Pacco-bomba a Lione: 13 feriti Macron: “Città sotto attacco”

Parigi

“C’è stato un attacco a Lione”: Emmanuel Macron stava rilasciando un’intervista a un giovane youtuber in chiusura della campagna per le Europee quando è arrivata la notizia. A due giorni dal voto, un pacco bomba è esploso nel centro della città, in una zona pedonale, ferendo 13 persone, tra cui una bimba di 8 anni. In undici sono stati trasferiti in ospedale con ferite lievi ma in stato di choc. Poco prima delle 17.30 di ieri, come hanno mostrato le immagini della videosorveglianza, un uomo in bermuda chiaro e maglia nera, nascosto da un cappuccio e grossi occhiali da sole, è arrivato in bici e ha depositato una borsa con dell’esplosivo, chiodi e bulloni davanti all’ingresso di una panetteria della catena La Brioche dorée, all’angolo della rue Victor Hugo e della rue Sala, a due passi dalla centralissima place Bellecourt. L’ora in cui si esce dagli uffici di un caldo pomeriggio di primavera. Il quartiere, pieno di negozi, è tra i più frequentati della città. L’esplosione ha spazzato via i vetri della panetteria e di diversi negozi. Alcuni passanti, rimasti a terra, sono stati portati al sicuro in una farmacia vicina, nell’attesa dell’arrivo dei pompieri e della polizia. L’inchiesta, ripresa dall’antiterrorismo di Parigi, privilegia la pista del pacco bomba, un ordigno di fabbricazione artigianale. Se il movente terrorista fosse confermato sarebbe la prima volta che un attacco di questo tipo si verifica a Lione. Altre città sono state colpite dal terrorismo negli ultimi anni in Francia, Parigi e Nizza, ma anche Marsiglia e Strasburgo. Lione era barricata ieri sera. È infatti scattata la caccia all’uomo. Dopo l’esplosione l’uomo, sui 30-35 anni ha preso la fuga. Il ministro dell’Interno, Christophe Castaner, ha chiesto ai prefetti di “rinforzare le misure di sicurezza di tutti i luoghi pubblici”.

Non solo Conte: i governi di mezza Ue appesi al voto

Sono elezioni europee, ma sono anche elezioni nazionali. Non soltanto in Italia. La consultazione già in corso in Olanda e Gran Bretagna che si chiude domani sera stabilirà anche i rapporti di forza in molti Paesi. A cominciare dallo Stato in cui nemmeno si doveva votare, il Regno Unito la cui Brexit è stata rimandata: la premier Theresa May ha annunciato l’addio, il voto chiarirà il nuovo contesto. Il Brexit Party del redivivo Nigel Farage (fu lui a guidare la campagna per il leave al referendum 2016) punta a essere il primo partito. Ma questa volta alle urne ci sono anche forze dichiaratamente pro-Europa, a cominciare dal movimento trasversale Change-Uk. La posta in gioco, per gli inglesi, è la possibilità di un secondo referendum sulla Brexit: dipenderà sia dai risultati interni sia da quale Parlamento e Commissione europea emergeranno dalle urne.

Anche la seconda fase del complicato mandato di Emmanuel Macron è appesa alle elezioni europee, primo test alle urne dopo il disastro dei Gilet gialli. Negli ultimi sondaggi disponibili, in Francia il primo partito è il Ressemblement National di Marine Le Pen con il 24%, che equivale a 22 seggi a Bruxelles, mentre La République en Marche di Macron insegue a 22,8 (21 seggi). Il distacco è inferiore all’errore statistico dei sondaggi: un sorpasso di Macron sarebbe un trionfo, arrivare secondo una sconfitta. L’Eliseo ha già chiarito da tempo di non riconoscere il sistema degli Spitzenkandidaten per la Commissione. Tradotto: Macron vuole il ritorno al passato, saranno i governi riuniti nel Consiglio europeo a scegliere il presidente della Commissione, non i partiti e gli elettori. La Francia spera di essere decisiva, magari a favore di un francese come Michel Barnier, ex commissario, negoziatore per la Brexit, che è in quota Partito popolare.

In Germania potrebbe cadere il governo di Angela Merkel, a seconda del risultato. Nel 2014 i socialdemocratici della Spd avevano ottenuto un sontuoso 27 per cento che aveva permesso loro di confermare il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz. Oggi, anche per le scelte di Schulz, che ha accettato l’ennesima grande coalizione (in Europa e in Germania), arrancano dieci punti sotto. Un tracollo della Spd alle Europee e la perdita delle elezioni locali a Brema può far ritirare il sostegno socialista alla grande coalizione e innescare il percorso verso elezioni nazionali. La carriera tedesca della Merkel sarebbe così finita. Chi la conosce assicura che non voglia altre sfide e che sia orientata a godersi la pensione, tra Berlino e Ischia, ma il suo potrebbe anche essere un nome di peso per la guida del Consiglio europeo. Magari anche soltanto da agitare nelle trattative così da tentare il colpo (improbabile) di piazzare il banchiere centrale tedesco, Jens Weidmann alla Bce. Ieri è uscita l’indiscrezione che il blocco dei Paesi di Visegrad, guidati dalla Polonia, avrebbe chiesto proprio alla Merkel la disponibilità per il Consiglio. Ma potrebbe essere solo una voce da campagna elettorale.

Il partito della Merkel – la coalizione Cdu-Csu, soffre –, insidiato dall’estrema destra di Afd: un successo di Alternative für Deutschland alle Europee potrebbe contribuire al caos e a spostare ancora più a destra la linea di Annegret Kramp-Karrenbauer, erede della Merkel alla guida della Cdu. Afd però si considera il vero bersaglio della operazione che ha terremotato il governo dell’Austria, con il ministro Heinz-Christian Strache (della destra di Fpo) ripreso da telecamere nascoste mentre si mette a disposizione di una finta oligarca russa. Una mossa da professionisti, pensano quelli di Afd, che potrebbe essere stata messa in piedi dai servizi segreti tedeschi per delegittimare i sovranisti del Paese vicino in modo da screditare anche quelli domestici.

Il leader più anti-russo d’Europa è Jaroslaw Kaczynski, capo del partito Pis in Polonia e vero padrone del governo di Mateusz Morawiecki. Dopo lo scandalo in Austria, Kaczynski è ancora meno disposto ad allearsi in Europa con sovranisti vicini a Mosca e punta verso l’intesa con Matteo Salvini per creare una gamba destra del Ppe, grazie al ponte del furbissimo ungherese Viktor Orbán. Kaczynski però potrebbe vacillare dopo le Europee, che in Polonia sono viste come la prova generale delle elezioni politiche di ottobre: nei sondaggi la destra ultracattolica e nazionalista del Pis è testa a testa con una trasversale Coalizione europea che potrebbe anche risultare primo partito. I governi di tutta l’Europa che conta sono appesi al voto di domani.

L’ex Cavaliere contro Morra. E attacca Salvini per il rosario

Non ha gradito, come prevedibile, di essere finito nella lista degli “impresentabili” pubblicata ieri dalla commissione parlamentare Antimafia, guidata dal senatore M5S Nicola Morra. Così, Silvio Berlusconi va alla carica: “Non mi sembra di essere così impresentabile, nonostante l’età – ha detto il leader azzurro –. Lo ha detto un grillino, presidente della Commissione Antimafia, perché loro hanno paura di andare sotto il 20 per cento mentre Forza Italia recupererà molti voti”. Ma non è l’unica polemica dell’ultimo giorno di campagna elettorale prima delle Europee. Ieri Berlusconi se l’è presa anche con il suo alleato nel centrodestra, Matteo Salvini, che sabato scorso in piazza Duomo ha sventolato un rosario: “Credo sia disdicevole quando lo si fa per accaparrarsi voti, non si fa”, ha detto ieri sera su Rete4. Per poi fare il suo appello agli elettori del centrodestra a scegliere lui, capolista in 4 circoscrizioni su 5: “Salvini e Meloni hanno messo il loro nome per attirare voti ma resteranno a lavorare in Italia. A differenza loro lavorerò a Bruxelles”.

Poltrone europee, Tusk fa tappa in Italia

Il giorno cerchiato sull’agenda dei leader europei per cercare di contare è martedì prossimo: la mattina si riunirà la Conferenza dei presidenti del Parlamento e poi ci sarà un Consiglio europeo. Obiettivo: cominciare le trattative per le nomine di Presidente della Commissione, del Consiglio e della Bce e dei vari Commissari. La prima cosa che verrà definita sarà il ruolo degli Spietzenkandidat (i volti di punta delle famiglie politiche europee), che si avviano ad essere scaricati il giorno dopo il voto. Una direzione che risulta anche dal colloquio che ieri Giuseppe Conte ha avuto a Palazzo Chigi con Donald Tusk. Il premier ci ha tenuto a rivendicare per l’Italia un ruolo di primo piano. E non è secondario che nessuno dei due partiti di governo abbia uno Spietzenkandidat. Il presidente del Consiglio uscente sta facendo un giro di capitali per cercare di stabilire dei criteri per le nomine: il pacchetto complessivo dovrà tenere conto di un equilibrio geografico, di partito e di genere.

Conte ha spiegato quale sarà la base delle richieste italiane. L’Italia ha al momento tre incarichi: Federica Mogherini, Mrs Pesc, Mario Draghi alla guida della Bce e Antonio Tajani, presidente dell’Europarlamento. Potendo aspirare a un unico Commissario, il nostro Paese punta a un dicastero con un portafoglio di peso. Quale dipenderà dal risultato della trattativa interna tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini (sempre ammesso che il governo rimanga in carica): Di Maio vuole l’Industria, Salvini l’Agricoltura. Per la successione a Draghi, la richiesta è che si trovi un profilo non penalizzante per noi: l’Italia potrebbe appoggiare un francese o uno spagnolo.

Nel frattempo, nella capitale belga, si moltiplicano indiscrezioni. Per la guida della Commissione, Manfred Weber, candidato del Pse, non ha alcuna possibilità. Frans Timmermans, rivitalizzato dalla vittoria olandese, potrebbe averne qualcuna in più. Più sulla carta che nella realtà, però: si avvia a succedere alla Mogherini. I nomi che tornano più spesso sono quelli di Michael Barnier, francese di primo piano del Ppe, negoziatore della Brexit (questo oggi è un punto a suo sfavore) e Margerithe Vestager, danese, commissaria uscente per la Concorrenza. Essere una liberaldemocratica, nella maggioranza allargata che si profila dopo le elezioni (Ppe, Pse più Alde e Verdi) potrebbe favorirla. Tra i nomi più quotati tra gli outsider, la presidente lituana Dalia Grybauskaité: è stata commissaria europea, è di un Paese piccolo, dell’Est Europa ed è una donna. Girandola di nomi pure per la guida del Consiglio, ma occhi puntati su Angela Merkel.

Variabile temuta a Bruxelles: ovvero che le forze sovraniste, pur non in grado di esprimere una maggioranza agiscano per bloccare tutto. Chissà fino a quando.

Di Maio, Salvini, B. e “Zinga”: le soglie per vincere o perdere

In parecchi si giocheranno quasi tutto, nel governo ma anche nel mondo di fuori, tra le opposizioni. E sulla linea del fronte è finito l’ultimo che voleva finirci, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte. Perché le urne di domani stanno diventando anche un referendum sull’avvocato, che pure mirava a stare fuori dalla campagna elettorale. Anche per questo è diventato il bersaglio di Giancarlo Giorgetti: sottosegretario alla Presidenza, nonché numero due del Carroccio, l’uomo nero agli occhi del M5S. Il suo frontale contro Conte di pochi giorni fa, accusato di non essere al di sopra delle parti e di non avere “sensibilità politica”, è stato letto dai 5Stelle come una cosa seria. Perché il Carroccio ha davvero interesse ad azzannare il premier: altissimo nei sondaggi di gradimento, ma soprattutto l’uomo che pare l’unica, vera possibile alternativa a Luigi Di Maio come capo del M5S. Quindi va almeno indebolito per quello che potrebbe accadere dopo le urne. E le parole di Di Maio giovedì a Porta a Porta raccontano quasi tutto: “Non escludo che la Lega stia affrontando queste Europee per sfiduciare Conte”. Prosit.

Lega

Crescerà, e di tantissimo, rispetto alle Politiche del marzo 2018, dove raccolse il 17 per cento. Ma la differenza tra successo e trionfo per Matteo Salvini passa dal 30 per cento, una soglia psicologica grazie a cui la Lega potrebbe sbraitare al tavolo di governo. E pretendere che la maggioranza riparta dai suoi temi, flat tax e autonomie. Insomma, imporre l’agenda. Quanto al rimpasto, che tutti negano ma su cui tutti ragionano, l’obiettivo primario restano sempre le Infrastrutture, il ministero di Toninelli. Se invece la Lega restasse abbastanza sotto il 30? I governatori, Fontana e soprattutto il veneto Luca Zaia, il principale rivale interno di Salvini, si farebbero sentire. Eccome.

M5S

Da settimane i 5Stelle mettono le mani avanti: “L’obiettivo è stare sopra il 20 per cento”. Ma il traguardo fissato dal capo politico Di Maio è il 25. La soglia per non perdere troppo quota rispetto al picco delle Politiche (quasi il 33 per cento), e nel contempo per tenere a vista il Carroccio. Ma soprattutto per non farsi scavalcare dal Pd, perché la prima urgenza resta tenere dietro i dem. In caso di sorpasso anche di un solo voto nel Movimento si aprirebbe una drammatica crisi interna. Con l’autocrate Di Maio sulla graticola, perfino a rischio. E allora si farebbe concreta l’ipotesi di Conte come salvatore della patria. E riprenderebbe fiato Alessandro Di Battista, il trascinatore di folle che doveva partire e invece per ora è rimasto qui, a vedere che succede. Così Di Maio deve sperare nello scudo del 25, o almeno di non restare troppo dietro (non oltre i 5-6 punti) alla Lega, e sopra Nicola Zingaretti. Per poi ripartire da una riorganizzazione interna, con una struttura e posti da distribuire, per tanti appetiti.

Pd

Nel gioco dei possibili testacoda, i dem fissano la targa del Movimento. E sognano il sorpasso, o almeno di stare lì, a un soffio dai 5Stelle. Calcoli e desideri per il neosegretario Zingaretti, che sente sul collo il fiato dei renziani, pronti a presentargli il conto già lunedì. Non è un problema da poco, considerato anche che i progetti dell’ex premier non sono ancora chiari, e che le chiacchiere (e le paure) su una sua uscita dal Pd per formare una sua lista non cessano. Così Zingaretti deve assolutamente scavalcare il dosso del 20 per cento, sopra il 18,7 con cui Renzi portò al disastro il partito 14 mesi fa. Altrimenti i dem si dedicheranno alla specialità della casa, distribuirsi coltellate e farsi più male possibile. E per Zingaretti, che non ha ancora varato la segreteria anche per regolarsi sul voto di domenica, si farà già grigia.

Gli altri

Silvio Berlusconi insegue i residui della sua storia, sperando in un 10 per cento che rimanderebbe la dissoluzione di Forza Italia. Ma sotto le due cifre il big bang sarebbe più che un’ipotesi. Ovviamente ci spera Giorgia Meloni, che ha fatto tutta la campagna elettorale per vampirizzare i forzisti. Il suo ovvio obiettivo è superare la soglia d’ingresso del 4 per cento. Il numero che sarebbe un trofeo per la Sinistra, che si testa anche in prospettiva di un dialogo con il Pd più rosso, e per +Europa, la lista capeggiata da Emma Bonino, che Zingaretti avrebbe voluto tenere dentro le sue liste. Un 4 per cento della leader radicale sarebbe un segnale innanzitutto per loro, i dem.

Comunque vada, sarà un disastro

Salve, sono uno dei 36 milioni e rotti di italiani che domani andranno a votare per le Europee e dovranno scegliere fra le seguenti opzioni.

Chi vota Lega vuole rafforzare Matteo Salvini come uomo solo al comando, talmente solo che se finisse inghiottito in un tombino o in una buca di Roma o di Milano sparirebbe tutto il partito. A meno che non si vogliano prendere sul serio le alternative: Giorgetti, Fontana, Fedriga, Siri, Rixi, Pixi e Dixi. Il guaio è che l’aspirante comandante non si sa bene cosa voglia fare, perché non lo sa nemmeno lui: non ha mai un’idea che sia una (la Lega non ha pubblicato neppure il suo programma per le Europee), al netto delle supercazzole tipo flat tax, autonomie regionali, multe per chi salva migranti che affogano, felpe, ruspe, mitra e altri simpatici ammennicoli. Tutta roba che fa apparire solide e credibili persino la secessione, la devolution, le macroregioni e lo spadone del Bossi. Anzi, un’idea ce l’ha: “Prima gli italiani”. Il guaio è che s’è alleato con i cosiddetti sovranisti d’Europa, che però, non essendo italiani, dicono “prima gli ungheresi”, “prima i cechi”, “prima gli slovacchi”, “prima i polacchi”, “prima gli austriaci”. Cose così. Esercita grande fascino sugli italiani di centrodestra e su quelli poco politicizzati perché non è come B., cioè parla delle loro vite anziché dei suoi reati e delle sue aziende: poi però Siri, Fontana e i leghisti lombardi l’hanno costretto a somigliare a B., cioè a parlare dei loro reati e/o delle aziende amiche, fino all’idea geniale di depenalizzare l’abuso d’ufficio una settimana dopo che è stato contestato al governatore lumbard. Come ministro dell’Interno, parrebbe una pippa cosmica perché al Viminale – fortunatamente – non ci va quasi mai, come del resto al Parlamento europeo quando era eurodeputato. È rimasto più o meno quello che nel 1993, concorrente de Il pranzo è servito, consegnò al presentatore Davide Mengacci quello che resta tuttoggi il suo miglior ritratto in forma di selfie: “Sono un nullafacente”. Allora era un nullafacente sfigato, ora è un nullafacente di successo. Prenderà molti più voti di un anno fa, ma molti meno rispetto ai sondaggi di tre mesi fa, che lo davano al 40%, prima che festeggiasse la Santa Pasqua travestito da Rambo. Paradosso: se prende molti voti, Salvini si rafforza e il governo ha vita più lunga; se prende meno voti del previsto, il governo si indebolisce (insieme a Salvini) e forse cade, perché vince la vecchia Lega che vuol tornare con B.

Così si va subito alle elezioni e ci ritroviamo un governo Salvini con B. ministro della Giustizia. Comunque vada, sarà un disastro.
Chi vota 5Stelle persegue alcuni obiettivi, non tutti compatibili l’un con l’altro. 1) Premiare dei giovani perlopiù onesti (salvo eccezioni) e inesperti (salvo eccezioni), che rifiutano i soldi pubblici, spendono poco, devolvono parte dello stipendio ai bisognosi, combattono la casta, il Tav, perepè perepè. 2) Ringraziare chi, in meno di un anno, ha fatto approvare alcune norme di civiltà attese da trent’anni: anti-corruzione, blocca-prescrizione, voto di scambio, fine-vitalizi, dl Dignità, reddito di cittadinanza. 3) Rafforzare nel governo giallo-verde i “guardiani del baro”, per impedire che Salvini, ringalluzzito da un mega-distacco, la faccia ancor più da padrone. 4) Far capire a tutti che i 5Stelle non sono finiti e che, se il centrosinistra non vuole Salvini&B. al governo, non gli resta che rinnovarsi e poi allearsi con loro. Paradosso: chi vuole indebolire Salvini deve votare per i suoi alleati, o contraenti, che l’hanno pure salvato dal processo Diciotti (senza contare i cedimenti/tradimenti su Tap, Ilva ecc.). E sperare che non lo mollino troppo presto: non prima che il pallone si sia sgonfiato un altro po’.
Chi vota Pd è un po’ come chi vota M5S: lo fa per appartenenza (stavolta al vecchio centrosinistra, ma molto molto vecchio, viste le prime mosse tafazziane di Zingaretti &C.) e/o per fermare Salvini. Ma sa benissimo che, senza alleanze, a un Pd poco sopra il 20% mancano almeno 20 punti per avere la maggioranza parlamentare. E, in questa legislatura, quei 20 punti non li ha nessuno, tranne la Lega e i 5Stelle. Però i renziani, Calenda, Pisapia sono in disaccordo su tutto, fuorché sul no a qualunque patto con i 5Stelle. E basta che controllino 10 seggi alla Camera e al Senato per impedire che, se cade il governo, ne nasca uno nuovo. Paradosso: il Pd ha una sola ricetta, votare subito. Che però è la più esiziale per gli anti-salviniani e la più vantaggiosa per la Lega: che, anche col 30%, supererà il 40 con B. e Meloni. Dunque le elezioni subito auspicate dal Pd manderanno quasi certamente al governo Salvini, B.&C. Perché l’unica speranza che il pallone gonfiato si sgonfi è lasciarlo rosolare al governo almeno un altro anno. Cioè lasciargli fare altri danni.
Chi vota FI, beh, ci siamo capiti.
Chi vota FdI vuole una destra ultraconservatrice, che però non sia guidata da un pregiudicato né da un energumeno. E la Meloni, rispetto all’energumeno, appare ultimamente una pericolosa moderata. Paradosso: non ha altra scelta che portare acqua al mulino dell’energumeno.
Chi vota altre liste, animato dalle migliori o dalle peggiori intenzioni, ha ottime probabilità di dare un voto inutile: nessun sondaggio degli ultimi mesi dà un sesto partito, in aggiunta ai cinque citati, sopra lo sbarramento del 4%. Il ricatto del “voto utile” è odioso, ma bisogna giocare con le regole esistenti. Paradosso: proprio chi teme per le sorti della democrazia rischia di buttare il suo voto. Aiuto!

Lunga vita (artistica) al maestro De Chirico

Solo al di fuori del mondo terreno – che per buona o cattiva sorte è governato dalle noiose leggi della biologia (tra le altre) – per ogni morte che sopravviene, una rinascita è di là a venire. Per questo motivo, soprattutto tra le fila dei critici del secolo appena passato, si levano spesso voci del tipo “il teatro è morto”, “il romanzo è morto”, “Dio è morto”, “Marx è morto” e via così fino alla stessa critica, quella militante, per molti morta anch’essa.

Tra gli artisti cui va tributato il merito di rinascere ogni volta sia stata annunciata la loro dipartita (artistica, s’intende), vi è Giorgio de Chirico. In pittura, la sua morte è stata proclamata a più riprese a partire dal 1919, quando per molti abbandona la pittura metafisica: dai Surrealisti, per esempio, che lo avevano eletto a loro maestro e si sentirono traditi; da André Breton pure, che si dichiarava “poco convinto” delle sue opere dopo quella data. A lui, De Chirico risponde: “So che il valore di quello che faccio oggi apparirà, presto o tardi, anche ai più ciechi”.

Incompreso da un sistema dell’arte che lo mette all’angolo e non apprezza le nuove opere, avverte tutti nel ’22 con un quadro, Ulisse (autoritratto): come Odisseo a Itaca, De Chirico tornerà vincitore. Di rado apparsa e proveniente da una collezione privata, quest’opera vara la mostra Giorgio de Chirico. Il volto della Metafisica (Palazzo Ducale di Genova, fino al 7 luglio) in cui la curatrice Victoria Noel-Johnson racconta ciò che sfugge ai contemporanei dell’artista. Costruendo un lucido dialogo tra più di 100 opere, è chiaro come De Chirico non smette mai di abbracciare la metafisica, solo ogni volta la sfida per ritrovarla in forme sempre nuove: ora immateriale, ora multiforme, ora in rapporto al classico, ora cambiando soggetti, ma sempre in una visione ciclica della pittura, basata sul concetto dell’eterno ritorno.

Così, i compositi interni metafisici Armonia della solitudine (1976) e Interno metafisico con officina (1969) citano La casa del poeta e Consolazioni metafisiche del ’18; allo stesso modo il celebre Piazza d’Italia (1924) si specchia nella veduta senza tempo di Piazza d’Italia con statua di Cavour (1974), e una rara matita del ’17, L’ebreo errante, ha il medesimo tratto tremolante di Offerta al sole del ’68. Immancabili anche il manichino, essenziale in una matita del ’17, L’apparizione, si abbellisce col gusto del classico in Le maschere (1970), e i cavalli degli anni 20, che si fanno più esasperati e impalpabili negli anni 60.

Le “Piccole donne” non abitano a New York

Il remake di cui non sentivamo il bisogno: Piccole donne a New York traspone il romanzo di Louisa May Alcott nella Grande Mela. Ai nostri giorni. Con tre sorelle di colore su quattro (unica eccezione, Jo, “anticonformista e in cerca di sé stessa”). In una versione a fumetti. Resta solo da chiedersi cos’ha in comune con l’opera originale, a parte le prime due parole del titolo: la graphic novel di Rey Terciero e Bre Indigo potrebbe anche essere spiritosa e godibile, se non fosse che vuole essere qualcosa che non è: il “ritorno delle quattro sorelle che hanno fatto sognare milioni di lettrici a 150 anni di distanza”. Senza contare che cercare di trasformare le parole e la scrittura della Alcott in immagini e nuvolette è una missione fallimentare in partenza: quello che si ricava dalla lettura di Piccole donne a New York è un vago sorriso, con un coinvolgimento emotivo vicino allo zero. È ammirevole il tentativo di avvicinare i più piccoli (che, a differenza di quanto si legge sul retro della copertina, non devono essere necessariamente di sesso femminile) alla storia di queste giovani ragazze forti e amorevoli, ma la scorciatoia dei disegni rischia di impigrirli e allontanarli dalla lettura del libro originale, e gli escamotage razziali e i riferimenti alla tecnologia dei millennials risultano una malriuscita strizzata d’occhio a una modernità che non sempre è necessaria.

 

Il grande show della contestazione contro i danni del neoliberismo

Ci sono fumetti che adattano in un medium diverso grandi romanzi, film, biografie. Grand Hotel Abisso è l’inedito tentativo di trasformare in tavole, disegni e colori (e che colori!) un flusso di idee, polemiche, invettive e contestazioni “contro il sistema” che riempie i social network. Il risultato di questo esperimento è uno spettacolare volume orizzontale, scritto e disegnato da due autori spagnoli, Marcos Prior e David Rubin. Ci sono voci sullo sfondo, notizie che si susseguono e che – forse con un po’ di ironia – sono un buon campionario di tutte le banalità da Facebook su austerità, liberalizzazioni, competitività e tutto il resto. Su questo flusso si innestano attentati al Parlamento, nerd complottisti chiusi in stanze buie, un consulente governativo che deve tagliare le pensioni costretto a vivere sigillato in un appartamento con una pensione minima, e poi fiamme, distruzione, torrenti di tweet, violenza da strada, e un graffitaro che cancella la scritta su un muro End of History (la fine della storia analizzata da Francis Fukyama in un libro poco letto ma molto citato). A parte la potenza grafica delle tavole, con colori realizzati in digitale in modo da rendere il tutto allucinato e ipercinetico, Grand Hotel Abisso è la versione 4.0 della pop art di Andy Warhol o Roy Lichtenstein: cannibalizza la contemporaneità e la restituisce in una forma più estrema ma anche più pura, proprio perché finta e caricaturale.

Il titolo viene da una citazione, anzi, in perfetta coerenza è una meta-citazione (Manuel Sacristan che cita György Lukács che cita Theodor Adorno) sui pessimisti di sinistra che vivono in “un abisso che risulta essere un Grand Hotel dove si è serviti e riveriti”. Questo fumetto è così carico di una indignazione un po’ contro tutto e contro tutti che sembra quasi un sampietrino pronto per essere scagliato contro “il sistema”. È un tipo di opera che piacerebbe a un incendiario poetico come Banksy.

 

Continua la notte di Denis Carbone: a Napoli c’è una setta che uccide i bambini

Ancora la notte. Ancora Denis Carbone, il poliziotto di Posillipo che non riposa mai. A Napoli il Male non è solo Gomorra. Una bimba africana è stata scaraventata da una scarpata, il corpicino trattenuto dalle radici di una grande quercia. Per Carbone si rinnova un dolore lungo un quarto di secolo. La sorellina Alice, scomparsa in mare, su una scogliera, e mai ritrovata. I due casi, forse, sono tenuti insieme da un filo indicibile. Il Male, appunto. Universale, non indigeno.

Denis Carbone è il detective inventato da Angelo Petrella, quarantenne scrittore e sceneggiatore. La notte non esiste è il sequel di Fragile è la notte, primo giallo della serie. Una scrittura di talento, che sconfina nelle tenebre dell’umanità. Denis è solo, anche se ci sono donne e amici che gli vogliono bene. “Si grattò la fronte sudata e cercò una sigaretta sul comodino, restando per qualche istante a sentire il freddo del lago che filtrava dalle imposte: non si era ancora abituato ad aprire gli occhi da sobrio”. Fino all’inchiesta precedente, quando il poliziotto ha ucciso in una sparatoria un questore corrotto e bastardo, Carbone si teneva su con sorsate di Macallan, il whisky prediletto. Adesso prova a dare un po’ di sollievo al suo fegato marcio. Nelle indagini su Salimah, questo il nome della bimba ammazzata e figlia di nigeriani irregolari, l’ispettore di Posillipo può contare sul suo capo, Lettieri, che lo copre per la morte del questore, ufficialmente irrisolta. Entrambi devono fronteggiare un collega vendicativo, Tagliamonte, e allo stesso tempo risalire a una setta che rapisce bambini. Napoli è davvero nera in questo romanzo di Petrella, che va da Natale a Capodanno. Un Natale di “merda”. Decisamente.