Vittorio Orsenigo un caleidoscopio di soli 92 anni

Una delle frasi preferite del genio della pittura Pablo Picasso era: “Ci vuole molto tempo per diventare giovani”. Questo motto paradossale mi è apparso in tutta la sua autenticità quando ho avuto il dono di conoscere Vittorio Orsenigo, un ragazzo di 92 anni, un luminoso ossimoro vivente, ricco di tutta l’esperienza vitale delle sue molte primavere e insieme animato da uno spirito fanciullesco rivelato con una virtù che si fa sempre più rara nel nostro tempo, una profonda leggerezza ironica intessuta con un gusto per lo humour autodelatorio irresistibile. Orsenigo, uomo dai molteplici talenti, è stato, come ci ricorda la seconda di copertina della sua ultima perla letteraria, “narratore, regista, pittore, fotografo, ma anche sommozzatore e studioso delle barriere coralline (…) è un ingegno, poliedrico, è un eclettico Renaissance Man che nella sua scrittura sa unire il riso patafisico di Jarry, un mirabolante uso della divagazione”. Da ultimo si è dedicato anche all’arte del maitre chocolatier, esprimendosi ai più alti livelli. Ho avuto il privilegio di assaggiare i suoi cioccolatini che sono semplicemente sublimi e, se come critico letterario sono un modesto dilettante, come esperto di cioccolata mi picco di essere uno dei più competenti. Ora, mi sento di affermare che leggere le brevi, talora brevissime prose di Di male in peggio, è come degustare, in un tempo intimo, i cioccolatini più raffinati di un Maitre e assaporare, oltre al gusto principale, una molteplicità di retrogusti che divagano per la gioia delle papille letterarie sollecitate da una scrittura impagabile insieme lepida e spericolata. Le mie di papille, educate alle pluridecennali séance di degustazione della letteratura yiddish e dell’umorismo germinato dall’estro dell’ostjudentum, mi hanno espresso moti di un’intensa gratitudine quando ho sottoposto loro frammenti di questo tenore: “Come i pochi superstiti della mia generazione, anch’io ho avuto modo di osservare mamme, sorelle e mogli alle prese con uno strumento ‘ebraico’ come si direbbe dal nome impresso in caratteri dorati sul suo nerissimo corpo metallico: SINGER. Malgrado il valore letterario e gli apprezzamenti della critica per lo scrittore ebraico Israel Joshua Singer non ha trovato più estimatori di quanti ne abbia trovati per le sue macchine da cucire la notissima fabbrica. Questione di utilità, di lancio pubblicitario? Non è questo il punto. Perfettamente inutile rispondere alla domanda perfettamente inutile che mi sono appena fatto”.

La scrittura di Vittorio Orsenigo e il pensiero che ne sgorga, mi paiono uno dei migliori antidoti possibili al marasma di stupidità da cui siamo circondati. La palude dello sciocchezzario che ha preso il potere nei nostri media e che dilaga da quelli cosiddetti sociali, in realtà più propriamente definibili antisociali, rifluisce davanti all’intelligenza eccentrica di questo scrittore prodigio che padroneggia una lingua elegante e ardita facendola volteggiare con spregiudicata competenza sul crinale di intuizioni umoristiche e ironiche e sui pendii scoscesi del nonsense creatore di un senso liberato dalle fradicie retoriche di questo nostro tempo guasto e maleodorante di false coscienze. In conclusione, non riesco a pensare a una lettura più salvifica di quell’intelligenza del mondo e delle cose repressa oltre ogni misura dall’alluvione di mediocrità e di brutalità che rischia di sommergerci definitivamente.

Il Purgatorio chiama: Dante riletto da Martinelli e Montanari

Ha ancora senso leggere, o rileggere, la Commedia di Dante Alighieri, quella che Boccaccio definì Divina? È una domanda a cui rispondono Marco Martinelli ed Ermanna Montanari, i fondatori del Teatro delle Albe che hanno avuto il coraggio di misurarsi con l’enormità dell’opera dantesca interpretandola e trasformandola. Non solo, infatti, hanno trasposto i versi immortali in uno spettacolo teatrale, ma hanno deciso di farlo coinvolgendo i cittadini e la comunità.

Considerato il successo riscosso dalla messa in scena dell’Inferno, la compagnia si appresta alla seconda tappa del percorso, il Purgatorio, che visiterà Matera e Ravenna fino a metà luglio. E lo fa in modo molto particolare, attraverso le “Chiamate pubbliche”.

“Cerchiamo di coinvolgere la città intera in questa rappresentazione corale: ognuno può inserirsi nella cornice che preferisce – tra le diverse che compongono il Purgatorio –, dal bambino di 6 anni all’anziano in pensione”, spiegano Martinelli e Montanari, aggiungendo la loro soddisfazione per la risposta entusiasta dei cittadini: “Quando le comunità rispondono, significa che in qualche modo avvertono un gran bisogno di arte e bellezza”. I due ritengono anche che il Padre della nostra lingua abbia ancora molto da dirci… “Anche solo per come racconta l’Italia serva e corrotta del 1200, sembra si rivolga al presente, a una politica sempre allo sbando in cui si fatica a trovare la giusta rotta”. Il Purgatorio, poi, ha il suo particolare significato di rinascita, a cui entrambi sembrano credere: “È proprio quello che Dante ci dice attraverso la commedia: si può rifiorire, l’arte ce lo dimostra, ma per farlo bisogna prima attraversare l’arido inferno senza germogli, luogo delle viscere oscure, per poi comprendere quanto un germoglio sia sintomo di gioia. Ognuno di noi attraversa il suo inferno personale, l’importante è saper ricominciare, ogni giorno che comincia”.

La storia minuscola del vecchio Antoine

Che fatica la drammaturgia contemporanea: troppa roba di cui, alla fine, Non mi ricordo più tanto bene, come il titolo dello spettacolo scritto e diretto da Gérard Watkins.

Prodotto dal Nazionale di Roma assieme a Fabulamundi Playwriting Europe, il drammaturgo anglo-francese è ospite della Capitale anche con Scene di violenza coniugale (dal 28 maggio al 2 giugno in un appartamento privato romano), sempre edito da Cue Press. Non mi ricordo più tanto bene ha per protagonista il 96enne Antoine D., malato di Alzheimer e perciò smemorato: non si ricorda il cognome, né l’età dei figli, né se i suoi genitori sono vivi o morti. Come molti anziani ha perso la memoria a breve termine, ma coltiva i ricordi remoti: quelli della Storia più che della sua micro-storia. Sorpreso a passeggiare per strada in pigiama, in stato quasi confusionale, Antoine è trasferito in un non-luogo che sembra una prigione, ma potrebbe anche essere un manicomio o l’anticamera delle anime in transito per l’aldilà: lo sorvegliano e incalzano Didier Forbach e Céline Brest, che tentano – più o meno invano – di scavare nel passato del loro stralunato ospite. Per rimuovere da lui i ricordi o per riesumarli? Boh, non si capisce: lo sforzo per star dietro alla trama – fintamente poliziesca – è già straordinario, figuriamoci se si ha poi voglia ed energia di decrittarne il senso ultimo (ammesso che ci sia, e che sia uno solo).

Mentre l’allestimento scenico – firmato da Gianni Staropoli – asseconda il testo e la regia di Watkins, con i suoi sofismi, contraddizioni, intermittenze e ridondanze (contemporanei?), la recitazione è squisitamente tradizionale, e meno male: per reggere tanta contemporaneità servono attori “antichi”, solidi, classici, come il superbo protagonista Carlo Valli, seguito dai bravi compagni Gianluigi Fogacci e Federica Rosellini (dei tre, è proprio la giovane interprete a essere meno a fuoco perché più acerba).

Sul palco succede poco o niente, eppure si affastellano tante, troppe riflessioni, nodi, fili rossi, materia grigia, perlopiù criptica: si parla di Memoria (riferimento ai campi di concentramento d’obbligo), ma anche di morte; c’è Goethe, ma anche uno psicodramma metateatrale (dal sibillino nome “Il Metodo”); si respira l’odore di Beckett e Pinter, ma anche di Brecht che sfonda la quarta parete; c’è il tema del doppio, ma anche l’esistenzialismo spinto; si critica il consumismo, ma anche il comunismo; c’è il conflitto di classe, ma anche quello generazionale; c’è la Storia contro la cronaca; ci sono Britney, i social e i videogame, ma anche passaggi onirici e fiabeschi, e metafore à gogo… Arrivati fin qui, però, è davvero faticosissimo tentare di capirci qualcosa, se non che la Storia “è un filo tessuto per uscire dal labirinto”.

Alla fine – una fine spalmata in quasi mezz’ora di recita – non manca nemmeno il coup de théâtre: tutto questo casino per parlare di famiglia, di colpe dei padri, di figli altrettanto colpevoli… E così non ha senso spoilerare alcunché perché è sempre la stessa, trita e ritrita, storia. Davvero con la minuscola.

L’adolescenza e l’amore secondo Guadagnino

Luca Guadagnino inizierà a dirigere tra qualche giorno in Veneto We Are Who We Are, una serie tv di cui è autore della sceneggiatura con lo scrittore Paolo Giordano e Francesca Manieri prodotta da Wildside per Hbo-Sky e distribuita nel mondo da Freemantle. Ambientata in una base militare Usa in Italia, racconterà le vicende di due quattordicenni: uno, Fraser, figlio di un colonnello, è un introverso adolescente newyorchese con sentimenti confusi riguardo la propria identità; l’altra, Caitlin, è una ragazza bella e sensibile che si è ben adattata nella base in cui vive con i genitori.

Tutti immaginano che l’amicizia che lega i due giovani sia in realtà amore, ma quando Fraser inizia a socializzare con altri ragazzi scopre di sentire la mancanza di un amico lontano e coltiva un legame platonico con un soldato più grande di lui.

Marco Giallini sta girando ad Aosta le nuove puntate della serie Rai Rocco Schiavone diretta da Simone Spada e a luglio tornerà a Roma per interpretare con Vincenzo Salemme e Giuseppe Battiston Lo faccio per te, una commedia corale diretta da Rolando Ravello per Picomedia e Warner Bros. Italia.

A dieci anni dalla toccante commedia romantica Dieci inverni Isabella Ragonese e Michele Riondino torneranno insieme sul set di La guerra è finita, una serie tv targata Palomar e diretta da Michele Soavi tra Reggio Emilia e dintorni che racconterà il faticoso tentativo di ritorno alla vita di diversi reduci dai lager nazisti dopo la Liberazione.

Alessandro Roja, Neri Marcorè, Alessandra Mastronardi, Francesco Pannofino e Amanda Lear recitano in questi giorni nella Bassa Padana nella commedia Si muore solo da vivi diretta da Alberto Rizzi e incentrata sulla imprevedibile reunion a distanza di anni di una band emiliana.

Sesso, culi e drink: l’Intermezzo nudo di Kechiche

Segreti, bugie e il cunnilingus più lungo della storia del cinema, compreso quello a luci rosse. In Concorso a Cannes 72 e probabilmente mai nelle nostre sale, Mektoub, My Love: Intermezzo riprende da dove ci aveva lasciato il primo capitolo, Canto Uno, presentato alla Mostra di Venezia del 2017: Abdellatif Kechiche ritrova a Sète il morigerato Amin (Shaïn Boumédine), la lussureggiante Ophélie (Ophélie Bau) e il dionisiaco Tony (Salim Kechiouche), ma non il capolavoro che fu. Intermezzo di nome e di fatto, sembra girato dalla seconda unità e poco aggiunge a quel che avevamo già visto, eccetto per la quantità e qualità di culi femminili. Tra close-up che più ravvicinati non si può, upskirt da denuncia e prospettive di interesse ginecologico, Kechiche celebra per tre ore e mezzo il trionfo del lato B, ma lungi dall’essere gioioso, concupiscente o eccitante il suo sguardo è, al contrario, moralistico, inibitorio, punitivo. “Smettila di guardare, vivi”, vien apostrofato il candido Amin, ma volenti o nolenti noi spettatori non possiamo astenerci dal voyeurismo: dopo una parentesi in spiaggia, la discoteca ci riconsegna corpi dimenanti, sederi impegnati in twerking forsennato e – siamo nel settembre del 1994 – retrodatato, petting a geometrie variabili. E un beffardo controcanto: “Siamo l’unica specie che ha bisogno di amare per riprodursi”.

Ci danno dentro, chi sul cubo, chi al bancone e chi in pista, tutti, ma è un pasto nudo, una bulimia sessuale e giammai sensuale da cui Kechiche distilla l’astenia e, di più, l’anoressia, che è letteralmente mancanza di desiderio: l’estate non è ancora finita, ma già s’approssima l’inverno del nostro scontento. Intermezzo nell’intermezzo, il cunnilingus ricevuto da Ophélie nel bagno del locale: tra plurimi cambi di posizione e manate sul sedere, nulla è lasciato all’immaginazione, molto alla resistenza dello spettatore, e qualcuno, non a torto, ritira in ballo la Cura Ludovico del kubrickiano Arancia meccanica. Salvezza sua, dopo aver indugiato su glutei e seni, Kechiche opta per il cunnilingus e non la fellatio: nel caso, le femministe l’avrebbero certamente crocifisso nella sala mensa del Palais des Festivals.

Durata fluviale, montaggio onnipotente e iterazione imperante, questo secondo Mektoub continua a interrogarsi come da titolo sul destino, ma con accentuata inclinazione prosaica: che si tratti di un matrimonio, di un aborto o di una dissertazione (femminile) sul culo (maschile) poco cambia, e poco importa.

La relazione, se c’è, non si può dire, e forse nemmeno vivere, dunque, che cosa può fare il cinema? Il primo capitolo tra Vangelo e Corano inneggiava alla luce, qui abbiamo culi stroboscopici, drink senza soluzione di continuità e tanto rumore per nulla. Kechiche un po’ sembra crucciarsene, un po’ di più infierire: il corpo intermedio del dispositivo cinematografico non sparisce più, s’è solo fatto più piccino, e più gretto.

 

Bellocchio “Traditore” non tradisce le attese

Nella Sicilia dei primi anni Ottanta si cade come foglie. I corleonesi di Totò Riina sterminano le vecchie famiglie: nessuno è al sicuro, non Totuccio Contorno (Luigi Lo Cascio), non Tommaso Buscetta (Pierfrancesco Favino). Tra lui e Totò u Curtu, infiniti gradi di separazione: “Per Riina comandare è meglio che fottere, per me è il contrario”. Amante delle donne e della bella vita, Masino rimarrà soldato semplice in Cosa Nostra, ma la statura è del capo, e la pericolosità pure: lo sanno, i corleonesi, e non avranno pietà. Gli uccidono il fratello, due figli ignari – “Non gli ho lasciato nemmeno la possibilità di tradirmi” – ed è la polizia federale brasiliana a fermare la conta dei cadaveri: riparato a Rio de Janeiro con la terza moglie Cristina (Maria Fernanda Cândido), Buscetta viene arrestato, insignito a mezzo stampa del titolo di “Boss dei due mondi”, estradato in Italia sotto l’ala di Gianni De Gennaro.

A Roma incontra il giudice Giovanni Falcone (Fausto Russo Alesi), e capisce che la resa allo Stato è l’unica vendetta possibile sui suoi nemici, che ora annoverano anche il vecchio sodale Pippo Calò (Fabrizio Ferracane). Non nutre alcun senso di colpa: “Non ho tradito, è Cosa Nostra che ha tradito se stessa”, s’è levata la morale – Falcone gli contesterà ne avesse mai avuta una – prima spacciando eroina e poi armando la barbarie di Riina. Collabora con la giustizia, affina e affila la ritorsione: 474 imputati, 200 avvocati, il Processo è Maxi, Buscetta l’infame, il cornuto, il fango, come gli vomitano addosso dalle gabbie gli uomini con cui condivideva l’onore.

Tra questi, Luciano Liggio cita Michel Butor: “Lo sguardo è espressione della realtà”, ma anche un titolo può esserlo. Il traditore, scelto da Marco Bellocchio per il film su Tommaso Buscetta in Concorso a Cannes 72 e già nelle nostre sale, si ricollega con evidenza letterale al latino tradere, “consegnare”, ovvero “consegnare ai nemici”, “consegnare con tradimento”, che la Treccani addebita nel Vangelo di Luca (22,48) a Giuda, altro epiteto di Buscetta.

Per Bellocchio, “non un eroe, bensì un uomo coraggioso – io non ne ho tanto, di coraggio – che rischia la propria vita, ma non vuole essere ucciso: un traditore conservatore. Ignorante, e non si vergognava di esserlo, molto italiano, tradiva la moglie e aveva un carisma naturale”.

Per Favino, che liquida come “non esistente” la polemica sul suo scambio Instagram con Giovanni Montinaro, il figlio del caposcorta di Giovanni Falcone, Antonio, morto a Capaci, Masino “ha detto di sé solo quanto volesse, costruendosi in vita sia la memoria che la leggenda: condivido con lui un certo romanticismo, idealismo e amore per la famiglia, e raccontare il male laddove ci tange è più pericoloso”.

Compreso e devoto, ingrassato nove chili per incarnare plasticamente “la ruralità dei mafiosi, aria tozza e stomaco rotondo”, Pierfrancesco potrebbe insidiare la Palma all’Antonio Banderas di Dolor y gloria. Lo Cascio e Russo Alesi a ruota, rimane impresso un talento poco utilizzato dal cinemino nostro, Fabrizio Ferracane, che dà a Calò riverberi di Eichmann.

Scritto dal regista con Ludovica Rampoldi (“Abbiamo tramutato la cronaca in epica”), Valia Santella e Francesco Piccolo, Il traditore è opera importante, ben congegnata produttivamente (Simone Gattoni con Beppe Caschetto) e ben servita sotto la linea, dalla fotografia di Vladan Radovic al montaggio di Francesca Calvelli. Da parte sua, Bellocchio confessa la “preoccupazione di non fare un film convenzionale ma popolare, che rappresentasse i delitti in modo sbrigativo e si concentrasse sulla teatralità difensiva dei mafiosi”: può ritenersi appagato.

Non assoggetta la propria autorialità ai generi di riferimento, gangster-movie, crime e court-drama, non smobilita dall’antagonismo: “Film civile, di denuncia? Oggi la Tv ha ucciso tutto, c’è margine, ma non devi seguire le convenzioni”, e firma la prova migliore dai tempi de Il regista di matrimoni del 2005. L’anno prima, aveva realizzato Buongiorno, notte, cui questo si accosta, senza eguagliarlo.

Consapevole che Buscetta è personalità assai meno conosciuta di Aldo Moro e, grazie alla collaborazione in scrittura di Francesco La Licata e alle testimonianze di Saverio Lodato e De Gennaro, più documentata rispetto allo statista in prigionia, il regista di Bobbio fa un lavoro ordinato, solido e puntuto, però, non concede briglia sciolta alla propria immaginazione e, dunque, alla nostra completa soddisfazione. Non casualmente, il film respira meglio a Rio e Miami, dove Masino viene avvicinato – nella sequenza più straniante – da un Babbo Natale che canta alla Cutugno “sono un siciliano vero”.

Quasi un ufo nel panorama nazionale, nondimeno, Il traditore lascia qualche dubbio sulla sua esportabilità, ossia comprensibilità per un pubblico straniero, dal Maxi-Processo in giù: a questo punto, perché non dispiegare appieno licenza creativa e libertà d’invenzione?

Prima gli induisti: Modi, il suo segreto è il nazionalismo

Dal 2016 nel subcontinente indiano cresce una orchidea blu nominata Modi, in onore del primo ministro, dai maestri giardinieri del Sikkim che l’hanno creata attraverso numerosi innesti. Allora Narenda Modi era a capo del governo da 21 mesi ma la maggior parte degli indiani aveva già capito che la sua agenda per il futuro del subcontinente sarebbe stata il frutto di incroci tra induismo, nazionalismo e capitalismo in ambito domestico e, sul fronte internazionale, incroci e strette di mano con l’altro gigante asiatico da sempre rivale: la Cina. Con il passare del tempo è emerso sempre più chiaramente che il povero chai wallah – il soprannome con cui vengono denominati i ragazzini delle caste più basse che vendono il the per strada – proveniente da una famiglia della casta intermedia dello Stato del Gujarat, era più interessato a discriminare la minoranza indiana di religione islamica e, se possibile, i giá emarginati intoccabili o dalit, ovvero i fuori casta, piuttosto che combattere la disoccupazione – arrivata al 6,1%, cicirca 11 milioni di persone; nel 2011-2012 era di 2,2% – la corruzione dilagante e ridistribuire meglio la ricchezza dell’India dove il divario sociale è ancora enorme. Tant’è che Modi in seguito non fece una piega quando un giovane ricercatore universitario dalit, Rohit Vemula, si suicidò dopo essere stato ingiustamente espulso dal campus sulla base di accuse prefabbricate dal leader degli studenti nazional -induisti del partito Bharatiya Janata Party (BJP) riportato a capo della più grande democrazia del mondo proprio dall’ex governatore del Gujarat. Del resto il ‘pio’ Modi è riuscito a scalare la piramide sociale grazie al suo attivismo all’interno dell’organizzazione di estrema destra Rashtriya Swayamsevak Sangh, l’RSS, ovvero l’associazione dei volontari nazionalisti induisti vicini al Bjp.

All’inizio della sua carriera politica si era concentrato sulla crescita economica e l’export dei prodotti del Subcontinente, ma, una volta seduto sull’ambita poltrona, ha dimostrato che in realtà ciò che gli interessa aumentare è la retorica nazionalista incentrata sulla demonizzazione della vasta minoranza musulmana, dell’intellighenzia di sinistra e del libero pensiero anche in ambito scientifico e letterario. Nel corso di questi ultimi due anni e mezzo alcuni membri di spicco dell’Organizzazione studentesca di sinistra della Jawahharlal Nehru university, sono stati fatti arrestare con l’accusa di sedizione per aver scandito “slogan contro l’India”. I motti “sacrileghi” sarebbero stati proferiti, secondo la polizia, durante una manifestazione nella capitale della Federazione per commemorare il terzo anniversario dell’impiccagione di Afzal Guru, il separatista kashmiro ritenuto dagli studenti dell’ateneo il più autorevole indiano vittima di un processo farsa, allo scopo di trovare un capro espiatorio .

Una ricerca sempre più frenetica da parte di Modi di avversari da additare per distogliere l’attenzione dalle svariate contraddizioni e promesse mancate proprio in ambito socio-economico. Nonostante la crescita apparentemente inarrestabile dell’economia indiana, più del 7% all’anno, il governo non sembra infatti finora stato in grado di far fronte alla continua richiesta di nuovi posti di lavoro: in una società di un miliardo e 300 milioni di cittadini, ogni mese circa un milione di giovani si affaccia sul mercato del lavoro.

Modi ha in seguito voluto riesumare la legge sul reato di sedizione introdotta due secoli fa – e dopo l’indipendenza caduta nel dimenticatoio – dall’Impero britannico per contenere le spinte indipendentiste dei progenitori del partito nazionalista di cui l’ex venditore ambulante Narendra è il leader indiscusso. Persino una superstar di Bollywood – l’industria del cinema indiano – l’attore di fede musulmana Aamir Khan, ha espresso pubblicamente il proprio “timore per la crescente intolleranza nei confronti di chi dissente pacificamente dall’agenda ultra-nazionalista e induista dell’attuale governo e per questo viene bollato di anti-patriottismo”.

Gilet gialli: il voto anti-Macron

Non ci sarà “tregua elettorale” per i Gilet gialli. Come tutti i sabati, dal 17 novembre scorso, anche domani, alla vigilia delle elezioni europee, i Gilet più determinati torneranno nelle piazze e sulle rotatorie per l’atto 28 della protesta, con un messaggio: andate alle urne, votate chi volete, ma non votate Macron. Non esiste però una tendenza compatta. Sulle rotatorie si sono visti giovani e pensionati, impiegati con piccoli stipendi, operai, donne sole con figli a carico, disoccupati, soprattutto lavoratori che fanno fatica a sbarcare il lunario. C’è chi vota a destra, chi a sinistra, chi crede ancora nell’Europa e chi non ci crede più, chi è deluso dalle istituzioni e diserta le urne.

Tutti però hanno un punto in comune per le Europee: barrare la strada alla lista Renaissance del partito di Emmanuel Macron, La République en marche. In sei mesi i Gilet gialli hanno ottenuto dal governo 17 miliardi di euro relativi a provvedimenti per lavoratori e pensionati. Ma per loro non è abbastanza. Le tasse sul carburante sono state sospese ma i prezzi alla pompa sono tornati a salire. Il prezzo della benzina, oggi a 1,58 euro al litro in media, ha raggiunto il picco del 2013, e sorpassato il livello dell’ottobre 2018, di 1,57 euro al litro, che aveva scatenato la crisi sociale. È mancato il gesto simbolico che avrebbe potuto riaccendere la fiducia nel governo: il ‘Referendum di iniziativa popolare’, una delle richieste principali dei manifestanti, è stato accantonato. Né Macron è voluto tornare indietro sull’abolizione della tassa sul patrimonio per i più ricchi. Allora lo scrutinio di domenica, al di là della dimensione europea, per il popolo giallo è soprattutto la prima occasione di infliggere un voto-sanzione al presidente. Eric Drouet, 34 anni, autotrasportatore fra i leader della prima ora del movimento, ha pubblicato per i 300.000 iscritti del suo profilo Facebook, “La France en colère”, i risultati di un sondaggio realizzato sui social per vedere quali sono i partiti preferiti dai Gilet gialli. Al primo posto La France Insoumise, il movimento della sinistra radicale di Jean-Luc Mélenchon. Al secondo, il Rassemblement National di Marine Le Pen. Non si tratta però di un’indicazione di voto, ha spiegato Drouet. Come lui, altri Gilet “storici” difendono sempre il carattere apolitico del movimento. Jacline Moraud, la bretone del video di invettive anti-Macron diventato virale, ha fatto sapere che voterà scheda bianca. Ingrid Levavasseur, l’infermiera di 31 anni, ha dovuto rinunciare al progetto di fondare una sua lista per le europee quando i compagni di battaglia l’hanno accusata di “tradire” i valori del movimento.

La donna, madre e lavoratrice sola, sta pensando di candidarsi alle Municipali del 2020 con la sua associazione Éclosion démocratique. “Domenica voterò in funzione delle mie convinzioni di sempre, ecologiste e di sinistra, ma non per la France Insoumise”, ha detto al magazine Capital. Jérôme Rodrigues, che ha perso un occhio in uno scontro con la polizia, sostiene il “voto utile” che, dal suo punto di vista, è il voto capace di bloccare Lrem: “Bisogna andare a votare perché astenersi sarebbe come votare Macron. Appello quindi ad un voto anti-Macron”, ha detto all’Huffington Post France. Alcuni Gilet gialli hanno comunque fatto una scelta politica. Uno di loro, Jean-François Barnaba, funzionario stipendiato anche se da dieci anni è senza missione, ha associato il suo movimento Jaunes et citoyens con Les Patriotes di Florian Philippot, l’ex braccio destro di Marine Le Pen, favorevole alla Frexit. Benjamin Cauchy, 38 anni, di Tolosa, figura nella lista del sovranista Nicolas Dupont-Aignon. Tre sono le liste che portano il marchio dei Gilet gialli: avendo però un budget ridotto al minimo, non possono neanche stamparsi i manifesti. La più mediatica è Alliance jaune, guidata dal cantante Francis Lalanne, il solo ad aver partecipato anche a un dibattito tv, che vorrebbe rappresentare l’alternativa a Macron e Le Pen. Tra le altre cose, Lalanne sostiene il salario minimo europeo. Christophe Chalençon, che aveva incontrato Luigi Di Maio, è invece capolista di Evolution citoyenne.

Il terzo è Mouvement pour l’iniative citoyenne di Gilles Helgen, imprenditore bretone di 62 anni, che difende il referendum popolare europeo. La loro presenza è per lo più simbolica. Stando ai sondaggi le tre liste insieme dovrebbero raccogliere non più del 2-2,5% dei voti. I Gilet gialli, questo è sicuro, non voteranno per loro.

Padre violento ucciso dalla figlia, applausi al feretro in chiesa

Applausi ieri pomeriggio a Monterotondo (Roma) all’uscita del feretro di Lorenzo Sciacquatori, il 41enne ucciso domenica scorsa dalla figlia Deborah, ora in libertà, accusata di eccesso colposo di legittima difesa. I funerali del padre sono stati celebrati davanti a circa 200 persone: “Non era un mostro, ha sbagliato solo perché esagerava con l’alcol – racconta un amico – Non era così violento, è la stampa che ha montato tutto”. “Non era come lo hanno descritto – raccontano due anziane vicine di casa – era una brava persona, perciò c’era tanta gente. Dentro casa non sappiamo cosa succedeva ma fuori era sempre gentile”.

Assenti al funerale la figlia Deborah e la compagna di Sciacquatori. Il parroco ha parlato nell’omelia di perdono. Momenti di tensione fra alcuni parenti e rappresentanti dei media in chiesa. Due cameramen sono stati allontanati dai ragazzi che hanno poi portato fuori a spalla il feretro. Seduti tra i primi banchi i familiari, gli anziani genitori e le sorelle della vittima, il fratello della vedova. L’anziana madre, accompagnata dal nipote, sulla sedia a rotelle e ormai cieca, dopo un ictus, ha abbracciato e baciato il feretro in lacrime.

Pedofilia, la svolta della Cei: “Obbligo di segnalazione dei casi sospetti anche alle autorità civili”

Non solo più denunce alle autorità ecclesiastiche: di fronte a casi di pedofilia e abusi su minori commessi da un religioso, i confratelli o superiori hanno un obbligo morale di denunciare la cosa alle autorità civili. È quanto stabilisce la Cei nelle nuove linee guida sulla tutela dei minori, che recepiscono le regole approvate dal summit delle diocesi mondiali a febbraio, legate al Motu proprio di papa Francesco, pubblicato pochi giorni fa. L’obbligo di denuncia scatta in caso di “clerici e religiosi per i quali, in seguito a un’indagine previa si confermi una ‘verosimiglianza’ delle accuse di pedofilia. Lo ha detto mons. Lorenzo Ghizzoni, responsabile della Commissione Cei per la tutela dei minori, sottolineando che si tratta di “un grande passo in avanti”.

“Abbiamo deciso di vincolarci a un obbligo morale per cui prepariamo un esposto da trasmettere all’autorità competente dopo la segnalazione di un abuso – prosegue Ghizzoni –. Informiamo la persona che viene a denunciare e chiediamo una descrizione dettagliata dei fatti, che diventa poi la base dell’esposto. Vogliamo verificare la verosimiglianze delle segnalazioni, perché esistono anche le false accuse. Se l’accusa viene accertata, per noi parte obbligatoriamente l’indagine previa per raccogliere gli elementi e vengono comunicati alla congregazione per la Dottrina della Fede che indicherà come impostare il processo. Contemporaneamente, siamo chiamati a fare un esposto all’autorità civile. A quel punto dobbiamo incoraggiare la vittima a fare la denuncia. Se i genitori di un minore si oppongono alla denuncia, chiediamo che questa opposizione sia scritta e documentata. Chiediamo anche che sia debitamente motivata, perché potrebbe non essere ragionevolmente giustificata. In questo caso, presentiamo comunque l’esposto”. Non solo: secondo le linee guida vescovi e superiori religiosi che dovessero coprire i colpevoli, saranno considerati a loro volta colpevoli. E ancora: entro giugno 2020 ogni diocesi del mondo dovrà avere a disposizione un sistema facilmente accessibile al pubblico per ricevere le segnalazioni.