Mail box

 

Per ottenere risultati sul clima bisogna partire dalla politica

Poi scenderà il silenzio elettorale, violato solo dal ministro dell’Interno che lo dovrebbe garantire. Ma i giovani scesi in piazza per l’ennesimo venerdì ambientalista meritano ascolto. Contro i mutamenti climatici non c’è rimedio senza radicali mutamenti politici…

Ma da noi i temi ambientali sono rimasti totalmente estranei alla campagna elettorale, marginali. Mentre in Germania erano al centro del dibattito politico e, non a caso, i Verdi sono proiettati verso il 20% dei consensi. Non sappiamo se l’onda verde europea travolgerà anche l’Italia premiando i pochi partiti che le preoccupazioni ambientali – Verdi europei, La Sinistra, Movimento 5 Stelle, di striscio Pd – le hanno messe nei loro programmi. Ciò che la storia recente insegna è che se il movimento ambientalista non diviene competitivo sul piano elettorale, è destinato a non contare nulla. Ma i Verdi di oggi sono pezzi consunti e confusi, sopravvissuti per rendita di posizione (residui di finanziamento pubblico?). In Europa, contro la Torino-Lione, e nelle regionali piemontesi in appoggio a Chiamparino che del Sì Tav ha fatto lo slogan della sua campagna elettorale.

Contraddizioni imperdonabili. Non è così che si dà futuro alla generazione di Greta.

Melquiades

 

Se la Lega ha questo potere, lo dobbiamo ai Dem

Noi non siamo stupidi. Vedemmo già, ormai sei anni fa, da parte del Pd lo stesso gioco sporco che Marco Travaglio descrive nel suo editoriale, dopo che si rifiutò qualsiasi dialogo con il M5S per ragione in parte giuste e in parte sbagliate, e non ci cascheremo di nuovo. Sappiamo che è parte della dirigenza Dem ad avere la colpa di questo governo, e nessun articolo potrà cambiare i fatti inoppugnabili che abbiamo di fronte ai nostri occhi. Io so che i motivi per cui è stata impedita la nascita di un governo M5S-Pd si chiamano Matteo Renzi e i suoi tirapiedi.

So che i motivi per cui devo sopportare Salvini ministro degli Interni e quasi-premier si chiamano Matteo Renzi e i suoi tirapiedi. So che i motivi per cui il sovranismo è ormai dominante nel governo gialloverde si chiamano Matteo Renzi e i suoi tirapiedi. E con Zingaretti segretario la situazione non è cambiata. Hanno rifiutato il dialogo prima della nascita di questo governo e rifiutano tuttora di fare da sponda al M5S per cercare di controbilianciare la Lega per un motivo semplice: arroganza. Non esiste un Gentiloni, un Renzi, uno Zingaretti, un Calenda che non si sentirebbe offeso, se non addirittura ferito, a fare da vice al premier Conte.

Come esiste qualche omiciattolo convinto che il vero nemico sia Di Maio, non Salvini, e lavora per favorire la destra da dentro il Pd. Non chiedo loro di vergognarsi, perché la vergogna appartiene a chi è abbastanza onesto con se stesso da sapere che c’è qualcosa di cui vergognarsi, ma che almeno non prendano in giro quelli a cui stanno chiedendo i voti per le Europee. Devo fare a giornalisti come Giannini i miei complimenti. Se prima ero indeciso tra dare la mia preferenza a un candidato del Pd, preferibilmente di quelli in fondo alla lista, e darla a un candidato M5S, ora lo sono meno. Più provano a non prendersi la (parziale) responsabilità dello strapotere di Salvini, più mi arrabbio, e più mi vien voglia di votare i Cinquestelle o chiunque altro solo per non farmi ricattare da loro. Questa gente mi odia (“mi” nel senso di quelli come me, di quelli che la pensano come me), e se non mi odia mi sopporta con fastidio, perché dovrei votarli alle Europee?

G.C.

 

Diritto di replica

In relazione all’articolo pubblicato lo scorso 23 maggio a firma di Davide Milosa, dal titolo “Una Giunta senza conflitti di interessi non è una Giunta”, il sindaco Mattia Palazzi si dichiara rammaricato per come Il Fatto Quotidiano abbia pubblicato conversazioni private del tutto decontestualizzate e senza alcun approfondimento fattuale che nulla hanno a che vedere con l’indagine, già peraltro oggetto di archiviazione.

Il sindaco Palazzi afferma inoltre che la realtà dei fatti è ben diversa da quella riportata: le presunte contravvenzioni non pagate sono state infatti regolarmente saldate nei termini assegnati per legge e la documentazione relativa è agli atti della Polizia Locale di Mantova. Palazzi replicherà a tutte le altre illazioni sottese nell’articolo nelle sedi più opportune.

Ufficio Stampa Sindaco Mattia Palazzi

 

Prendo atto della dichiarazione del sindaco.

Solo due brevi postille: le conversazioni fanno parte di un’annotazione allegata agli atti dell’indagine che, come scritto, è stata archiviata. Le chat pubblicate riguardano la gestione del Comune che interessa tutti i cittadini. Il contesto è molto chiaro. Quelle private, a sfondo sessuale, tra Palazzi ed Elisa Nizzoli, pur allegate, non sono state pubblicate. Sulle multe, mai è stato scritto che le contravvenzioni sono state tolte, e anzi si specifica che l’annotazione non lo chiarisce. Si dice però che Palazzi ha chiesto di toglierle. La sua frase al capo dei vigili è questa: “Ti mando la targa, si può evitare la multa?”

D. M.

Weinstein. Può trovare anche l’accordo, ma il giudizio morale non si compra

Buongiorno, ho letto che Harvey Weinstein ha raggiunto un accordo provvisorio per risarcire le donne che lo accusano di molestie: così facendo se la caverà con 44 milioni di dollari. Una cifra considerevole, ma ridicola, se paragonata al reato (anche reiterato): è questa la giustizia? A me sembra che valga solo per gli uomini ricchi e potenti.

Gentile Dora, chiariamo prima di tutto un aspetto fondamentale. Il presunto accordo – la notizia è stata riportata ieri mattina dal Wall Street Journal – riguarda esclusivamente le cause civili e non sarebbe ancora stato firmato. Harvey Weinstein, l’ex produttore di Hollywood precipitato nell’abisso dopo le accuse di decine di donne, per quanto costretto a lasciare la sua società e a curarsi dalla dipendenza dal sesso, non è un uomo che si arrende facilmente. E soprattutto dispone evidentemente, ancora, di un pool di legali che – mi disse una volta una delle sue vittime – “sono più squali di lui”. La cifra di 44 milioni di dollari, qualora l’accordo venisse firmato, andrà per la maggior parte (30 milioni) alle donne, per la restante proprio al team di avvocati che lo stanno sostenendo. Oltre tutto, secondo il Journal, a pagare potrebbe non essere soltanto l’“orco”, come fu definito allo scoppiare del movimento #MeToo, ma anche le assicurazioni, nell’ambito del procedimento di bancarotta della Weinstein Company. Considerando che parliamo di un uomo che ha avuto in mano il mondo del cinema per molti anni, ha ragione lei: la cifra non è considerevole, è proprio ridicola. Però, come le accennavo, questo discorso vale solo per le cause civili. L’ex produttore, infatti, andrà alla sbarra il prossimo settembre per rispondere all’accusa – questa sì, penale – di violenza sessuale ai danni di due donne per due episodi risalenti al 2006 e al 2013. Procedimenti per i quali, secondo la legislazione americana, rischia il carcere a vita. In quel caso non gli basterà staccare un assegno, quindi.

Mi lasci concludere, però, con una riflessione: quanto vale il corpo di una donna? Come è possibile quantificare il “danno” nei casi in questione, quando un uomo ricco e potente promette lavoro in cambio di prestazioni sessuali? Esiste una cifra non irrisoria che possa compensare l’onta e l’umiliazione subìte? A mio parere anche tutto l’oro del mondo non sarebbe nulla, ma per fortuna io faccio la giornalista, e non la giudice.

La discoteca ancora accatastata come “magazzino agricolo”

Sale a 17, oltre al minorenne sospettato di aver spruzzato lo spray urticante nel locale, scatenando il panico, il numero degli indagati nell’inchiesta della Procura di Ancona sulla strage nella discoteca “Lanterna Azzurra” di Corinaldo nella quale, la notte tra il 7 e l’8 dicembre scorso, morirono cinque adolescenti tra i 14 e i 16 anni e una madre di 39 anni, schiacciati dopo il cedimento di una balaustra fuori da un’uscita di sicurezza. La cerchia di indagati, che ora comprende anche il sindaco di Corinaldo, Matteo Principi, si è allargata dopo che le consulenze tecniche avevano ravvisato “gravi carenze della struttura” che di fatto rendevano il locale “inidoneo al pubblico spettacolo” e insicuro in particolare in condizioni di emergenza. Nel procedimento entrano i componenti della Commissione unificata di vigilanza sui locali di pubblico spettacolo dei Comuni in seno all’Unione Misa e Nevola che rilasciò parere favorevole alla licenza del locale; indagati anche due tecnici incaricati dalla società gestore Magic srl. Il “nodo” venuto al pettine riguarda le condizioni dell’immobile ancora classificato come “magazzino agricolo”, senza un cambio di destinazione d’uso né un “certificato di agibilità urbanistica”.

Trussardi e l’incriticabile piatto del “pesce scimmia”

Ergo, basta scrivere “il radicchio era un po’ salato” che il giorno dopo l’ufficio stampa del ristorante minaccia di chiuderti nelle cucine e di farti fare, incaprettato, due giri di lavastoviglie impostata su “100 gradi”.

Non per niente il più noto critico gastronomico, Valerio Massimo Visintin, gira incappucciato. Lui dice che è perché così quando va nei ristoranti nessuno lo riconosce e gli servono quello che servirebbero a un cliente qualunque, ma secondo me è per non farsi riconoscere quando lo cercano per menargli. La meravigliosa querelle avvenuta giorni fa via social tra il critico gastronomico Dominique Antognoni e Tomaso Trussardi è un esempio smagliante di quello che si è detto.

L’antefatto. L’esperienza nella ristorazione di casa Trussardi ha avuto una vita abbastanza travagliata e da pochi mesi Tomaso stesso è stato nominato presidente e ad del segmento food. “Mio padre ha aperto la caffetteria, mio fratello l’ha trasformata in ristorante, mia sorella ha voluto le stelle: una scelta prestigiosa ma che non creava economicità. Io ho deciso di non prendere più chef star”, ha dichiarato in febbraio alla stampa. A quel punto la stampa gli ha domandato quale fosse la sua rivoluzionaria idea di ristorazione, visto che aveva rinunciato al suo chef e alle due stelle Michelin, e lui ha risposto: “Una trattoria di lusso, la gente vuole mangiare bene senza spendere una follia”. Cosa voglia dire “trattoria di lusso” è mistero fitto. È tipo “un’utilitaria Lamborghini, la gente vuole andare a 200 all’ora senza spendere una follia”. Cioè, se la gente vuole mangiare bene senza spendere, va in trattoria, se la trattoria ha i divani con struttura in ottone brunito e le posate d’argento non è più una trattoria, se la costoletta di vitello costa 50 euro come attualmente al ristorante Trussardi alla Scala, il prezzo non è da trattoria di lusso, ma da ristorante costoso. Quindi “trattoria di lusso” non vuol dire un’emerita cippa. Il critico Antognoni, a quel punto, fa un’osservazione simile su Facebook e a febbraio, nel pieno della settimana della moda, quando i Trussardi in teoria avrebbero altro a cui pensare, Tomaso risponde piccato che se il critico vuole sapere cosa sia una trattoria di lusso, questa volta deve pagare. Insomma, lascia intendere che il critico in questione in passato sia andato a mangiare nel suo ristorante senza tirar fuori un euro.

La querelle finisce lì, ma è in arrivo il secondo round. Antognoni, qualche giorno fa, studia il menu della trattoria di lusso e scrive un articolo su chefmaitre.com intitolato “Il pesce scimmia del signor Trussardi”. Vedo il titolo, penso che dopo anni di logo col famoso levriero, Tomaso abbia deciso di cambiare logo e animale e di buttarsi sul genere fantasy-mitologico, con un simbolo che sia metà carpa e metà bertuccia. Invece no, Antognoni sta parlando della nuova trattoria di lusso, più precisamente del menu.

Un menu che lui definisce “un foglio word qualsiasi” in cui “Piccione rapa e piselli” diventa Pigeon with turnips and beans, solo che beans non vuol dire piselli, ma fagioli. In cui a sinistra, in italiano, si informa il cliente che la bistecca viene calcolata all’etto, mentre a destra, in inglese, viene detto che si calcola al grammo. Ma soprattutto, tra le proposte di pesce, spicca la “rana pescatrice” (monkfish, in inglese) che però nel menu di destra diventa MONKEY fish, ovvero pesce scimmia. Un menu pensato da Tim Burton, insomma. Di sicuro un’esperienza culinaria insolita assaggiare il famoso “gorilla pinna gialla”. Insomma, che il ristorante Trussardi abbia un menu con gli errori del menu cinese in Viale Padova o di quell’indimenticabile menu in Bolivia in cui gli spaghetti al pesto erano tradotti “Spaghetti alla peste”, è una sciatteria incredibile e Antognoni lo fa notare. Apriti cielo. Tomaso Trussardi, in tutta risposta, come un bimbominkia qualunque lancia strali su Facebook: “Certi imbecilli sedicenti critici culinari si permettono di giudicare senza competenze e esperienze di lavoro…. gli veniva permesso di mangiare a ufo (per non dire a scrocco)… ha dimostrato con copertine al miele il suo totale asservimento a chi lavorava nelle nostre cucine e gli permetteva di gozzovigliare a mie spese… ma si sa, la pacchia finisce, questo dodicenne hater…etc…”. Poi, non contento, si rivolge a chi lavorava nelle sue cucine, ovvero lo chef stellato Roberto Conti, invitandolo a togliere dalla sua bio su Facebook “executive chef presso il ristorante Trussardi” e da gran signore, specifica che sebbene Conti faccia credere di essersene andato di sua spontanea volontà, l’ha licenziato lui. “Grazie, ti auguro di fare bene COME NE SEI capace quando vuoi!”, conclude Trussardi. E lì diventa chiaro chi ha scritto il menu della trattoria di lusso. Del resto, si sa, nelle trattorie è tutto fatto in casa, pure i menu. Resta solo da capire se il pesce scimmia, nella scala evolutiva, sia l’anello di congiunzione tra l’uomo e una trattoria di lusso. Attendiamo la risposta del signor Tomaso Trussardi. Via Facebook, naturalmente. Del resto, i grandi comunicatori nel mondo della moda come lui e Stefano Gabbana, rispondono solo così.

Dal nazionalismo alla rappresentanza: se ne parla a Trento

“Quale nazionalismo. Alle origini di una idea” è questo il titolo della lecture che Maurizio Viroli, accademico e professore emerito di Teoria politica alla Princeton University (introdotto da Carlo Martinelli) terrà venerdì 31 maggio nel corso del Festival dell’Economia che si svolgerà a Trento dal 30 maggio al 2 giugno. Uno solo dei circa 60 incontri previsti sul tema “Globalizzazione, nazionalismo e rappresentanza”. Il Festival, progettato dagli Editori Laterza con la direzione scientifica di Tito Boeri, è promosso dalla Provincia autonoma di Trento, dal Comune di Trento e dall’Università degli studi di Trento con diversi partner, da Intesa Sanpaolo a Hydro Dolomiti Energia. “Cadendo subito dopo le elezioni europee, il Festival dell’economia di Trento è una straordinaria occasione di dibattito politico” ha detto l’editore Giuseppe Laterza. “Il tema è di grande rilevanza – ha commentato Tito Boeri, direttore scientifico del festival – e molto studiato in questi ultimi anni. Chi ha subito gli effetti negativi della globalizzazione si è orientato su una nuova offerta politica che si caratterizza per la critica radicale alle classi dirigenti tradizionali”.

“Il gruppo Espresso eluse le tasse nel ’93-’94”

Ci vorranno un paio di mesi affinché l’Agenzia delle entrate calcoli quanto debba pagare il gruppo editoriale l’Espresso, fondato da Carlo De Benedetti, dopo aver perso definitivamente in Cassazione il ricorso per una vicenda lontanissima nel tempo, addirittura risalente ai primi anni 90. La Quinta sezione civile ha confermato che c’è stata “elusione fiscale”. Verosimilmente, il gruppo potrebbe dover pagare una decina di milioni di euro al fisco, oltre ai “25 mila euro” di spese legali.

Sono stati bocciati tutti i 36 motivi di ricorso contro l’accertamento fiscale del 1993-1994 “ai fini Irpeg-Ilor (l’imposta su reddito delle persone giuridiche e l’imposta locale sui redditi, ndr)” che ha registrato un maggiore guadagno complessivo di quasi 6 miliardi di vecchie lire.

La vicenda, in parole semplici, verte su un simulato contratto di usufrutto di quote della società Compar, a fronte di una reale cessione di quote e di relativi utili, che allora ha fatto risparmiare tasse, indebitamente, al gruppo. Secondo l’Agenzia delle entrate, che ha avuto ragione in tutti i gradi di giudizio, era una cessione e, dunque, non dava diritto a detrazioni. Insomma, l’usufrutto era il classico schermo per eludere il fisco.

Nella sentenza d’appello della Commissione tributaria regionale di Roma (nel 2009) – spiega la Cassazione nelle motivazioni depositate il 16 maggio scorso – veniva confermata “la legittimità degli avvisi di accertamento, ai fini dell’Irpeg e dell’Ilor per gli anni 1993 e 1994, con i quali veniva contestata la indeducibilità delle quote di ammortamento relative al costo sostenuto per l’acquisto dell’usufrutto sul 98,98% delle azioni della Compar spa nella titolarità della Lagfin B.V., società di diritto olandese, con contratto del 22 novembre 1991, nonché la indetraibilità delle ritenute d’acconto operate sui dividendi percepiti in forza del diritto di usufrutto, in quanto la riqualificazione del contratto – simulazione della cessione del diritto di usufrutto a fronte della mera cessione del dividendo – appariva incontrovertibile”. Cioè, ribadisce l’elusione da parte del gruppo l’Espresso con il trucco del finto usufrutto.

Ancora nella sentenza di merito, ripresa dalla Cassazione, si spiegava che all’epoca dei fatti “pur non esistendo nell’ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l’emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale”. Infine, viene ricordata la giurisprudenza di Cassazione, a partire dal 2005, che interviene “sulla tematica del ‘lavaggio fiscale’ dei dividendi” (dividen washing) per stabilire “principi generali di impedimento delle condotte elusive”. Il gruppo l’Espresso dopo aver perso, dovrà pagare la maggior imposta che deriva dai maggiori redditi accertati allora dal fisco e riconosciuti dai giudici, con 30 anni di interessi e sanzioni, stabiliti dall’Agenzia delle entrate. Nel 1993 furono accertati “2.812.333.000” di lire di maggior reddito Irpeg-Ilor e “2.654.735.000 nel 1994.”.

Nella guerra alla corruzione l’Italia non è più maglia nera

Se è vero che tre indizi fanno una prova, l’Italia non è più maglia nera nella lotta alla corruzione. Sembra una boutade in un Paese in cui le inchieste per mazzette impegnano a ritmo continuo le procure dalla Lombardia alla Sicilia. Eppure è quello che emerge dai giudizi messi nero su bianco dalle più importanti organizzazioni internazionali del settore. Tre report diversi negli ultimi sei mesi, infatti, riconoscono all’Italia di aver intrapreso un percorso positivo nella guerra alle tangenti. L’ultimo in ordine di tempo è il secondo rapporto periodico della Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione.

Dodici pagine in cui si ammettono “una serie di passi avanti” intrapresi “per promuovere la trasparenza generale a livello governativo e l’uso di dati aperti per esempio sulla trasparenza delle informazioni sugli appalti”. Per l’Onu è positiva soprattutto l’introduzione della legge Severino (mai citata direttamente dal rapporto) e il potenziamento dell’Anac. “Pur non influenzando la candidatura o l’elezione, l’Italia ha stabilito casi di ineleggibilità, incompatibilità su un mandato parlamentare”. Disco verde pure per l’obbligo di “designare un responsabile della prevenzione della corruzione” e “sviluppare un piano triennale per la prevenzione della corruzione in conformità con il piano nazionale”. Giudizio positivo anche per la “maggiore trasparenza nel finanziamento di candidati e dei partiti politici”. Su quest’ultimo punto, però, le Nazioni Uniti avvertono: “L’Italia è recentemente passata da finanziamenti pubblici a finanziamenti puramente privati. Ciò metterà più a dura prova il corretto funzionamento dei sistemi di trasparenza”. In questo senso l’Onu invita il nostro Paese a “monitorare l’impatto della transizione dal finanziamento pubblico a quello privato a partiti e candidati. E, se li rende più vulnerabili al lobbismo, intraprendere azioni correttive secondo necessità”.

Due le raccomandazioni finali: “Considerare ulteriormente il problema dei magistrati che vengono eletti a cariche pubbliche o nominati in ruoli di governo, tenendo conto dei principi fondamentali di indipendenza e imparzialità della magistratura” ed “espandere le restrizioni occupazionali per i membri del Parlamento”. Due temi – quelli delle toghe in politica e delle lobby – affrontati dalla bozza di legge sul conflitto d’interessi del M5s, mai calendarizzata in Parlamento.

A promuovere la legge Severino e l’Anac è anche l’ultimo rapporto di Transparency International del gennaio 2019, che riconosceva all’Italia il 53esimo posto al mondo per percezione della corruzione, con due punti guadagnati in un anno e 19 posizioni dal 2012. “C’è qualche segnale positivo ma è ancora poco. Siamo ancora agli ultimi posti, davanti a Slovacchia, Croazia, Romania, Ungheria, Grecia e Bulgaria”, diceva il guardasigilli Alfonso Bonafede. Trasparency, infatti, aveva focalizzato la sua analisi sul 2018: rimaneva dunque fuori dal periodo la legge Spazzacorrotti. Citata espressamente dal Gruppo di Stati contro la corruzione del Consiglio d’Europa (Greco) che, nel dicembre scorso hanno scritto nel loro dossier, che “si sarebbe potuta rivelare fondamentale per far avanzare ulteriormente la lotta contro la corruzione”. Quindici pagine in cui riconosceva all’Italia progressi “nella prevenzione della corruzione nel sistema giudiziario”. Poi avvertiva: “Molto resta ancora da fare per mettere in opera tutte le raccomandazioni che sono state rivolte, in particolare per quanto riguarda i parlamentari”. Insomma da Strasburgo arrivava una specie di “sei meno”, una sorte promozione con riserva: grasso che cola per il Paese che ha inventato Tangentopoli. D’altra parte i dossier misurano l’efficacia delle leggi anti-mazzette e non certo la scomparsa della corruzione. Che è in ottima salute.

Sky, multa dell’Agcom da 2,4 milioni di euro per il pacchetto calcio

Non ha informato adeguatamente gli utenti delle modifiche ai contenuti al pacchetto Calcio e non ha dato seguito alla diffida. Così l’Agcom ha deciso di multare Sky per 2,4 milioni. La società, scrive l’Autorità nella delibera, “ha leso il diritto di scelta di una vasta platea di utenti, conseguendo, altresì, indebiti vantaggi economici in conseguenza della violazione”. Al centro della questione la differenza di contenuti, tra la stagione 2017/2018 e 2018/2019, del pacchetto Calcio, quando Sky non ha più offerto tutte le partire della Serie A e B con l’ingresso di Dazn a cui sono state assegnate tre partita a settimana per ciascun turno e tutta la Serie B. Modifiche che avrebbero dovuto spingere Sky a permettere agli utenti di recedere gratuitamente dal pacchetto Calcio, il cui costo dell’abbonamento per i già clienti è invece rimasto invariato. Almeno secondo quanto ha sancito l’Agcom.

Dal canto suo Sky “ritiene di aver agito conformemente alla normativa e confida che la correttezza del proprio operato emergerà da un esame più approfondito in sede di ricorso dinanzi al Tar”.

“80 milioni alla società di Amara”. L’uomo dei depistaggi inguaia Eni

Ottanta milioni di euro. È la cifra che Eni avrebbe versato alla Napag Italia Srl e alla Napag Trading Limited, le società che farebbero capo all’imprenditore calabrese Francesco Mazzagatti, ma di cui l’avvocato Piero Amara sarebbe, secondo i magistrati, il vero “dominus”. Le somme sono state scoperte dalla Procura di Roma e dalla Guardia di Finanza nel corso di due perquisizioni, tra luglio 2018 e febbraio 2019, presso lo studio di Amara a via della Frezza. Negli ultimi vent’anni è stato legale esterno di punta del colosso petrolifero, indagato a Milano per aver cercato di depistare l’inchiesta sulle presunte mazzette pagate da Eni in Nigeria.

L’indagine è stata ferma per alcuni mesi nella capitale, prima di essere trasferita per competenza a Milano. Il pool coordinato dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale, e dai pm Laura Pedio e Paolo Storari, giovedì scorso ha disposto la terza perquisizione negli uffici Napag, che nel frattempo ha cambiato sede. Amara è indagato, insieme ad “altre persone”, per “induzione a non rendere dichiarazioni o a rendere dichiarazioni mendaci all’autorità giudiziaria”, e per “autoriciclaggio”.

L’accusa ritiene che Amara, tramite la Napag, avrebbe stipulato un “fittizio contratto di compravendita”, di 25 milioni di euro, con la Eni Trading Shipping (Ets), società del colosso petrolifero che si occupa della compravendita di petrolio e gas, già presieduta da Massimo Mantovani, capo dell’area legale del colosso energetico. L’operazione prevedeva l’acquisto, da parte di Eni, di “polietilene ad alta densità” (Hdpe) da Napag attraverso un bonifico presso la Banca Mediolanum, filiale di Basiglio (Milano). Operazione avvenuta il 27 aprile 2018, nel periodo in cui Amara era detenuto a Rebibbia. Secondo i magistrati, i soldi sarebbero serviti per compare il “silenzio” dell’avvocato, evitando così il possibile “coinvolgimento dei vertici Eni nell’attività di inquinamento probatorio” messa in piedi con l’invio di esposti anonimi alle Procure di Trani e Siracusa, permettendo di aprire un’indagine parallela che potesse indebolire l’inchiesta milanese per corruzione internazionale nell’ambito dell’acquisto del giacimento nigeriano Opl245, che vede indagati l’ad di Eni, Claudio Descalzi e l’ex Paolo Scaroni. La Napag inoltre, con i soldi di Eni, avrebbe “acquistato le quote di un impianto petrolchimico iraniano”, denominato “Mehr petrolchemical Company”.

L’inchiesta madre inizia a Roma, dove i magistrati scoprono un vero e proprio “sistema” architettato da Amara per comprare giudici e magistrati ordinari, amministrativi (fino al Consiglio di Stato) e pilotare sentenze e fascicoli. L’avvocato ha già patteggiato a Roma una condanna a 3 anni per corruzione in atti giudiziari, e la sua collaborazione con la giustizia ha permesso di aprire nuovi filoni d’indagine.

Sotto indagine finisce anche la Napag, costituita da Mazzagatti a Gioia Tauro nel 2012, con un capitale di 10 mila euro. Si dedica all’import-export di succhi di frutta, ma due anni dopo cambia attività puntanto all’oil & gas. Socio minoritario della Napag è Nadia Faisal Ali Al Matrook, moglie di Mazzagatti, che siede nel board della Famcorp, la holding fondata dal padre Faisal Ali Al Matrook, il tycoon bahreinita specializzato nell’edilizia, negli investimenti finanziari e nel trading e prodotti petrolchimici.

Il gruppo di Mazzagatti si ingrandisce. Passa in poco tempo da un capitale di 300 mila euro a 13 milioni. Si registra all’Eni Spa Trading desk di Londra, all’agenzia della Nato (Nspa) e presso le società statali petrolifere dell’Azerbaijan (Socar), dell’Emirati (Enoc) e dell’Oman (Oti). L’azienda madre si sdoppia dando vita alla britannica Napag Trading Limited, che oggi ha un capitale di 43 milioni di euro, e alla mediorientale Napag Middle Est Fczo. La sola azienda italiana ha fatto ricavi per 162 milioni nel 2017, e 107 nel 2018.

I 25 milioni attenzionati ora dai pm milanesi, versati ad Amara quando era in carcere, sono solo una parte dei soldi versati da Eni a Napag. A febbraio scorso, perquisendo la sede dell’azienda di Mazzagatti, la procura di Roma trova tracce di altre transazioni, tutte effettuate nel 2018: circa 19 milioni in data 16 luglio, 5,9 milioni il 7 agosto e tre diversi bonifici, per un totale di 42 milioni, rispettivamente l’1, il 4 e il 29 ottobre. Finiscono tutti nei conti bancari della Emirates NBC Bank PJSC. Altri 15 mila, questa volta in dollari, arrivano il 26 novembre presso la First Abu Dhabi Bank PJSC, e infine 1 milione e 300 mila dollari il 28 dicembre nei conti della ING Belgium. Il totale della cifra che finisce nelle casse di Napag è di circa 80 milioni di euro.

Sull’accusa della Procura di Milano, Salvino Mondello, difensore di Amara non ha dubbi: “Il contratto di acquisto tra Eni e Napag è certamente vero. L’avvocato è estraneo alla vicenda, la Napag non è sua e non ha ricevuto 25 milioni per il suo silenzio”. Eppure nel pc di Amara, dopo gli accertamenti degli inquirenti romani, risultava la “proposta contrattuale” per l’affitto della nuova sede di Napag, stipulata pochi giorni prima del suo arresto.

Eni “esclude di aver inteso o dato corso ad azioni volte ad influenzare il comportamento processuale dell’avvocato Amara”. E conferma di aver avviato “indagini interne” con il “gruppo Napag” e “di essere la parte lesa” rispetto alle “ipotesi inerenti presunti depistaggi delle attività investigative”.

Bonisoli annuncia la stretta sui bandi per i volontari

Dare delle regole al volontariato nei Beni culturali: secondo fonti del Mibac, nei prossimi giorni dovrebbe essere pubblicato uno schema di bando che dovrebbe regolamentare le convenzioni tra i poli che afferiscono al ministero di Alberto Bonisoli (in foto) e le associazioni di volontariato, anche “a tutela dei volontari di cui si riconosce passione e abnegazione”. La notizia arriva dopo la pubblicazione di alcuni bandi per stringere convenzioni con le associazioni di volontari retribuiti con rimborsi spese per fare fronte alla mancanza di dipendenti (di cui anche il Fatto ha parlato nei gironi scorsi). Nell’atto di indirizzo che precederà lo schema e che sarà firmato nei prossimi giorni, spiegano si ricorderà che l’attività di volontariato non può essere retribuita in alcun modo, nemmeno dal beneficiario, e che l’eventuale rimborso spese è disciplinato dal Codice del terzo settore e che l’entità del rimborso non può essere ancorata a parametri temporali collegati alla prestazione svolta ed erogata dalla singola Associazione. Saranno poi sottoposti a verifica tutti i bandi pendenti relativi alla selezione di associazioni di volontariato, con contestuale revoca, qualora non rispondenti all’atto di indirizzo.