E allora ditelo che dobbiamo contagiarci tutti prima o poi…

Difficile descrivere l’incubo che stiamo vivendo. Siamo fondamentalmente un gregge di pecore lasciate libere per festeggiare il Natale e il nuovo anno che arriva senza alcuna certezza, ma in nome dell’economia. Il virus avanza, dunque la natura fa il suo corso e noi, poveretti, seppur in gran parte vaccinati, siamo vittime di contagi che si moltiplicano, con conseguenti quarantene e vuoto delle istituzioni.

Mi viene naturale pensare a un grande film: Il Dormiglione di Woody Allen, dove chi cercava modestamente un senso nella vita – il nostro Woody e la meravigliosa Diane Keaton – era considerato un rivoluzionario e tutti gli altri erano robot che applicavano procedure quotidiane prestabilite fino ad arrivare all’orgasmometro. Sembriamo un po’ così. Dei robot che inseguono i tamponi rapidi (inaffidabili, perché ormai è chiaro che i falsi negativi sono tantissimi) e ogni ogni tanto cerchiamo disperatamente di farci un molecolare. Che è ormai un miraggio e, quando per miracolo lo raggiungiamo, lo vediamo come se incontrassimo Stephen Hawking e Rita Levi Montalcini in persona.

Intanto, se solleviamo (o abbassiamo) lo sguardo sulla politica, non abbiamo la più pallida idea se – in base a promesse o a desideri – il nostro presidente del Consiglio sarà ancora al governo o diventerà presidente della Repubblica. In mezzo alla guerra dei tamponi che non funzionano, siamo in attesa di capire chi ci guiderà e la decisione è dettata da un altro gregge, quello che siede in Parlamento. Siamo messi bene? Non mi pare proprio. Siamo forse convinti di esserlo. Siamo solo pecore. Io credo fortemente nella scienza. Sono vaccinata già con terza dose, anche se per un errore di registrazione ancora non mi è arrivato il Green pass aggiornato: poca cosa. Però registro code infinite per il tampone rapido (ripeto: inaffidabile) al costo di 10 euro (come minimo) e per il tampone molecolare privato al costo di 90-100 euro. Ma cosa stiamo facendo? Stiamo ingrassando un sistema che non ha la minima idea di dove va e dove ci porta. I tamponi molecolari arrivano palesemente in ritardo. C’è un plotone di gente positiva che vaga in giro festeggiando sui rapidi falsi negativi. E gente positiva al rapido che attende giorni e giorni una chiamata delle istituzioni per capire la procedura da seguire (e spesso continua a esibire il Green pass che nessuno le revoca).

Il governo e il supercommissario Figliuolo non hanno la più pallida idea di che diavolo ci sta capitando e ci capiterà: annunciano piani straordinari che resteranno lettera morta. Il presidente del Consiglio non sa neppure chi sarà e cosa farà a febbraio. Nel contempo la Sanità è al collasso: se vi sembra giusto che i medici curanti non rispondano o facciano diagnosi da remoto, vuol dire che siamo già nel film Il Dormiglione.

La Sanità è al collasso, ma non per colpa dei professionisti che ci lavorano e molto spesso sono eccellenze. Bensì per colpa di chi non ha investito come si sarebbe dovuto nonostante il Covid. Una banda di incompetenti (altro che Migliori) ci sta portando all’esasperazione. Ditecelo che ci dobbiamo ammalare tutti, così smettiamo di fare la fila per tamponi inutili, pagandoli uno sproposito, senza che il governo pensi neppure a calmierarne il prezzo. E la guerra ai no-vax come pensano di combatterla? Io non li tollero: seguo pedissequamente ogni indicazione della Scienza. Ma come pensano di convincerne qualcuno, in questo casino? Cosa gli dicono, senza uno straccio di dato serio che dimostri che hanno torto? Io lo so che sbagliano: ma come pensano i politici di dimostrarlo? Assicurando che gli ambienti riservati ai titolari di Green pass sono “sicuri” dai contagi e poi imponendo i tamponi anche ai vaccinati con Green pass e tripla dose per partecipare a eventi oppure per entrare o rientrare in Italia? La gestione dei tamponi è in mano al business. Quelli rapidi fatti in casa fanno ridere: non siamo medici o infermieri, non ce la facciamo a infilarci un tampone fino alla fronte. Eppure ce lo vendete, anziché investire su molecolari più diffusi, riducendo tempi e costi per i cittadini. Ma è molto meglio lasciare libera l’economia, cioè gli affari dei privati, farci ammalare tutti e lasciare che la natura faccia il suo corso. Vero?

 

In un mese infettati anche 8 mila già con tripla dose

Proprio ieri la campagna vaccinale contro il Covid-19 ha compiuto un anno e i numeri al 26 dicembre 2021 dicono che in Italia i vaccinati con due dosi sono 46.217.414 (compresi 1,5 milioni che hanno fatto il monodose Johnson&Johnson e 1,6 milioni che hanno avuto una sola dose per pregressa infezione), cioè il 77,99% dell’intera popolazione inclusi i bambini di meno di 5 anni non vaccinabili. Ci sono poi quasi due milioni di persone (1.893.000 per l’esattezza) che hanno fatto una sola dose e aspettano la seconda. E 17.148.245 hanno avuto la terza dose: il 28,94% del totale, quasi uno su tre. Ma il dato supera il 68% tra gli over 80 e il 51% tra i 70/79enni.

Secondo l’ultimo report della struttura commissariale, aggiornato alle 8:30 del 24 dicembre, gli italiani di almeno 12 anni che non hanno fatto nemmeno una dose sono invece 5,673 milioni, ma senza considerare i guariti. Sono diminuiti di circa 192 mila unità nell’ultima settimana presa in esame, nei sette giorni precedenti si erano vaccinati in 227.689. I non vaccinati si concentrano tra i 40/49enni (1,221 milioni pari al 13,91% di quella fascia d’età) e i 50/59enni (1,038 milioni, il 10,76%) ma in proporzione sono molti di più tra gli adolescenti (12/19 anni): 854.716 ovvero il 18,47 per cento. E ancora di più tra i bambini da 5 a 11 anni, vaccinabili solo dal 16 dicembre: fino al 23 dicembre l’adesione alla campagna è stata del 4,13%, 151.143 bambini su 3,6 milioni hanno fatto la prima dose (per la seconda non c’è stato tempo), con punte del 6,68% in Lombardia, del 6,16% in Puglia e del 5,73% nel Lazio.

Nell’ultimo report esteso dell’Istituto superiore di sanità, aggiornato al 21 dicembre, sono indicate (come nella tabella sopra) diagnosi, ricoveri e decessi per le diverse categorie di vaccinati e non. Questi ultimi rischiano più di tutti: tra il 19 novembre e il 19 dicembre oltre 140 mila infezioni su 7 milioni di non vaccinati (al 4 dicembre) che significa 1.919 ogni 100 mila abitanti contro quasi 156 mila (526 su 100 mila) tra chi ha fatto due dosi da meno di 150 giorni (28,2 milioni di persone), 91 mila (804 su 100 mila) tra chi ne ha fatte due ma da oltre cinque mesi (13,1 milioni) e 7.655 tra chi ne ha fatte tre (4,1 milioni). Nei reparti ordinari, tra il 5 novembre e il 5 dicembre, sono stati ricoverati 5.944 non vaccinati (118 su 100 mila), 2.065 con due dosi recenti (11,2 su 100 mila), 4.047 con due dosi da più di 150 giorni (20,5 su 100 mila) e 272 con tre dosi (9,4 su 100 mila). Nelle terapie intensive, sempre nel periodo 5.11-5.12, sono stati ammessi 887 non vaccinati (16,5 su 100 mila), 186 con due dosi recenti (0,8 su 100 mila), 254 con due da oltre 150 giorni (1,4 su 100 mila) e 26 con tre (1,4 su 100 mila). I morti, calcolati tra il 28 ottobre e il 28 novembre, sono stati 839 tra i non vaccinati (23,4 su 100 mila), 22 tra chi ha fatto due dosi da meno di 150 giorni (2,1 su 100 mila), 838 con due dosi da oltre 150 giorni (3,1 su 100 mila) e 45 con tre dosi (1,6 su 100 mila).

I non vaccinati, secondo il rischio relativo calcolato dall’Iss, hanno 2,4 possibilità in più di prendere il Covid rispetto ai vaccinati da oltre 150 giorni, 3,6 in più rispetto a chi ha fatto due dosi da meno di 150 giorni e 6,6 rispetto a chi ha fatto il booster o la dose aggiuntiva. Le loro probabilità di finire in ospedale vanno da 5,8 a 12,6 volte quelle dei vaccinati, quelle di essere ricoverati in terapia intensiva da 11,8 a 20,6 e quelle di morire da 7,5 a 14,6. Tra gli over 80 ci sono 56,1 morti non vaccinati per ogni morto con tre dosi e 85 non vaccinati in rianimazione per uno con tre dosi.

L’Iss riporta 59.605 casi di infezione fra il 6 e il 19 dicembre nella popolazione da 0 a 19 anni con 215 ricoverai nei reparti ordinari, 4 in terapia intensiva e un decesso. Non c’è scritto quali altre malattie avessero.

Spallanzani e Sacco: “Ora pretendiamo i vaccini aggiornati”

La linea del governo è sempre: “Vaccinatevi e non disturbate”. Intanto è saltato il tracciamento, gli ospedali sono in difficoltà e i contagi in crescita con la variante Omicron possono moltiplicare le persone in quarantena fino a mettere in crisi i servizi pubblici e la stessa sanità. Così dalla comunità scientifica sale la richiesta alle case farmaceutiche di aggiornare i vaccini, che hanno ridotto i rischi del Covid, assicurano profitti miliardari ma sono stati concepiti molto prima della variante Delta e della Omicron. Ha cominciato ieri mattina Francesco Vaia, il direttore dello Spallanzani di Roma: “Non consentire a tutto il mondo di vaccinarsi, superando la logica del brevetto e del profitto fuori controllo, e non aggiornare ancora i vaccini alle varianti si sono dimostrate scelte tragiche e sciagurate. E molti governi ne portano la responsabilità”, ha scritto su Facebook. Poi Massimo Galli, ex direttore delle Malattie infettive al Sacco di Milano: “Questo virus ci ha dimostrato, nell’arco di un anno solare, di aver tirato fuori tre varianti una più diffusiva dell’altra”. Se “i prodotti a vettore virale sono più o meno usciti di scena come vaccini strategici – ha ricordato ­– per rimanere tali quelli a mRna hanno bisogno di aggiornamento”. Ancora più netta Maria Rita Gismondo, direttore della Microbiologia sempre al Sacco: i vaccini attuali sono stati pensati per “il virus ‘nonno’, quello di Wuhan”, ora invece “dobbiamo pretendere vaccini nuovi” perché “le nuove varianti non sono coperte come dovrebbero”. Del resto Ugur Sahin, numero 1 della tedesca Biontech, partner di Pfizer, ha dichiarato nei giorni scorsi che la terza dose protegge al 70/75% dall’infezione: vuol dire che il 25-30% dei vaccinati può infettarsi con Omicron.

In quasi tutta l’Europa la variante scoperta per la prima volta in Sudafrica fa impennare i contagi. Il ministro della Sanità francese Olivier Véran prevede “oltre 250 mila casi al giorno entro l’inizio di gennaio” e anche lì si accelera sui vaccini: la terza dose detta booster può essere anticipata a tre mesi dalla seconda (qui siamo a quattro). In Italia ieri sono stati registrati 30 mila contagi, con un aumento del 63 per cento rispetto a lunedì 20 dicembre. Il sottosegretario alla Salute Pierpaolo Sileri ne prevede “centomila nei prossimi giorni”. I morti sono stati 142 e risalgono quasi tutti a contagi da variante Delta, come i pazienti nei reparti ordinari aumentati di 503 unità (il totale è 9.723) e quelli nelle terapie intensive cresciuti di 37 (totale 1.126). In due settimane la Omicron è salita dallo 0,2 al 28 per cento dei contagi, secondo Sileri potrebbe essere al 50-60 per cento.

L’impennata dei contagi ha spinto diversi scienziati e i presidenti delle Regioni, guidate dal leghista Massimiliano Fedriga, a chiedere la riduzione, se non l’abolizione, della quarantena per i vaccinati entrati in contatto con soggetti positivi, che attualmente è di sette giorni. Domani se ne occuperà il Comitato tecnico scientifico. L’ipotesi è ridurla a tre giorni con tampone per chi ha fatto tre dosi e forse per chi ne ha fatte due da meno di cinque mesi. Il passaggio è stretto. La variante Omicron ha tempi di incubazione più brevi (gli esperti dicono 3 giorni contro i 5 della Delta), infetta più facilmente i vaccinati e però, secondo i primi studi, provoca quadri clinici meno gravi della Delta. Non è chiaro, però, in quale misura la minor gravità dipenda dalle vaccinazioni. E soprattutto, riducendo la quarantena si rischia di far circolare anche la Delta.

Infuria la corsa ai tamponi, le code si allungano ovunque ma il commissario Francesco Paolo Figliuolo ironizza: “Bisogna avere tanta pazienza. Spesso i cittadini fanno file e file ai Black Friday per acquistare il capo griffato…”. Poi però promette: “Faremo il massimo”. Speriamo che basti.

Chi non muore si ravvede

Da qualche anno è invalsa la curiosa abitudine di arguire dalla morte dei condannati o degli indagati la certezza che fossero degli innocenti perseguitati. Non tutti, sennò saremmo ancora qui a piangere il martirio di Riina e Provenzano: solo i politici. A Natale si è tolto la vita Angelo Burzi, ex consigliere piemontese di FI che aveva contribuito a fondare nel ’93. Era stato appena condannato a 3 anni nel secondo appello (ma solo per ricalcolare la pena dopo il verdetto della Cassazione) per peculato su una serie di spese private accollate illegalmente alla Regione. Il lutto esigerebbe sobrietà. Invece un branco di iene della politica e del giornalismo si è subito avventato sulla tragedia per trasformare il suicidio in omicidio e i magistrati in assassini. “Rimborsopoli tragica: suicida dopo la condanna” (Giornale). “Il suicidio di un uomo perbene” (Libero). “La giustizia ‘politica’ fa un’altra vittima” (Dagospia). “Il suicidio di Burzi e il paradosso del sistema giudiziario italiano. Il peso della gogna alimentata dal vento rabbioso della protesta, stile Mani pulite” (Foglio). “Le lettere dell’ex consigliere suicida dopo la condanna. La moglie: ‘Era innocente’” (Rep). “Suicida ex consigliere regionale. ‘Sono vittima di un’ingiustizia’” (Corriere). “Burzi e il suicidio dopo Rimborsopoli: ‘Soffriva per il processo ingiusto’” (Stampa).

L’ex presidente leghista della Regione Roberto Cota, condannato pure lui per varie ruberie fra cui le mutande verdi made in Usa a spese nostre, dunque passato a FI, ritiene “che sia anche colpa del delirio dei 5Stelle”. Cioè: se i politici che rubano vengono condannati è colpa dei politici che non rubano. Poi vaneggia di “pagina nera” (più che altro verde) e invoca “una commissione d’inchiesta” sull’inchiesta. Il suo predecessore berlusconiano Enzo Ghigo aggiunge che “molti politici onesti sono stati travolti, convinti in buona fede, secondo le regole allora vigenti, di non aver mai commesso illeciti”. Ma non spiega quando mai le “regole” consentissero di pagarsi spese private con fondi pubblici. Quell’altro genio di Guido Crosetto (ex FI, ora FdI) accusa i magistrati (di Procura, Tribunale, due Corti d’appello e Cassazione: tutti) di “amministrare la giustizia solo per combattere nemici” (di chi?) e di aver “piegato” Burzi con “assurde ingiustizie e violenze giudiziarie”. Ieri il Pg di Torino Francesco Saluzzo ha ricordato un piccolo dettaglio ai politici e all’unica categoria peggiore di loro, i giornalisti: “Burzi aveva patteggiato oltre un anno di reclusione, definitiva dal 2020, per una serie di ipotesi che evidentemente non riteneva di poter contestare”, poi la Cassazione gli ha aggiunto altri quattro episodi e gli anni sono saliti a 3. Era innocente, ma non lo sapeva.

“Detesto la vita da pittore”

Gentile dott. Jewell (direttore del New York Times, ndr), per l’artista, l’attività di uno spirito critico fa parte dei misteri della vita. È per questo, crediamo, che il rammarico dell’artista di essere frainteso, specialmente dalla critica, è diventato un chiacchierato luogo comune. È pertanto un evento quando la situazione si capovolge e il critico del Times confessa – pacificamente ma pubblicamente – il suo “sconcerto”, il fatto che prova “imbarazzo” davanti alle nostre immagini esposte al Federation Show. Ci rallegriamo di quest’onestà, della reazione, cordiale potremmo dire, verso i nostri dipinti “oscuri”, perché in altri circoli critici abbiamo l’impressione di aver suscitato uno scompiglio isterico… Non intendiamo difendere i nostri dipinti. Questi si difendono da soli. Li consideriamo dichiarazioni cristalline. La sua incapacità di congedarli o screditarli è una prova di prima mano che sono dotati di un qualche potere espressivo… Nessun possibile manuale d’istruzioni può spiegare i nostri dipinti. La loro comprensione deve essere il frutto di un’esperienza consumata tra il quadro e l’osservatore. Il riconoscimento dell’arte è un autentico matrimonio di spiriti. E nell’arte, come nel matrimonio, la mancata consumazione è una condizione per l’annullamento… Di conseguenza, il nostro lavoro deve oltraggiare chiunque si senta spiritualmente in sintonia con le decorazioni d’interno; i quadri per la casa; i quadri sopra il camino; i dipinti di vedute americane; i quadri sociali; la purezza in arte; i premiati lavori commerciali; la National Academy; la Whitney Academy; la Corn Belt Academy; pacchianate, cose trite e ritrite ecc.

Accetto la realtà delle cose e la loro sostanza. Accetto la realtà delle cose e la loro concretezza. Mi limito ad ampliare l’estensione di questa realtà, a moltiplicare il numero dei suoi abitanti e ad assegnare loro gli stessi attributi di cui faccio esperienza nell’ambiente più familiare. Insisto sulla pari esistenza del mondo generato dalla mente e del mondo procreato da Dio al di fuori di questa… Metto in discussione l’arte surrealista e l’arte astratta allo stesso modo in cui si mettono in discussione il padre e la madre, riconoscendo l’inevitabilità e il ruolo giocato dalle mie radici e – inflessibile sul mio dissenso – mi considero allo stesso tempo uno di loro e un essere completamente indipendente da loro… L’unica fonte scritta per l’arte resta, a mio avviso, l’euforia dell’esperienza tragica. Ma tengo troppo sia all’oggetto che al sogno per lasciarli dissolversi per effervescenza nell’incorporeità della memoria e dell’allucinazione.

Caro Clay… se riuscissi a comunicare parte di me stesso come riesci a farlo tu nelle tue lettere, scriverei con più piacere e assiduità. Così come stanno le cose, mi tocca quasi strappare una pagina scritta da me stesso. Comincio a odiare la vita da pittore. Si inizia con l’aver riguardo per il proprio sé, tenendo ancora un piede nel mondo normale. In seguito diventi prigioniero di una frenesia che ti conduce sull’orlo della follia, spingendoti così lontano da non riuscire a tornare più indietro. Il ritorno consiste in una successione di settimane intronate in cui sei solo mezzo vivo. Comincio a credere che bisognerebbe spezzare questo Ciclo da qualche parte. Per il resto, consumi energie per resistere al risucchio delle mentalità dei mercanti per colpa dei quali, apparentemente, attraversiamo quest’inferno.

Non si dipinge per gli studenti di disegno o per gli storici ma per gli esseri umani, e la reazione in termini umani è la sola cosa che dà veramente soddisfazione.

Il mio lavoro ha la stessa unità del nulla, non mi importa di dirlo, a costo di sembrare immodesto… Il mondo non ha mai visto.

Si può essere avventista del settimo giorno ecc. (ovvero scindere il sé dal mondo). Secondo me non è vero: io abito sulla sesta Avenue, dipingo sulla sessantatreesima strada, subisco l’influsso della televisione ecc. ecc. (ovvero diverse sfaccettature della vita). Le mie pitture appartengono a questa vita.

Il tipo di scrittura di cui abbiamo bisogno oggi è quella in cui le persone trascrivono le loro reazioni davanti alla pittura. Scrutare dentro loro stesse per essere in grado di verbalizzare quale senso i dipinti rivestono veramente per loro in quanto esseri umani.

Il passato è semplice; il presente è complesso; il futuro è più semplice ancora.

Dobbiamo mettere fine a quest’eterna falsificazione… della storia, dei musei, della formulazione, dei paragoni… ovvero legare la comunicazione – immediata e atemporale – della pittura all’essere umano che le corrisponde.

La difficoltà di vivere in questo mondo è come riuscire a non restare asfissiati.

Non mi piacciono i quadri.

Né il destro Natale di Stato né il neutrale “buone feste”

Davvero l’alternativa è tra l’imporre un Natale di Stato, coi presepi nei palazzi pubblici strumentalizzati dalla destra “identitaria”, e il rassegnarsi a un mesto e neutrale “buone feste”? Davvero la costruzione (necessaria e felice) del multiculturalismo deve procedere per sottrazione e non per addizione, complessità, dialogo, contaminazione?

Così, pensando a come parlare del Natale con parole e pensieri aperti a tutte e tutti, mi sono ricordato di un celebre brano della Condizione umana (1958) di Hannah Arendt, intellettuale ebrea laica: “Il miracolo che salva il mondo, il dominio delle faccende umane dalla sua normale, naturale rovina è in definitiva il fatto della natalità in cui è ontologicamente radicata la facoltà dell’azione. È in altre parole la nascita di nuovi uomini, l’azione di cui essi sono capaci in virtù dell’esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell’esperienza umana, che l’antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo, che trova forse la sua gloriosa e stringata espressione nelle poche parole con cui il Vangelo annunciò la ‘lieta novella’ dell’avvento: un bambino è nato per noi”.

È tutta immanente la fede della Arendt: fede e speranza “nel mondo”. Nulla si rimanda a un altrove, o a un aldilà: la salvezza sta nell’incarnarsi. Cioè nel porre mano al cambiamento. Non isolandosi, non chiudendosi, non fuggendo: ma compromettendo tutti noi stessi, la nostra carne sanguinante e dolente, nello sforzo di essere più umani. Il Natale, dunque, come festa della luce che, nonostante tutto, non è vinta dalle tenebre: quel sol invictus che gli antichi celebravano nella prossimità del solstizio invernale. La festa di una umanità che contesta la morte, e che nel momento del massimo buio indica con fede e speranza (nel mondo, in se stessa) la piccola luce che resiste, e che inizia pian piano ad espandersi. Per i cristiani è il Dio lontano e onnipotente che accetta di assumere carne, dolore e morte delle creature: insieme assumendone anche la capacità di sentire il calore del sole sulla pelle, il sapore del vino, la voglia di arrostire del pesce in riva al mare aspettando gli amici su una spiaggia (lo farà quel Bambino, ormai diventato adulto, subito dopo la sua resurrezione). Un orizzonte creaturale che muta la paternità in fraternità, il dominio in condivisione, il possesso in custodia.

Se la Resurrezione è “la speranza che, nonostante tutta questa ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola” (Max Horkheimer), il Natale è il segno di una lotta per la giustizia non in un altro, ma in questo, mondo. Perché, scrive ancora Arendt, “il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità”.

In un mondo sotto il tallone di una pandemia che non accenna ad allentare la presa, in una umanità che attraverso la sua mostruosa ingiustizia e diseguaglianza offre alla pandemia la possibilità di distruggerla, in un Paese senza politica e senza democrazia, è possibile avere fede e speranza nel mondo? È necessario, ci ricorda Hannah Arendt.

E la sua citazione letterale dal Vangelo cristiano, la “lieta novella”, suggerisce che è possibile amarlo, questo mondo. La festa del Natale è, davvero per tutte e tutti, una festa che parla dell’essere nella carne: cioè la festa dell’abitare il mondo pienamente.

Non per caso Francesco d’Assisi amò in modo tutto speciale il Natale: perché in quel Bambino che veniva a compromettersi col mondo vedeva la massima realizzazione di quell’adesione totale alle creature che lo spinge a scrivere uno dei testi più alti della prima letteratura italiana in volgare. L’amore per la luna e per le stelle, clarite et pretiose et belle e quello per il fuoco bello et iocundo et robustoso et forte, l’amore per il “vento, e per l’aria e per il cielo; per quello nuvoloso e per quello sereno, per ogni stagione”. Una gioia di vivere proiettata verso la trascendenza del Creatore, e però capace di parlare, anche al più ateo, della bellezza fisica e sensuale del mondo che si tocca con le mani, che si vede con gli occhi del corpo.

La lieta novella è che siamo nati: che siamo qua, che possiamo agire contro “la naturale rovina” del mondo. Davvero un indulto, una sospensione del pessimismo, una pausa nell’amarezza per quel che facciamo al pianeta e al genere umano. Un’occasione per tornare ad assumere lo sguardo dei bambini: candido e concretissimo insieme. Una festa dell’amore per la vita che ci permette di dire “buon Natale!” a tutte e tutti: perché la fede e la speranza nel mondo sono fede e speranza nella sua meravigliosa, inesauribile, diversità.

Marchetta di 450 milioni per la Serie A in bolletta

Un po’ carota, un po’ bastone, con una mano tolgono, con l’altra restituiscono. I padroni della Serie A hanno trovato un regalo sotto l’albero: niente tasse e contributi per i primi quattro mesi del 2022. Un vantaggio fiscale da circa 450 milioni di euro, che lo Stato si vedrà restituito solo in comode rate.

Proprio quando la FederCalcio pareva convinta a ripristinare la regolarità in Serie A, ecco che arriva l’aiutino dal governo. La scorsa settimana, nell’ultimo consiglio federale prima delle vacanze, il n.1 del pallone italiano aveva fatto approvare un provvedimento rivoluzionario, rispetto al regime di laissez-faire degli ultimi mesi: ripristinati i controlli sui pagamenti, che a settembre erano stati sospesi a tempo indeterminato. Entro la prossima scadenza del 16 febbraio tutti dovranno aver saldato tutti gli arretrati del 2021. Altrimenti ci sarà una grandinata di penalizzazioni, almeno due punti in classifica.

Sembrava la reazione anticorpale di un sistema finalmente determinato a garantire la correttezza dei tornei. Troppo serio per essere vero. Mentre la Federcalcio varava la stretta sul 2021, il governo preparava il liberi tutti sul 2022: nella manovra che verrà approvata in Parlamento è stato infilato all’ultimo momento un comma che regala una boccata d’ossigeno a tante società sportive, a partire dai club di Serie A. La matrice è di Fratelli d’Italia, ma consenso unanime: prevede la sospensione di tutte le ritenute e gli adempimenti previdenziali per le società professionistiche e dilettantistiche dal 1º gennaio 2022 al 30 aprile 2022. Questi arretrati andranno versati a maggio, oppure in sette tranche entro la fine dell’anno.

I club sono alla canna del gas e lo dimostra l’ennesimo soccorso che sono riusciti ad elemosinare, con un trattamento di favore rispetto a tanti altri settori più colpiti dall’epidemia. Oggi il calcio non ha più limitazioni: dall’inizio del campionato gli stadi sono aperti praticamente al 75% (che è come fosse il 100%, visto che tanto il resto non si riempie comunque), non ci sono più perdite davvero imputabili al Covid, eppure i presidenti continuano a chiedere aiuto per mettere una pezza ai loro bilanci. Ci avevano già provato con il Decreto Crescita, ci riescono ora nella finanziaria. Secondo l’allegato tecnico il favore vale 444 milioni di euro, anche se non serve copertura perché le rate sospese andranno saldate comunque entro la fine dell’anno. In teoria, poi diversi patron confessano ma non dicono di essere convinti di poter strappare un’ulteriore proroga.

Si vedrà. Di certo il calcio italiano continua a giocare poco pulito. Nelle ultime settimane c’erano state polemiche sollevate dai pochi club con i conti sani come la Fiorentina di Commisso. Il campionato scorso era stato disputato praticamente tutto senza controlli, con la scusa dell’emergenza. La svolta da lacrime e sangue decisa dalla Figc, auspicata persino dalla Serie A dove ormai si guardano tutti con sospetto, viene neutralizzata dalla deroga approvata dal governo. Si deve saldare il 2021 ma si può non pagare il 2022. Così invece di onorare i propri debiti, c’è chi magari farà mercato e comprerà nuovi giocatori. Non sono pochi: all’ultimo monitoraggio, ci sarebbero ancora diversi club in Serie A che non hanno saldato tutte le scadenze. E almeno cinque squadre non hanno un indice di liquidità positivo, che vuol dire che o la proprietà versa l’aumento di capitale corrispondente, oppure a gennaio avranno il mercato bloccato e non potranno fare acquisti. Poi sul campo vince sempre la più forte, e anche la più furba.

A cena con lo yuppie. Lui ama le griffe e apparire. Io (apposta) ci esco “scaciata”

“Basta, ci vado scaciata!” detesto le firme. Questo apparire, questo bisogno di mostrarsi mi fa venire i nervi. “Sì, scaciata!” Da giorni un ragazzo che ho conosciuto a una cena, noiosa, piena di gente snob, gente che giudica il resto dell’universo dall’alto del loro piccolo piedistallo, mi chiede di uscire insistentemente, mi assilla con telefonate e messaggi sulla segreteria. Vuole vedermi! Il motivo è che passa per Roma, tra una tappa e l’altra del suo nuovo lavoro da baroncino rampante. Ma non sono gli alberi il suo mondo: è un consulente finanziario di una ditta che gestisce filiali in tutta Europa, abita a Milano e ogni settimana gli tocca una città diversa. Non c’è niente di peggio del disprezzo travestito da galanteria, del bon ton che nasconde l’aridità del cuore. È insuperabile nelle buone maniere, fa il baciamano, ti apre la portiera, ma c’è qualcosa di falso nei suoi gesti. Quasi quasi lo preferirei con le dita nel naso. Eppure è bello, d’aspetto gentile, d’una biondezza maschia, forse è questo che mi attira. Ma poi ti dice cose tipo: “Metti su qualcosa di speciale, non farmi fare figure”. Ma come si permette, non ci conosciamo! Deve avere la mania per le griffe e per l’apparire. Siamo negli anni 90 e uno yuppie che si rispetti non può non avere il telefono in macchina, il Rolex d’ordinanza, parlare di lavoro e fondi di investimento. È un giovane rampante. Vengo da danza e non ho voglia di farmi assalire da troppi dubbi davanti all’armadio aperto. Ho deciso, stasera non mi vesto, mi copro! Mi piace andare fuori moda. Non posso neanche dargli buca all’ultimo momento “Basta, ci vado così, scaciata…” Mi guardo allo specchio, detesto il narcisismo, ma sono vanitosa. Non sono male, anche con un abbigliamento casuale e le scarpe di due colori diversi, sì scaciata è bello. E poi lui è soltanto… oddio ma come si chiama questo?

 

Grandi editori. Bompiani e la penultima illusione di sua figlia Ginevra (che ci aiuta a farlo rivivere)

Prima c’era suo padre, che era un padre autorevole, implacabile e allegro, qualità che non possono stare insieme. Era lui, oltre a Feltrinelli, nella Milano degli anni Cinquanta, l’adulto potente e decisionista che ci metteva a sedere davanti alla sua scrivania: noi giovani e giovanissimi scrittori di quell’epoca che ci sentivamo pronti a pubblicare subito. Ci faceva raccontare ciò che avevamo già letto, giudicato e deciso. Bompiani giocava come un ragazzo a calambour e battute con Eco, Filippini e me, e succedevano cose di questo genere.

Mentre voleva sapere se davvero vi fosse qualcosa di rivoluzionario nel “nuovo teatro americano”, che gli avevo presentato come mio primo libro, stava ritagliando da riviste illustrate figure di celebrità e di attori, e li incollava in modo che formassero la copertina di quel mio lavoro mentre io ero teso come una corda. E lui avrebbe deciso di colpo e mandato in tipografia, per essere finalmente libero di ascoltare Eco. Anche Ginevra ascoltava Eco, la figlia adolescente e silenziosa, ragazzina misteriosa dalle gambe lunghe che capiva usando quasi solo lo sguardo. Lei racconta nel suo nuovo libro (La penultima illusione, Feltrinelli Editore) che in quelle circostanze (tutti nell’ufficio di suo padre “ a prendere ordini”, uno scherzo di Eco, a cui Bompiani lasciava decidere molto) non si sentiva in grado dio affrontare Umberto Eco in conversazione “per la troppa cultura”. Io, invece, a quel tempo, non osavo conversare con lei perché sentivo che c’era molto in quella ragazzina, c’era un pieno di vita calma e lunga, tesa e ostinata. una volontà di trovare e sapere non come progetto culturale ma come scoperta di spazio diverso e sconosciuto. Ecco che cosa credevo di avere scoperto.

C’era un pieno in Ginevra che non era di vitalità nel senso agitato di molti protagonisti, ma in un cercare, cauto e inesauribile. “le altre cose“ che sono sempre state il suo senso del vivere e del lavorare. Ci sono molti libri di Ginevra che è bello avere scritto e avere letto (La stazione termale, La neve). Ma per il lettore che le è stato vicino e per chi ha visto o intravisto momenti della sua vita, è un evento da celebrare La penultima illusione, perché Ginevra racconta tutto da capo, come in una biografia misteriosa di un’altra Ginevra che sbocca in un evento inaspettato: avere una figlia per affidamento e per amore, per necessità e per bellezza. La bellezza è nel gesto, la necessità è nella spinta ruvida e sbadata di ciò che ci accade intorno. Il libro resta unico fra i libri che vi trovate in mano oggi: il padre, editore, padrone, implacabile e allegro che, a causa di questo libro, continua ad esserci. E Ginevra, che non è facilmente distraibile da un suo grande progetto che continua ancora. Che cosa c’è di vero? Che cosa c’è di astratto, inventato o sognato? Annotatevi queste righe (pag. 86): “La teoria è come la sosta in una passeggiata, quando ci si ferma a guardare il panorama. E se sono perentoria è perché le mie teorie nascono dall’evidenza improvvisa,”

La penultima illusione, Ginevra Bompiani, Editore: Feltrinelli

Inflazione&pensioni. Alla larga dalla previdenza integrativa. Meglio titoli di Stato, buoni fruttiferi e Tfr

Cosa capiterà alle pensioni degli italiani, se l’inflazione continua ai livelli degli ultimi mesi poco sotto il 4 per cento e, soprattutto, se aumenterà? Predire se gli aumenti dei prezzi stiano o meno per finire è impresa ardua nella quale non ci cimenteremo. Più facile e, comunque, utile è prevedere, almeno in certi ambiti, le ricadute di un’eventuale alta inflazione.

Per le pensioni pubbliche agisce una norma di recupero automatico della perdita di potere d’acquisto, cui si aggiunge di fatto una tutela politica. Qualunque governo non resta inattivo, se l’inflazione falcidia il sostentamento di milioni di cittadini. Invece è molto difficile valutare le prospettive degli enti di previdenza dei lavoratori autonomi, anche per la loro scarsissima trasparenza.

Esse sono però chiare e preoccupanti per i cosiddetti secondo e terzo pilastro: polizze, fondi e piani previdenziali. Abbiamo infatti a disposizione sia i loro regolamenti o statuti, sia un precedente concreto e molto significativo: il periodo di alta inflazione dal 1973 al 1985 quando in Italia la moneta perse l’84 per cento del proprio valore.

Diciamo subito che il passato fa spavento. Già negli anni ’70 esistevano formule di previdenza integrativa. Erano le assicurazioni che garantivano una rendita o un capitale all’età della pensione, offerte con caratteristiche pressoché identiche dalle diverse compagnie. Con la fiammata inflattiva fu un bagno di sangue. Prendiamo per esempio un 36enne che nel 1968 sottoscrisse una polizza e ne versò regolarmente i premi. Alla scadenza del contratto a sessant’anni si ritrovò con una perdita in potere d’acquisto del 67%. Una pensione di scorta ridotta a un terzo.

Sono fatti acclarati, noti agli esperti, ma tenuti nascosti a risparmiatori e lavoratori, per continuare indisturbati a guadagnare rifilandogli polizze, fondi pensione e roba simile. I quali sono tutti strumenti privi di tutele nei confronti dell’inflazione, una cui impennata causerebbe facilmente e inevitabilmente perdite pesantissime per gli interessati, in un modo o nell’altro. Anche i comparti chiamati “garantiti” dei fondi pensione lo sono solo in termini monetari, mentre mancano comparti specifici per l’investimento in titoli a indicizzazione reale.

Conclusioni operative: chi vuole evitare i rischi peggiori per il proprio risparmio previdenziale, interrompesse ogni versamento in polizze previdenziali, fondi pensione e pip (piani individuali pensionistici). Riscattasse, inoltre, quanto più può, indirizzando i suoi risparmi verso impieghi agganciati all’inflazione di emittenti sicuri: titoli pubblici reali anche non italiani, il buono fruttifero postale Obiettivo 65 ecc.

Validissimo anche il Tfr, non per nulla introdotto in pieno periodo di alta inflazione nel 1982, e pensato proprio in modo da tenerle testa. Non ha invece vie di fuga chi lo ha destinato alla previdenza integrativa, intrappolato in una scelta irrevocabile.

In guardia quindi dal silenzio-assenso!

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