Le corna della sinistra

Per dire come siamo ridotti, sui social e dunque sui giornaloni impazza un appassionante dibattito sul seguente tema: la sinistra (con la s minuscola) deve o no perdonare i compagni che avevano preferito i 5Stelle al Pd e oggi voteranno La Sinistra (con la L e la S maiuscola, che purtroppo non raggiungerà il quorum del 4%)? Non sapendo chi detenga le chiavi della sinistra con la s minuscola, si è deciso di affidarle a due registi, Francesca Archibugi e Paolo Virzì. La Archibugi è per “spalancare le braccia a tutti quelli che si erano schierati coi 5Stelle” e ora tornano all’ovile – Mannoia, Marescotti, De Masi, Giannuli & C. – perché, “come per le corna, la colpa non è solo di chi le mette”. Cioè bisogna capire gli elettori di sinistra che nel 2016, tra Fassino e la Appendino a Torino scelsero quella più di sinistra, cioè la seconda; tra Giachetti e la Raggi a Roma scelsero quella più di sinistra, cioè la seconda; e nel 2018, fra il partito renziano del Jobs Act e della Confindustria e quello grillino del reddito di cittadinanza e della lotta al precariato, scelsero quello più di sinistra, cioè il secondo.

Virzì invece non transige, vuole prima le scuse dai compagni che, incuranti dei suoi moniti, hanno gravemente peccato: “Mi davano della Cassandra quando li mettevo in guardia: i 5Stelle sono fascisti! E purtroppo ho avuto ragione: sono fascisti per davvero! Ora abbiate il coraggio di dire che avevate voglia di fascismo, degli inni, delle marcette e delle canzonette”. E chissà mai quando e dove Virzì – un fuoriclasse del cinema, uno dei nostri migliori registi – ha visto Di Maio spezzare le reni alla Grecia (anche volendo, ci aveva già pensato la mitica Europa), Di Battista intonare inni coloniali, Conte marciare al passo dell’oca in orbace, la Taverna arruolare le massaie rurali, Bonafede sfilare in camicia nera, Toninelli saltare nel cerchio di fuoco, Fico calcarsi il fez e salutare romanamente, la Appendino erudire le figlie della Lupa. La Raggi, in effetti, si è circondata di fascisti: quelli che volevano linciarla a Casal Bruciato perché difendeva, sola rappresentante delle istituzioni e della politica, una famiglia rom e il suo diritto di abitare in una casa popolare regolarmente ottenuta. Della sinistra ufficiale, quel giorno in quella periferia, non c’era traccia: Casal Bruciato è troppo distante dai Parioli. Infatti la Mannoia ricorda agli smemorati che le scuse toccano a “una sinistra che ha indotto tanti come me, anche sbagliando, a dirottare la speranza da un’altra parte”. Idem Marescotti, De Masi e Giannuli, delusi dal patto M5S-Lega, ma proprio per questo sostenitori dell’“unica alternativa”.

E cioè “un’alleanza tra M5S, Pd e sinistra”. Che poi è quel che vanno ripetendo – voces clamantes in deserto – Cacciari, Monaco, Bersani e anche il Fatto. Un’alternativa che, se Renzi e i suoi tremebondi oppositori interni non l’avessero sabotata un anno fa, sarebbe già realtà e ci avrebbe risparmiato dodici mesi di Salvini ministro dell’Interno. Da allora molta acqua è passata sotto i ponti, inquinata da nuovi veleni reciproci. Dunque, siccome l’orizzonte giallo-verde è di pochi mesi, un anno al massimo, chi davvero non vuole Salvini (non perché sia Mussolini, ma perché è Salvini) dovrebbe lasciare che si sgonfi un altro po’ al governo e intanto costruire quella benedetta alternativa. Che può piacere o non piacere, ma è l’unica in grado di contrastare quel governo di centrodestra che, se oggi si votasse per le Politiche e non per le Europee, avrebbe la maggioranza assoluta del Parlamento e ci regalerebbe Salvini a Palazzo Chigi e B. alla Giustizia, senza più nessuno a frenare l’energumeno (anzi gli energumeni) dall’interno, come spesso fanno i 5Stelle. Cioè farebbe rimpiangere il governo Conte anche a chi lo considera il peggio del peggio (“Fischiate il baritono? Sentirete il tenore”).

Come si costruisce l’alternativa? Anzitutto evitando la ridicola pretesa di scegliere il leader altrui: non ha senso chi, a sinistra, dice “mai con Di Maio, sì a Fico” e chi, nei 5Stelle, dice “mai col Pd di Zingaretti”. Ogni partito si sceglie il suo leader. E le convergenze si misurano sulle cose da fare, non sulle simpatie personali (Virzì forse non lo sa, ma Zingaretti governa il Lazio grazie alla non-sfiducia programmatica del M5S; e in Piemonte Chiamparino sogna il voto disgiunto dei grillini per “battere la destra”, con cui domani tornerà a braccetto per dilapidare miliardi e avvelenare la Val Susa col Tav). Ora, i 5Stelle hanno mille difetti, ma quel che vogliono è chiaro: in parte l’hanno fatto (coi voti della Lega), in parte intendono realizzarlo. Dal salario minimo al blocco del Tav, dal carcere agli evasori a un piano di investimenti pubblici in opere utili. Tutta roba “di sinistra”, che ben difficilmente riusciranno ad approvare, specie se stasera usciranno troppo deboli e la Lega troppo forte. Ma il Pd che vuole fare? Stasera canterà vittoria per qualche punticino che Zingaretti prenderà in più di Renzi, non tanto perché è Zingaretti, quanto perché non è Renzi. E perché molta gente ha così paura di Salvini da pensare di fermarlo col Pd. Ma, su programmi, strategie e alleanze è ancora nebbia fitta, come nello sketch di Crozza su Zinga, Calenda & Pisapia. Da domani, tutti quelli che vogliono davvero fermare Salvini e fare subito qualcosa di buono per l’Italia subito, dovranno dimostrarlo. In Parlamento. È lì che andranno discusse e approvate le riforme giuste (e bocciate quelle sbagliate), a prescindere dal derby maggioranza-opposizione. Come per la violenza sessuale e il revenge porn. Finita questa lunga, orrenda campagna elettorale, il salario minimo, il carcere agli evasori, il no alle opere inutili e il sì a quelle utili non saranno più un favore ai 5Stelle o al Pd, ma agli italiani.

60 milioni senza bando in “ricerca”

Nicola Zingaretti, segretario nazionale del Pd, e i vertici dei due più grandi enti pubblici di ricerca nazionali, si sono accordati per far arrivare milioni di euro di fondi per la ricerca pubblica a un’azienda farmaceutica privata. Ai circa 12 milioni ottenuti dall’azienda grazie a due accordi tra Presidenza della Regione Lazio e i vertici del Consiglio Nazionale della Ricerca (Cnr) nel 2014 e nel 2016 senza bando pubblico, si aggiungono almeno altri 40 milioni, sempre presi dai fondi per la ricerca pubblica, concessi dal Ministero della Ricerca (Miur) e dal Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica (Cipe) ai tempi di Luca Lotti, di nuovo senza bando. Dal 2011 a oggi l’azienda farmaceutica Irbm Science Park spa di Pomezia ha così totalizzato circa 50 milioni di euro di fondi pubblici.

Un euro per il laboratorio da 100 milioni di euro

Nel 2009 un laboratorio di eccellenza a Pomezia della multinazionale del farmaco Merck, con un centinaio di bravi ricercatori, rischia di essere smantellato dopo la fusione Merck-Schering Plough. La Merck offriva ai ricercatori una buonuscita e voleva regalare la struttura che ha contribuito allo sviluppo di farmaci innovativi come Isentress, contro l’Hiv. I ricercatori spingono perché a rilevare il tutto siano la Regione Lazio o lo Stato. Ma il governatore Piero Marrazzo si era appena dimesso e così pure il ministro competente, Claudio Scajola. E non tutti gradiscono l’ipotesi che avrebbe fatto saltare i progetti per la costruzione del Tecnopolo Tiburtino, un doppione se il centro Merck fosse finito in mano pubblica. Qui entra in gioco Pietro Di Lorenzo che fino al 2006 produce fiction per la Rai con un fatturato di 18 milioni. Interrompe i rapporti con la Rai e denuncia alla magistratura la richiesta di mazzette da parte di capi struttura. Lui non paga, racconta, e smette di lavorare. La Procura di Roma apre un’inchiesta e poi archivia. Nel vuoto della politica, Di Lorenzo si accorda con Merck Italia, la società che si occupa della parte amministrativa per la quale aveva lavorato come consulente di comunicazione, e rileva l’intera struttura, “dal valore di 100 milioni di dollari” (dice lui stesso) per il prezzo simbolico di un euro.

Nel 2010 Di Lorenzo racconta di essere stato contattato dal sottosegretario all’Istruzione Guido Viceconte (Forza Italia)per conto del ministro Mariastella Gelmini, e da Luciano Maiani, allora direttore Cnr, per costituire un consorzio pubblico privato. La Merck, infatti, a Pomezia lascia anche la collezione dei composti chimici, una sorta di catalogo di 40 mila principi attivi raccolti in anni di ricerca industriale che possono essere usati per scandagliare principi attivi da testare per scoprire nuovi farmaci. I ricercatori di Irbm possono così continuare una proficua attività di screening, per conto di aziende o enti pubblici, dei principi attivi di altre aziende.

Il consorzio che serve da schermo

Di Lorenzo costituisce la società Irbm e due mesi dopo, il 7 luglio 2010, con il Cnr fonda il Consorzio Nazionale dei Composti Chimici e Centro Screening (Cnccs) per ampliare la banca dati di composti chimici e “diventare un punto di riferimento a livello nazionale ed europeo per l’identificazione di nuovi principi attivi per nuovi farmaci”. Al consorzio, pochi mesi dopo, si unisce l’Istituto Superiore di Sanità, l’organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale. Il 20% delle quote del consorzio è del Cnr, il 10% dell’Iss, il 70% della Irbm di Di Lorenzo. Sugli Annali dell’Istituto Superiore di Sanita si parla di una “sinergia mai vista prima tra gli enti di ricerca pubblici e privati,” scrivono scienziati di fama, tra cui Giovanni Rezza, direttore del Dipartimento malattie infettive dell’Iss, ed Enrico Garaci, allora presidente dell’Iss. Rezza era però anche membro del cda del consorzio Cnccs. Garaci era ed è tuttora, il presidente. Anche il successore di Garaci ai vertici dell’Iss, Antonio Oleari, ne è stato membro dal 2013 al 2015, durante il suo mandato come presidente dell’Iss. Gualtiero Ricciardi, tuttora vicepresidente del consorzio, ha mantenuto la carica durante il suo mandato al vertice dell’Iss – come Oleari – sebbene lo statuto lo vieti. Ai componenti del cda spettano 30mila euro annui. Anche il direttore del Cnr Massimo Inguscio ne ha fatto parte per un breve periodo, nel 2016. Ma ha rinunciato quando gli è stata fatta notare l’incompatibilità dei due ruoli.

Della Irbm Di Lorenzo è l’amministratore unico, nel cda ci sono anche suo figlio, sua figlia e il marito. Ci passano, da quel Cda, vari ricercatori Cnr, e una consulente della British American Tobacco, una dipendente della Ldm, la società di produzione televisiva di Di Lorenzo.

Dal 2010, il Miur vincola 6 milioni l’anno al consorzio, presi dal Finanziamento ordinario (Foe) destinato al Cnr, per un totale di 44 milioni. Il 90% viene assorbito da Irbm. Tolti al Cnr che già aveva subito forti tagli. La durata del consorzio tra Cnr, Iss e Irbm di Di Lorenzo, approvata dal Miur nel 2010, è di 30 anni. Il Miur non ha mai accennato a quanto ancora finanzierà Cnccs sottraendo fondi al Cnr.

E’ solo l’inizio di un flusso crescente di denaro pubblico che arriva dritto dritto alle casse di Irbm spa. Il 9 giugno 2014, l’allora presidente del Cnr Luigi Nicolais e Zingaretti firmano il protocollo d’intesa per avviare un programma di ricerca nel territorio del Lazio nell’ambito della biochimica: “Sviluppo di Piattaforme scientifiche e tecnologiche e di librerie molecolari ad alto contenuto innovativo applicate a malattie rare e trascurate”. Il 10 luglio 2014 Zingaretti nomina una cabina di regia di tre esperti per “individuare i progetti che saranno oggetto di specifica convenzione operativa”. Per assegnare fondi pubblici da milioni di euro di solito ci sono bandi pubblici e selezionatori indipendenti. Non in questo caso. Con un decreto del 10 luglio 2014, la Regione nomina Giuseppe Martini, ex direttore del dipartimento di Scienze della Vita del Cnr e nel Cda del consorzio Cnccs dal 2010 al 2012, Paolo Occhialini, esperto di biosistemi del Cnr e responsabile per il biotech della società della Regione Lazio la Filas spa. Il Cnr indica Michele Saviano, direttore del centro Cnr di cristallografia.

Se c’è il Cnr, la gara non si fa mai

Con un determina dell’11 agosto 2014, la Regione approva un progetto presentato dallo stesso Cnr, tramite il presidente Nicolais: è l’unico pervenuto e viene finanziato dalla Regione con 10 milioni di euro. Lo staff di Zingaretti spiega che un bando pubblico non serviva: basta il protocollo di Intesa col Cnr. Leggendo il progetto, sebbene presentato come di proprietà unicamente del Cnr, si evince che il grosso dei fondi sarà dato in gestione al consorzio Cnccs. Non è specificato chi saranno i coordinatori di ogni progetto, come sono stati scelti, chi ci lavorerà (i ricercatori Cnr, Iss o di Irbm?), né come verranno redistribuiti i soldi tra i tre soci del consorzio. Nel bilancio 2015 del Cnccs, si legge che il valore della produzione passa da 8 milioni a fine 2014 a 13,5 a fine 2015 “grazie alla collaborazione con la Regione Lazio”. Ma senza un accordo chiaro a monte, un’azienda privata può beneficiare di tanti milioni che in teoria vengono richiesti da un ente pubblico (il Cnr) e assegnati da un altro ente pubblico (la Regione)? Non sembra un problema per la Regione Lazio di Zingaretti: nella determina di approvazione di agosto si legge che il progetto è stato inviato dal Cnr soltanto il 2 luglio, quando la cabina di regia che doveva esaminarlo non era ancora stata neppure nominata.

Che la Cabina di Regia sia solo forma senza sostanza, lo conferma Di Lorenzo in un documento protocollato dal Cnr, dove dice che il progetto è in realtà stato redatto dal Consorzio Cnccs e direttamente presentato alle istituzioni regionali. Nel 2016, con Inguscio (da poco nominato alla presidenza del Cnr) e Zingaretti si replica lo stesso schema. Cnccs scrive il progetto, Inguscio lo propone come se fosse del Cnr, Zingaretti lo approva e lo finanzia.

La zanzara Zika, dal Brasile a Pomezia

Cnr e Regione firmano un nuovo protocollo d’intesa il 10 ottobre 2016 “per progetti, programmi di ricerca, sviluppo e innovazione finalizzati ai bisogni economici e sociali della Regione”. Questa volta per la ricerca sui vaccini contro il pericoloso virus Zika trasmesso da una zanzara che vive solo nei Paesi tropicali. L’anno prima era scoppiata un’emergenza sanitaria. Ma in Brasile, non nel Lazio.

Di nuovo, il protocollo non passa dal cda Cnr, come invece richiederebbe lo statuto. Inguscio lo stipula direttamente con la Regione. Tra il 3 e il 10 novembre, viene istituita la Cabina di Regia che ha “il compito di individuare i progetti”. Di chi? Non si sa, visto che non c’è un bando pubblico. La Regione nomina nella cabina di regia Renata Sangiorgi, dirigente di Area di Ricerca, e ancora una volta Giuseppe Martini, ex consigliere nel consorzio Cnccs, lo stesso consorzio che poi ottiene i finanziamenti dalla Regione. Il Cnr non propone un suo ricercatore per valutare i progetti, ma uno dell’Istituto Superiore di Sanità, l’immunologo Giovanni Rezza, direttore dal 1991 del Dipartimento di malattie infettive, e anche lui ex consigliere del consorzio Cnccs. Inguscio informa il Cnr dell’accordo con la Regione solo il 24 novembre, 15 giorni dopo aver inviato il progetto alla Regione. Il coordinatore scientifico del progetto è Garaci. Quando il progetto arriva in Regione,la cabina di regia non si è ancora neppure insediata. Anche questa volta.

Il progetto presentato dal Cnr è stato redatto, in realtà, dal consorzio Cnccs, o forse addirittura da Irbm spa. Lo spiega Di Lorenzo il 24 gennaio 2017 in un incontro col Cda del Cnr e gli esperti della cabina di regia. Secondo chi era presente, Di Lorenzo dichiara di aver preso già da tempo accordi con la Regione per l’approvazione del progetto, ben prima del Cnr. Non capisce le osservazioni mosse da un consigliere del Cnr sulla mancanza di trasparenza e di chiarezza sul ruolo degli esperti valutatori nominati da Regione e Cnr. Rezza e Martini, a loro volta, dicono di non sapere neppure di avere quel ruolo. Vito Mocella, consigliere del cda del Cnr, si impunta. Pretende che venga stralciato quel progetto, proprio perché ormai i valutatori ne sono stati messi a conoscenza prima dell’apertura di un bando pubblico. Il bando non arriva e il progetto viene soltanto rimodulato (non solo Zika ma anche altre malattie rare) e ottiene un fondo regionale da 6 milioni di euro. Solo a quel punto, il Cnr stipula una convenzione con il consorzio Cnccs che farà quasi tutto il lavoro, tramite l’’Irbm di Di Lorenzo che quindi prenderà il grosso dei finanziamento della Regione (oltre l’80 per cento). Un’altra parte va a Promidis, che è una controllata di Irbm e partecipata dallo stesso Cnccs, i cui laboratori sono dentro l’Istituto privato San Raffaele, di cui Garaci è presidente del comitato tecnico scientifico. Le briciole che restano al Cnr, circa 500mila euro, verranno assegnate a qualche università e qualche ricercatore Cnr. Come Cinzia Caporale, ex membro del cda del solito Cnccs.

Le decine di milioni finiti al Cnccs e di lì a Irbm, senza bandi, stanno producendo risultati importanti, assicura Di Lorenzo: farmaci promettenti per l’epatite-B e la malaria che hanno concluso la fase preclinica. Ma su queste ricerche non ci sono pubblicazioni scientifiche. “Abbiamo scelto di non pubblicare niente fino al brevetto,” assicura Di Lorenzo. Ai contribuenti italiani non resta che attendere fiduciosi.

San Carlo, l’orrendo restauro di Nastasi. Con Muti complice

Il 13 maggio è apparso sul Fatto Quotidiano un articolo di Tomaso Montanari. Egli ha ricostruito la vicenda che ha portato alla condanna di 400.000 euro per danno erariale, da parte della Corte dei Conti, a carico di Marcello Fiori. Costui fu Commissario straordinario degli Scavi archeologici di Pompei, e proveniva dalla variopinta fauna berlusconiana, alla quale tuttora appartiene. Montanari documenta con grande scrupolo lo scempio di cemento perpetrato su di un monumento d’importanza impareggiabile, che ne ha distrutto l’aspetto, l’acustica, la funzione. Tutto, come la sentenza ben commenta, per la folle idea della “valorizzazione economica” di un bene che è anzitutto spirituale.

Montanari ricorda anche che il direttore d’orchestra Riccardo Muti, benché scongiurato da molti uomini di cultura di non avallare con la sua autorità un siffatto crimine, non si peritò d’inaugurare con un concerto sinfonico il “nuovo” teatro. Erano gli anni nei quali il padrone assoluto del Ministero dei Beni Culturali era Salvo Nastasi, pur egli di provenienza berlusconiana in quanto, inizialmente, protetto di Gianni Letta. Dopo gravitò nell’area dei “duri e puri” renziani. Poi lo scrittore adduce altri esempi di distruzione, sempre basata sull’assunto giustificativo dell’“economia”, di monumenti d’arte del nostro paese.

A conforto desidero ricordare il più grave di tutti. Egli non lo menziona: sono certo perché si aspettava che ne parlassi io. Il Nastasi, allora direttore generale e capo di gabinetto del Ministero, nominò se stesso quale Commissario al Teatro San Carlo dal 2007 al 2011. (È difficile trovare una Fondazione lirica della quale non sia stato, prima o dopo, Commissario). In tal veste effettuò lavori di cosiddetto restauro, che hanno totalmente stravolto la struttura dell’edificio.

Costruito nel 1737, il San Carlo ebbe la fortuna d’essere distrutto da un incendio la notte del 22 febbraio 1816. Dico la fortuna perché scenografo allora era uno dei più grandi architetti neoclassici, Antonio Niccolini, al quale si debbono importanti edifici della seconda parte del regno di Ferdinando IV-I, a cominciare dalla Villa Floridiana. Il 12 gennaio 1817 la nuova sala venne inaugurata. Era diventato il più bel teatro del mondo, dall’ acustica migliore del mondo (il Niccolini aveva adottato procedimenti scientifici già dei teatri greci e latini, letti in Vitruvio e Leon Battista Alberti), e dai meravigliosi colori azzurro e argento. Tali rimasero fino alla metà degli anni Cinquanta, quando si adottò il più volgare rosso e oro.

All’inizio dei lavori una serie di uomini di cultura napoletani (ultimo dei quali io) chiese al Nastasi il ripristino dei colori autentici. Per lui era lo stesso: doveva rifare da capo la tappezzeria. Per mera protervia, ossia per dimostrare di poter comandare a capriccio, da vero boss, non ascoltò nessuno. Ma nel frattempo, fece una cosa spaventosa. Minò le basi del palcoscenico, ch’era una camera acustica; vi mise del cemento; e costruì un orrendo bar semisotterraneo affidato a una pasticceria napoletana. Anche allora, quando parve chiaro il progetto di distruzione, uomini di cultura non solo napoletani intervennero pubblicamente affinché esso venisse fermato. Chiesi al maestro Muti d’interporre la sua autorità. Per tutta risposta egli venne sul cantiere e si fece fotografare con l’elmetto giallo in testa a fianco di Nastasi, che ne fece delle gigantografie. Poi inaugurò egli stesso la sala. Dove torna adesso in compagnia della figlia, alla quale vengono affidate regie liriche da parte del teatro.

Perché Muti ha fatto tutto questo? Non so rispondere. Posso indicare una circostanza, senza sostenere che esista un nesso causale fra di essa e il suo comportamento. All’epoca Nastasi gestiva anche tutto il sistema delle sovvenzioni del mondo dello spettacolo; la moglie di Muti presiede a sua volta un mediocrissimo festival a Ravenna, riccamente locupletato dal Ministero. La famiglia Muti è ampia.

Nonostante tutte le denunce (allora io ero critico musicale del Corriere della Sera e ne feci una battaglia…), nessuno è intervenuto. Se ne parla a bassa voce. Tutti convengono sul fatto, ma pochi lo dichiarano in pubblico. Il San Carlo giace così: per riparare ai danni dovrebbe star chiuso per anni e occorrerebbe una somma che non so nemmeno calcolare. Muti vivacchia a Chicago e fa i soliti concerti in Europa. Nastasi è vicepresidente della Siae, avendo perduto sia il posto di vicesegretario generale di Palazzo Chigi, sia di Commissario a Bagnoli: e su questo occorre un discorso a parte. Ma i soprintendenti di tutte le Fondazioni liriche, tutti nominati da lui salvo che alla Scala, sono ancora ai loro posti e continuano a ubbidirgli.

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In montagna è finalmente ciclismo: vince il russo Zakarin. Tiene Nibali

Sotto lo striscione del traguardo, alla ragguardevole quota di 2.247 metri, i corridori arrivano stravolti, in debito d’ossigeno. Attorno, montagne severe, neve a metri e piccole memorie storiche di scorribande reali. Infatti il Giro ieri è approdato a Ceresole Reale, dove il lago Serrù ha il colore del gelo e dove Vittorio Emanuele II andava a caccia e flirtava con la Bela Rosìn. È brutto dirlo, ma quando la strada s’impicca al cielo e condanna i corridori a fatica immonda, il ciclismo diventa spettacolo, la corsa epopea, la battaglia tra le squadre dipana il filo logico di strategie, alleanze e tattiche.

Da Pinerolo, 196 chilometri antichi: su e giù (più su che giù) senza tregua, con gli ultimi venti chilometri in ascesa e freddo. Ha vinto il russo Ilnur Zakarin, non ancora trentenne, promessa mancata del ciclismo, quinto al Giro 2017 vinto da Tom Dumoulin, già vincitore a Imola nel 2015. Oggi è terzo in classifica.

Il ciclismo è un pitone che divora spesso i figlioli prodighi. La maglia rosa è rimasta sulle spalle di Jan Polanc, sloveno che parla bene l’italiano e sa soffrire in salita. Si è difeso con saggezza. Ma lo sloveno che conta è Primosz Roglic, il favorito numero uno di questo Giro: secondo in classifica, di fatto è la maglia rosa virtuale. Vincenzo Nibali gli è stato alle costole, tra i due non corre buon sangue, ma c’è rispetto. Roglic, nel finale maligno, ha tentato un paio di allunghi, per saggiarlo. Nibali ha tenuto botta, un poco infastidito. Oggi il Giro sale a Courmayeur, altra tappa di salite sfessanti e discese a tomba aperta. Roglic mulina i pedali ad altissima frequenza. Nibali spera che il motore dell’ex saltatore di sci prima o poi s’ingrippi, nella terza cruciale settimana di gara, disseminata di salite da far paura. Roglic amministra i cospicui vantaggi delle due crono vinte (a Bologna e a San Marino), e conta sull’ultima tappa contro il tempo, che conclude il Giro a Verona. Nibali accusa un minuto e 44 secondi da Roglic. Tanti. Forse troppi.

Il vento dell’Est soffia forte sulla corsa “più bella del mondo” che tuttavia, per tredici giorni, ha rischiato d’essere la corsa più noiosa, cattiva imitazione degli ultimi Tour dagli inizi tediosi. I migliori sono usciti allo scoperto. Nella fuga iniziale, che si è rivelata azzeccata, si sono infiltrati il russo Zakarin e il tignoso olandese Bauke Mollema, clienti ostici per chi vuole conquistare i vertici della classifica. Hanno attaccato gli uomini della Movistar e dell’Astana: per recuperare un po’ dei ritardi buscati da Roglic. Nieve, Landa, Carapaz hanno ripreso un paio di minuti, ma senza inquietare più di tanto Roglic (settimo) e Nibali (ottavo, a pari merito). I due non hanno vinto, ma hanno convinto: si sono limitati a calibrare lo sforzo. Lo spietato regolamento di conti tra i due prosegue oggi e culminerà venerdì prossimo. Il terzo uomo Simon Yates, si è arreso ieri. Pensare che lo scorso anno aveva dominato le prime due settimane di corsa baccagliando con sua maestà Froome.

Nella trama della tappa, bel capitolo scritto dal cocciuto abruzzese Giulio Ciccone, vago parente di Madonna, capace di aiutare il capitano Bauke Mollema (4° in classifica) ma anche di riprendersi l’ambita maglia azzurra, quella di miglior scalatore: gliela aveva tolta giovedì il compagno di camera e di squadra Brambilla. Impresa che Mollema non ha gradito: mi sei mancato negli ultimi due chilometri, quando avevo bisogno di te, potevi risparmiare le forze…

Pedro in fuga, seguito da Malick e Tarantino

Chi vince il 72° Festival di Cannes? La risposta questa sera al Grand Théâtre Lumière, ma qualche considerazione si può fare. Prima che sui premiati, sui premianti.

La giuria presieduta dal messicano dei quattro Oscar Alejandro Gonzalez Iñárritu, è composta pressoché per intero da registi: la nostra Alice Rohrwacher, chiamata a “spingere” Il traditore di Marco Bellocchio; il polacco Paweł Pawlikowski della fulminante combinazione Ida e Cold War; l’americana Kelly Reichardt, cui si deve il miglior western del Terzo millennio, Meek’s Cutoff; il francese Robin Campillo, Grand Prix nel 2017 con 120 battiti al minuto; Yorgos Lanthimos, che dall’opera terza Dogtooth (2009) a La favorita in un decennio s’è guadagnato lo status di autore cult; Enki Bilal, il disegnatore di natali jugoslavi e residenza francese che ha compiuto qualche sortita cinematografica, buon’ultima Immortal Ad Vitam (2004); l’attrice franco-guineana Maimouna N’Diaye, che ha firmato molti documentari sull’Africa. A completarla l’attrice statunitense Elle Fanning, che cosa potrebbe trovare concordi questi cineasti, forse la volontà di riconoscere un collega più grande di loro?

Detto che l’orgoglio di Iñárritu ha un’estensione maggiore del Messico, la consueta politique des auteurs di Cannes offre un ventaglio di possibilità: Pedro Almodóvar, Terrence Malick, Quentin Tarantino. Ci sarebbero anche Jean-Pierre e Luc Dardenne e Ken Loach, due volte Palma d’Oro, ma Sorry We Missed You e soprattutto Le jeune Ahmed dei fratelli belgi non hanno entusiasmato e non dovrebbero fare breccia in palmarès. Al contrario, Malick con A Hidden Life e ancor più il Tarantino di Once Upon a Time in Hollywood, che ha polarizzato la critica ma vanta una media di 3.0 su 4 tra i giudizi raccolti da Screen Daily, potrebbero trovare la seconda Palma.

Nel novero lo strafavorito è Almodóvar, che con il testamentale Dolor y gloria (3.3 per i critici internazionali) tocca il vertice della carriera: non ha mai vinto la Palma, con non poco scorno, e se Iñárritu volesse premiare in spagnolo qualcuno eccepirebbe? A Pedro però potrebbe dare mucho dolor il coreano Bong Joon-ho, primatista per la critica (3.5) con Parasite. Bong è l’alfiere delle “nuove” leve: ha conquistato tutti, non ruberebbe nulla, la sua dark-comedy formato famiglia arriverà nelle nostre sale con Academy Two.

Piazzata benissimo tra i “giovani” è anche la francese Céline Sciamma, con l’opera quarta Portrait de le jeune fille en feu (3.3), prossimamente sui nostri schermi con Lucky Red: a fregarsene del politicamente corretto, dovremmo dire che è l’unica regista donna in competizione per merito e non per genere – su Mati Diop (Atlantique), Jessica Hausner (Little Joe) e l’imbarazzante Justine Triet di Sibyl meglio tacere.

E Il traditore? La notizia cattiva è che Bellocchio vanta sette partecipazioni in Concorso e zero tituli; quella buona che ha trovato (Sony) distribuzione negli Stati Uniti; quella più buona è che potrebbe vincere qualcosa di importante, forte di un buon riscontro critico (2.6) e di un Pierfrancesco Favino in stato di grazia. Tra Picchio e il prix d’interprétation masculine ci sono solo l’Antonio Banderas di Dolor y gloria e l’August Diel di A Hidden Life, e per entrambi giova ricordare che la Palma inibirebbe l’exploit personale. Idem, sul fronte femminile, per la coppia Noémie Merlant e Adèle Haenel chez Sciamma e la cinese Kwai Lun Mei della nostra – e non solo: vanta 2.7 – Palma del cuore, The Wild Goose Lake di Diao Yinan, in Italia con Movies Inspired.

Non vedrà alcun riconoscimento, a dar retta ai criticoni (1.5, il coefficiente più basso), Mektoub, My Love: Intermezzo di Abdellatif Kechiche, il film-scandalo di Cannes 72, complici i culi senza soluzione di continuità e il cunnilingus di 13 minuti: a riceverlo Ophélie Bau, che forse non si aspettava di ritrovarsi così sullo schermo, tanto da lasciare anticipatamente la proiezione di gala e disertare poi photocall e conferenza stampa.

A riportare il buon umore ci ha pensato il settantaduenne Sylvester Stallone. Sulla Croisette con le prime immagini del quinto e finale capitolo di Rambo, Last Blood (“Sarà una tremenda vendetta, vedrete”), palesa l’intenzione di rifare Cobra (1986) e rassicura sulle condizioni delle due tartarughe, Cuff e Link, che tiene con sé dal primo film di Balboa del 1976: “Ora hanno 55 anni, dovremmo girare un altro Rocky, sono tutti morti eccetto loro!”.

 

Farage la star si prepara per Strasburgo

Mancano due giorni alla chiusura delle urne delle elezioni europee più incerte e attese di sempre. E nell’atmosfera di sospensione che si respira a Bruxelles, i più sospesi di tutti sono gli inglesi. Non si aspettavano di tornare al Parlamento europeo, ora sanno che ci torneranno, ma non sanno fino a quando. E neanche esattamente con quale mandato e su quali dossier potranno davvero intervenire. Non è un caso che molti cittadini europei in Gran Bretagna non siano neanche riusciti a votate.

La data della Brexit è fissata al 31 ottobre. Su alcuni dossier – come l’euro e Schengen – non facendone parte, i britannici si sono sempre astenuti. I temi su cui non pronunciarsi, potrebbero aumentare. Non è neanche chiaro se prenderanno parte all’elezione del presidente della Commissione europea: in teoria i tempi tecnici ci sarebbero, ma ne ha certezza. Anche perché non è detto che non si tratti di una elezione combattuta e difficile. Molti dei funzionari britannici che lavoravano nella capitale belga sono pronti a fare le valige. E nessuno – a livello politico – ha davvero lavorato per capire che ruolo avere nella prossima legislatura. Peraltro, i paesi membri già lavorano come se la Gran Bretagna fosse già fuori. Una specie di paese fantasma, la cui presenza è solo formale. C’è poi una questione che riguarda specificamente il partito di Teresa May: senza un leader, senza una direzione, che cosa farà? A Bruxelles, i Tories sono stati tra i fondatori di uno dei gruppi più antichi e prestigiosi, l’Ecr. Ma i sondaggi – a urne chiuse ma a risultati ignoti – li danno a picco: per adesso, contavano 18 membri, dovrebbero scendere a 12. Senza contare che l’Ecr, fino a oggi, è stato un gruppo “cerniera”, una sorta di argine alla destra estrema.

Potrebbe cambiare natura: oltre al Pis di Kazynski, potrebbe arrivare Fidesz di Viktor Orban. E soprattutto, tra quelli sulla porta, ci sono gli spagnoli di Vox. Posto d’onore anche per Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, che in Italia contende alla Lega la palma dell’estremismo. Un’altra cosa che non mette di buonumore i Tories: perché per loro i partiti che entrano devono rispettare standard etici. Ma non sono troppo in grado di dettare condizioni. Nel frattempo, un altro paradosso si aggira a confondere le acque: Nigel Farage (in foto) l’uomo del Brexit Party, che dovrebbe conquistare una trentina di seggi. Per farne che? Nessuno lo sa, tanto più che il gruppo in cui sedeva con l’Ukip e i Cinque Stelle, l’Effd, si avvia a scomparire. E alcuni dei suoi rappresentanti a Milano, alla manifestazione sovranista, si sono riuniti con i giovani del Carroccio, guidati da Andrea Crippa. Dunque, Farage potrebbe diventare l’ariete di sfondamento degli euroscettici. E scavalcarli, portando all’estremo le spinte alla dissoluzione della Ue com’è oggi. Non è un mistero che abbia preso lezioni da Steve Bannon, oggi più che altro un lobbista e un collettore di fondi. D’altronde, il Brexit Party più che politici ha raggruppato uomini d’affari: il presidente, Richard Tice, è ad del gruppo di gestione patrimoniale Quidnet Capital Llp.

Da Boris Johnson a Sajid Javid. Dopo May non splende il sole

Dopo quasi tre anni di pressioni, fallimenti, umiliazioni e rifiuti sopportati con una tempra sovrumana, Theresa May cede all’emozione solo all’ultimo passaggio del discorso con cui annuncia le sue dimissioni da leader del Partito conservatore, esecutive dal 7 giugno. “Lascerò presto l’incarico che è stato il più grande onore della mia vita. Il secondo primo ministro donna, ma di certo non l’ultimo. Lo lascio senza rancore, ma con l’enorme ed eterna gratitudine di aver potuto servire il Paese che amo”.

Sipario su un premierato già in pole position come uno dei peggiori della storia britannica. Seguono abbondanti e bipartisan dichiarazioni di simpatia e rispetto, ma fra i più onesti va citato il tweet di Caroline Lucas, tosta leader dei Verdi: “Benché la May fosse straordinariamente inadeguata come negoziatrice, la verità è che aveva un compito impossibile da portare a termine. Non si può avere una hard Brexit senza il ritorno di un confine fisico in Irlanda del Nord, e non potrà averla nemmeno un nuovo premier”.

Il nuovo premier, appunto, il salvatore e o salvatrice della Patria che entro il 31 ottobre, scadenza fissata da Bruxelles per l’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, dovrebbe trovare la soluzione non raggiunta in quasi tre anni di negoziati – o prendersi la responsabilità di una uscita a precipizio senza accordo.

La roadmap fissata dal gruppo dei Conservatori alla House of Commons prevede che le candidature arrivino entro il 10 giugno. Seguiranno una serie di votazioni interne fino alla scrematura di due finalisti, sottoposti al voto di tutti gli iscritti. Il nuovo primo ministro, dovrebbe emergere entro metà luglio, prima della pausa estiva del Parlamento. A cadavere politico della May ancora caldo, i candidati non perdono tempo. A poche ore dal discorso di dimissioni hanno annunciato la loro candidatura anche l’attuale ministro degli Esteri Jeremy Hunt e il capogruppo dei Conservatori a Westminster Graham Brady. Si uniscono a un gruppo piuttosto folto, quasi solo di Brexiteers. Perché, come è ovvio, il fallimento della linea May segna la fine dell’ipotesi di soft Brexit. In un passaggio del suo discorso ha fatto le lodi del compromesso, “che non è una parolaccia”, ma è stata proprio la ostinata strategia di accontentare falchi e colombe del suo partito a condannarla. E infatti i papabili alla successione – in testa il solito Boris Johnson seguito dal ministro degli Interni Sajid Javid – si posizionano su una linea dura, di riapertura fuori tempo massimo del negoziato con Bruxelles o no deal. Solo che un governo di falchi finirebbe per scontrarsi con un Parlamento che ha già votato a maggioranza contro un no deal, e questo scontro porterebbe inevitabilmente ad una crisi di governo già in autunno. È lo scenario previsto dal politologo-guru John Curtice: “Qualsiasi primo ministro che spinga per un no deal vedrebbe il collasso del proprio governo ed elezioni anticipate, che il Labour ha buone possibilità di vincere. Ma è difficile che i laburisti abbiano la maggioranza in parlamento: si dovrebbero alleare con qualche partito minore, come i Lib-Dem, o magari gli indipendentisti scozzesi. Che in cambio del sostegno potrebbero chiedere la concessione di un nuovo referendum per l’indipendenza della Scozia”. Insomma, un parlamento bloccato come quello che ha tolto l’aria a Theresa May, ostaggio di 10 parlamentari del Dup nordirlandese.

E poi c’è l’opzione nucleare. Che nuovi elezioni, entro fine anno, le vinca il Brexit Party di Nigel Farage, fondato lo scorso gennaio. Alle Europee è dato oltre il 30%, ma potrebbe capitalizzare il risentimento per la gestione della Brexit anche in chiave interna. A eventuali politiche è già dato intorno al 21%, testa a testa con i conservatori, anche se almeno 7 punti dietro i laburisti. Ma la sua ascesa continua a ritmi impressionanti. Farage primo ministro? Difficile anche da immaginare. Di sicuro, l’uomo che per 7 volte non è riuscito a farsi eleggere a Westminster, sta già indirizzando il futuro politico del Regno Unito.

“Una foto è la prova del dolore”

“Una fotografia è una verità storica”. Di questo, Paolo Pellegrin è convinto. “Scattare foto”, prosegue, “ha a che fare con la memoria collettiva e con l’uomo”. Romano, classe ’64, Pellegrin è fotoreporter pluridecorato in vent’anni di carriera: dieci World Press Photo, la Robert Capa Gold Medal, la Leica Medal of Excellence tra gli altri. Da sempre presente nei luoghi di guerra, le sue foto sembrano rivolgere all’occhio che le osserva l’interrogativo – parafrasando il celebre titolo di Primo Levi – se quella da lui documentata sia o no ancora “umanità”. Non a caso, l’ultima mostra a lui dedicata si intitola Confini di umanità (a cura di Annalisa D’Angelo), ed è stata inaugurata ieri a Pistoia all’interno del festival “Pistoia – Dialoghi sull’uomo” (24-26 maggio). In 60 fotografie realizzate tra Algeria, Egitto, Kurdistan, Palestina, Iraq, Usa, Pellegrin esplora i confini tra l’umanità e la non-umanità, limiti a volte naturali come un mare o un deserto, altre volte umani come un muro o le sbarre per dividere o imprigionare.

Pellegrin, come si diventa fotografi di guerra?

Negli anni 90 avevo già seguito i conflitti della disgregazione della ex-Jugoslavia, ma è nel 2000, iniziando ad andare in Palestina per l’ultimo conflitto coloniale a cui abbiamo assistito, che ho contratto l’interesse per questa terra così carica di storia e cultura, e per il racconto del conflitto come racconto dell’uomo. Quando poi, a seguito dell’11 Settembre, ho seguito l’invasione americana in Iraq – a mio parere e non solo, uno dei più grandi errori geopolitici del nostro tempo – ho deciso di concentrarmi molto sul Medio Oriente. Ma la mia è soprattutto una fotografia umanista, che ruota attorno all’uomo e alla Storia, e anche attorno all’idea di più ampio respiro della fotografia come documento da impugnare, come prova. Faccio sempre l’esempio dei revisionisti storici che contestano l’esistenza dei lager. Ecco, le fotografie sono lì per metterli a tacere.

Da solo, armato di taccuini e della sua Canon, cosa cattura la sua attenzione?

Parto sempre dai soggetti. Mi attira la loro bellezza fragile, solo di quel momento, lo stesso in cui io devo scattare. Cerco la tensione tra un racconto micro, fatto di persone e di piccole storie, che però possa avere un’eco più vasta, dunque storica.

C’è qualcosa che non si può fotografare? Si pone un limite?

Il pudore è la pietra angolare del mio lavoro. Non è facile fotografare il dolore altrui, ho ben chiaro che è uno spazio privato che ti viene donato e che va trattato con attenzione. È sempre una lotta decidere quando e cosa e perché scattare. Provo sempre a rovesciare l’equazione: se fossi l’altro, come vorrei essere fotografato? Più faccio questo lavoro, più l’idea della dignità umana si fa onnipresente. Continuo a farlo perché malgrado tutto ha ancora un senso, ma crescendo e diventando padre, cresce anche tutta la mia galleria di foto non scattate.

Quindi non ci si abitua al dolore?

No, mai. Per quanto mi riguarda è il contrario.

In questa mostra a Pistoia cosa racconta?

Attraverso immagini di guerra o di migranti, faccio allo spettatore la richiesta di diventare parte attiva della fotografia, affinché il ponte emotivo che stabilisco tra me e il soggetto che immortalo in qualche modo congiunga la sua storia anche con chi lo guarderà. Mi piace questa idea di fotografia non finita, che permette di farsi il proprio viaggio. Un libro, un quadro ci restano dentro se ci trasformano, così io penso alle mie foto come semi che si impiantano e germogliano dentro a chi le guarda.

Ha sempre molta attenzione per l’elemento naturale. Com’è la natura nei luoghi di guerra?

Ferita, violata, come i personaggi che lì si muovono e che io narro. È un legame che cerco sempre di esplorare.

Lei ha anche fotografato star di Hollywood e grandi sportivi. È più difficile fotografare un profugo, un ferito di guerra o Brad Pitt?

Per tutta una questione di regole dello Star System, è più difficile fotografare Brad Pitt, ma a non cambiare è la mia intenzione: in tutti, cerco il lato umano.

Giornalista picchiato da polizia: “Assurdo” dice il Procuratore

“È assurdo che accadano fatti del genere. Il giornalista Origone era in piazza a svolgere il suo lavoro di cronista in modo pacifico e non so come possa essere stato scambiato per un facinoroso”. Lo ha detto il procuratore capo di Genova Francesco Cozzi che ieri mattina ha telefonato al giornalista di Repubblica ferito durante gli scontri tra antagonisti e polizia durante il comizio di CasaPound. “Esprimo la mia più forte solidarietà – ha detto Cozzi – e il rammarico forte perché è inconcepibile quanto successo”. La Procura di Genova aprirà due fascicoli sugli scontri di giovedì pomeriggio tra polizia e antifascisti durante il comizio di CasaPound. L’indagine, al momento a carico di ignoti, accerterà sia le responsabilità del manifestanti che hanno partecipato ai disordini, sia la condotta degli agenti, in corso di identificazione: “La polizia ha esercitato la tutela della sicurezza pubblica – ha dichiarato ancora Cozzi – e non può consentire si scateni il caos. Poi se mai c’è da vedere – ha concluso – anche all’interno dell’atteggiamento composto delle forze dell’ordine, se ci sono soggetti che non sono in grado di controllare la reazione, ci vuole un controllo ferreo della forza da parte chiunque”.

Forza Nuova, provocazione al “muro rosso”: oggi la marcia sul quartiere San Lorenzo

In questura non è arrivato il preavviso. Ufficialmente in via di San Vitale non sanno niente. Ma è il segreto di Pulcinella. Questa mattina, nella giornata di silenzio pre voto, Forza Nuova chiuderà la sua campagna elettorale nel quartiere di San Lorenzo a Roma, l’ennesima sfida alla storica roccaforte antifascista della Capitale dopo la (tentata) contestazione a Mimmo Lucano fuori dall’Università Sapienza del 13 maggio scorso. “Vox populi”, chiosano ironicamente dall’ufficio stampa della Questura nonostante i social siano inondati da grafiche neofasciste. “Ma il posto non ve lo dico, ve lo trovate da soli. Sennò ci fate arrivare i blindati. Il silenzio elettorale? Chi se ne frega”, risponde beffardo il responsabile romano di Fn, Giuliano Castellino, arrestato il 28 marzo scorso per il pestaggio dei cronisti de l’Espresso. È probabile che il sit-in del movimento di estrema destra si tenga nei pressi di via dei Campani, dove nell’ottobre scorso venne trovata morta la 16enne Desirée Mariottini, per il cui omicidio, preceduto da uno stupro, sono accusati quattro migranti di origine africana.

Ma quella di Forza Nuova, a quanto pare, non sarà l’unica manifestazione non preavvisata. Perché per tutta risposta anche gli antifascisti stanno raccogliendo adesioni in Rete per vedersi, sempre a San Lorenzo, nel vicino largo Eduardo Talamo. L’evento su Facebook è intitolato “Nessuno spazio a Forza Nuova!” e conta 335 partecipanti e quasi 1000 persone interessate. Il luogo anche qui non è casuale: i militanti di Fn potrebbero arrivare in corteo dalla sede di via Taranto e attraversare Porta Maggiore imboccando lo Scalo San Lorenzo in direzione via dei Campani. A quel punto si troverebbero davanti il “muro” antifascista. E lo scontro sarebbe inevitabile. Solo ufficialmente la Questura non sa nulla, ma la realtà è che la Digos sta lavorando coi vertici di San Vitale per provare a scongiurare quanto accaduto a Genova giovedì scorso.