Eternit, nuova condanna per Schmidheiny: omicidio colposo di due lavoratori

La Cassazione l’aveva salvato. I reati di disastro ambientale e omissione dolosa di cautele erano prescritti e la condanna a 18 anni annullata. Così era finito il primo processo “Eternit” contro Stephan Schmidheiny, 71 anni, imprenditore svizzero che è stato il proprietario della multinazionale dell’amianto che ha provocato – e provoca – molti morti in tutta Italia.

Ieri però il Tribunale di Torino ha condannato Schmidheiny a quattro anni per omicidio colposo con colpa cosciente: per il giudice Cristiano Trevisan l’ex proprietario dell’Eternit Italia sapeva che l’asbesto avrebbe potuto uccidere e, nonostante ciò, ha fatto proseguire la sua lavorazione. Il processo riguarda le morti di due persone di Cavagnolo (Torino). Una era Giulio Testore, per 27 anni operaio della Saca, una società controllata. Si era ammalato di mesotelioma pleurico ed è morto nel 2008. L’altra vittima è Rita Rondano, deceduta nel 2012 a 72 anni per lo stesso tumore, ma senza aver mai lavorato alla Saca. Il pm Gianfranco Colace aveva chiesto sette anni di reclusione, ma il giudice ha stabilito una pena inferiore. Schmidheiny dovrà risarcire anche i familiari di Testore e versare una provvisionale di 15mila euro a dieci enti, sindacati e organizzazioni come l’Associazione familiari vittime dell’amianto: “Dopo la botta della Cassazione, anche una condanna minima è un inizio che da speranza”, afferma Giuliana Busto, presidente dell’Afeva (Associazione familiari e vittime dell’amianto). Presto partiranno anche altri processi nati dall’indagine “Eternit bis”. Alla Corte d’assise di Napoli il 31 maggio Schmidheiny sarà processato per otto casi legati allo stabilimento di Bagnoli e in autunno si aprirà quello a Vercelli per le centinaia di vittime di Casale Monferrato (AL). A Reggio Emilia dovrebbe esserci un altro procedimento per i casi di Rubiera (Reggio Emilia): “Siamo in attesa di sapere cosa succederà”, afferma l’avvocato difensore Astolfo Di Amato.

La banda dei permessi di soggiorno: tremila euro l’uno (con residenza al cimitero)

A spaventare è la facilità con cui a Napoli gli immigrati riuscivano a truccare la documentazione per ottenere il permesso di soggiorno. Emerge da due passaggi dell’ordinanza eseguita ieri. La prima riguarda un algerino. Insieme a un impiegato comunale, sarebbe riuscito a far risultare 330 richiedenti permesso di soggiorno, residenti presso un indirizzo fittizio, in via Santa Maria. Peccato che lì non ci fosse un caseggiato, ma un cimitero. La seconda è in un’intercettazione del dicembre 2017 tra quest’algerino e un connazionale. I due discutono disinvoltamente di quanto “costa” procurarsi la pratica e di un loro gancio, un poliziotto “baffuto” all’ufficio immigrazione. Ad un certo punto uno dei due sbotta: “Abbiamo fatto passare un mondo intero, cazzo… gente che non meritava cazzo, dopo tuo fratello e si è fermato tutto cazzo…”.

Secondo gli inquirenti, quel “mondo” va tradotto in migliaia di immigrati entrati o rimasti in Italia in maniera irregolare. L’inchiesta coordinata dai pm Catello Maresca e Mariella di Mauro e condotta dal Gico della Finanza, culminata ieri in sette arresti, due dei quali ai domiciliari, ha scoperto che i permessi di soggiorno venivano venduti ad un prezzo fino a 3.000 euro da un’organizzazione criminale che comprendeva un poliziotto dell’ufficio immigrazione, altri tre colleghi ed ex colleghi, tre algerini, due tunisini e un cinese. Almeno 136 le pratiche di rilascio e rinnovo di permessi manipolate dalla banda. Alla quale si è arrivati seguendo indagini sul terrorismo islamico, ed in particolare una segnalazione su trasferimenti di denaro tramite le agenzie money transfer. Fino all’identificazione di un algerino residente in Belgio e legato al terrorista dell’Isis Abdelhamid Abaaoud, sospettato di essere uno degli organizzatori degli attacchi di Parigi il 13 novembre 2015 e poi ucciso dalla polizia francese. È risultato estraneo ad attività terroristiche. Ma attraverso le tracce del denaro si è arrivati alla compravendita dei permessi di soggiorno.

Il candidato sindaco con l’arma in casa. Un altro uomo di De Luca finito nei guai

Del sistema di potere e di consensi, definito dalla stampa locale “sistema Cilento”, costruito dall’ex sindaco di Agropoli Franco Alfieri, capo della segreteria del governatore Pd della Campania Vincenzo De Luca, suo consigliere per la caccia e pesca, e candidato sindaco a Capaccio Paestum, faceva parte anche Pasquale Mirarchi. È un candidato sindaco di centrosinistra ad Albanella (anche qui come a Capaccio si vota dopodomani), per tre anni assessore ai Lavori Pubblici e poi fino ad aprile vicesindaco in carica (si è dimesso in extremis), arrestato ieri dagli uomini della Dia di Salerno coordinati da Giulio Pini perché trovato in possesso di una pistola con la matricola abrasa nel corso di una perquisizione che era stata disposta per un altro motivo.

Mirarchi infatti compare nelle intercettazioni allegate all’inchiesta del pm anticamorra di Salerno Vincenzo Montemurro che vede Alfieri indagato per concussione e voto di scambio politico-mafioso con l’aggravante del metodo camorristico, per essersi adoperato a trovare un impiego per esponenti della famiglia malavitosa degli “zingari”, i Marotta, di Agropoli.

Gli inquirenti che stanno lavorando sul braccio destro di De Luca hanno in mano la trascrizione di conversazioni dalle quali emerge che Mirarchi avrebbe fatto sostenere elettoralmente Alfieri attraverso Roberto Squecco, un imprenditore organico al clan Marandino di Capaccio, condannato in via definitiva a gennaio per tentata estorsione aggravata dal metodo camorristico. Un appoggio che si sarebbe concretizzato alle precedenti amministrative di Agropoli e che doveva rinnovarsi alle elezioni politiche, quando si ipotizzò una candidatura al Parlamento di Alfieri. Il nome di Squecco compariva già sul decreto di perquisizione di Alfieri eseguito il 13 maggio: gli agenti avevano il compito di cercare corrispondenza tra l’ex sindaco e l’imprenditore capaccese che secondo una sentenza passata in giudicato è stato condannato per aver provato a taglieggiare una somma di 70 mila euro ad un concorrente nel settore delle pompe funebri.

E sul decreto compariva anche il nome dell’impresa Dervit, unica concorrente e vincitrice di una gara da 23 milioni di euro per l’illuminazione pubblica di Agropoli. Un appaltone sul quale si concentrarono in passato gli strali e le denunce di Dario Vassallo, fratello del sindaco di Pollica Angelo Vassallo, ucciso nove anni fa, e nemico giurato di Alfieri nel Pd. Nei giorni scorsi la Dda ha acquisito la documentazione dell’affidamento ventennale. Ieri il titolare di questa impresa, Vittorio De Rosa, è stato perquisito in contemporanea con Mirarchi: i due sono indagati per turbativa d’asta in un fascicolo parallelo e connesso a quello di Alfieri, la Dervit ha avuto appalti anche ad Albanella e dall’amministrazione provinciale di Salerno, retta in passato da fedelissimi di De Luca, tra cui l’allora assessore provinciale ai Lavori Pubblici Alfieri. E così si torna al “sistema Cilento’” O, se preferite, al sistema delle fritture di pesce: copyright di Vincenzo De Luca.

“Le usi per i balconi”. Lite De Luca-Viminale sulle lenzuola

Guerra a colpi di lenzuola tra Vincenzo De Luca e Matteo Salvini. Ieri il ministro dell’Interno ha infatti annunciato di voler spedire tremila lenzuola usa e getta all’ospedale Cardarelli di Napoli, che a causa dello sciopero delle lavanderie in uso all’Asl napoletana aveva carenza di biancheria. Ma ieri, prima che arrivassero in ospedale le lenzuola della Protezione Civile annunciate dal Viminale, a Napoli è tornata in servizio la American Laundry – la società appaltatrice, ora colpita da interdittiva antimafia – che alle 6 e mezzo del mattino ha regolarmente fornito il materiale ai reparti. “Oggi tutto si è svolto nella normalità – dice il direttore sanitario Franco Paradiso, direttore sanitario del nosocomio – ma già ieri pomeriggio la situazione era tornata normale”. Troppo tardi. Il governatore campano De Luca, che è anche commissario della sanità regionale, aveva già perso la pazienza: “Sono indignato ho il sangue agli occhi per il farabuttismo e l’imbecillità che porta nei Tg nazionali le lenzuola mentre muoiono persone in pronto soccorso di altre città. Al Cardarelli non c’è stata e non c’è alcuna emergenza. Le lenzuola, Salvini può sempre regalarle ai balconi d’Italia perché la richiesta è ormai da record”.

“Mi hanno hackerato grazie a una app”

“Sono scioccata. Non mi aspettavo anche io di essere vittima di hackeraggio”. Ernesta è una signora di Crotone. Anche lei è una dei “volontari”, come nelle carte dell’inchiesta di Napoli sulla società E-Surv vengono chiamati quei “soggetti ‘bersaglio’ che venivano intercettati a loro insaputa, per il solo fatto di aver scaricato l’applicazione infettata dallo store, e dunque in assenza di autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria”.

Come tutti anche Ernesta ha scaricato in questi anni tante app, solo che una di queste in realtà era un virus spia. Il suo numero, ma anche alcuni messaggi da lei ricevuti o inviati, o alcune fotografie, vengono trovati dagli investigatori napoletani in una cartella Imei della E Surv.

È scritto nell’ordinanza del Tribunale di Napoli che ieri ha portato ai domiciliari Diego Fasano, ritenuto dai pm amministratore di fatto della E-surv, e Salvatore Ansani, “creatore e gestore della Exodus”, il software che consentiva di intercettare – secondo le accuse – anche illegalmente: “Accedendo alla galleria attraverso la stringa (…) ha permesso la visualizzazione di numerose immagini personali”. Come quelle della famiglia di Ernesta.

Per esempio nel 2016 vengono intercettati messaggi come questi: “Ciao Rino sono Ernesta avrei bisogno di prenotare una visita al tuo studio…”. Oppure: “Hey zia Ernesta, hai già provato Pinterest? Penso che potrebbe piacerti…”. E ancora: “Buongiorno Mariagrazia, allora per il forno massimo che riesco a fare è 200 euro, vedi un po’ che dicono… un abbraccio Ernesta”.

Oltre ai messaggi della signora, secondo le accuse, sono stati intercettati anche 3877 documenti audio che sono delle vere e proprie intercettazioni ambientali visto che – scrive la Procura di Napoli – sono stati “registrati mediante microfono in modalità ambientale… e riguardano la quotidianità del soggetto utilizzatore del dispositivo”. Ernesta, di tutto questo, non sapeva nulla prima che il Fatto le telefonasse per spiegarglielo.

“Mi lascia un po’ perplessa, non sapevo nulla – dice –, adesso mi informo un attimo. Mi lascia abbastanza basita questa vicenda”.

Pensa che intenterà una causa contro chi oggi è accusato di aver fatto intercettazioni illegali?

Adesso vedrò cosa fare. Cercherò di andare a fondo. Sono allibita. Non capisco come sia possibile una cosa del genere. Ho letto gli articoli di stamattina, ma non pensavo di esserci dentro anche io.

La Procura di Napoli ha disposto gli arresti domiciliari per Diego Fasano e Salvatore Ansani. Il primo per i pm è “amministratore di fatto della E-Surv srl, società proprietaria della piattafoma exodus”, il secondo creatore e gestore della piattaforma Exodus. Lei li conosce? Ha mai sentito questi nomi?

Prima di oggi assolutamente no. Ho letto oggi questi nomi negli articoli pubblicati su internet. Sono scioccata. Penso che abbiano hackerato il mio telefonino.

Secondo le accuse, si riusciva a inserire un virus nel cellulare che consentisse di intercettare. Lei ricorda di aver scaricato app particolari nel 2016?

Ma come tutti io scarico app. Ho un android. Ho scaricato tante app.

Gli investigatori hanno ritrovato in una Imei alcuni suoi messaggi a partire dal 2016. Lei ha mai avuto la percezione di essere intercettata?

Assolutamente, mai.

Software-spia, indagine a Roma sul contratto con gli 007

La procura di Roma sta cercando di capire meglio i limiti del contratto di sperimentazione tra l’Aise, i servizi segreti esteri, e la E-surv, la società di Catanzaro che produce il software Exodus per intercettare. Software già finito nel mirino delle procure di Benevento e Napoli. Due giorni fa, proprio i magistrati campani infatti hanno chiesto e ottenuto l’arresto ai domiciliari di Diego Fasano, ritenuto dai pm amministratore di fatto della E-surv, e Salvatore Ansani, “creatore e gestore della Exodus”. I due sono accusati di accesso abusivo ai sistemi informatici, di intercettazioni illegali e frode nelle pubbliche forniture. L’accusa in sostanza è quella di aver captato dati e comunicazioni senza autorizzazione dell’Autorità giudiziaria, intercettando fraudolentemente anche persone che non erano indagate, per poi conservare in un cloud in Oregon (stati Uniti) il materiale. E-Surv lavorava con parecchie procure italiana (Benevento, Napoli, Roma, Castrovillari, Catanzaro, per citarne alcune) e il sospetto – da verificare – è che in quel cloud siano finite anche intercettazioni legate alle indagini.

Se da Napoli due giorni fa sono scattati gli arresti ai domiciliari, anche a Roma c’è un fascicolo sul software Exodus. Gli investigatori della capitale cercano di capire se e che tipo di informazioni investigative siano state conservate e per quale uso. Non solo: vogliono anche scoprire se il cloud in Oregon sia mai stato hackerato.

Ma c’è una parte dell’inchiesta romana che è particolarmente delicata e che riguarda i nostri 007. L’esistenza di un fascicolo è stata anticipato due settimane fa da l’Espresso.

L’inchiesta capitolina sulla quale si tiene il massimo riserbo però sta accertando come l’Aise abbia utilizzato quel software. Gli investigatori si stanno concentrando sul contratto di sperimentazione (segreto) tra l’Aise e E-Surv che sarebbe stato stilato a fine del 2016.

Il punto è infatti capire se questo software sia stato utilizzato dai servizi e per quali indagini. Per rispondere a queste domande l’amministrazione dell’Aise ha già mandato una memoria in Procura. Intanto come anticipato da L’Espresso sulla vicenda sta indagando anche il Copasir, il comitato parlamentare che di fatto controlla l’operato dei servizi segreti, e il garante della Privacy.

Infatti il rischio è che adesso le vittime, chi era intercettato senza neanche essere finito mai sotto indagine, possano intentare cause civili, scatenando – se fossero accertate le accuse della procura di Napoli – un boom di fascicoli.

Secondo le accuse dei pm campani ci sono state 234 captazioni di volontari, ossia “soggetti ‘bersaglio’, che venivano intercettati a loro insaputa, per il solo fatto di aver scaricato l’applicazione infettata dallo store, e dunque in assenza di autorizzazione dell’Autorità Giudiziaria”. Sarebbero state quindi della cavie usate per testare il sistema.

Come Roma continuano anche le indagini napoletane, dove sono già state raccolte le testimonianze di dipendenti della E-Surv o di società a questa collegate. Come Eugenio R. “Io personalmente – ha raccontato ai pm – non ho mai lavorato alle dipendenze di E-Surv, però posso dire che la stessa si occupava di video sorveglianza, e credo anche, di attività di intercettazione telematica. (…) Ho poi capito che si trattava di intercettazioni anche da un discorso fatto in azienda da Diego Fasano, credo a febbraio 2018, nel quale lo stesso vantava le potenzialità del prodotto Exodus come un prodotto che ‘aiutava a catturare i criminali’ e che era in uso alle forze dell’ordine. Diceva anche che noi – intendendo la società E-surv e il prodotto Exodus – ‘siamo gli oscuri’ intendendo dire che potevamo spiare i criminali attraverso dei programmi ‘trojan’ inseriti in qualsiasi dispositivo, soprattutto i dispositivi android e personal computer”. Un altro dipendente, alla domanda “non vi erano rischi di infettare persone ‘a tappeto’ e ignare attraverso il download delle applicazioni infettate”, ai pm risponde: “Dopo l’estate del 2017 posi il problema ad Ansani e mi fu riferito dallo stesso che vi erano dei target che lui definiva ‘involontari’, cioè dei soggetti ‘bersaglio’ che venivano intercettati a loro insaputa per il solo fatto di aver scaricato l’applicazione infettata dallo store. Ricordo che la storia venne fuori nel momento in cui iniziammo a riceve attacchi informatici dall’esterno”.

“Ansani – continua il verbale – mi spiegò per tranquillizzarmi che nella piattaforma vi erano infezioni effettuate allo scopo di ‘test’ e che loro – intendendo l’azienda – avevano delle ‘garanzie funzionali’ per poter operare in quel modo. A quel punto inizi ad avere serie preoccupazioni sulla mia permanenza in azienda, anche perchè avevo iniziato a notare che di frequente Ansani non si limitava a esaminare la piattaforma ma addirittura ne esaminava il contenuto: intendo dire che diverse volte l’ho visto con le cuffie mentre ascoltava quelli che ritengo fossero i files delle intercettazioni che arrivano nelle cartelle”.

La guerra dei Muccino. Silvio a processo: “Diffamò Gabriele”

La “guerra” dei fratelli Muccino finisce in tribunale, con l’attore Silvio a processo per aver diffamato il fratello regista, Gabriele. La decisione è stata presa dal gup di Roma che ha fissato la prima udienza del procedimento al 14 gennaio del prossimo anno, davanti al giudice monocratico. La vicenda risale al 2016, quando l’attore, che da tempo aveva rotto i rapporti con la famiglia e il fratello maggiore, in un’intervista televisiva descrisse il regista de L’ultimo bacio come un violento, che per anni aveva maltrattato l’ex moglie, la musicista Elena Majoni. Parlando davanti alle telecamere, Silvio Muccino raccontò di un litigio tra il fratello, 15 anni più grande di lui, e la ex cognata, durante una giornata in famiglia nel 2012. Aveva sentito gridare il regista mentre era chiuso in una camera con la moglie, poi lei era uscita dalla stanza piangendo, con una mano su un orecchio. Secondo la ricostruzione della donna, Gabriele Muccino avrebbe schiaffeggiato la Majoni, danneggiandole un timpano. L’intervista fece deflagrare i rapporti già tesi tra i due: Gabriele, che da tempo scriveva sui social di come Silvio fosse stato soggiogato da una scrittrice con cui collaborava, lo denunciò e la vicenda finì in procura.

Ingroia ancora senza scorta, il Viminale non adempie

A 12 giorni dall’ordinanza del Consiglio di Stato che aveva obbligato il Viminale a un “riesame” della decisione di togliere la scorta ad Antonio Ingroia, “padre” del processo sulla Trattativa Stato-mafia, il ministero degli Interni “sta valutando le condizioni di rischio” dell’ex pm. È il contenuto della nota che l’Ucis ha trasmesso al difensore di Ingroia che sollecitava, come previsto dall’ordinanza, il ripristino della scorta perché nei confronti dell’ex magistrato “non può escludersi il compimento di azioni criminose”.

A 12 giorni, dunque, da quella pronuncia amministrativa, l’ex pm resta senza alcuna protezione. “Sono stupito e disorientato – ha dichiarato Ingroia – apprendo oggi, anniversario della strage di Capaci, che il ministero dell’Interno interpreta diversamente la decisione del consiglio di Stato ritenendo che deve solo “rivalutare” e non invece ripristinare la scorta così come disposto dal Consiglio di Stato”. Che aveva invece deciso la sospensione della revoca, come sottolinea lo stesso Ingroia, che conclude: “Quindi mi chiedo: ma questo è sempre lo stesso Stato per il quale da uomo dello Stato ho sfidato la mafia e i poteri occulti alla stessa legati? E per cui ho rischiato la mia vita?’’.

Ritenendo inesistenti i pericoli di una vendetta mafiosa nei confronti di Ingroia il Viminale gli revocò la scorta nel maggio dello scorso anno, pochi giorni dopo la sentenza del processo sulla trattativa Stato-mafia, decisione che spinse il pm Nino Di Matteo a scendere al fianco dell’ex collega, sottolineando che “la mafia e i potenti non dimenticano”. E alla fine del novembre scorso, infatti, l’ex pm subì una strana irruzione, con il furto di alcune pen drive, nella sua abitazione romana sul quale indaga la Procura di Roma

L’Antimafia non è antifascismo

Ieri, come da un quarto di secolo, le commemorazioni della morte di Giovanni Falcone sono diventate occasione di passerella per le cariche istituzionali. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha inserito tra le tappe del suo tour elettorale l’intervento a Palermo alle 10 di mattina. Sul cartellone figurava sotto il simbolo della Lega appena una riga sopra quello delle 21 a Novi Ligure. Quel manifesto ha almeno il pregio della sincerità. Siamo abituati ai discorsi alati dei politici a petto in fuori. Dal presidente della Camera Gianfranco Fini in via D’Amelio nel 2012 al presidente del Senato Renato Schifani in una scuola per commemorare Falcone nel 2010.

La retorica antimafia è stata usata da tutti i politici di tutti gli schieramenti, anche quelli che non avevano le carte in regola. La novità è il rifiuto di una parte del fronte Antimafia di concelebrare il ricordo. Non perché ritengano i loro discorsi incoerenti o strumentali ma per ragioni ideologiche. Già il 9 maggio scorso, alla manifestazione in ricordo di Peppino Impastato, il fratello Giovanni aveva cacciato il senatore Michele Giarrusso (neo-presidente del Comitato di inchiesta della Commissione Parlamentare Antimafia su Mafia-Politica e Trattativa) e Piera Aiello, deputata M5S ma prima testimone di giustizia.

“Quello era un corteo antifascista mentre loro – spiegò Giovanni Impastato – hanno consegnato l’Italia a Salvini, ai fascisti e ai razzisti”. In subordine, ma solo in subordine, si lamentò anche perché avevano osato farsi delle foto a fini propagandistici. Ieri il bis. Il sindaco Leoluca Orlando, ha lasciato la commemorazione prima dell’arrivo di Salvini. Anche il presidente della Commissione Regionale Antimafia Claudio Fava e il presidente della Regione Nello Musumeci hanno disertato. Mentre Arci, Anpi, il Centro Impastato e altre associazioni hanno deciso di commemorare da soli Falcone a Capaci.

La scelta di non unirsi a chi strumentalizza le vittime di mafia per prendere più voti alle elezioni può essere comprensibile ma dovrebbe valere sempre, oggi con Salvini come con Zingaretti e ieri con Alfano, con Schifani o Fini come con Minniti.

Il punto però è che la spaccatura del fronte istituzionale e civile che dovrebbe contrastare la criminalità organizzata stavolta ha una radice puramente ideologica. L’Antimafia di sinistra si rifiuta di ricordare Falcone o Impastato insieme a Salvini e a Giarrusso perché rappresentanti di un Partito ‘fascista’ e di un Movimento che fiancheggia i razzisti. Questa scelta non tiene conto di alcuni dati: la lotta alla mafia è stata fatta da personaggi che provenivano dalla destra, come Paolo Borsellino e il giornalista Beppe Alfano, oltre a tanti uomini delle forze dell’ordine che non avevano certo la tessera del Pci. Inoltre basta leggere la sentenza Trattativa per scoprire che persino la Lega Nord in un frangente della nostra storia, il 1994, quando il primo Governo Berlusconi stava varando una legislazione favorevole ai boss, ha svolto un ruolo di argine alle proposte volute da Cosa Nostra.

A chi ritiene che l’Antimafia sia solo di sinistra bisognerebbe ricordare come si salutavano due uomini di grande coraggio ma anche di grande ironia. Falcone salutava Borsellino con il braccio destro teso per prenderlo in giro, in quanto fascista. E Borsellino, da giovane monarchico e militante del Fuan, replicava con il pugno sinistro chiuso. Poi si facevano una risata e si mettevano a lavorare. Insieme.

Procura di Roma, il Csm trova l’accordo su Viola

Marcello Viola, procuratore generale di Firenze, sarà con ogni probabilità il nuovo procuratore di Roma. Prenderà il posto di Giuseppe Pignatone, in pensione dal 9 maggio. Grande sconfitto di questa corsa alla procura più importante d’Italia è Franco Lo Voi, il procuratore di Palermo che sembrava fino a un paio di mesi fa il predestinato, legato com’è a Pignatone.

Non c’è stato ancora il voto definitivo del plenum, ma ieri quello della Quinta commissione ha messo nero su bianco quali siano, nel Consiglio, gli equilibri r i numeri, che Il Fatto aveva anticipato.

A votare per Viola, di Magistratura Indipendente, la corrente conservatrice, sono stati i togati Lepre (Mi) e Davigo (AeI), i laici Gigliotti, (M5s) e Basile (Lega). Per Lo Voi, di Mi come Viola, ma scaricato dalla sua corrente, ha votato Suriano, il togato di Area (sinistra). Il presidente della Quinta, Morlini di Unicost (corrente centrista) ha espresso un voto di bandiera per Giuseppe Creazzo, procuratore di Firenze. Una scelta a doppia lettura: può rappresentare la rottura del patto di ferro con Mi, che contraddistingue questa consiliatura. Oppure può essere stato un “voto non voto”, cioè un sì, di fatto, a Viola, magari per ottenere altre nomine: il via libera, si dice, a procuratore aggiunto di Roma per Luca Palamara, ex capogruppo di Unicost al Csm, ma che Mi (e non solo) non vuole e quella, più possibile, di presidente del tribunale di Salerno per Massimo Forciniti, anche lui ex Csm. Si vedrà che cosa accadrà dopo il voto in plenum per il procuratore di Roma, forse a metà giugno, che sta bloccando le altre nomine.

Il voto in Commissione di Area per Lo Voi si spiega con la convinzione del capogruppo in Consiglio Giuseppe Cascini che dovesse essere lui il successore di Pignatone, per assicurare alla procura la stessa linea del pensionato, che ha avuto sì tanti fan, ma anche diversi critici fra le toghe che l’hanno ritenuto troppo attento agli equilibri politici. Altri non dimenticano le dure critiche che mosse Falcone a Pignatone nei suoi diari, pubblicati postumi da Liana Milella sul Sole 24 Ore. Cascini è tra i grandi estimatori di Pignatone che, non è un mistero, ha tifato per Lo Voi (come il Quirinale). Uomo di punta, fino a settembre, della procura di Roma, prima come pm e poi come aggiunto, Cascini non è riuscito, però, ad avere un peso al Csm per determinare la partita più importante della consiliatura e che riguarda proprio il suo ufficio. L’ultimo, vano tentativo è stato ieri: Suriano (Area) ha chiesto alla Commissione di rinviare il voto per programmare le audizioni dei 13 candidati. Hanno votato a favore Gigliotti e Morlini. Contro Davigo, Lepre e Basile. A parità, per regolamento, proposta respinta.

I maligni, dicono che anche dall’ufficio affari giuridici del Quirinale in questi ultimi, frenetici, giorni di trattative, ci sia stato qualche segnale per Lo Voi. La maggioranza per Viola in Consiglio c’è con e senza Unicost: sei di Mi (i 5 consiglieri più il presidente della Cassazione Mammone); i due, di gran peso in questa partita, di AeI; cinque dei laici di M5s e Lega; forse, uno dei due laici di FI. Per complessivi, sulla carta, 13-14 voti su 25, se il vicepresidente, come da prassi si astiene. A maggior ragione passa Viola se il voto del plenum ricalcherà quello della Commissione: Creazzo avrebbe solo 6 preferenze di Unicost (5 consiglieri più il Pg Fuzio), ammesso che il procuratore non ritiri la domanda. Lo Voi quattro preferenze, di Area.

Classe 1957, procuratore generale a Firenze dal 2016, Viola è stato prima un giudice e poi un pm antimafia tra Palermo e Trapani. Il tirocinio lo ha fatto all’ufficio istruzione di Palermo con un grande magistrato, Rocco Chinnici, nel periodo di Falcone e Borsellino, suo vero amico. È nel 2011 che da Palermo va a Trapani come procuratore. Persona schiva, distante dalla politica, nell’ambiente della magistratura gode di una stima trasversale.