La Finanza punta il Dark web: droghe vendute in Bitcoin per centinaia di migliaia di euro

Sostanze stupefacentidi ogni tipo, destinate a tutto il mondo, provenienti da Barletta (Barletta-Trani-Andria): è la scoperta del Nucleo Speciale Tutela Privacy e Frodi Tecnologiche della Guardia di Finanza di Roma, sotto il comando del Colonnello Giovanni Reccia, che attraverso l’operazione denominata Darknet.Drug è riuscita a svolgere un’approfondita indagine nel mondo del Dark Web – letteralmente, “il web oscuro” -, portando alla luce i traffici illeciti che partivano dal capoluogo pugliese. 2,2 chili di droga (cocaina, ketamina, Mdma), oltre 163 pasticche di ecstasy già pronte e 78 francobolli impregnati di Lsd: questi i risultati delle perquisizioni, che hanno portato all’arresto di un soggetto, conosciuto in rete con il nome di “goodoo”. Si calcola che siano stati smerciati 20 chili di droga, per un valore di oltre 100.00 euro, tra Europa, Canada, Australia e Stati Uniti: la rete di affari più grande del Dark Web. Le indagini hanno riguardato la fitta rete criminale che si cela dietro questo mondo, inaccessibile ai meno esperti: per imbattersi nei contenuti della risorsa informatica, servono infatti particolari motori di ricerca, che attraverso meccanismi di “rimbalzo” da un server all’altro rendono pressochè impossibile risalire all’identità degli utenti. Per questo motivo, gli investigatori si sono avvalsi dell’aiuto di mirate analisi tecniche, combinate con ulteriori riscontri “sul campo” che hanno permesso di individuare il volto dietro i computer da cui partivano i loschi affari. Che non si esauriscono nello spaccio di droga: sempre a Barletta, è stato sottoposto a sequestro un locale commerciale in cui veniva esercitata l’attività di exchange in Bitcoin, la criptovaluta utilizzata per effettuare i pagamenti nell’internet “sommerso” che negli ultimi anni è diventata preziosissima: i 732 Bitcoin usati per le transazioni negli ultimi due anni, secondo quanto risulta dalle analisi, equivalgono a 935mila dollari. Adesso le indagini proseguiranno con l’analisi dei pc, dei notebook e dei telefoni cellulari sequestrati, nonché con accertamenti finanziari.

Bimbo di due anni morto in casa, i genitori indagati per infanticidio

Omicidio volontario: è il reato ipotizzato dalla Procura di Novara che ha aperto un fascicolo sulla morte del bimbo di neppure due anni morto giovedì mattina all’arrivo in ospedale. Indagati la madre del piccolo e il suo compagno, le uniche due persone in casa con il bambino.

Nell’interrogatorio si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Il procuratore capo di Novara, Marilinda Mineccia, invita alla prudenza: “Siamo alle fasi preliminari dell’indagine, è presto per avanzare accuse precise. Prima di ogni cosa dovremo attendere l’esame autoptico”.

È stata la madre, a metà mattinata, a chiamare i soccorsi. Quando i sanitari del 118 sono arrivati nell’appartamento di Sant’Agabio, popolare quartiere di Novara, le condizioni del bambino sono apparse subito disperate. Quando è arrivato in Rianimazione, all’ospedale Maggiore, era già morto. Serviranno accertamenti approfonditi per capire se il piccolo fosse stato maltrattato o se abbia subito dei traumi e se siano all’origine del decesso. I due indagati hanno sostenuto che il bambino sia caduto dal lettino, una versione ora al vaglio degli inquirenti ma che evidentemente non convince. A una prima analisi sembra che sul corpo del piccolo ci fossero evidenti segni di violenza. Determinanti saranno i risultati dell’autopsia, iniziata nel tardo pomeriggio di ieri.

Un presunto infanticidio che segue di poche ore la morte violenta del piccolo di due anni ucciso dal padre 25enne nel suo appartamento in via Ricciarelli 22, nella periferia ovest di Milano. Il padre ha confessato dichiarando di aver fumato hashish e di aver picchiato a morte il piccolo, terzo dei suoi 4 figli, dopo aver trascorso una notte insonne.

“Non abbiamo i Cud e non ci hanno pagato i contributi”. Rider Glovo contro l’azienda

Alla protesta contro il pagamento a cottimo e la mancanza di sicurezza, adesso si aggiungono altri problemi. I rider di Glovo non hanno ricevuto la certificazione unica che attesta i redditi da lavoro e serve per redigere la dichiarazione dei redditi e quindi per il pagamento delle imposte. A lanciare l’allarme sono alcuni rider di Torino, che giovedì sono tornati a protestare. La situazione si è verificata anche nelle altre città. “Allo sfruttamento estremo si aggiunge anche questa ennesima vessazione, che testimonia una volta di più l’indifferenza di Glovo alle regole e al rispetto dei nostri diritti”, sostiene la Riders Union di Bologna. A raccontare quanto è avvenuto con la certificazione unica è Mattia (nome di fantasia), uno dei ciclo-fattorini torinesi: “Abbiamo chiesto all’azienda di mandarci la certificazione perché tra poco ci sono le scadenze fiscali e senza questo certificato non possiamo presentare il 730”. Il termine per la comunicazione di questi dati era il 31 marzo scorso. “La referente di Torino ci ha detto di aspettare e siamo arrivati a oggi senza avere risposte”, continua Mattia. Nell’attesa, però, un gruppetto ha deciso di andare all’Agenzia delle Entrate per chiedere direttamente se, associato al loro codice fiscale personale, corrispondessero versamenti delle ritenute d’acconto da parte di Glovo: “Mi hanno risposto che Glovo non ha versato niente: era come se avessi lavorato in nero”, spiega il rider. Così si sono rivolti all’avvocato Giulia Druetta, che ha già difeso altri rider nella causa civile contro Foodora, che ha mandato una raccomandata e una comunicazione via posta elettronica certificata: “Hanno ritirato la raccomandata, hanno ricevuto la Pec e non hanno risposto. Non possiamo contattarli, abbiamo soltanto la mail della referente di Torino”. Mercoledì sono tornati all’Agenzia delle Entrate per controllare se, nel frattempo, Glovo avesse provveduto, ma nulla era cambiato. Così si sono rivolti ad altri: “Siamo andati dai patronati dei sindacati per avere spiegazioni e non sapevano come risolvere la questione. Siamo andati anche dalla Guardia di finanza, ma ci è stato detto che non era materia per loro”, conclude Mattia. Della vicenda potrebbe occuparsene l’Agenzia delle Entrate aprendo un procedimento amministrativo che, al termine, potrebbe portare a un’eventuale sanzione. Nel frattempo, tramite il suo ufficio stampa, Glovo di discolpa: “Siamo consapevoli del disguido, non legato all’operato della società, e ci siamo già scusati con i nostri collaboratori, con cui ci siamo messi prontamente in contatto per fornire loro tutti gli aggiornamenti del caso e supportarli al meglio”. La società spagnola, che è attiva in Italia da un anno, afferma di aver “messo in campo una task force che sta operando senza sosta per risolvere il prima possibile questa situazione”. Infine “l’azienda vuole assicurare, che questo ritardo amministrativo non ha un impatto sui dovuti contributi, che sono stati regolarmente versati”.

Trump: “Huawei può entrare nell’accordo sui dazi con la Cina”

Si apronospiragli nella guerra commerciale tra Usa e Cina, che si combatte tramite Huawei. Il presidente Usa, Donald Trump, ha annunciato ieri che il colosso di Shenzhen potrebbe tornare a operare previo accordo: “Se abbiamo un’intesa, vedo Huawei incluso in un modo o nell’altro”, ha ribadito Trump. Alcune società della telefonia hanno sospeso o interrotto i rapporti commerciali con Huawei ma il colpo più duro è arrivato quando Google ha annunciato che non avrebbe più fornito il suo sistema operativo Android al gruppo cinese, che si è comunque attrezzato con un software fatto in casa al massimo entro la primavera del 2020. Il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Lu Kang, ha detto in conferenza stampa che “per un po’ di tempo, alcuni politici negli Stati uniti hanno ripetutamente diffuso voci su Huawei, ma non sono mai riusciti a produrre prove”. Pechino mette in guardia anche l’Europa che “può avere gravi ripercussioni sui consumatori e sulle imprese”, dal momento che nel Vecchio continente circa tre quarti degli utilizzatori di smartphone si affida a un dispositivo basato su Android e il gruppo cinese detiene circa il 20% di questo mercato.

L’ultima beffa dell’Unità è Belpietro: un giorno in edicola e lo firma lui

Il supplizio del giornale che fu di Antonio Gramsci non ha mai fine. Per non perdere la testata, il gruppo costruzioni Pessina – ultimi proprietari dopo il Pd – deve rimandare il quotidiano l’Unità in edicola anche per un solo giorno. E oggi tocca a Maurizio Belpietro, giornalista di destra, direttore della Verità, firmare un numero speciale del glorioso foglio comunista e di sinistra con una serie di interviste elettorali a Luigi Di Maio, Nicola Zingaretti, Nicola Fratoianni. L’altra volta in gerenza c’era Luca Falcone, già addetto stampa di Pessina.

Richiamati al lavoro, i giornalisti dell’Unità hanno confezionato il giornale e poi, alla scoperta del nome del direttore, il comitato di redazione ha firmato un duro comunicato per denunciare l’ennesima beffa subita: “La scelta di Belpietro è l’ultimo affronto alla storia del quotidiano fondato da Gramsci, arrivato questo pomeriggio all’improvviso e senza alcuna comunicazione al Cdr da parte dell’amministratore delegato Guido Stefanelli, quando in redazione era in chiusura il numero speciale realizzato per evitare la decadenza della testata. Si tratta di un gesto gravissimo, un insulto alla tradizione politica di questo giornale e della sinistra italiana prima ancora che una violazione delle norme contrattuali. L’Unità, giornale fondato da Antonio Gramsci e sopravvissuto al fascismo, in mano a un direttore da sempre apertamente schierato con la parte più conservatrice della politica italiana e più volte alla guida di giornali di proprietà di Berlusconi”. Il cdr chiude con un appello alle forze di sinistra per difendere un “patrimonio culturale” della loro storia politica e civile del Paese: “Crediamo sia arrivato il momento di dire basta a questo scempio: faremo tutto quanto è nelle nostre possibilità ma chiediamo ai vertici dei partiti della sinistra, al mondo della cultura, ai sindacati e a tutti coloro che hanno a cuore il futuro dell’informazione libera e democratica di mobilitarsi al fianco della redazione”. Belpietro dice che il suo è un gesto per garantire la libertà di stampa, mentre i politici di sinistra – da Luigi Zanda a Roberto Speranza fino ad Arturo Scotto – dicono che si tratta di una “profanazione”.

Qualche settimana fa è trapelata la notizia dell’interessamento di Michele Santoro per rilevare la testata, ma non è stata raggiunta un’intesa economica col gruppo Pessina. Il quotidiano non è più stabilmente in edicola dal 2017, dopo varie crisi e il rilancio fallito col Pd del premier Matteo Renzi, che di fatto ha coinvolto il gruppo Pessina nell’impresa mentre era all’apice del potere a Palazzo Chigi.

Non vollero tornare in Libia: assolti. E Salvini è smentito

Se l’intento del Viminale, con il decreto Sicurezza bis, era quello di multare con 5 mila euro le Ong per ogni migrante salvato in acque internazionali vicino alla Libia e portato in Italia, il Tribunale di Trapani ha disinnescato qualsiasi velleità. L’argomentazione è insormontabile: i due “dirottatori” della Vos Thalassa, il rimorchiatore che l’8 luglio 2018 soccorse 67 migranti, sono stati assolti e scarcerati perché – come anticipato ieri dal Corriere della Sera – “il fatto non costituisce reato” in quanto è “scriminato dalla legittima difesa”.

Tra i primi a chiedere l’arresto di Ibrahim Tijani Bushara e Ibrahim Amid fu proprio Matteo Salvini. Secondo le accuse i due, quando il comandante della Vos Thalassa decise di indirizzare il rimorchiatore verso la Libia, si rivolsero a lui facendogli un segno che si poteva interpretare come una gola tagliata. Un segno che l’accusa interpretò come una minaccia di morte. E che innescò l’accusa di dirottamento del rimorchiatore. Secondo la difesa, invece, quel segno stava a significare ben altro: tornare in Libia equivaleva a morire.

Salvini in quei giorni dichiarò che erano “delinquenti” e dovevano “scendere in manette” e finire in “galera”. A Salvini si accodò il ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, che chiedeva la loro punizione “senza sconti”. Infatti sono stati in carcere dieci mesi. Ora però, secondo il Tribunale di Trapani, i due non commisero alcun reato. Anzi. Era “legittima difesa”. E questo significa che, tornare in Libia, per il Tribunale di Trapani era pericoloso per la loro incolumità.

Un’argomentazione che da oggi in poi varrà per qualsiasi Ong decida di non riportare i migranti soccorsi sulle coste libiche. E che disinnesca qualsiasi velleità di multare i volontari con multe che dissanguerebbero le casse delle Ong. La sentenza del giudice Piero Grillo, che dopo aver assolto i due “dirottatori” ne ha ordinato la scarcerazione immediata, ha quindi un immediato riflesso sulla politica del governo gialloverde sull’immigrazione. E probabilmente non sarà l’unica.

Nei prossimi giorni, infatti, si attendono gli sviluppi dell’inchiesta della Procura di Agrigento sul comandante della Mare Jonio, Pietro Marrone, e del capo missione della Ong Mediterranea, Luca Casarini, indagati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina per aver portato in Italia, dopo averli soccorsi a marzo, 50 naufraghi nelle acque libiche.

Interrogato dal procuratore aggiunto di Agrigento, Salvatore Vella, Casarini ha dichiarato che non avrebbe mai portato i naufraghi in Libia perché non ritiene che Tripoli disponga di un porto sicuro. Sulla base di queste dichiarazioni, la procura siciliana ha avviato un’indagine per verificare se davvero, la Libia, sia nelle condizioni di offrire un porto sicuro oppure no. Per questo motivo è stato contattato anche l’Imo, l’organizzazione marittima internazionale. Se la Procura di Agrigento dovesse stabilire con una sentenza che la Libia non è in grado di fornire un porto sicuro, sarà impossibile contestare ai volontari delle Ong la decisione di non obbedire alla richiesta della Guardia Costiera libica, quando coordina l’intervento di soccorso e chiede il trasporto dei naufraghi sulle coste della Libia. E non si potrà contestare loro, in questa situazione, il reato di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La sentenza del tribunale di Trapani, sebbene con altre motivazioni giuridiche, già anticipa questo scenario: ribellarsi alla decisione di essere riportati in Libia, per i migranti, non è un reato ma, appunto, esercizio della “legittima difesa”. Non si tratta quindi né di “delinquenti”, come sosteneva Salvini, né di “facinorosi da punire senza sconti”, come sosteneva Toninelli, ma solo di persone che tentano di salvarsi dal pericolo di essere ricondotti in un luogo dove, come sostiene da tempo anche l’Onu, i diritti umani non sono garantiti e la probabilità di subire violenze è altissima.

Nicola Houston e il traino “fantasma” di Pamela e Mark

“Houston, abbiamo un problema”. “Non mi chiamo Houston, Presidente, mi chiamo Nicola Porro; ma anch’io risolvo problemi. E faccio interviste”. “Davvero? Be’, ora non ti allargare. Ma è appunto questo il problema, Nicola Houston; le mie interviste non se le fila più nessuno. A Quarta Repubblica mi hai fatto fare il 4 di share”. “Be’, Cavaliere, un punto a Repubblica…” “Non fare lo spiritoso, altrimenti… bunga bunga!”. “Ah Ah Ah!”. “Guarda che non sto scherzando. Domenica si vota e anche Vespa non è più lui; a Porta a Porta, nonostante il Milan, Sacchi e tutto il resto, abbiamo fatto poco più del 7”. “Ma c’è ancora Matrix, eccellenza! Vuole che portiamo Sacchi anche lì, e magari Costacurta…”. “Ma quale Costacurta. Nicola Houston, tu ti presenti bene, sei un bell’ometto, ma di Tv capisci poco. Dimmi un po’: cosa conta davvero in un’intervista a un politico?”. “Mah, forse almeno qualche domanda scom…”. “Macché domande. Te lo dico io: il traino! Bisogna avere un buon traino. E sai chi trainerà Matrix?”. “Gullit? Van Basten?”. “Ma no, Houston. Pamela Prati!”. “Davvero, eccellenza?”. “Certo: da Barbara D’Urso vuoterà il sacco su Mark Caltagirone”. “Quello che non esiste?”. “Proprio così. Ormai meno le cose esistono e più ci sono: come vedi, ho fatto scuola. Caltagirone è il mio traino su misura. E poi, diciamocelo: traina più un pelo di…”. “Certo, sire”. “Subito dopo Mark toccherà a noi due. Stai bene attento a non perdere un solo punto di quelli che ti passa la D’Urso. Altrimenti, bunga bunga!”.

Quel “conflitto”

“I moderni mass media e la televisione in particolare agiscono da fondamentale meccanismo condizionatore della qualità della democrazia contemporanea”

(da Berlusconi di Paul Ginsborg Einaudi, 2003 – pag. 25)

Alla vigilia delle elezioni più importanti nella storia europea, e probabilmente di riflesso anche per la vita politica nazionale, l’incognita del dopo-voto domina le attese, le ansie e le incertezze degli italiani. La Lega stravincerà all’insegna del sovranismo? Il M5S riuscirà a contenere le perdite rispetto al boom delle ultime politiche? Oppure la ripresa del Pd sarà tale da invertire i rapporti di forza? E soprattutto, cadrà il già traballante governo gialloverde, la legislatura finirà in anticipo e torneremo presto alle urne?

C’è poi un detto e non detto che a livello mediatico incombe sull’esito elettorale. Ed è l’ipotesi, o per molti il timore e addirittura l’incubo, che si possa arrivare prima o poi a un accordo fra il Movimento 5 Stelle e il Partito democratico, per formare eventualmente una maggioranza alternativa e raggiungere una qualche intesa di governo. Fino al punto di preferire Matteo Salvini a Luigi Di Maio, benché il leader della Lega si sia presentato alle Politiche di un anno fa con la coalizione di centrodestra.

Evidentemente, per quanto i risentimenti e i rancori dell’ultima campagna elettorale vadano attenuandosi, sono ancora troppo forti per favorire una distensione o un disgelo fra i “dem” e i Cinquestelle, con gli attuali rapporti di forza. È passato ancora troppo poco tempo per sanare quelle ferite e quelle cicatrici.

Su tutto prevale poi una pregiudiziale che riguarda i legami fra il M5S e la Casaleggio Associati, la società di consulenza informatica che ha prodotto il blog di Beppe Grillo e ha donato al movimento la “piattaforma Rousseau” per gestire la comunicazione con i cittadini e con gli elettori all’insegna della “democrazia diretta”: un sistema operativo che il Garante della Privacy ha ritenuto manipolabile, comminando una sanzione di 50 mila euro.

Prendiamo in parola allora Di Maio che recentemente ha annunciato una proposta per regolare il conflitto d’interessi, assicurando che il M5S è disposto a votare anche contro quelli privati della Casaleggio Associati. Nell’eventualità che in futuro possa aprirsi un confronto con il Partito democratico, questo sarà certamente il primo banco di prova. Per il Movimento 5 Stelle, innanzitutto. Ma anche per il Pd che in passato, quando aveva la maggioranza in Parlamento, quel maxi-conflitto che gravava su Silvio Berlusconi, patron di Mediaset, leader di Forza Italia e presidente del Consiglio, non ha potuto o voluto risolverlo. Anzi, indipendentemente dal responso delle urne europee e dagli sviluppi della situazione, le due forze politiche potrebbero assumere pubblicamente l’impegno di convergere su questo obiettivo, per approvare finalmente un provvedimento sul conflitto d’interessi che è l’anticamera di una democrazia economica.

All’epoca del regime televisivo, la Lega faceva ancora parte della Casa o del Popolo delle libertà, per uscire e poi tornare nelle file del centrodestra superando per la prima volta Forza Italia nel 2018. Fatto sta che con il suo modesto 17% Matteo Salvini s’è intestato la vittoria elettorale, rompendo di nuovo la coalizione elettorale per sottoscrivere il “contratto di governo” con i Cinquestelle e formare il governo gialloverde. Quanto al conflitto d’interessi, “ma-chi-se-ne-frega”, direbbe il leader del Carroccio sempre disponibile finora a tutelare sottobanco gli affari televisivi e pubblicitari di Sua Emittenza.

Theresa May l’ultima vittima del referendum

Dopo David Cameron, anche Theresa May è rimasta sepolta politicamente sotto il referendum sulla Brexit. L’ex premier dei Tories aveva sbagliato i calcoli, convocando la consultazione popolare immaginando di vincerla e sbagliando la scommessa della vita.

May, invece, perde perché non è riuscita a concretizzare quel mandato popolare, incagliatasi dentro le contraddizioni del proprio partito e anche dell’establishment inglese che sulla Brexit non parla un linguaggio unitario.

La lista dei capi di governo e capi di Stato fatti a fette da referendum che si presumeva avrebbero vinto a mani basse, è però abbastanza lunga. In epoca recente si può cominciare certamente da Charles de Gaulle, il generale francese, padre della Quinta Repubblica che si fa sconfiggere per eccesso di autostima.

Dopo essere uscito indenne dal Maggio francese – nel ’68 dovette fuggire alcuni giorni da Parigi ma l’anno successivo stravinse le Legislative – memore del referendum vittorioso sulla riforma costituzionale che inaugura la Quinta Repubblica, nel 1958, e convinto di avere la Francia in pugno, convoca un altro referendum per approvare la riforma del Senato e la regionalizzazione. Perde, e scompare di scena.

In Italia, il primo a farsi del male è Amintore Fanfani. Dall’alto della guida Dc si intesta la battaglia del referendum abrogativo della riforma del divorzio. È il 1974, Fanfani è convinto che l’Italia centrista e bigotta che aveva sostenuto i governi a guida Dc, sia la maggioranza. E alle urne viene sorpreso da un’altra Italia che è molto più laica e libertaria di quanto si immaginasse e che, probabilmente, non gradisce la campagna virulenta di un segretario democristiano che agita il popolo per impedire la modernizzazione del Paese.

Tornando in Francia, vittima del referendum per la Costituzione europea sarà il principale erede di De Gaulle, Jacques Chirac. Anch’egli, rieletto nel 2002 al secondo turno contro Jean Marie Le Pen, padre di Marine, grazie a uno straordinario impeto antifascista che temeva la vittoria del Front National, nel 2005 infrange la sua lunga carriera politica sul voto che respinge il Trattato costituzionale europeo (e su cui le élite europee non hanno mai tirato una lezione definitiva, con i risultati che vediamo), dovendo passare la mano all’improbabile Nicolas Sarkozy. Tra l’altro, Chirac aveva compiuto un errore precedente di fiuto popolare quando, dopo il grande movimento sociale francese del 1995, parlando di “frattura sociale” da recuperare sciolse l’Assemblea legislativa subito dopo, spianando la strada al socialista Lione Jospin.

In Italia il referendum chiude – anche se è un quarantenne e ha tempo per recuperare – la parabola politica di Matteo Renzi. L’ex presidente del Consiglio, dall’alto del 40% ottenuto alle elezioni europee del 2014, gonfio di un consenso che sembra diffuso ovunque nel Paese e dotato di quantità industriali di autostima, si dirige a tavoletta verso il referendum del dicembre 2016 che dovrà approvare la “sua” riforma costituzionale (abolizione del Senato, etc.). Perde sonoramente e se ne va a casa. Non si era accorto, come non lo aveva fatto Cameron, che i referendum proposti dall’alto – figli del plebiscitarismo bonapartista – si rivolgono spesso contro i loro padri. A vincere, più spesso, sono i referendum che salgono dal basso, voluti da una campagna di opposizione che vede nello strumento delle urne popolari esattamente quello che il referendum è: il miglior strumento di democrazia diretta. Buono a battere i “tiranni” e i capi di governo, non per permettere loro di durare.

Pd-M5S, un dialogo per disarmare Salvini

Da gran tempo concordo con Cacciari. Da ultimo con il suo accorato appello ai 5Stelle e, di riflesso, al Pd. Nel suo intervento sul Fatto, egli si è indirizzato in particolare ai pentastellati argomentando efficacemente – riassumo all’ingrosso – quanto segue: non può reggere un governo fondato su un contratto; le visioni e le idee contano a dispetto del luogo comune dell’eclisse delle ideologie; quelle dei 5Stelle, più o meno elaborate, sono tuttavia opposte a quelle di Salvini oggi interprete di una estrema destra dai tratti inquietanti; dunque, conclude Cacciari, il M5S si chieda se è il caso di reiterare una contraddizione che manifestamente non produce buon governo e condanna il Movimento a una torsione al limite dello snaturamento (oltre che al suo ridimensionamento elettorale). Per parte mia, provo a girare l’appello all’altro naturale destinatario sin qui altrettanto sordo, il Pd, che, ostaggio di Renzi, con il suo aventinismo, spinse i due partner di governo a quel matrimonio innaturale. Solo tre spunti.

Primo. Al netto di un certo dilettantismo e di un qualche cedimento alla demagogia, come non riconoscere nella “cultura politica” dei 5Stelle e nelle sue ricette “tratti di sinistra”, una sensibilità sociale e ambientalista, un impegno contro privilegi, precarietà, disuguaglianze? A cominciare dalla misura bandiera del reddito di cittadinanza. Ci sta stigmatizzare il cedimento ai provvedimenti bandiera di Salvini (su immigrazione e legittima difesa), ma come si può sostenere la palese sciocchezza che Lega e 5Stelle pari sono? Come può una forza politica democratica e responsabile, formalmente posizionata a sinistra, osservando il quadro politico italiano ed europeo, non operare distinzioni, non stabilire quale sia l’avversario principale, quello più insidioso e allarmante?

Secondo. Dal Pd si auspica la caduta del governo. Naturale. Ma poi si invocano elezioni. Magari segretamente con il terrore che poi le elezioni si facciano davvero. Domando: con il suo 20% e privo di un sistema di alleanze come immagina il Pd di competere? Si discetta di alleanze larghe, plurali, inclusive, civiche e chi più ne ha ci metta altri aggettivi. Ma in concreto con chi? A questa giusta, reiterata domanda il Pd potrà continuare a non dare risposta anche dentro una campagna elettorale? O a limitarsi alla banalità che si dialoga con gli elettori ma non con chi li rappresenta? Non fu il Pd (renziano) ad abusare dell’appello al voto utile, che, nel nuovo scenario, sarebbe argomento usato contro di esso? Elezioni a breve, quasi certamente, sortirebbero due possibili risultati: la medesima attuale maggioranza presumibilmente con un equilibrio interno rovesciato oppure la vittoria di una destra autosufficiente e un governo Salvini. Un affare per il Pd?

Terzo. Il problema identitario non ce l’hanno solo i 5Stelle, ma anche il Pd. Esso non può esorcizzare a lungo la questione di un chiarimento circa il proprio profilo a valle della stagione renziana. Non può reiterare l’ambiguità tra partito di centro d’impronta liberale e partito da sinistra di governo. Non può cavarsela con slogan del tipo da Tipras a Macron; con liste raccontate come comprensive e unitarie, in realtà dal profilo politico indistinto; con una specie di Joint venture con il “partito Calenda” (icasticamente scolpita in un simbolo elettorale ove il pasticcio grafico riflette l’indeterminazione politica). Un Calenda che comunicativamente imperversa e al quale, dopo lunga esitazione, in cambio della candidatura, si è strappato l’impegno a una innaturale iscrizione al gruppo dei Socialisti europei; ancora un Calenda, ieri ministro di peso, che oggi si e ci racconta di essere stato spesso in dissenso dalle politiche di Renzi (?), ma che – al netto di una competizione tra loro essenzialmente riconducibile all’ego ipertrofico di entrambi – sotto il profilo politico-culturale ricalca esattamente quello di Renzi. Il quale, forse anche per questo, al momento, non ha ancora imboccato l’altra strada (titolo eloquente del suo libro).

Renzi appunto. È ancora lui il convitato di pietra. Al netto delle ipocrisie, il chiarimento identitario del Pd deve ancora fare i conti con il giudizio sul renzismo di ieri e il condizionamento del Renzi di oggi. Problema che non si risolve con le generose quote assegnate a renziani ed ex renziani negli organigrammi e nelle liste Pd. Sia chiaro: sempre più, analogo problema si pone per Di Maio con le sue schizofreniche oscillazioni di toni e di fasi nel rapporto con Salvini. Se, a dispetto della dialettica pubblica, il rapporto politico tra i due si rivelasse indissolubile, il chiarimento auspicato da Cacciari (e più modestamente da me) passerebbe da una naturale divaricazione tra destra e sinistra dei 5Stelle. Speculare a quella di Renzi dal Pd. Due tabù oggi, ma due nodi ineludibili sui due fronti, 5Stelle e Pd, che, se sciolti, possono mettere in movimento il quadro politico italiano e non consegnare il paese a Salvini.