Una delle frasi preferite del genio della pittura Pablo Picasso era: “Ci vuole molto tempo per diventare giovani”. Questo motto paradossale mi è apparso in tutta la sua autenticità quando ho avuto il dono di conoscere Vittorio Orsenigo, un ragazzo di 92 anni, un luminoso ossimoro vivente, ricco di tutta l’esperienza vitale delle sue molte primavere e insieme animato da uno spirito fanciullesco rivelato con una virtù che si fa sempre più rara nel nostro tempo, una profonda leggerezza ironica intessuta con un gusto per lo humour autodelatorio irresistibile. Orsenigo, uomo dai molteplici talenti, è stato, come ci ricorda la seconda di copertina della sua ultima perla letteraria, “narratore, regista, pittore, fotografo, ma anche sommozzatore e studioso delle barriere coralline (…) è un ingegno, poliedrico, è un eclettico Renaissance Man che nella sua scrittura sa unire il riso patafisico di Jarry, un mirabolante uso della divagazione”. Da ultimo si è dedicato anche all’arte del maitre chocolatier, esprimendosi ai più alti livelli. Ho avuto il privilegio di assaggiare i suoi cioccolatini che sono semplicemente sublimi e, se come critico letterario sono un modesto dilettante, come esperto di cioccolata mi picco di essere uno dei più competenti. Ora, mi sento di affermare che leggere le brevi, talora brevissime prose di Di male in peggio, è come degustare, in un tempo intimo, i cioccolatini più raffinati di un Maitre e assaporare, oltre al gusto principale, una molteplicità di retrogusti che divagano per la gioia delle papille letterarie sollecitate da una scrittura impagabile insieme lepida e spericolata. Le mie di papille, educate alle pluridecennali séance di degustazione della letteratura yiddish e dell’umorismo germinato dall’estro dell’ostjudentum, mi hanno espresso moti di un’intensa gratitudine quando ho sottoposto loro frammenti di questo tenore: “Come i pochi superstiti della mia generazione, anch’io ho avuto modo di osservare mamme, sorelle e mogli alle prese con uno strumento ‘ebraico’ come si direbbe dal nome impresso in caratteri dorati sul suo nerissimo corpo metallico: SINGER. Malgrado il valore letterario e gli apprezzamenti della critica per lo scrittore ebraico Israel Joshua Singer non ha trovato più estimatori di quanti ne abbia trovati per le sue macchine da cucire la notissima fabbrica. Questione di utilità, di lancio pubblicitario? Non è questo il punto. Perfettamente inutile rispondere alla domanda perfettamente inutile che mi sono appena fatto”.
La scrittura di Vittorio Orsenigo e il pensiero che ne sgorga, mi paiono uno dei migliori antidoti possibili al marasma di stupidità da cui siamo circondati. La palude dello sciocchezzario che ha preso il potere nei nostri media e che dilaga da quelli cosiddetti sociali, in realtà più propriamente definibili antisociali, rifluisce davanti all’intelligenza eccentrica di questo scrittore prodigio che padroneggia una lingua elegante e ardita facendola volteggiare con spregiudicata competenza sul crinale di intuizioni umoristiche e ironiche e sui pendii scoscesi del nonsense creatore di un senso liberato dalle fradicie retoriche di questo nostro tempo guasto e maleodorante di false coscienze. In conclusione, non riesco a pensare a una lettura più salvifica di quell’intelligenza del mondo e delle cose repressa oltre ogni misura dall’alluvione di mediocrità e di brutalità che rischia di sommergerci definitivamente.