Scuola, maxi sanatoria a due giorni dal voto

Una sanatoria per 55 mila professori precari ma privi di titolo per l’insegnamento, che adesso saranno in parte abilitati, in parte assunti. Un nuovo concorso per 17 mila maestri. Tutto a due giorni dalle elezioni.

Arrivano le Europee e la Lega spalanca le porte della scuola: se per il secondo provvedimento mancava giusto l’annuncio, dato con tempismo perfetto dalla ministra Bongiorno, il primo è una proposta dei sindacati che il titolare dell’Istruzione, Marco Bussetti, ha deciso di accogliere giusto ieri. Per la gioia di Matteo Salvini: “Altre migliaia di posti di lavoro per migliorare la scuola italiana”. Il leghista la chiama “promessa mantenuta”, alla vigilia del voto sa tanto di promessa elettorale. In un caso o nell’altro, la sostanza è che nei prossimi tempi ci saranno nuove assunzioni. Il concorso per i maestri di elementari e materne in realtà non è una novità: era atteso da mesi, ieri la ministra Bongiorno ha solo firmato il decreto. I posti saranno 17 mila, le prove (scritto, orale e forse una preselettiva) probabilmente in autunno, con le assunzioni a partire dal 2020.

Diverso l’annuncio di Bussetti: “Abbiamo deciso di recepire nel primo veicolo normativo la proposta dei sindacati: sì a percorsi abilitanti aperti a coloro che hanno adeguata esperienza, con selezione in uscita”. Tradotto: sì a un concorso riservato ai precari storici, un nuovo Pas (Percorso abilitante speciale). Si tratta di una procedura straordinaria che attribuisce l’abilitazione, il titolo necessario per essere assunti (oltre che avere priorità nelle supplenze), a quei docenti che hanno maturato almeno 36 mesi di servizio anche senza partecipare o superare un regolare concorso. Secondo le ultime stime, sono circa 55 mila. La maggior parte – dettaglio non trascurabile – al Nord, visto che si tratta di docenti che lavorano senza abilitazione (e al Sud, dove la coda è troppo lunga, è quasi impossibile farlo). L’ultimo Pas l’aveva fatto l’ex ministro Profumo nel 2013. Qui si va oltre, perché non ci sarà solo l’abilitazione ma in certi casi addirittura l’assunzione. I docenti con i requisiti faranno domanda ed entreranno in una graduatoria per titoli. Tutti saranno comunque abilitati e potranno partecipare al prossimo concorso con questo titolo (grosso vantaggio); i primi riceveranno pure un contratto annuale, che al termine del corso diventerà indeterminato. L’ipotesi è di riservare loro il 50% del contingente del prossimo concorso, circa 24 mila posti. Comunque saranno stabilizzati soltanto dopo tutti i vincitori dei precedenti concorsi (sono ancora in coda quelli del 2016 e 2018), quindi non è chiaro quanti e quando saranno effettivamente assunti.

Il doppio annuncio non poteva passare inosservato. Soddisfatti i sindacati, da cui parte l’idea. Decisamente più prudenti gli “alleati-rivali” del M5S, che avevano puntato sulla scuola e ora vedono la Lega intestarsi il provvedimento, dopo che nell’ultima manovra erano stati presi accordi diversi. “Promettere a due giorni dal voto misure straordinarie per i precari storici, in deroga alla trasparenza e al merito, è una mossa azzardata”, affermano Bianca Laura Granato e Alessandra Carbonaro, capigruppo nelle commissioni Cultura. Del resto gli insegnanti sono da sempre un grande bacino di voti e già Matteo Renzi aveva provato a conquistare il loro consenso con la Buona scuola, oltre 100 mila assunzioni che però gli si sono ritorte contro. Ora è la volta di Matteo Salvini. Chi ci rimette invece sono come al solito i neolaureati, i più giovani, penalizzati perché avranno la metà dei posti nel prossimo concorso. Ma anche questa non è una novità.

Fontana e l’amico da piazzare “Parlai con Toti di Marsico”

Sette pagine di verbale bastano ad Attilio Fontana per spiegare ai magistrati di Milano il perché abbia pilotato la nomina del suo ex socio di studio in una commissione esterna della Regione. L’accusa di abuso di ufficio, il governatore lombardo, la spiega così: “Ho voluto non disperdere una professionalità”. La nomina viene certificata con una delibera di giunta dell’ottobre 2018. Marsico, senza che alcuno dei presenti rilevi un conflitto d’interessi, viene nominato nella commissione esterna del Nucleo di valutazione e verifica degli investimenti pubblici.

Il caso, si comprende dalle intercettazioni, è la prima preoccupazione di Fontana. Il presidente ne parla con il fidato Nino Caianiello, presunto burattinaio della nuova tangentopoli lombarda e indagato anche per istigazione alla corruzione, avendo proposto a Fontana un piano “illegale” per trovare un incarico a Luca Marsico, ex consigliere regionale trombato alle elezioni del 2018. L’idea di Caianiello è far nominare in Regione Beppe Zingale, presidente di Afol (l’azienda della ex Provincia per la formazione e il lavoro) e in cambio far avere a Marsico consulenze da Afol per 90 mila euro all’anno. Dice Fontana: “La proposta di Caianiello non l’ho neppure presa in considerazione, io avevo già deciso ma non l’ho detto chiaramente a Caianiello, ho traccheggiato prendendo tempo”.

Ancora prima, Fontana punta sul governatore della Liguria Giovanni Toti. Dice ancora Fontana: “Ne ho parlato con lui in maniera molto generica, rappresentandogli la situazione (…) forse Toti mi disse che se Marsico aveva bisogno, magari poteva rivolgersi a lui”. L’abboccamento con Toti viene riferito anche a Caianiello che però sconsiglia Fontana di seguire questa strada. Alla fine il governatore punterà sulla nomina. Al Fatto il governatore della Liguria Giovanni Toti spiega: “Ricordo che ho chiesto ad Attilio Fontana perché il consigliere uscente di FI Luca Marsico non fosse stato eletto. Poi abbiamo parlato della sua attività professionale. Non ne ho un ricordo preciso ma se Attilio ricorda così non ho ragione di smentirlo. Se Fontana mi ha detto: ‘guarda che è un ottimo avvocato e se ne avrai bisogno per la Regione tienilo a mente’ certo gli avrò detto: ‘Attilio, se nella sua attività discrezionale la Regione avesse bisogno vedremo’. Ecco io non lo ricordo con precisione ma se fosse andata così non ci vedo nulla di male”.

A verbale Fontana mette anche il ruolo reale di Caianiello, confermando quello che è emerso nell’inchiesta dell’antimafia, ovvero che Nino Jurassic Park Caianiello, pur non avendo ruoli formali, era il coordinatore di FI in provincia di Varese. Lo conferma l’eurodeputata Lara Comi, indagata per finanziamento illecito. Spiega Fontana: “La stessa coordinatrice Lara Comi se avevo qualche problema mi diceva sempre di rivolgermi a lui”. La Comi, attuale ricandidata di FI a Strasburgo, è accusata di aver preso una consulenza fittizia da 31 mila euro pagata dall’attuale capo di Confindustria Lombardia, Marco Bonometti (indagato). Secondo i pm, la Comi avrebbe preso anche 38mila euro di consulenza da Afol. Denaro che poi, secondo i pm, avrebbe dovuto in parte retrocedere aCaianiello. Oltre alla nomina di Marsico e al ruolo di Caianiello, Fontana, a domanda, risponde su alcune nomine della sanità lombarda. In particolare dei direttori generali dell’ospedale Sacco-Fatebenefratelli. I pm hanno infatti domandato: la nomina di Alessandro Visconti alla guida del Sacco-Fatebenefrtelli “è in quota alla Lega?”. “All’inizio del mio mandato – ha risposto Fontana – l’unico criterio seguito per la nomina dei Dg delle Ats e delle Asst (le ex Asl e Aziende Ospedaliere, ndr) è stato esclusivamente quello delle professionalità e non di appartenenza politica” e poi che quella del dottor Visconti, “di cui non escludo che sia un simpatizzante della Lega”, a suo dire “è stata una conferma: precedentemente aveva dato un’ottima prova”.

Lucano torna a Riace: il comizio “notturno” e il seggio domani

Due ore di libertà per Mimmo Lucano, il sindaco sospeso, che ieri è potuto tornare nella sua Riace: la città di cui è stato sindaco per nove anni e in cui ha divieto di dimora dal 17 ottobre scorso, a causa dell’inchiesta della Procura di Locri sulle presunte irregolarità nell’attività di accoglienza e integrazione dei migranti. A consentirgli il ritorno, seppur breve, è stato il Tribunale di Locri: Lucano ha potuto partecipare al comizio conclusivo della lista in cui si è candidato come consigliere comunale, “Il cielo sopra Riace”. Il comizio si è tenuto in tarda serata: le tre liste candidate nel comune calabrese, infatti, hanno sorteggiato l’ordine di “occupazione” del palco, e a quella di Lucano è toccata l’ultima tranche, dalle 23 a mezzanotte. A Lucano sono state concesse poi mezzora prima dell’inizio del comizio e mezzora dopo, per consentirgli di lasciare il paese e tornare al suo attuale domicilio.

Lo stesso Tribunale di Locri ha deciso che domani Lucano potrà nuovamente tornare nel suo paese. Giusto il tempo necessario, però, per recarsi al seggio e votare.

Il bilancio della campagna elettorale

 

Antonio Padellaro

Zen, antifascismo e coma finito: qualcosa stavolta è cambiato

Brutta e cattiva quanto volete, ma questa campagna elettorale ha mutato sostanzialmente il profilo dei partiti in lizza e il loro consenso virtuale nei sondaggi. Tutti hanno cercato di presentare un’immagine più “accogliente”, tesa a conquistare gli indecisi dell’ultima ora. Matteo Salvini, riposte le tute da combattimento si è proposto, in modalità zen, come il capo di una destra più tradizionalista (il rosario) e meno estremista sull’Europa che sarà. Luigi Di Maio ha sterzato verso il centrosinistra (sull’antifascismo e con padre Konrad, l’elettricista della misericordia), soprattutto per togliere spazio alla piccola rimonta del Pd. Che con Zingaretti ha scelto la strada soporifera del male minore, puntando su chi non è può più della rissa gialloverde. Quanto a Berlusconi, ha riproposto le solite gag all’elettorato più anzianotto e nostalgico (anche se ormai lui gioca in serie B). Risultato: la Lega cresce meno di qualche settimana fa. Il calo del M5S si è interrotto recuperando punti. Il Pd esce dal coma farmacologico e si consolida come forza d’opposizione. Sì, qualcosa è cambiato.

 

Peter Gomez
Il podio (dei peggiori): primo Salvini, ultima Emma Bonino

L’unica classifica da stilare è quella dei peggiori. Al primo posto c’è il probabile vincitore delle Europee, Salvini. Quando per i sondaggi i consensi erano alle stelle (37%) ha fatto di tutto per perderne corteggiando minoranze prive seguito e invise ai più: gli ultras cattolici “no aborto” e i neofascisti. In più ha difeso la Casta opponendosi al licenziamento di un sottosegretario indagato e proponendo di abolire un reato tipico dei politici: l’abuso d’ ufficio. In seconda piazza c’è Zingaretti. Avrà un buon risultato solo perché Renzi non si è fatto quasi vedere e perché ha come avversari le due litigiose forze di governo. Ma nessuno sa cosa voglia. Terzo: Di Maio. Buona l’idea di differenziarsi e attaccare la Lega su legalità e diritti, mostrandosi moderato. Pessima quella di ricorrere anche alle parolacce. Quarto: Berlusconi. Ha fatto se stesso. È impresentabile, ma proprio per questo c’è chi lo vota. Quinta Meloni: anche se lei è più a destra, Salvini ha fatto sì che molti non se ne accorgano. Settima Bonino. Se tutti parlano male dell’Europa, basta chiamarsi +Europa per avere qualche voto.

 

Daniela Ranieri
Zero idee e troppe parateAlla fine il più serio sembra B.

Una persona che si fosse svegliata dal coma un mese fa e dovesse decidere chi mandare al Parlamento europeo sulla base della serietà della sua campagna elettorale, domani dovrebbe votare Berlusconi. Per dire quale tragica farsa siano le elezioni europee. Solo B. ha parlato d’Europa (al netto del fatto che a salvarci dalla Cina saranno lui, Tajani, Irene Pivetti ecc.). Salvini ha sostituito la campagna elettorale con un gigantesco selfie geolocalizzato, e il programma della Lega, a parte un Pater noster e due Ave Maria, è ignoto. Di Maio ha omesso di comunicare i punti del M5S sfiancandosi nella lotta col contraente e presentandosi nei talk con la consueta parata di ministri (che c’entra?). Chi ama l’Europa deve votare il Pd di Zingaretti (percaritàbravapersona) e i suoi capilista di punta (Pisapia, Bonafé: che è tutto dire): pensate se la odiasse. Il duo Calenda-Renzi ha fatto campagna contro il Pd, e per loro le europee saranno un sondaggio gratis su sé stessi. Premio della critica a Giorgia Meloni, per la grinta (all’erede Mussolini il premio Orologio Vivente d’Italia).

 

Piero Ignazi
Il boomerang di piazza Duomo e la “luce” a sinistra: Calenda

Nessun leader ha brillato particolarmente in questa campagna elettorale. Di certo però è facile stabilire chi è stato il peggiore: Matteo Salvini. Ha messo in serie alcuni errori culminati con l’infelicissima manifestazione di Milano dell’altro giorno, un disastro comunicativo che gli si è ritorto contro e di cui subirà conseguenze anche in maniera significativa, perché credo che sarà al di sotto del 30 per cento. Pur senza particolari acuti, la strategia dello scontro con la Lega ha invece giovato al Movimento 5 Stelle, che ha dimostrato di non essere succube dell’alleato e che testimonia come differenziarsi da Salvini possa pagare in termini di consenso. Gli equilibri resteranno quindi questi, anche perché nel centrodestra Berlusconi è ormai alla fine: potrà recuperare qualche voto dai suoi che lo avevano “abbandonato”, ma la storia di Forza Italia è chiusa nonostante la nuova discesa in campo. A sinistra, invece, più di Zingaretti ha fatto Calenda, che ha dimostrato di essere un personaggio abbastanza capace, anche se non credo sia in grado da solo di spostare granché.

 

Nadia Urbinati
Solo un derby tra gialloverdi. Di Europa non parla nessuno

La campagna elettorale è stata fatta soltanto a proposito dell’Italia, a destra e a sinistra. L’Europa è stata vista solo in funzione suppletiva, il discorso politico è ruotato solo ai nostri meccanismi interni senza che nessuno avanzasse proposte serie sulla propria visione d’Europa. Non si è parlato di normative europee, di Bce, del Trattato di Dublino, su cui molto è stato fatto negli ultimi mesi senza che tra l’altro il ministro dell’Interno partecipasse ai lavori. Questo fa sì che gli elettori poco sappiano dell’Europa e votino solo in base agli effetti dei risultati in Italia, trasformando le elezioni in un plebiscito su Salvini. Quelli che si sono mossi meglio sono stati i parlamentari uscenti e tra tutti cito Elly Schlein, anche se non è nemmeno ricandidata. È stata un’occasione persa soprattutto per il Pd, che aveva un minimo di vento in poppa e poteva approfittarne per sfoderare competenza e conoscenza europea. Invece anche i dem hanno preferito ridurre la campagna elettorale a uno scontro su Di Maio e Salvini.

 

Andrea Scanzi
Gara di rutti (poco esaltante) L’unico che si salva è Conte

È stata una campagna elettorale esaltante come un’intervista di Porro a Berlusconi, che peraltro è un ossimoro. Di Maio: inizialmente oscurato dalle smargiassate di Salvini, dalla “via della seta” in poi ha randellato il collega di governo con ferocia sin troppo ostentata: una via di mezzo lo aiuterebbe. Salvini: imbattibile nella “gara dei rutti” (cioè degli slogan), è a un passo dallo smerigliare trasversalmente le gonadi. Rischia già l’effetto Renzi, che dal 4 dicembre 2016 sbaglia tutto con agio inesausto. Zingaretti: inarrestabile e rutilante come una mietibatti spenta. Berlusconi: numeri a caso, sproloqui, freddure. Non si uccidono così neanche i caimani. “Sinistra”: retoricamente onnipresente su social e tivù, sì è autoproclamata unico argine al ritorno di Hitler. Me cojoni. Tra i pochi a salvarsi mediaticamente: Conte, che infatti in tivù non c’è andato mai. Come a dire che, parafrasando un Nanni Moretti lontano, oggi il politico si nota di più se non viene. Mentre, se si autoinvita alla festa, non fa in tempo a sedersi che ha già rotto le palle a tutti.

Chi blocca davvero la pedemontana

“Ho LucaZaia che mi cerca perché sarà giustamente arrabbiato, perché se c’è un’opera che stava andando avanti tranquillamente è la Pedemontana Veneta. Adesso è arrivato il ministro dell’Ambiente Costa che dice ‘fermi tutti’, ‘blocchiamo’, ‘indaghiamo’. A me ’sta gente che blocca, blocca, blocca…”: a dirlo, ieri, il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, a Rtl parlando delle indagini sulla compatibilità ambientale della superstrada “Pedemontana” in Veneto. In realtà il ministro dell’Ambiente Sergio Costa non ha bloccato nulla: è arrivato al ministero un video da parte dei cittadini che segnalavano un possibile illecito ed è stato girato, come è nelle prerogative del ministro, al Noe. Anche perché, essendo un’opera regionale, il ministro non può bloccarla in alcun modo. Ieri, annunciando il via libera alle bonifiche della discarica di Pescantina, in Veneto, ha risposto all’attacco di Salvini: “Il mio è il ministero che sblocca i cantieri e le opere che fanno bene all’ambiente e alla salute. Siamo quelli del sì allo sviluppo sostenibile del nostro Paese. La battaglia per risanare l’Italia è appena iniziata. Proprio ieri sono stato a Treviso – ha aggiunto – a visitare l’impianto che ricicla i pannolini e che grazie al mio decreto End of Waste potrà creare fino a mille posti di lavoro”.

“Chiampa” spera nel miracolo (con l’aiutino dell’Appendino)

Negli Stati Uniti parlano di “anatra zoppa”, in Piemonte invece Sergio Chiamparino evoca il “miracolo di Giandoja”, la celebre maschera subalpina. Ed è questa la speranza per il Pd, ma soprattutto per l’ex sindaco di Torino e governatore uscente: riuscire a scalare con il proprio prestigio i 10-12 punti di distacco tra il centrosinistra e il centrodestra e prendere anche un solo voto in più del suo avversario. Alberto Cirio, europarlamentare di Forza Italia (ma ex leghista), ex vicesindaco di Alba (Cuneo), ex assessore al Turismo nella giunta regionale di Roberto Cota, bon vivant langarolo e con interessi non solo politici in agricoltura ed enogastronomia.

Ma che cosa c’entra Giandoja con tutto questo? La maschera della tradizione piemontese, in realtà, sarebbe forse la meno adatta a rappresentare i sogni del centrosinistra. Il teatro popolare, infatti, attribuisce a Giandoja motti quasi sovranisti, se non addirittura contro le élite, tipo: “Liberté egalité fraternité, ij fransèis a van an caròssa e noi a pè” (“Libertà, uguaglianza e fraternità, i francesi vanno in carrozza e noi a piedi”), oppure “Viva la Fransa viva Napoleon, chiel a l’é rich, e noi ëstrasson” (“Viva la Francia viva Napoleone, lui è ricco e noi straccioni”).

Chiamparino, però, punta proprio sulla popolarità (non sul populismo) del personaggio per spiegare la sua battaglia. In poche parole: “I piemontesi mi conoscono più di Cirio, sanno che so lavorare e mi stimano. In una Regione in recessione economica servono persone preparate e me lo riconoscono anche gli avversari. Ciò che io chiedo è proprio questo: elettore, se anche non trovi nessun partito di tuo gradimento nel centrosinistra, guarda i nomi dei candidati presidente. E fidati di quello che conosci di più: Chiamparino”. Con una qualche delusione, però, legata al ruolo dei leader nazionali: ieri, infatti, Salvini è arrivato a Vercelli e nel Novarese per i comizi finali, mentre Zingaretti non ha sentito il bisogno di farsi vedere in Piemonte, dove lo scontro non è solo europeo.

Se poi Giandoja farà il miracolo è una questione che, dopo gli scetticismi iniziali per la ricandidatura, è affidata adesso alle indiscrezioni sui sondaggi silenziati dalla mordacchia elettorale e al nervosismo che, più che sul viso del pacioso candidato che arriva dalle Langhe del tartufo e del Barolo, comincia a serpeggiare nel centrodestra: nella scelta tra i due contendenti, la differenza sarebbe ormai molto diversa da quella tra le coalizioni, con delle “forchette” statistiche che a volte si sovrappongono, sino al punto da non indicare più tendenze certe.

L’effetto conoscenza, con il governatore nettamente in testa, avrebbe così già annullato l’handicap generazionale: 71 anni per Chiamparino, e 47 invece per Cirio. Da verificare, piuttosto, chi può aver lucrato di più sul tema dell’alta velocità Torino-Lione. Uno scenario dominato dal no dei Cinquestelle e della sindaca di Torino Chiara Appendino e, sul fronte opposto, dal movimentismo delle piazze Sì-Tav, animate dalle “madamine” (una di loro è entrata tra i candidati di Chiamparino) e con forti imbarazzi per la Lega: costretta nell’alleanza gialloverde a dichiararsi per il Tav, ma di fatto a traccheggiare rinviando. L’europarlamentare albese, forte dell’appoggio alla Torino-Lione di Berlusconi, ha risposto accogliendo nella coalizione una lista ispirata direttamente al Sì e guidata dall’ex segretario di Carlo Donat-Cattin, Mino Giachino, il vero artefice delle manifestazioni per il treno veloce.

Chi vincerà in questa partita? Sicuramente Chiamparino nella “sua” Torino; più difficile immaginare quanto conti invece quel tema nel cosiddetto “Piemonte 2” e cioè nelle altre province: dove Cirio si può intestare un pezzo del Cuneese (ma non il capoluogo, antifascista e antileghista da sempre), l’Astigiano e il Novarese; mentre il suo sfidante parte favorito a Biella, spera nella conquista del Verbano, nel pareggio a Vercelli e in un qualche aiuto dall’antica rete dei Ds e della sinistra dc in quell’Alessandria dei signori dei trasporti e delle autostrade. E in una parola d’ordine del revanscismo piemontese da spendere soprattutto nel territorio che dalla Liguria sale verso Nord confinando con la Francia: “Con Cirio, vince Salvini e il Piemonte sarà feudo della Lombardia”.

A guardare resteranno un semisconosciuto (anche per le gerarchie cattoliche) Valter Boero, candidato del Popolo della Famiglia, e Giorgio Bertola, già consigliere regionale uscente, che corre da solo per il M5S, esponente di un’ala dei Cinquestelle non del tutto in sintonia con l’Appendino. Che invece, neppure in queste settimane di campagna elettorale (peraltro non molto accesa; anche su questo, si fondano le speranze di Chiamparino: “Non faccio polemiche, perché più mi scontro con Cirio, più lo faccio conoscere”) ha rinunciato alla “concordia istituzionale” con il governatore uscente. Sino a condurre a braccetto con lui la battaglia per l’estromissione dal Salone del Libro dell’editore neofascista legato a Casapound. A sua volta, nella penultima tribuna elettorale sul Tg3 Piemonte, Chiamparino l’ha citata con toni positivi. Lo scoglio più duro, per il governatore del Pd, sarà invece quello di recuperare voti nella sinistra più radicale che gli rimprovera lo schieramento per il Tav e, invece, i silenzi sul futuro di Fca: spera di farlo con le liste di Liberi Uguali e Italia in Comune e con il fiore all’occhiello della candidatura di Mauro Salizzoni, il “mago” italiano dei trapianti di fegato, che sulla sua scrivania ha il ritratto di Che Guevara.

Verrà dunque dal mondo dei Cinquestelle il “voto disgiunto” in grado di confermare le fibrillazioni dei sondaggisti? Le urne di domani saranno in grado di dare una risposta: infatti, un eventuale scarto di consensi al M5S tra Regionali ed Europee potrebbe spiegare tante cose. A cominciare da un inaspettato “miracolo di Giandoja”, in questo caso aiutato da una “Giacometta” torinese (così si chiama, nelle pièce del teatro dialettale, la moglie della maschera subalpina).

Tar Lazio: respinto il ricorso di Battiston, ex presidente Asi

Il Tar del Lazioha rigettato il ricorso presentato dal presidente destituito dell’Asi Roberto Battiston, che aveva impugnato il decreto del 31 ottobre 2018, con il quale il ministro dell’Istruzione aveva disposto la revoca, con effetto immediato, dell’incarico di presidente dell’Asi. “È uscita la sentenza del Tar del 19 marzo, respingendo il ricorso contro le modalità della mia revoca dall’Agenzia Spaziale Italiana – ha scritto su Facebook Roberto Battiston – Lo spoils system senza motivazioni risulterebbe applicabile ai vertici di Enti di Ricerca pubblici. Mi riservo di ricorrere al Consiglio di Stato”.

Nella sentenza il Tar del Lazio sottolinea che, “come chiarito dal Consiglio di Stato in più occasioni”, “il potere di intervento” non necessita “di una particolare e pregnante motivazione diversa da quella della esistenza di una nomina, che per il tempo ravvicinato alla fine della legislatura, implica, nella stessa considerazione della legge, la obiettiva inesistenza di una meditata e cosciente scelta fiduciaria imputabile al nuovo titolare del potere di indirizzo politico-amministrativo”.

“Attenzione alle trappole dei sondaggi: il boom sovranista vale il 30% dei seggi”

Anche l’Europa ha il suo sondaggista. Che a essere precisi è il responsabile delle proiezioni sui seggi dell’Eurocamera. È l’austriaco Philipp Schulmeister, funzionario del Parlamento europeo da oltre 20 anni e a cui dal 2017 è stata affidato l’incarico di monitorare gli umori, elettorali e non solo, dell’opinione pubblica nei Paesi dell’Unione.

A ridosso dell’election day di domani, gli occhi sono puntati su modalità e tempi di exit poll, proiezioni e risultati. E toccherà proprio alla squadra coordinata da Schulmeister, decifrare i dati che arriveranno ora dopo ora dalle singole capitali. Per tracciare una mappa sempre più precisa della distribuzione dei seggi nel nuovo Europarlamento.

Nel corso della campagna elettorale, il Parlamento ha pubblicato varie proiezioni per i seggi di Strasburgo, l’ultima delle quali risale ormai a più di un mese fa – tempistica dettata dal rispetto delle regole circa la pubblicazione delle intenzioni di voto in alcuni Paese, tra cui il nostro.

“Non commissioniamo noi direttamente i sondaggi sulla base dei quali sono elaborate le proiezioni”, precisa Schulmeister. “Ci basiamo su invece sulle rivelazioni di istituti nazionali ‘certificati’, che escludano per esempio quelli di una parte politica”. Il funzionario chiarisce come il suo lavoro consista nel comparare i dati che ci arrivano dai diversi istituti, facendo una media che tiene conto del più ampio spettro possibile di rilevazioni differenti”.

“A urne chiuse”, prosegue Schulmeister passando a considerazioni prettamente politiche, “bisognerà fare attenzione alla distanza percentuale tra i due più grandi gruppi parlamentari, quello dei popolari e quello dei socialisti. Sarà molto importante anche vedere quanti seggi otterranno i liberali con il probabile innesto degli eurodeputati di Macron”.

Alcuni risultati sembrano tanto facili da prevedere da meritare difficilmente l’attenzione dei sondaggisti. Ci sono però secondo Schulmeister almeno tre grandi incognite nelle sfide nazionali che avranno certamente un impatto sugli equilibri politici dell’Ue. In Francia, è molto difficile dire chi vincerà il testa a testa tra il presidente Emmanuel Macron e Marine Le Pen. In Germania, sarà importante vedere quanto otterrà AfD. Infine, rimane da capire con quanto margine sarà in vantaggio del Brexit Party nel Regno Unito, dove si è già votato anche se lo spoglio avverrà solo tra domenica sera e lunedì.

Cosa prevede infine la sfera di cristallo – benché scientifica, sempre vagamente sciamanica – del capo sondaggista Ue riguardo al possibile exploit dei sovranisti? “Grazie al successo in Francia, Italia e Polonia, e forse Germania, potrebbero arrivare a un terzo dei seggi totali, aumentando così di circa il 7% rispetto al 2014. Ma è difficile considerarli un blocco unico, dato che al momento sono sparpagliati in almeno tre gruppi diversi”.

Poi cambia registro e cita Steve Bannon: “Perfino lui ha capito che gli europei non vogliono perdere quanto hanno conquistato. Così ha suggerito ai sovranisti di smetterla con l’idea di abbattere l’Ue”. Tra nudi numeri e fredde previsioni, spunta sempre un cuore politico.

Poca gente, molto Dibba L’ultima piazza senza Grillo

Tra i sampietrini sotto un sole finalmente estivo il fondatore non c’è, perché non ha proprio più voglia di esserci. E questa volta non ha neanche mandato una cartolina, cioè un video. Ma alla signora che guarda il suo smartphone basta e avanza lui, il trascinatore riapparso con tanta voglia di restare: “La foto è venuta così e così, però ad Alessandro almeno un bacetto gliel’ho dato”. E Alessandro è ovviamente Di Battista, camicia viola e jeans, con compagna e bimbo al seguito.

La naturale star nel comizio conclusivo dei Cinque Stelle a Roma, un migliaio e qualcosa di persone riunite in piazza della Bocca della Verità, a pochi metri dal Campidoglio di Virginia Raggi. Poca gente, in una piccola piazza. Così l’ultima tappa della campagna elettorale è un appuntamento per quelli di sempre, militanti con la bandiera e gli anni che in molti casi sono più di 50. Dentro il M5S ci saranno finiti più o meno tutti per l’assente che quasi non si nota più, il Beppe Grillo evaporato tra i ringraziamenti dal palco. Ora il M5S è di governo, con tanti parlamentari che anche in piazza girano in giacca e cravatta e candidati che distribuiscono santini. Però la nostalgia da qualche parte deve posarsi, e Di Battista è perfetto per ricordare le vecchie adunate colme e l’assalto ai Palazzi. “Torna” gli urlano. Ma è già tornato, l’ex deputato romano “Facciamo un selfie solo se comprate qualcosa” ordina ridendo da dietro il banchetto dei gadget.

Attorno, eletti che lo osservano senza apparente invidia. Pensano ad altro, ai sondaggi “e a quel 24-25 per cento che possiamo prendere, e comunque dobbiamo stare sopra il Pd”. Ma una sottile, diffusa ansia è palpabile. Il vicecapogruppo in Senato Gianluca Perilli, romano, è in nero totale. E cerca le parole: “Negli ultimi mesi abbiamo rimarcato la nostra differenza con la Lega, e questo ci ha ridato la fiducia di tanti elettori”. Ma dopo il voto? “Non dobbiamo farci intrappolare nella dicotomia destra-sinistra, farebbe il gioco di Matteo Salvini”. Intanto Di Battista bacia e risponde a domande: “Ho parlato proprio oggi con Grillo, Beppe ha sempre detto che il Movimento va avanti con le proprie gambe”. Il milionesimo selfie, una battuta sulla Lazio (è tifosissimo, Dibba). Di Battista, ma la Lega è di destra? Lui dribbla: “La vera, becera destra è il Pd, mentre con la Lega abbiamo fatto tante leggi. E poi i parlamentari dem e di Forza Italia vengono sempre a raccomandarsi: “Non litigate, il governo deve durerà”. E vedrete, durerà altri 4 anni”. Sottotesto, io non ho fretta. Mentre un signore si lamenta: “Ale, è mezz’ora che aspetto per la foto”. Invece Di Battista prova la freddura: “Se Berlusconi andasse ad Antigua lo porterei io a cavacecio così potremmo finalmente superare il problema del conflitto di interessi”. E la butta lì: “Non vedo perché cambiare la regola dei due mandati”. Lo stesso concetto detto da Davide Casaleggio a Le Monde: “Il limite massimo dei due mandati non è modificabile, abbiamo sempre detto che la politica non è un mestiere”. Ed è una puntura di spillo per Di Maio, che almeno per i consiglieri comunali vorrebbe toccarlo. Ma a Otto e mezzo abiura, almeno per ora: “Non toccheremo la regola”. Nel frattempo il palco si anima, con il veterano Max Bugani che presenta e Raggi che fa la padrona di casa: “Possiamo arrivare dove vogliamo”. Poi arrivano le cinque capolista imposte da Di Maio, e i candidati uscenti non gradiscono affatto, tanto da rifiutarsi di salire sul palco. “Non facciamo mica le belle statuine” sibila uno. Invece sale e parla Casaleggio. “C’è chi si riposa un po’ dopo aver fatto la lepre” dice, alludendo a Grillo e Di Battista. E proprio l’artista e Casaleggio senior vengono evocati in un video.

Alle 22, con la piazza più piena, Di Maio. Inizia cantando l’inno nazionale, e di note ne becca poche. Ha la voce piena di rabbia, e le promette, sempre a lui, a Salvini: “Abbiamo preso uno, due, tre schiaffi, poi abbiamo iniziato ad alzare la voce. Forse all’inizio siamo stati troppo puri, è stato un errore, ma ora di schiaffi non ne prenderemo più, risponderemo ogni volta che serve”. Ma ce n’è anche per il Pd, “quelli dell’omertà, che non hanno a che vedere nulla con la storia della sinistra” e Calenda, “quello che vuole privatizzare tutto”. Chiude leggendo una lettera, evocando un “Paese normale”, immemore di D’Alema. E quasi urla. La sua domenica sarà lunghissima.

Gli exit poll olandesi fanno esultare Zingaretti e il Pd

Festa anticipata per il segretario del Pd Nicola Zingaretti. Che ieri mattina ha commentato così gli exit poll del voto in Olanda: “Grande Frans Timmermans! Belle notizie dalla tua Olanda, con i laburisti in testa e zero seggi per i sovranisti alleati di Salvini che vogliono distruggere l’Europa e affondare l’Italia. Ci vediamo oggi a Milano!”. Ieri infatti il leader dem ha chiuso la campagna elettorale nel capoluogo lombardo insieme al capo dei laburisti olandesi, probabili vincitori delle Europee ad Amsterdam. Al contrario il partito sovranista di Wilders – che sabato scorso era sempre a Milano, ma con Matteo Salvini – avrebbe portato a casa una sonora sconfitta, fermandosi al 4 per cento.

Zingaretti non è stato il solo a commentare. Per Paolo Gentiloni “è stato un buon inizio”, per Carlo Calenda i dati olandesi sono un “segnale incoraggiante e fanno vedere che populisti e sovranisti in Europa non conteranno assolutamente nulla”, mentre per il governatore toscano Enrico Rossi “saremmo in presenza di una tendenza nuova in Europa, tale da sgonfiare l’avanzata dei nazionalisti e dei populisti”.