamento per smantellare il cuore dell’accordo preso a gennaio 2019 è segno di un braccio di ferro tuttora in corso e dagli esiti imprevedibili.

Alle urne! Ecco come si vota e cosa fa l’Europarlamento

Già da giovedì l’Unione europa, 28 Stati membri inclusa la Gran Bretagna che è in uscita, ha avviato le elezioni interne per rinnovare il Parlamento europeo che conta 750 membri e resta in carica per cinque anni. Oggi tocca all’Italia, a cui spettano 73 seggi, che diventano 76 se Londra conclude in ottobre il suo travagliato processo di addio all’Unione. Le urne sono aperte dalle 7 alle 23. Il sistema elettorale in Italia fa riferimento a una legge del 1979, leggermente modificata negli anni: è un sistema di tipo proporzionale in un territorio diviso in cinque circoscrizioni con soglia di sbarramento al 4 per cento e la possibilità di esprimere fino a 3 preferenze (alternate per genere).

I partiti italiani, assieme agli altri partiti europei, si riconoscono in gruppi comuni del Parlamento europeo, la maggioranza gestisce i lavori dell’Assemblea e indica il presidente. Nell’ultima legislatura c’è stata una staffetta tra socialisti (di cui fa parte il Pd) e popolari (di cui fa parte Forza Italia). Il Parlamento esercita una funzione legislativa solo assieme al Consiglio dell’Unione europea, una sorta di Consiglio dei ministri extra-large dell’Ue in cui siedono i ministri dei singoli Stati. Il Parlamento, tranne alcuni casi stabiliti dai Trattati, non ha il potere di iniziativa legislativa, detenuta invece dalla Commissione europea che svolge anche il ruolo di esecutivo dell’Unione. Dopo il Trattato di Lisbona del 2009, su questa parte molto contestato, le coalizioni europee possono indicare un candidato a presidente della Commissione – oggi l’incarico è di Jean-Claude Juncker – che viene espresso dal gruppo più numeroso del Parlamento europeo o da un’alleanza che lo rappresenti. Il presidente della Commissione europea è, a tutti gli effetti, il capo del governo europeo, organizzato in 28 commissioni.

Fino alla metà degli anni Novanta, mentre l’Unione si gonfiava sempre più, la partecipazione al voto è stata sempre oltre il 50%, per poi calare fino al 42% del 2014, la percentuale più bassa di sempre. Il partito dell’astensione è stabilmente il primo dell’Ue e questa tornata di voto, in tempo di Brexit, è vissuta anche come un’occasione per ripristinare un sentimento di adesione all’Unione.

Oggi in Italia si vota, inoltre, per la Regione Piemonte e in 26 capoluoghi di provincia. Sergio Chiamparino, l’ex sindaco di Torino, cerca il secondo mandato nell’unica regione del Nord non ancora governata dal centrodestra e deve confrontarsi con Alberto Cirio di Forza Italia che corre col sostegno della Lega di Salvini e dei Fratelli d’Italia di Meloni. I tre leader del centrodestra, tra cui Silvio Berlusconi che si misura in una competizione elettorale dopo l’incandidabilità per la condanna del 2013, sono tutti capilista alle Europee e sperano di condividere il consenso con Cirio. Il M5S, invece, si presenta col “militante” Giorgio Bertola.

La capitale del renzismo, Firenze, e Bari sono le città più importanti chiamate a una verifica della presenza del centrosinistra e del Pd di Zingaretti nelle amministrazioni locali: l’incubo del sindaco uscente della prima, Dario Nardella, è il ballottaggio, mentre Antonio Decaro dovrà vedersela col centrodestra compatto dietro a Pasquale Di Rella. Sarà molto interessante anche il risultato negli ex feudi di sinistra di Emilia Romagna e Toscana: tra Reggio Emilia, Modena, Ferrara e Forlì serpeggia la grande paura di subire una o più sconfitte dal centrodestra trascinato da una Lega che ormai da tempo ha superato i confini del Po (e in qualche caso ci prova in solitaria anche al Sud, come ad Avellino). I 5 Stelle ci riprovano a Livorno: Filippo Nogarin s’è candidato per l’Europa.

Quanto distacco mi dai? Le tre strade gialloverdi

Rissaioli, fino all’ultimo istante elettorale. Vogliosi di regolare i conti un soffio dopo il voto di oggi. Un desiderio che trabocca nelle dichiarazioni finalei, ufficiali e ufficiose, di Lega e M5S. Con il numero due del Carroccio Giancarlo Giorgetti, nell’ultima settimana loquace come non era mai stato, che ieri lo ha fatto trapelare dal Corriere della Sera: “Il contratto di governo andrà riscritto in base ai voti alle Europee”. Una pistola (politica) messa lì, sul tavolo. E non a caso alcuni 5Stelle di peso sibilano tra i denti: “Se Giorgetti ha tanta voglia di cambiare le cose, facesse lui il ministro dell’Economia”. Ovvero, bevesse il calice che non ha voluto sorbire nei giorni a ridosso del 4 marzo. Ma i veleni dovranno fare i conti con i numeri, quelli delle urne.

Prima ipotesi: Matteo Salvini dilaga

Il primo scenario è quello che raccontavano i sondaggi fino a un mese fa, con una Lega fortissima, ben sopra la soglia psicologica del 30 per cento. C’è chi l’aveva data addirittura al 37 per cento (Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera, il 20 aprile). E se davvero Matteo Salvini si arrampicasse fin lassù, o comunque nei dintorni del 35 per cento, la tentazione di capitalizzare e andare a urne anticipate sarebbe fortissima, per l’ala dei veterani (i veneti, capeggiati da Luca Zaia, ma in fondo pure lo stesso Giorgetti) prima ancora che per il capo. Basterebbe unirsi a una Giorgia Meloni solida, al 4-5 per cento. E magari a quel che resta di Forza Italia, anche se il problema non da poco resta Silvio Berlusconi, perché nella Lega sono convinti che tenerlo in coalizione toglierebbe voti anziché aggiungerne. Però per i 5Stelle sarebbero comunque guai, perché una distanza sopra i 6-7 punti con i coinquilini di governo sarebbe una disfatta. Tale da permettere alla Lega di imporre i propri temi in agenda, dalle autonomie alla flat tax. Fino a minacciare per davvero la riscrittura del contratto. Un pericolo per il M5S, visto che dentro il nuovo accordo la Lega vorrebbe infilare l’abolizione o la profonda revisione dell’abuso di ufficio e la separazione delle carriere per i magistrati. Mentre il Tav è già un maledetto nodo così com’è.

Secondo scenario: Lega sotto il 30, bene il M5S

L’obiettivo non dichiarato ma notorio di Di Maio è il 25 per cento, la soglia di sicurezza per stare sopra il Pd e per non restare chilometri dietro il Carroccio. E raggiungerlo sarebbe già salvezza, a meno che Salvini non prenda il già citato 35%. Ergo, la vittoria alla lotteria delle urne per il M5S sarebbe l’inverso, il Movimento molto sopra il 20 e la Lega molto sotto il 30, al 28 o giù di lì. L’ideale per frenare il Salvini che non vede l’ora di dare le carte. Anche perché, come ha rimarcato non a caso Di Maio anche nel comizio conclusivo a Roma venerdì, “la maggioranza in Parlamento e in Consiglio dei ministri ce l’abbiamo noi 5Stelle”. Quindi con un quasi pareggio nelle urne il Movimento potrebbe fare muro ai totem leghisti, dalle autonomie alla flat tax (già nell’attuale contratto). E per Salvini sarebbe quanto mai arduo reagire facendo saltare il banco.

Terzo scenario: catastrofe e sorpasso Pd

È quello che il neo segretario del Pd Nicola Zingaretti non oserebbe mai chiedere. Ossia la Lega ampiamente sotto il 30 e i dem sopra il Movimento, anche di un solo voto. Abbastanza per far finire sulla graticola Di Maio, che ha gestito la corsa verso le urne senza delegare nulla a nessuno. Con cinque capolista esterne calate dall’alto, per l’ira degli europarlamentari uscenti, e una campagna tutta incentrata sulla sua figura, quella del leader. Per questo, un terzo posto sarebbe una catastrofe per Di Maio. E il primo dazio da pagare sarebbe quello di dover delegare una rilevante fetta del suo potere, quello vero. Nella speranza di non farsi disarcionare dal ruolo di capo politico, blindato per Statuto: ma non si sa mai. Perché Alessandro Di Battista è riapparso con tanta voglia di tornare in gioco. E il premier Giuseppe Conte a molti piacerebbe come alternativa. E comunque l’unica certezza sarebbe un grave rischio per il governo, con un leader a pezzi e un altro, Salvini, sotto le aspettative. I due vicepremier, magari troppo deboli per rompere. O all’opposto, per sopravvivere.