Ora i sindacati scoprono che Draghi la pensa come i partiti

Annunciando lo sciopero generale del 16 dicembre, i segretari di Cgil e Uil ci hanno spiegato che la protesta non era contro Mario Draghi ma contro i partiti “lontani dalla società” e che scioperavano “pur apprezzando lo sforzo del premier”. Per questo c’era grande curiosità di sapere cosa Draghi pensasse del taglio delle tasse da 7 miliardi messo in manovra, la misura che più ha fatto infuriare i sindacati.

Rispondendo a una domanda del Fatto alla conferenza di fine anno, mercoledì il premier ha negato infastidito che favorisca i redditi medio alti, anzi: “I principali beneficiari della riforma fiscale sono i lavoratori e pensionati a reddito medio-basso – ha spiegato – In termini percentuali i maggiori benefici uniti al taglio contributi per il 2022 si concentrano sui lavoratori con 15 mila euro di reddito”.

Per rispondere, Draghi ha letto le stesse tabelle fatte circolare dal Tesoro ai grandi giornali il giorno prima dello sciopero che hanno mandato su tutte le furie Maurizio Landini e Pierpaolo Bombardieri. La cosa incredibile è che, a ben vedere, quelle tabelle sostengono il contrario di quello che ha detto il premier. Il taglio Irpef premia in valore assoluto le classi di reddito medio-alte, in particolare tra i 42 mila e 54 mila euro (con un beneficio medio di 765 euro), il 3,3% del totale, a cui va il 14,1% delle risorse. Fascia che – ha spiegato l’Ufficio parlamentare di bilancio – ha il beneficio maggiore anche in termini relativi. Addirittura 270 euro in media vanno ai redditi sopra i 75 mila euro (l’1,1% più ricco), beneficio che pure Draghi ha provato invano a rinviare di un anno per ridurre il caro-bollette (cosa che curiosamente non ha voluto ricordare in conferenza stampa). Sempre secondo l’Upb, se si considerano i nuclei familiari, il 20% più povero è escluso per motivi di incapienza fiscale, il 50% di quelli in condizione economica meno favorevole prende un quarto delle risorse mentre il 10% più ricco più di un quinto delle risorse.

Insomma, oggi i sindacati sanno che Draghi la pensa come i tanto odiati partiti, cosa che non era difficile prevedere visto che guida il governo che quelle scelte le ha prese. Eppure nessuno lo ha accusato di essere lontano dalla società.

Mail box

 

Il Quirinale è lo scudo che B. cerca da sempre

Sentire e leggere della possibile elezione di B. a Capo dello Stato sta diventando sempre più inquietante. Partito dall’idea che potesse usare questa carta come merce di scambio per ottenere un salvacondotto giudiziario, facilitando l’elezione di una figura grigia ma organica al sistema, si sta materializzando ogni giorno di più la sua intenzione di diventare “padre della Patria”. Un po’ perché si sta convincendo davvero di esserlo (Montanelli docet), un po’ perché ha capito che nel nostro povero Paese può fare ciò che vuole. Ma soprattutto perché sarebbe il suo scudo contro il pericolo che qualche giudice molesto lo inchiodi alle sue responsabilità, una volta per tutte. Che non gli interessi l’unità nazionale, il bene comune, la pace sociale, l’amore di patria e la dignità, è risaputo, preso com’è da se stesso. Possibile però che così tante persone non vogliano vederlo?

Angelo Testa

 

Mel Gibson, un vero ”patriota” per la destra

All’appello ormai troppo frequente sulla necessità di avere un presidente “patriota”, mi sento sempre più inquieto. Il sostantivo, usato nel caso come una baionetta, assume un significato sinistro e un brivido mi pervade. ho sempre creduto che per patrioti si intendessero tutti quei troppi giovani morti lottando per la Liberazione. Cerco consolazione nella speranza che invece stiano valutando la candidatura di Mel Gibson.

Claudio Gandolfi

 

Che delusione questo governo dei “migliori”

Meno male che a gestire l’inizio della pandemia c’è stata una persona “incompetente” come Giuseppe Conte, perché ora, pur con i vaccini, il “competente” e i suoi “migliori” fanno vedere come risultato una gran confusione e molta preoccupazione, oltre a una certa dose di delusione. Dopo il Jobs act, l’Innominabile ha toppato anche questa volta.

Fabio De Bartoli

 

Perché è sbagliato usare la parola “immunizzati”

Chi è causa del suo mal pianga sé stesso: tutti i telegiornali a reti unificate negli scorsi mesi, invece di parlare di “vaccinati” con una o due dosi, usavano il termine fuorviante di “immunizzati”. Così la gente ha abbassato la guardia, credendo di essere in una botte di ferro. Bisognava dire che il vaccino immunizza solo parzialmente e per un periodo limitato. Hanno invece preferito cantare le gesta dell’Altissimo che, sceso dal cielo a miracolo mostrare, tutta la pandemia si porta via. Mentre il Covid è ancora qua.

Maurizio Burattini

 

Una classe politica cui importa soltanto del Pil

Questo paese ha molti problemi da affrontare, talmente tanti da non sapere quale scegliere per primo: come risolvere la pandemia; risanare le ferite del lavoro; la povertà che aumenta. Ma la pillola viene addolcita dal governo, dicendoci che il Pil sta andando a gonfie vele e così i problemi sociali si dissolvono (o comunque si rimandano). L’importante è parlare del quiz quirinalizio, e di come il Caimano abbia in fondo i giusti requisiti. Si tratta della dimostrazione plastica, che fa capire che dirigenza politica inadeguata ci ritroviamo. Questo nonostante ci siano i cosiddetti “migliori”, che faranno approvare la legge di bilancio all’ultimo secondo, forse in tempo per il 31 dicembre, senza neanche il tempo per discuterla. Si vota mettendo la fiducia e via: non è meraviglioso?

Roberto Mascherini

 

Joe Manchin, ovvero l’Innominabile degli Usa

Purtroppo per gli americani, anche gli Stati Uniti hanno il loro senatore Innominabile (per il Partito Democratico), un certo Joe Manchin, che con il suo voto riesce a bloccare il disegno di legge dell’amministrazione Biden riguardante l’assistenza sanitaria, l’educazione, le leggi fiscali e via dicendo. Abbiamo esportato il sistema Innominabile anche in America, questa sì che è una soddisfazione.

Claudio Trevisan

 

Nessuno vuole mettere freno all’evasione fiscale

Recentemente ho letto che l’evasione fiscale in Italia è stimata in 80,6 miliardi di euro all’anno. Ne deduco che si tratta di una media di circa 1.200 euro per abitante, bambini compresi, ogni anno. Cosa aspetta questo governo a organizzare una seria lotta all’evasione fiscale? Forse, se tutti pagassero le tasse, queste si potrebbero abbassare un pochino? Chi ha sempre pagato e sempre pagherà tutte le tasse del nostro Paese, è un po’ stanco di pagare anche per gli evasori.

Sergio Obradovich

Lavoro. I morti di Torino e il senatore “arabo” che irride la questione sociale

Si schianta una gru a Torino: tre operai morti. Ennesima tragedia di lavoratori morti sul lavoro dove ogni giorno leggiamo nelle cronache. Persone che alla sera non vedranno più i loro cari. Quando sento queste tristi notizie mi si raggela il sangue e mi ritorna in mente il discorso del senatore di Scandicci dove spaparanzato su una poltrona con un microfono in mano, tutto scodinzolante pronunciava un discorso da grande statista: “Voglio riaffermare l’idea che la gente deve soffrire, rischiare, provare, correre, giocarsela, se non ce la fai ti diamo una mano, ma bisogna sudare ragazzi”. Il senatore se ne intende di lavoro. Sa cosa vuol dire sudare. Specialmente quando va nei Paesi arabi a parlare di Rinascimento. Vuoi che non sudi, col caldo che fa da quelle parti?

Guido Merli

Da leader del Pd e presidente del Consiglio, gentile Merli, l’attuale senatore di Scandicci diede il colpo di grazia al partitone postcomunista proprio sulla questione del lavoro. È sufficiente ricordare la battaglia per l’abolizione dell’articolo 18 e il varo del famigerato Jobs Act. In quel tempo funesto del governo Renzi, dal 2014 al 2016, i democratici si piegarono a un blairismo fuori tempo, ormai superato, mentre in tutta Europa la sinistra recuperava una matrice socialdemocratica o laburista per competere con quel populismo ingrassato da una dilagante rabbia sociale. Succedeva otto anni fa e oggi almeno in Italia abbiamo il reddito di cittadinanza grazie al boom pentastellato. E quando Renzi – dalla comfort zone del suo lobbismo filo-arabo pagato profumatamente – attacca il reddito di cittadinanza con le parole che lei ricorda, non fa che confermare la sua vocazione di destra che in materia di lavoro ha una sola posizione. Quella di stare dalla parte dei padroni. Non dimentichiamo i salamelecchi zuccherosi che si scambiava con Marchionne, per fare un nome. Ecco, tutto questo, rende ancora più dolorosa e irritante la contrapposizione tra la tragedia di Torino e un esponente smargiasso della Casta come Renzi. E i tre operai morti nello schianto della gru sono stati al centro dell’unica critica di Mattarella al governo dei Migliori, nel discorso di lunedì scorso. Sulla questione sociale, appunto.

Fabrizio d’esposito

Un appello ad Amadeus: quel trio dei Virologi sul palco Dell’ariston!

 

NON CLASSIFICATI

Macro è l’anagramma del mio nome. Il cast del Festival di Sanremo 2022 comincia a delinearsi. Dal Messaggero apprendiamo che non ci sono conferme sulla presenza di Marco Mengoni ma “neppure smentite”. “E tutto lascia intendere che l’ospitata durante la puntata speciale per Telethon de I soliti ignoti, sia stata una sorta di prova generale di quello che potrà fare all’Ariston il 32enne cantante di Ronciglione, tornato sulle scene discografiche all’inizio del mese con il nuovo album Materia (Terra), che con 25 mila copie vendute si prepara a conquistare il Disco d’oro”. Ora “L’essenziale” è che Mengoni dovrebbe esserci per tutte e cinque le serate, un po’ – hanno scritto i giornali – come è stato per Achille Lauro e ancora prima per Tiziano Ferro. Due paragoni non proprio felici perché Achille Lauro è un manifesto della trasgressione e Tiziano Ferro beh è semplicemente Tiziano Ferro. Sarebbe come paragonare il talento di Can Yaman a quello di Pierfrancesco Favino…Per fortuna la gara sarà appassionante e sono attesi big del calibro di Jovanotti e Vasco tra i superospiti.

Vax is all around. La canzone di Natale dei virologi “Sì sì vax” è destinata a diventare un tormentone di queste tormentate festività natalizie. Il brano, riscritto sulle note della tradizionale “Jingle Bells”, è interpretato (sic) da Matteo Bassetti, Andrea Crisanti e Fabrizio Pregliasco, tre dei massimi esperti in materia di Coronavirus che da quasi due anni il pubblico televisivo ha imparato a conoscere. “Sì sì sì, sì sì vax, vacciniamoci! Se tranquillo vuoi stare, i nonni non baciare. Sì sì sì, sì sì vax, vacciniamoci! Il Covid non ci sarà più, se ci aiuti anche tu”. E, ancora: “Con la terza dose, tu avrai feste gioiose”; “Mangia il panettone, vai a fare l’iniezione”. Bisogna sapere che tre medici hanno accettato l’invito dei ragazzacci di “Un Giorno da Pecora”, la seguitissima trasmissione di Rai Radio 1 condotta da Geppi Cucciari e Giorgio Lauro, e hanno dato vita al “Trio Virologi”. Ora Amadeus li inviterà a Sanremo a esibirsi magari con il Volo: e il kitsch trionferà!

 

PROMOSSI

È stata la mano di Paolo. L’ultimo lavoro di Sorrentino è entrato nella shortlist dei 15 migliori film internazionali annunciata dall’Academy. Si saprà l’8 febbraio se “È Stata la Mano di Dio” avrà conquistato la nomination. Poi in caso di nomination, sapremo il 27 marzo se il regista napoletano riuscirà a portare a casa una seconda statuetta, otto anni dopo quella vinta per “La Grande Bellezza”. Noi non siamo critici cinematografici, ma da semplici spettatori ce lo auguriamo: solo Paolo Sorrentino riesce a fare un film (anche) su Napoli in cui ci sono Capri e Pino Daniele e tutto sembra fuorché uno stereotipo. E’ un film tenerissimo e spietato, esteticamente molto bello, magistralmente interpretato da un cast stellare. E telligentissimo, non solo per la ormai celebratissima intemerata del regista Capuano. A noi, come manifesto del tempo presente, è rimasta impressa la memorabile frase dello zio Alfredo: “Ma quand’è che siete diventati tutti così assertivi?”. Ma infatti, quando?

Liberi con i libri. Bilancio straordinario per #ioleggoperché: l’iniziativa dell’Associazione Italiana Editori a favore delle biblioteche scolastiche chiude nel 2021 con 450.000 libri donati di cui 350.000 dai cittadini nelle 2.743 librerie aderenti e destinati alle biblioteche scolastiche delle 20.388 istituti in tutta Italia. Al numero di libri raccolti nelle librerie si aggiungeranno, a marzo 2022, i 100.000 nuovi volumi che gli editori sostenitori dell’iniziativa doneranno alle scuole che ne hanno fatto richiesta nei termini previsti. I titoli più donati: “Il Piccolo Principe”, seguito da “La Fabbrica di cioccolato”. Per la prima volta tra i più donati,“Il Piccolo libro della Costituzione di Geronimo Stilton”. Ottimi segnali!

 

Burioni manda la Palin dall’astrologo: Sarah non ha il fiuto di Zinga

 

BOCCIATI

Paese che vai, no vax che trovi Ogni Paese ha i suoi no vax, e parecchi sono messi decisamente peggio di noi. Sarah Palin, ex astro nascente del fronte repubblicano, candidata vicepresidente degli Stati Uniti in ticket con John McCaine nel 2008 (la sua vicenda è stata persino interpretata da Julianne Moore nel film Game Change) si è espressa così riguardo il vaccino anti Covid: “Il vaccino? Dovranno passare sul mio cadavere. Quando è troppo è troppo, specialmente quando si tratta del governo che ci dice cosa dobbiamo iniettarci nel nostro corpo”. La Palin è stata governatrice dell’Alaska dal 2006 al 2009: a sentirla parlare, viene solo da ringraziare il Cielo che oggi non lo sia più.
VOTO 2

 

PROMOSSI

Citofonare astrologo Tra le cose dette da Sarah Palin, c’è anche la solita accusa alla scienza per essersi contraddetta: “Ricordate che (Antony Fauci) disse che se si prendeva il Covid, si sarebbe stati naturalmente immuni. Così all’epoca, siamo stati portati a credere che non avremmo avuto bisogno di fare un’iniezione. Beh, poi hanno cambiato idea”. La risposta indiretta alla Palin e a tutti i suoi emuli l’ha data Roberto Burioni in un tweet: “Le conoscenze si aggiornano in tempo reale proprio grazie ai progressi scientifici. 30 anni fa non avremmo visto nessuna variante (e nessun vaccino): avremmo solo contato i morti. Usare la forza della scienza per instillare sfiducia in ciò che ci sta salvando la vita è da criminali. Nessuno può sapere se e quando nuove varianti compariranno, e nessuno può sapere le caratteristiche (buone e cattive) di queste nuove varianti. Per conoscere queste cose non dovete rivolgervi agli scienziati, ma agli astrologi, che vi calcolano pure l’ascendente”. Punto.
VOTO 7

Messaggi equivocabili Nicola Zingaretti ha il fiuto che spesso caratterizza gli amministratori locali, e quando compare un’idea nuova riesce subito a capire se e dove sarà destinata ad incagliarsi. Nella settimana di Natale, mentre con un’ordinanza ripristinava le mascherine obbligatorie all’esterno e i tamponi obbligatori ogni 10 giorni per il personale sanitario, ha prontamente sollevato perplessità sul ripristino del tampone obbligatorio ai vaccinati per accedere agli eventi: “Sono contrarissimo all’ipotesi dei tamponi per andare al cinema o al teatro o al ristorante perché la via maestra è il vaccino e concordo con la scelta di ridurre il green pass alla durata della copertura vaccinale”. La variante Omicron ha cambiato le regole del gioco, e quel che poteva essere sufficiente prima oggi rischia di non esserlo più. La politica ha il compito di veicolare messaggi che orientino i cittadini, e lasciar intendere a chi ha scelto di vaccinarsi con tre dosi, per vedersi restituita la libertà, di essere nella stessa condizione di chi ha scelto di non vaccinarsi, è pericoloso. Si rischia di demotivare chi ha scelto il vaccino e di rafforzare le ragioni di chi non ha voluto farlo. Gli scienziati devono spiegare ciò che è giusto e prudente, i politici devono tradurlo in patti sociali e compromessi accettabili. Altrimenti per decidere basterebbero i primi.
VOTO 6

 

La situazione è GravinaIl calcio italiano tra pezze al sedere, ipocrisie e plusvalenze

“Nel mondo dello sport ci sono continuamente forme di degenerazione che comunque devono essere accertate oltre che provate. Eviterei in questo momento ogni forma di processo sommario”. E ancora: “Il mercato è il mercato, c’è una domanda e un’offerta, parliamo di società di capitali e anche di società quotate in borsa: non è pensabile prendere in considerazione criteri che non siano soggettivi”. Detto che parole e musica sono di Gabriele Gravina, il presidente Figc già distintosi in passato con l’appello ad evitare processi sommari a proposito del caso Suarez, la domanda è: a quale miseranda fine sta andando incontro il calcio italiano se chi guida il carrozzone non sa nemmeno dov’è il freno e mentre i passeggeri urlano terrorizzati lui li zittisce fingendo di non vedere lo strapiombo che si spalanca davanti agli occhi di tutti? Il mercato è il mercato, dice Gravina, tutto è soggettivo, ognuno fa le valutazioni che vuole e tutto va ben madama la marchesa. Per il capo del pallone italico va bene così. E sì, è vero, ha un presidente di club in galera per bancarotta, la società più prestigiosa indagata col sospetto di aver manomesso bilanci da film horror, un club di serie A a rischio cancellazione e altri dodici con le pezze al culo, ma lui vede sereno e dice: calma e gesso, se ci sono storture, prima proviamole. Per lui è ad esempio normale, visto che tutto è soggettivo, che in un’operazione di mercato da 105 milioni ci sia un agente che ne incassi, di sola commissione, 49, mangiandosi cioè all’incirca metà della torta. E badate bene, non si parla di indiscrezioni, supposizioni: no, si parla di cifre reali, cifre finite a bilancio di società quotate in borsa quali erano, e sono, Juventus e Manchester United.

I due club che nell’estate 2016 si accordarono per il trasferimento di Paul Pogba dalla Juve allo United per il prezzo monstre di 105 milioni. Ebbene, come rivelò poco dopo lo Spiegel nel libro “Football Leaks”, e come confermarono i bilanci dei due club interessati, Mino Raiola, agente di Pogba, intascò al termine della transazione la bellezza di 49, diconsi quarantanove, milioni di euro. Dei 105 incassati dalla Juventus se ne fece dare 27 (ventisette!) facendo valere un accordo raggiunto quattro anni prima, estate 2012, quando favorì il passaggio a parametro zero di Pogba, allora 19enne, dal club allenato da Sir Alex Ferguson al club di Andrea Agnelli. Per riportare a casa (leggi Manchester) il figliol prodigo, Raiola si accordò poi col club inglese per una commissione di 19,4 milioni di euro pagabili in 5 anni, cioè fino al 2020; e ai 27 della Juventus e ai 19,4 dello United aggiunse poi i 2,6 milioni riconosciutigli dal suo assistito, per l’appunto Pogba – che detto per inciso al Manchester è stato un colossale flop –, commissione che portò il totale del guadagno dell’agente italo-olandese a 49 milioni di euro. Soldi che escono dal circuito del calcio e che, com’è chiaro a chiunque, non rientrano più.

Ora: se a voi sembra normale che il reggitore del calcio italiano, di fronte a simili sconcezze, senta l’urgenza di dire: “No ai processi sommari, se ci sono degenerazioni vanno prima provate”, allora siamo al funerale del calcio. Flaiano diceva: la situazione è grave ma non seria. Ma qui è peggio, qui la situazione è Gravina. E dunque tremendamente seria.

 

I pregi della pandemia, le discussioni di laurea sono di nuovo una cosa seria

Questa ve la devo proprio raccontare. Costretto a maledire la peste cinese che semina morti e ci costringe a tamponi e isolamenti in serie, ho però visto il primo giorno dopo una quarantena (e prima di tornare subito a un nuovo “isolamento fiduciario”) anche i pregi del Covid. Signore e signori, grazie al coronavirus le tesi di laurea sono ridiventate cose serie. Almeno a Scienze politiche di Milano, facoltà che, come ho scritto anni fa in questa rubrica, è stata a lungo nelle sessioni di laurea zona di libero scatenamento per bande di ogni tipo. Composte di studenti in stato di delirio festante, e di giovanotti e giovanottine esterni che convenivano anche dalla provincia per “fare casino” con litri e litri di vino, fino un giorno a riempirne una vasca mobile e farci il bagno. Ma comprensive anche di genitori orgogliosi della simpatica esuberanza dei propri virgulti, e pronti a svillaneggiare i commessi intenti a difendere il decoro dei luoghi.

Oggi nulla di questo. E il miracolo purtroppo si chiama Covid. Dopo qualche timido ingresso di guardie giurate per mitigare il disordine pubblico, sono infatti arrivate le regole sull’assembramento, sulle distanze, sulle mascherine. Ogni laureando può farsi accompagnare da un numero limitato di amici o parenti, il cortile interno non può più ospitare feste. Così i docenti più consapevoli possono ottenere risultati straordinari. Altro che i bivacchi da cui all’annuncio di un 110 si levava tra urla e risa – in aula – il suono del corno da stadio. Vedere per credere.

Il professor Maurizio Ambrosini è uno dei massimi esperti di studi sull’immigrazione. L’altro giorno ha presieduto lui una commissione di laurea dai numeri non minuscoli: quattordici esaminandi. L’ho dunque osservato mentre parola dopo parola, gesto dopo gesto, restituiva alla cerimonia la sua funzione simbolica. Alla laureanda che si accomoda subito mentre lui la presenta in piedi: “Signorina, per favore, si accomodi quando glielo dico io”. Piccolo sussulto di sorpresa ma rapido adeguamento alle esigenze della forma. Scoraggiati gli applausi alla fine della discussione: “Io per scaramanzia attenderei che venga comunicato il giudizio della commissione”. Genitori e amici smettono d’incanto. Ma non sarà che è una cosa seria? Ed ecco la proclamazione: “La commissione dopo avere preso visione della sua dissertazione, dopo avere audito la sua discussione…”. Sul viso dello studente o della studentessa si disegna un’ombra di rispettosa attesa per quanto gli viene comunicato. “Per i poteri delegatimi dal magnifico rettore che qui rappresento”, “la proclamo dottore in…”. Domanda: e le famiglie non provano imbarazzo per questa apparente ridondanza di forma? Neanche per idea. Anche a loro, in effetti, man mano che trascorrono i minuti sembra di vivere qualcosa di importante. E il professore Ambrosini le ringrazia con solenne empatia. Spiega che questo è il punto di arrivo anche dei loro sforzi, perché “noi sappiamo bene che spesso per una famiglia la frequenza universitaria del figlio è un problema”. Economico, logistico, a volte causa di ricadute sulla stessa vita affettiva. I familiari approvano, si sentono riconosciuti, è come se si laureassero anche loro. Capiscono che quella che hanno vissuto e stanno vivendo è una giornata memorabile, come suggerisce lo stesso professore. Coronamento di anni. Che andrà ricordata per la conquista che rappresenta, non per lo scatenamento del “casino” di cui si è stati capaci come un branco intergenerazionale.

Ci sono stati anni in cui tutto questo è sembrato impossibile. In nome dei diritti, dei “giovani che sappiamo come sono”. Invece i giovani sono contenti così. È stato reintrodotto il loro diritto ad avere una laurea che li riconosca esseri pensanti, che li faccia sentire importanti. Poi, fuori, festeggeranno. C’è voluto il Covid.

 

Quirinale. Il gesuita Mario, lo scismatico Pera e il fariseo Casini: che cattolico sarà il presidente?

Ci sarà un altro cattolico al Quirinale dopo Sergio Mattarella, credente “adulto” nel segno dell’antica sinistra democristiana? La probabilità è alta. La maggioranza degli aspiranti successori è infatti di rito romano a partire dal superfavorito Mario Draghi. Di formazione gesuita e introdotto come tecnico nel Palazzo negli anni ’90 proprio dalla sinistra dc (Marcora, Andreatta e Prodi), il premier è un cattolico praticante, che quando è nella sua residenza umbra di Città della Pieve va alla messa domenicale delle diciotto.

Di tutt’altro segno la conversione esibita e pubblica del redivivo Marcello Pera, teorico liberale dell’impunità berlusconiana e poi clericale di destra di marca ratzingeriana. Negli ultimi anni il presidente emerito del Senato si è distinto soprattutto per la sua fiera opposizione al pontificato di papa Francesco. Una battaglia condotta con monsignori e cardinali oggi no vax ideologici, laddove il Covid è considerato l’arma letale del Great Reset satanico: l’arcivescovo Carlo Maria Viganò, sua eminenza Raiymond Leo Burke (che però da quando ha preso il virus si mantiene basso sulla questione) e l’ex prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede Gerhard Ludwig Müller.

Ecco il pensiero di Pera su Francesco: “Per quello che riguarda i fondamenti della fede cattolica, questo pontificato è un oltraggio alla ragione. Però nessuno, fedeli o vescovi, dice nulla, nessuno ha il coraggio di ribellarsi, eppure sono in tanti che dubitano. Il problema è che la Chiesa è ridotta ad una specie di Ong, bada maggiormente al sociale, ha trasformato Greta in un idolo, corre dietro a visioni solidaristiche, politiche e sociali, al buonismo”.

Non solo, il berlusconiano diventato un fanatico teocon (nel nome della dottrina che punisce e non perdona) tifa pure per uno scisma provocato dalla Chiesa americana filotrumpiana: “Bergoglio sostituisce alla cattolicità un umanesimo secolare. Di questo passo, possiamo arrivare allo scisma. Vedo la Conferenza episcopale Americana piuttosto vivace e presto potrebbero svegliarsi altre, penso ad esempio a quella della Polonia”. Immaginate quindi la scena di un papa più laico (dagli omosessuali ai diritti non negoziabili) del capo dello Stato. In teoria anche Marta Cartabia, altra candidata, è una cattolica di destra. Di matrice ciellina, la Guardasigilli ha però sbianchettato la sua militanza nel movimento fondato da don Giussani sin dal 2019, quando venne eletta presidente della Corte Costituzionale. Infine, il plotone dei candidati provenienti dalla vecchia Balena Bianca. Detto che i centristi del Pd non hanno alcuna speranza (sembra impossibile l’elezione di un altro dem dopo Mattarella), in campo c’è soprattutto Pier Ferdinando Casini, ex gregario della Prima Repubblica poi centrista trasformista nella Seconda (dalla destra fino all’ultima elezione a senatore grazie al Pd di Renzi nella rossa Bologna).

Due volte divorziato e sopravvissuto a un partito morto a causa del settimo comandamento (non rubare), l’ex forlaniano Casini incarna la tipica ipocrisia dc di stampo fariseo. Un sepolcro imbiancato per dirla con il Vangelo: “Essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti”.

 

La privatizzazione della ricerca: soldi statali, profitti alle imprese

Viviamo in un film di fantascienza nel quale tutto, dalle alluvioni alle pandemie, appare minaccioso. Si diffonde la convinzione che, per riequilibrare il rapporto incrinato con l’ecosistema, sia necessario trasformare il nostro modello industriale e di consumi. La transizione dalle energie fossili è solo un aspetto dell’epocale trasformazione necessaria. La miscela salvifica è oggi individuata nel supporto pubblico a ricerca ed investimenti privati. Eppure, quando i cittadini si accorgono di come cospicue risorse pubbliche si traducano in enormi profitti privati – come nel caso dei vaccini di Pfizer e Moderna – si alimenta la diffidenza verso la scienza le autorità pubbliche.

In un libro recente, “La privatizzazione della conoscenza”, l’economista Massimo Florio espone con lucidità il meccanismo attraverso il quale l’impresa privata – nel settore biomedico, dell’energia e del digitale – si appropria delle conoscenze generate dalla ricerca pubblica per trasformarle in rendite finanziarie, protette da inattaccabili posizioni di oligopolio. Non siamo più nell’epoca degli imprenditori che costruivano le proprie fortune da idee nate negli scantinati. Oggi i contributi pubblici in R&S rappresentano circa il 50% del totale, mentre le innovazioni tecnologiche nate nelle strutture di ricerca aziendali sono più l’eccezione che la regola. La ricerca viene monetizzata dai privati con brevetti, commesse pubbliche militari, l’assorbimento di capitale umano formato in università e enti di ricerca, o con l’utilizzo commerciale dei dati raccolti in open access. Solo per fare un esempio, Big Tech si è avvalsa del World Wide Web ideato dal Cern di Ginevra e donato gratuitamente al mondo.

Questo meccanismo estrattivo della conoscenza permette l’accumulazione della ricchezza alla frontiera tecnologica: le società Big Tech rappresentano cinque delle prime sei aziende del mondo per capitalizzazione, per un valore pari al quadruplo del Pil italiano. I correttivi a questo meccanismo estrattivo non funzionano: inseguire l’elusione su scala globale è una battaglia impari, mentre una effettiva concorrenza è resa impossibile da economie di scala che permettono a Big Tech di fornire servizi a prezzi bassissimi.

Ci si potrebbe chiedere: se Big Pharma produce vaccini che sconfiggono il Covid, e se Google ci fornisce gratis Googlemaps, perché preoccuparsi del modo in cui hanno acquisito le conoscenza necessarie? Una ragione importante, sempre seguendo il filo delle riflessioni di Florio, è che dell’enorme accumulo di ricerca prodotta nel mondo queste società prendono solo quanto può generare profitto. Big Pharma, 10 società che si spartiscono il 40% del mercato globale, si concentra su malattie non trasmissibili come il cancro, perché quelle trasmissibili affliggono popolazioni meno ricche. Le società energetiche non hanno impedito il massiccio aumento delle emissioni di CO2 in un clamoroso “fallimento del mercato”. La soluzione verde proposta dall’Ue di incentivare la decarbonizzazione col mercato del carbonio (Ets) e con cospicui finanziamenti alla ricerca su bandi aperti, spinge le società energetiche a perfezionare tecnologie mature, come il fotovoltaico o la cattura e stoccaggio di carbonio. Si rallentano così gli investimenti di frontiera per la fusione nucleare, le smart grid, l’idrogeno che, se finanziati adeguatamente, consentirebbero un vero balzo tecnologico. Big Tech ha perfezionato l’estrazione di dati per generare profitti, tralasciando il trattamento dei dati su beni collettivi come ambiente e salute.

La “privatizzazione della conoscenza” afferma la logica che la ricerca di profitto, anche attraverso brevetti, sia l’unico motore possibile dell’innovazione tecnologica. Il fatto che migliaia di studiosi si scambiano conoscenze in università e enti di ricerca, spesso con posizione precarie e stipendi modesti, dimostra che c’è un potente desiderio di ricerca come sfida intellettuale e dono all’umanità. Florio ipotizza la costituzione di infrastrutture di ricerca pubbliche a livello europeo (Biomed Europa, Green Europa, Digital Europa) in grado di gestire direttamente un portafoglio di progetti specifici, dai trials clinici alle comunicazioni digitali, intascando eventuali profitti. Queste infrastrutture di ricerca potrebbero, a seconda dei casi, prendere a modello l’Airbus, il Cern, il Fraunhofer tedesco.

Si intravede in questo progetto il tentativo di riscattare i vari “fallimenti di mercato” e l’aspirazione ad un’Europa della cooperazione scientifica che sia un’incarnazione più attraente di quella delle privatizzazioni e del mercato. In fondo, già oggi, la quota mondiale di imprese sotto controllo statale è quasi il 20%, ed è in aumento.

Disney vs Youtube: ma che fine hanno fatto gli influencer?

“Sono nata come youtuber: postavo i miei video, i miei suggerimenti. Per montarli impiegavo anche l’intera giornata ed è lì che tre anni fa è iniziata la mia avventura”. Oggi, l’influencer da centinaia di migliaia di follower con cui parliamo per caso (e di cui non possiamo fare il nome perché non ci ha autorizzato) sta abbandonando sempre di più la piattaforma. Fa un calcolo rapido ed efficace: per registrare e montare un reel di Instagram, i brevi video della piattaforma di Zuckerberg, impiega il 20 per cento del tempo totale del suo lavoro. Per registrare un video di Youtube, complesso e con contenuti specifici serve il restante 80 per cento. “La redditività è però all’opposto. L’80 per cento mi arriva da Instagram, dalle collaborazioni con i marchi, e il 20 per cento da Youtube con product placement molto più complessi e impegnativi”. I guadagni dalle visualizzazioni sono passati in secondo piano.

Ormai da qualche anno Youtube registra una lenta ma costante dinamica: molti arrivano ma molti vanno e youtuber, anche con grandi numeri, si spostano su altre piattaforme. L’italiana Marzia Bisognin (Cutiepie), ad esempio, ha lasciato Youtube e i suo 7,5 milioni di iscritti con un video messaggio nel 2019 ma è presente su Instagram con costanza e 8,2 milioni di follower. Lo youtuber Valerio Mazzei, nel 2020 ha confermato l’abbandono del suo milione di iscritti al canale e mentre ne accumulava 2,9 milioni su Tik Tok lanciava pure un nuovo disco. Insomma, Youtube dal punto di vista dei nuovi linguaggi è insidiato dai concorrenti social che, nel tempo, hanno anche potenziato la loro offerta di video: Facebook, Instagram, Twitch e in ultimo Tik Tok. L’immediatezza della comunicazione, unita al potere di marketing e di rapido e disintermediato piazzamento della pubblicità da parte dei brand, ha reso più conveniente per molti migrare portandosi dietro la community di utenti. La piattaforma, però, non ha apparentemente subito una crisi di ricavi, anzi: resta infatti lo zoccolo duro dei video musicali, come dimostrano tutte le classifiche dei più visti, e dei contenuti più tradizionali, dallo sport alle trasmissioni tv. I ricavi dalla pubblicità sono in crescita da anni. Più evidente è la crisi d’identità.

Già nel 2019 The Verge proclamò la “fine dell’età dell’oro” di Youtube, raccontando l’abbandono da parte di molti content creator originali, ostacolati oltretutto da linee guida ritenute troppo rigide, silenziati (e quindi de-monetizzati) senza preavviso e a loro dire messi da parte per favorire sempre di più celebrità o video più tradizionali. Un’analisi di AppAnnie qualche mese fa ha rilevato che Tik Tok ha superato Youtube per tempi di permanenza e secondo una nuovissima ricerca di Cloudfare, che si occupa di sicurezza internet, Tik Tok è il sito più visitato online nel 2021, salito di sette posti. Youtube è all’ottavo (terzo come social). In mezzo, c’è stata la creazione del servizio “Shorts” che permette di creare e condividere video brevi nel tentativo, si vedrà quanto efficace, di intercettare nuovi trend.

E arriviamo ad oggi: nelle dinamiche aziendali Youtube appare infatti sotto alcuni aspetti vicino a un media tradizionale nonostante l’acquisto da parte di Google nel 2006 per 1,6 miliardi di dollari fu improntato proprio sui contenuti originali creati dagli utenti (anche perché c’era un problema di pirateria dilagante da risolvere). Proprio puntando sulla cultura dei “creator”, tra il 2008 e il 2011 il volume dei video caricati passò da 10 ore al minuto a 72 ore al minuto. Nel 2011, YouTube aveva generato più di 1 trilione di visualizzazioni; le persone guardavano oltre 3 miliardi di ore di video ogni mese e i creator guadagnavano tramite Google AdSense. L’algoritmo favoriva i video più lunghi e il tentativo di creare un canale premium, nel 2011, fallì miseramente. Il 2015 fu l’anno di massimo splendore: su Youtube viveva tutto ciò che oggi sembra nativo sui social network. Dal 2016, poi, i problemi: la prima ad-pocalypse, la fuga degli inserzionisti per colpa di video politicamente scorretti anche tra le star di Youtube e le conseguenze a cascata su tutti. Tra nuove sanzioni e proteste “i primi piccoli sforzi dell’azienda per affrontare questi seri problemi – scriveva The Verge – furono promuovere contenuti di musicisti, spettacoli di seconda serata e raccomandare un minor numero di creatori indipendenti. Spinsero YouTube verso lo stesso identico contenuto di Hollywood, di cui una volta era stata un’alternativa”. La piattaforma aveva negato e commentato: “La nostra strategia di contenuto principale e i nostri investimenti rimangono incentrati sui nostri creatori endemici”.

Ad oggi, l’aspetto “tv” appare però irrinunciabile tanto che la settimana scorsa su Youtube Tv sono stati accesi e spenti in soli due giorni almeno 12 canali della Disney, visibili a pagamento. Sabato era stato annunciato che le due aziende non avevano trovato un accordo sul loro costo, domenica è arrivato il dietrofront, con la riattivazione immediata di Disney Channel, National Geographic e soprattutto di Espn e Abc che in questi giorni iniziano a trasmettere le partite di college football ma anche di basket, seguitissime dagli americani. Disney aveva accusato Youtube di caricare sui clienti i costi del servizio, Youtube aveva puntato il dito contro Disney sostenendo di avere canoni fuori mercato. Youtube aveva finanche ridotto di 15 dollari (a 50) l’abbonamento a Youtube Tv per compensare la perdita, poi re-integrato dopo un accordo che, evidentemente, non poteva non essere raggiunto. Disney ha parlato della “collaborazione di Google per raggiungere condizioni eque coerenti con il mercato”.

Secondo molti analisti, il blackout, se prolungato, sarebbe stato uno dei più dirompenti di sempre visto che Google aveva lanciato YouTube TV nel 2017 come alternativa digitale alla tv via cavo ma anche come concorrenza agli altri servizi di streaming in costante crescita. Oggi è considerato uno dei maggiori servizi di pay-TV su Internet degli Usa. Le stime, visto che i dati ufficiali non vengono diffusi e che il bilancio non scorpora le informazioni sul singolo servizio, parlano di un range di abbonati tra i 3 e i 4 milioni che, considerata l’offerta, derivano per lo più dallo sport e dall’intrattenimento per bambini. È ciò che rende questo ramo della creatura di Google competitiva in un mercato che ha valide alternative di intrattenimento in streaming, da Netflix alla stessa Disney Plus. Solo che Youtube non è forte sulla produzione di contenuti propri e questo sembra renderla dipendente da accordi strategici con partner che sanno come farli fruttare.