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DIRITTO DI REPLICA

In merito all’articolo ‘Tutto in regola’, così il colosso assolse l’uomo del complotto, ci preme precisare quanto segue. Laddove, riferendosi a Eni, parla di controlli “inefficienti quando si tratta di individuare corruzioni internazionali (…), conflitti di interesse (…), avvocati della compagnia petrolifera che poi finiscono in galera”, il giornalista richiama: a) le vicende legate all’acquisizione del blocco Opl245, rispetto alle quali vi è processo in corso e non vi è stata alcuna sentenza di condanna; b) quelle relative al Congo, sulle quali sono in corso indagini; c) l’arresto di Piero Amara, legato invece a vicende che niente hanno a che vedere con Eni. Teniamo poi a precisare quanto segue. 1-In relazione all’Opl245, al processo, è emerso che: a) Il consulente chiave del pm ha negato, confermando quanto già stabilito dal giudice della London Court, Gloster, che vi sia stata alcuna retrocessione di denaro a manager di Eni; b) Il pagamento di 1,1 miliardi di dollari ordinato e disposto dal governo nigeriano a Malabu per sanare i contenziosi sul blocco tra terze parti (rispetto a Eni) fu autorizzato dall’autorità inglese antiriciclaggio e anticorruzione; c) Diversi esperti citati da Eni nel processo hanno dimostrato che il prezzo corrisposto da Eni e Shell al governo nigeriano fu adeguato e i termini contrattuali conformi alle leggi vigenti in Nigeria; d) Sono cadute ad esito delle prove testimoniali le suggestioni instillate da Vincenzo Armanna che riportava presunte confidenze ricevute sulla percezione di retrocessioni da parte di manager di Eni.

In merito alle vicende congolesi, Eni ribadisce di avere operato in modo corretto. Per quanto riguarda le indagini in corso, Eni sta prestando collaborazione all’autorità giudiziaria e ha avviato verifiche interne affidate a soggetti terzi indipendenti. Queste verifiche non hanno rilevato evidenze di commissione di reati da parte di manager o dipendenti di Eni.

In relazione ai rapporti con le società del gruppo Eni in Congo, Eni conferma che gli acquisti di beni e servizi completati presso tali società (e le corrispondenti procedure di approvvigionamento) sono state oggetto delle verifiche di cui sopra, affidate a consulenti terzi indipendenti. In relazione a presunti conflitti di interessi, già a marzo 2019 l’avvocato della signora Ingoba ha fornito ogni risposta.

Eni ha appreso di essere indagata ex legge 231 in relazione e limitatamente ad alcune ipotesi ex art. 648ter del codice penale (identificate dalla autorità nel periodo temporale di maggio 2018) nel più ampio contesto dell’inchiesta sul presunto “depistaggio” che riguarda anche altre ipotesi di reato. La documentazione richiesta riguarda rapporti con un gruppo di società già oggetto di audit interno autonomamente avviato da tempo dalle funzioni aziendali competenti. Eni specifica poi che, dai documenti ricevuti oggi, non risultano indagati altri manager della società diversi da quello già precedentemente coinvolto. La società continuerà a fornire attivamente la massima collaborazione all’autorità giudiziaria affinché possa essere fatta tempestiva chiarezza sulla vicenda, confermando la solidità ex efficacia del proprio modello organizzativo e di controllo. Eni ribadisce la ferma convinzione di essere la parte lesa in ogni prospettiva e prospettazione legata o comunque connessa alle ipotesi inerenti presunti complotti o presunti depistaggi delle attività investigative.

Teniamo inoltre a precisare che Luigi Zingales e Karina Litvack non sono stati “fatti fuori” dalla società, come riportato nell’articolo. Luigi Zingales si è dimesso, come da lui stesso dichiarato nel comunicato stampa Eni del 3 luglio 2015, mentre Karina Litvack è tuttora membro del Consiglio di Amministrazione di Eni.

Infine, in relazione all’articolo Il mistero della Napag. Gli affari con Eni e il suo legale indagato a firma di Saul Caia, ci preme precisare che: a) Piero Amara non è stato “il legale dell’Eni”. Le collaborazioni del suo studio sono principalmente consistite nella difesa individuale e privata di manager di Eni in quanto persone fisiche, difese il cui costo ricade sull’azienda non per scelta, ma in virtù del contratto collettivo nazionale del lavoro. Amara non riceve più mandati Eni da tempo e non ha in essere alcuna collaborazione; b) Nell’ex sede romana di Eni in piazza Campitelli non sono mai avvenuti incontri top secret e tali uffici non sono mai stati “schermati”; al contrario, Piazza Campitelli era un ufficio che agevolava la logistica operativa per le attività aziendali in centro città rispetto alla sede decentrata dell’Eur.

Per il resto, Eni ha in corso delle attività di verifica su Napag e altre società del gruppo di appartenenza, all’esito delle quali si riserva di fornire ogni eventuale chiarimento.

Erika Mandraffino, Senior Vice President, Global Media Relations and Crisis Communication, Eni spa

Prendiamo atto che Eni dichiara di aver fatto, su tutte le vicende richiamate, tutti i controlli necessari, con i risultati raccontati nell’articolo del Fatto: tutto bene, sempre. Auguriamo alla compagnia di non essere smentita dai procedimenti giudiziari in corso.

GB

 

In qualità di difensore di Howtan Re, a seguito dell’articolo Dagli sprechi di Promuovitalia e Italia.it al ritorno al Dipartimento del Turismo, mi preme ricostruire la vicenda. Nel 2011 il signor Re partecipava a un bando pubblico per l’insegna del ministero del Turismo, che prevedeva la corresponsione al vincitore di 15.000 euro (e non 30.000). Importo mai corrisposto. L’assistito si aggiudicava il bando, riceveva in consegna le lettere in metallo da rielaborare artisticamente, e realizzava la propria opera. A tutt’oggi, il signor Re non ha ricevuto alcuna comunicazione su consegna, ritiro o collocazione dell’opera. Non solo non ha mai percepito alcuna somma ma ha anticipato rilevanti spese.

Avv. Bartolomeo Giordano

Ringrazio l’avvocato Giordano della lettera in cui ricostruisce puntualmente la vicenda delle lettere dorate “Ministro del turismo”, smontate e rielaborate in una nuova opera dall’artista Howtan Re. La lettera conferma quanto scritto dal Fatto Quotidiano e evidenzia che Howtan Re risulta parte lesa.

Daniele Martini

La dittatura delle serie tv fa cornuto pure Clooney

Sulle serie tv esistono due scuole di pensiero; chi le saluta come le magnifiche sorti e progressive dello storytelling; e chi le considera il postmoderno terminale, al servizio dell’home video: astute rivisitazioni del passato, perturbanti visioni distopiche, ma quasi sempre evitando di guardare negli occhi il presente. Se una cosa non esclude l’altra, un fatto è certo: le serie stanno seppellendo il cinema d’autore, come Tarantino e Kusturica hanno appena ripetuto a Cannes. Prendiamo Catch22, ultima fatica dell’infaticabile George Clooney (martedì, Sky Atlantic), rilettura del testo seminale dell’antimilitarismo di Joseph Heller, già riletto dal bel film di Mike Nichols. Ritroviamo i baldi bombardieri Usa impegnati nelle missioni contro i tedeschi agli ordini di ottusi ufficiali, tra cui il tenente Scheisskopf di Clooney medesimo (notare il nome nazisteggiante). La dura vita del Top Gun non gonfierà il testosterone di John Yossarian (Christopher Abbott), anzi, gli aprirà gli occhi sull’assurdità della guerra. Si lambicca per farsi mandare a casa, ma c’è di mezzo il comma 22: solo chi è matto può essere congedato, ma chi chiede di essere congedato non è matto. Tra una missione di morte e l’altra i nerboruti aviatori se ne stanno a mollo nel mare di Pianosa, tipo Isola dei riottosi, in un concentrato di déjà-vu dove l’unica donna è la moglie del generale Clooney (what else?), che se la spassa proprio con Yossarian. Non il modo migliore per farsi passare per matto.

Brexit. La May tra il martello dei Comuni e l’incudine dell’Ue: tutto è ancora possibile

 

Gentile redazione, ho sentito in radio che Theresa May sarebbe pronta a lasciare Downing Street. E la Brexit? Possibile che la premier molli tutto prima di approvarla? Oltretutto la notizia arriva proprio nel giorno in cui i britannici iniziano a votare i loro eurodeputati. Mi aiutate a capirci qualcosa? Grazie.

Andreina Genovesi

 

Cara Andreina, credo che anche i britannici non capiscano che cosa stia succedendo e, soprattutto, perché succede. Tre anni fa, il 23 luglio 2016, una maggioranza di britannici sceglie, con un referendum, la Brexit. David Cameron, il premier che l’aveva indetto, se ne va, perché lui era per il Remain. S’insedia Theresa May, anch’essa tory, che dice “Brexit means Brexit”. Ma ci vogliono otto mesi perché Londra chieda di uscire e due anni di trattative per definire un accordo con i 27, che i Comuni, però, bocciano a ripetizione, vincolando, nel contempo, il governo a evitare il “No deal”, cioè l’uscita senza accordo. Quindi, l’accordo non va, ma ci vuole un accordo. La May sta tra il martello dei Comuni, dove molti tories le votano contro, e l’incudine dell’Ue, che le dice che l’intesa c’è: basta che loro l’approvino. Passa la data dell’uscita prevista, il 29 marzo e si sposta l’orizzonte temporale al 31 ottobre: diventa inevitabile votare per il Parlamento europeo, paradosso che tutti avrebbero volentieri evitato, Londra e i 27. E può ancora succedere di tutto: la May se ne va, ci sono elezioni politiche anticipate, cambia la maggioranza, si prova a ottenere dai 27 ritocchi all’accordo, si fa un nuovo referendum, Londra va, Londra resta. Tutto è ancora possibile. Una cosa è chiara: stare nell’Ue è complicato, ma uscirne è molto più complicato. Ed è peggio.

Giampiero Gramaglia

Per salvarci cambiamo l’economia

Non sempre la soluzione la si trova nel mezzo. Non c’è una “giusta misura”, un equilibrio possibile tra liberalizzazione dei mercati globali e nazionalismo sovranista. La via di uscita la si può trovare solo prendendo le distanze da tutti e due i poli del dilemma faustiano. Le antiche, rimpiante forme di mediazione/compensazione tra libero mercato e programmazione statale sono da tempo saltate. L’economia globalizzata, come un fiume esondato, ha travolto i fragili sacchetti di sabbia posti qua e là lungo gli argini dalle volonterose protezioni civili locali. Per rimettere l’economia al servizio dei bisogni fondamentali delle popolazioni non basta dosare dazi e regolare il traffico nelle nuove vie commerciali transcontinentali.

Non basta vigilare sui dumping sociali e ambientali praticati dalle sweat shops extracomunitarie e moderare la concorrenza; omogeneizzare le politiche fiscali e controllare le cripto valute; armare le dittature del Sud del mondo e pattugliare le frontiere… solo per citare alcune delle questioni che tanto infervorano il dibattito politico in Europa. Ciò che serve è cambiare alla radice l’impostazione delle politiche economiche.

Lo ha ben presente papa Bergoglio che ha lanciato una singolare iniziativa: l’“Economy of Francesco”, ad Assisi il prossimo anno. Una chiamata ai “giovani economisti, imprenditori e imprenditrici” e a chi “sta iniziando a studiare e praticare una economia diversa”, chiamati a “rivedere i nostri schemi mentali e morali”, “altri modi di intendere l’economia e il progresso”. Sarà un bel vedere. Il sentiero per uscire da questa economia mortifera si fa sempre più stretto. Da una parte le nuove generazioni – appunto – che hanno cominciato a reclamare il loro diritto al futuro. Dall’altra la fine del lungo ciclo di espansione – almeno in Occidente. I margini di manovra si sono esauriti. La montagna di debiti fittizi, nominali, creati senza “valori sottostanti” esigibili, che incombe sull’“economia reale” e l’enorme conseguente potere del sistema finanziario stritolano gli stati, le attività produttive, le comunità locali, le famiglie, ogni singolo individuo. L’economia va da una parte, noi da un’altra. I flussi di denaro aumentano vertiginosamente, ma non rimettono in circolo occupazione retribuita e distribuiscono ricchezza all’incontrario. I patrimoni dei ricchi aumentano, i ceti più bassi impoveriscono. Contemporaneamente cresce a dismisura la quantità delle merci immesse su mercati saturi. Conseguentemente l’enorme flusso di risorse primarie che viene quotidianamente estratto dalla Terra e reimmesso come inquinanti la rende progressivamente inabitabile. Per contro i desideri elementari che animano da sempre le popolazioni (sicurezza sociale, salubrità dell’ambiente, pace) si allontanano sempre di più.

Come fuoriuscire da questa spirale? Forse – ci suggerisce il Papa ecologista – è giunto il momento di essere un po’ creativi e coraggiosi anche in politica economica. Forse è necessario rovesciare il modo di pensare usuale di economisti e politici secondo cui l’interesse pubblico coincide con la creazione di valore monetario. Il valore economico ha senso solo se finalizzato a creare occupazione dignitosa, a rigenerare i cicli di vita naturali, alla integrazione e coesione sociale, alla solidarietà e collaborazione tra i popoli. Un’economia che non sia al servizio di questi obiettivi (che sono anche i Goals dell’Agenda 2030 dell’Onu) non serve al bene di nessuno. “Una nuova economia” è da tempo in cammino. È l’economia eco-solidale, dei beni comuni, trasformativa, di liberazione… Tutti quegli infiniti modi di creazione di valore sulla base di rapporti di produzione, scambio e fruizione liberi dalle costrizioni del mercato. Chissà se ad Assisi, il prossimo anno, ci sarà posto anche per un’economia post-capitalista e post-patriarcale.

De Luca ricorda Falcone: ossigeno sprecato e ipocrita

Educazione, intelligenza e decenza dovrebbe spingere a non parlare mai di mafia quei politici che si sono fatti eleggere anche grazie ai voti degli amici dei condannati per quell’odioso reato. In Italia, però, il limite del buon senso e del buon gusto è stato ormai superato da un pezzo. Per questo quando qualcuno lo travalica non c’è più nessuno che lo faccia notare.

È accaduto anche ieri in occasione delle commemorazioni per la morte di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca Morvillo e degli uomini della loro scorta. Tra i tanti che hanno sentito il dovere di sprecare inutilmente ossigeno per ricordare ipocritamente il sacrificio di questo eroe italiano c’è stato pure il governatore di una regione del Sud da sempre al centro di mille polemiche. Si tratta dell’arcigno Vincenzo De Luca che nel 2015, nonostante le proteste di Roberto Saviano e del movimento antimafia, pur di vincere le elezioni accettò l’appoggio di “Campania in rete”, una lista ispirata da una serie di amici di Nicola Cosentino: l’ex sottosegretario del governo Berlusconi, legato al clan dei Casalesi e per questo condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione camorristica; a cinque anni per tentato riciclaggio con aggravante mafiosa e a quattro anni per corruzione. De Luca però soffre di cattiva memoria. O, forse, spera che le amnesie ce le abbiano gli altri.

Così, dopo aver detto nel 2016 che l’allora presidente della Commissione antimafia Rosy Bindi era “una infame da uccidere” e aver definito nel 2018 “camorristi” i bravi giornalisti di FanPage autori di una straordinaria inchiesta sul traffico di rifiuti, il governatore campano oggi spiega che gli viene “da piangere” nel pensare “che sono morti per un’Italia come quella che abbiamo davanti agli occhi” perché “non era questa l’Italia e lo Stato che sognavano”.

Parole, sia chiaro, che condividiamo in toto (anche pensando a chi le ha pronunciate), ma che De Luca avrebbe potuto benissimo usare pure quando al governo c’era un signore, Silvio Berlusconi, il cui partito aveva visto tra i fondatori un condannato definitivo a sette anni per concorso esterno in associazione mafiosa come Marcello Dell’Utri. Il governatore, allora sindaco di Salerno, non risulta però che all’epoca parlasse allo stesso modo. Lo fa invece, con sollievo di tutti, finalmente ora. Promettendo, secondo l’Ansa, di onorare “il sacrificio di Falcone mantenendo il senso del dovere, del rigore assoluto e la dignità istituzionale”. E garantendo di fare la sua parte “come l’ha fatta lui, a fronte dei cialtroni che sono al governo dell’Italia”.

L’opinione sull’esecutivo, sia chiaro, è assolutamente libera. Il litigioso spettacolo offerto dai gialloverdi in questa campagna elettorale autorizza chiunque, anche De Luca, a dire la sua. Noi ci chiediamo però come debba essere definito un governatore che non revoca l’incarico di proprio consigliere alla Caccia e alla pesca a Franco Alfieri (il famoso sindaco delle fritture di pesce, ndr), dopo che la Dia gli ha perquisito casa e ufficio e la Procura lo ha accusato di voto di scambio politico mafioso. Alfieri è ovviamente innocente fino a prova contraria. Ma noi siamo certi che nell’Italia sognata da Falcone non ci sarebbe stato spazio per un consigliere di un presidente di Regione scoperto mentre parla per telefono con un detenuto agli arresti domiciliari (esponente del clan Marotta) di un “contratto di lavoro per pigliare l’affidamento”. Cioè per tornare libero. Nella Campania di De Luca invece lo spazio, e soprattutto una poltrona, c’è.

Ferrovie, il vero costo del maxi-piano

Sono 58 miliardi di euro gli investimenti previsti nel nuovo piano industriale 2019-2023 del gruppo Ferrovie dello Stato. Sommati a impegni pregressi, si arriva alla fantastica cifra di oltre 170 miliardi di euro. Dicono i vertici: “Un impegno record che conferma il gruppo quale primo investitore in Italia, con punte fino a 13 miliardi all’anno. Uno sforzo sostenuto per il 24 per cento con risorse di gruppo, un indotto per 120 mila posti di lavoro all’anno, 15 mila assunzioni dirette in cinque anni e un contributo annuo all’aumento del Pil fra 0,7 e 0,9%. I ricavi raggiungeranno nel 2023 i 16,9 miliardi, e l’utile netto arriverà a 800 milioni…”.

Non è fantastico? Peccato che si tratti di soldi dei contribuenti, non di investimenti generati da risorse proprie dell’azienda, dal punto di vista industriale. Infatti anche quel 24 per cento è solo formalmente “proprio”. Potrebbe essere il doppio o la metà, visto che i trasferimenti pubblici in conto capitale o esercizio sono una quota dominante dei ricavi, e questo ammontare è frutto di decisioni strettamente politiche, cioè arbitrarie. Quindi anche l’aumento del Pil e dell’occupazione sono un risultato arbitrario, e le risorse proprie tanto “proprie” in realtà non sono, e neanche l’utile netto lo è. L’intero quadro contabile ruota intorno a quanti soldi pubblici arrivano all’azienda, e sappiamo quanto questi siano preziosi e scarsi, e quindi da spendere con estrema cautela.

Vale la pena di ripetere il concetto: perché lo Stato non trasferisce alle Ferrovie il doppio o la metà dei circa 10 miliardi annui attuali di soldi nostri? Nessuno ha mai risposto a questo semplice quesito, a riprova che usando il termine “arbitrario” si descrive un fatto reale.

Il problema democratico, prima che economico, è la trasparenza dell’informazione, quando si tratta di soldi della collettività. Infatti Ferrovie dello Stato e i suoi conti, sono presentati all’opinione pubblica, con i giornali e le televisioni conniventi, esattamente nello stesso modo in cui di solito si parla delle scelte di una impresa privata esposta al mercato.

Ma chi ha verificato che quel fiume di soldi non potesse avere risultati migliori impiegato diversamente? Certo toccherebbe al difensore dell’interesse pubblico dimostrarlo ai contribuenti, cioè toccherebbe allo Stato, ma questo ben se ne guarda. Alla gente potrebbero venire molti dubbi o delle strane idee.

Parlando di investimenti, nel mondo reale di solito se ne presentano i ritorni attesi, per giustificarli agli occhi degli azionisti. Ma su questo aspetto, le Ferrovie dello Stato non si ritengono affatto un’azienda normale, infatti non ne parla mai. Ogni singolo euro nostro speso in ferrovie – è il messaggio implicito – ha ritorni in termini di benefici sociali, ci mancherebbe di pretendere veri profitti!

E se non fosse proprio così? Chi controlla tutti questi enormi benefici sociali? Per gli investimenti il controllo è affidato alle analisi costi-benefici, prima promesse dal ministro Pd Graziano Delrio, e ora finalmente in corso di esecuzione grazie al ministro Cinque Stelle, Danilo Toninelli. Anche se, per la verità, finora ne sono state pubblicate solo due: il terzo valico di Genova, che dichiarava l’investimento uno spreco di soldi pubblici, ma la politica, legittimamente responsabile finale delle scelte, ha deciso che si deve fare lo stesso. Per il nuovo tunnel del Fréjus (il cosiddetto Tav), l’analisi dice che si tratta di uno spreco, ma forse si farà ugualmente (ci sono aspetti internazionali complessi). Per l’Alta velocità Brescia-Padova (8 miliardi di preventivo, tutti italiani, la sovranità nazionale innanzitutto…) i risultati dell’analisi non sono ancora stati resi pubblici, ma il ministro, con sprezzo del pericolo, ha detto che si farà comunque. Ma il massimo sprezzo del pericolo si è manifestato per le ferrovie siciliane, che presentano costi totali di preventivo da 13 miliardi. Sono opere che vanno fatte, sostengono a gran voce i Cinque Stelle. Pare addirittura che esista una analisi economica fatta da Delrio, ma per ragioni misteriosissime non è mai stata pubblicata. Corre voce che ne esista una anche per la nuova linea Napoli-Bari (7 miliardi di preventivo), ma anche qui il mistero rimane fitto.

Intanto il Paese tutto punta su una enorme e costosissima “cura del ferro” per crescere. Ci puntava anche il governo precedente, quindi occorre prendere atto di una mirabile concordia di intenti (con i quattrini nostri). Ma questo governo vuole spendere addirittura “di più”. Peccato che nel mondo il progresso tecnico vada da un’altra parte, su veicoli stradali non inquinanti molto più sicuri, e non costosi per le casse pubbliche. Noi avremo invece splendidi treni, forse per la gran parte vuoti (e i treni vuoti non sono un granché nemmeno per l’ambiente), e per i quali si saranno scavati, più che tunnel, voragini nei nostri conti pubblici.

Inps, assunzioni più stabili ma in frenata. Cig in forte aumento

Nei primi tre mesi del 2019 si conferma il trend di aumento dei contratti stabili e del calo di quelli a termine che era già emerso dai dati su novembre e dicembre 2018, dopo l’entrata in vigore del decreto Dignità. È quello che risulta dall’ultimo Osservatorio sul precariato diffuso dall’Inps. Le trasformazioni da tempo determinato a tempo indeterminato risultano quasi raddoppiate, da 125mila a 219mila. In forte calo i contratti di somministrazione: la variazione netta dei rapporti di lavoro di questo tipo è pari a 34.279 unità contro le 66.350 dei primi tre mesi del 2018.

Nel mese di aprile 2019 sono salite le richieste di cassa integrazione, raggiungendo quota 25,4 milioni, con un aumento del 16% su marzo e 30,5% rispetto allo stesso mese del 2018 quando furono 19,4 milioni. Un forte aumento registra, invece, la Cassa integrazione straordinaria: il numero di ore autorizzate ad aprile 2019 è stato pari a 17,9 milioni, di cui 4,3 milioni per solidarietà, con un aumento del 78,1% rispetto allo stesso mese dell’anno precedente quando furono 10,1 milioni le ore autorizzate. Il dato segna una variazione congiunturale rispetto a marzo 2019 pari al +79,3%.

Le critiche di Loy a Tridico e all’Inps: cosa è vero e cosa no

“L’Inps si muove in modo forzato dalla politica”. L’ex segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy, oggi siede nel Comitato di indirizzo e vigilanza dell’Inps e in una intervista a Repubblica attacca il presidente, Pasquale Tridico, appena confermato dal governo Conte. In questi giorni di campagna elettorale Tridico è spesso nel mirino. Vediamo cosa contesta Loy.

1) “Pari condizioni di accesso ai dati da parte di enti di ricerca e studiosi”: Tito Boeri, da presidente, ha introdotto il programma VisitInps per permettere ai ricercatori di maneggiare i dati nel rispetto della privacy, Per ora Tridico lo ha confermato. Sui dati del reddito di cittadinanza c’è più trasparenza che su quelli del Rei, perché si conoscono anche le domande respinte (ma sono ancora numeri molto grezzi che andranno studiati meglio).

2) “Non sappiamo come sta andando Quota 100”: i dati sulle domande accolte ci sono, manca da capire l’effetto netto su quanti vengono assunti al posto dei neo-pensionati.

3) Mancano i moduli per restituire il reddito: vero, ma questo è un problema che deriva dalla legge istitutiva che non ha regolato la possibilità di restituire il sussidio e rinunciare (l’assenza della procedura indica, tra l’altro, che tutti i dati usciti sui giornali sulle oltre 100.000 persone intenzionate a rinunciare sono stime prive di riscontri).

4) C’è poi una critica di fondo di Loy a Tridico: “L’Inps non può essere un termometro della fibrillazione elettorale”. L’argomento viene sintetizzato nel titolo dell’intervista: “L’Inps risponde a logiche politiche”. Tridico ha commentato più volte le scelte del governo, anticipando anche provvedimenti in gestazione: ha un canale diretto con Di Maio, cui ha fatto da consigliere economico. Ma per ora non ci sono elementi concreti che questo rapporto abbia influito sulle sue scelte gestionali.

Quelli a sinistra del Pd, contro la trappola del “voto utile”

La morsa del voto utile costituisce la principale preoccupazione delle liste a sinistra del Pd. Per la Sinistra, cartello tra Sinistra Italiana e Rifondazione comunista, le probabilità di superare il 4% sono incalcolabili. Sempre a sinistra ci sono però anche gli ecologisti con Europa verde e il Partito comunista guidato dall’ex deputato europeo Marco Rizzo, fiero dell’appartenenza all’internazionale comunista.

La sinistra. Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, è la candidatura più nota della lista di Sinistra e ostenta sicurezza: “La campagna è andata bene ed è in crescendo. A sinistra rappresentiamo una novità significativa rispetto agli ultimi due anni anche per la mobilitazione di elettori ex 5Stelle che oggi votano per noi perché delusi e che riconoscono nella nostra proposta l’unico elemento di alternativa”. Superare lo sbarramento, dice Fratoianni, rappresenterebbe davvero un voto utile “perché i nostri eventuali 3 seggi, in caso del 4%, li toglieremmo innanzitutto a Lega e M5S”.

Ma, in ogni caso, il “voto utile” chiesto da Zingaretti non spaventa la lista “rossa” perché “non è efficace” e la “lista Calenda – come Fratoianni definisce la lista del Pd –, fatica molto a segnalare una discontinuità. Alla fine Zingaretti sta riproponendo un centrosinistra con i moderati”.

La Sinistra lavora per la redistribuzione sociale, la lotta ai paradisi fiscali e all’evasione fiscale, con l’idea di colpire “l’1% più ricco della società” per dare sostegno al welfare, alle contribuzioni previdenziali per i più giovani, a interventi strutturali su ecologia e risanamento ambientale” e si considera l’unica lista che “mette insieme i diritti sociali e i diritti civili, proponendo più welfare e più accoglienza”.

Per quanto riguarda la prospettiva, quorum o non quorum, dice Fratoianni, “stavolta rinasce una forza di sinistra: per la prima volta siamo riusciti a costruire una piattaforma con una significativa omogeneità, senza balbettii e contraddizioni”. Si andrà quindi a una fusione e a un partito unitario? “Non si tratta di sciogliersi, ognuno si tiene lo strumento che vuole, ma possiamo finalmente stabilizzare questo simbolo, avere una piattaforma comune e individuare meccanismi democratici a cui chiamare elettori ed elettrici per affrontare i nodi organizzativi e politici”. Difficile che un simile progetto possa prescindere del tutto dal risultato elettorale perché rimanere molto al di sotto del 4% potrà innescare una spirale negativa, ma sta alle forze politiche capire come proseguire.

I Verdi. Chi si è tenuto distante da una ipotesi di sinistra sono invece i Verdi italiani che hanno costituito la lista Europa verde. I sondaggi parlano di cifre modeste, ma Angelo Bonelli, coordinatore dei Verdi di cui ormai è uno storico esponente, si dice fiducioso: “Potrebbero esserci delle belle sorprese, anche se lo scandalo è costituito dalla nostra espulsione dai programmi tv”. Bonelli dice che si sente la mancanza delle battaglie contro l’oscuramento televisivo che conduceva Marco Pannella “anche perché le faceva per tutti, non solo per il Partito radicale”. Ma non si scoraggia: “Abbiamo avuto circa mille volontari in tutta Italia e si consideri che abbiamo speso solo 30 mila euro: un decimo di quanto immagino spenda da solo un candidato come Carlo Calenda”.

Oggi, tra l’altro, è il Global strike per l’emergenza climatica: gli ecologisti italiani ci hanno investito molto e si attendono che la grande attenzione sul clima possa tradursi in una rinnovata attenzione verso la loro lista: “Anche se va sottolineata la grande ipocrisia di chi inneggia a Greta e poi non fa davvero nulla per l’ambiente”.

Il profilo dei Verdi si è voluto distinguere da quello della Sinistra perché l’obiettivo è “essere trasversali nella società” come fanno, ad esempio, i Verdi tedeschi (che i sondaggi danno al 20%). Quanto al ritiro della candidatura di Pippo Civati, dice Bonelli, “si è trattato davvero di un grande equivoco: le candidate, accusate di provenire dall’estrema destra, sono impegnate in diritti civili e hanno già sostenuto liste o candidati di sinistra alle municipali di Torino e Catania. È una polemica che non esiste”.

Comunisti. Alla sinistra estrema si colloca invece il Partito comunista di Marco Rizzo che, per intenderci, nella costituenda “Internazionale comunista” si colloca “nell’ala dura”, quella più ideologica. “Sono appena tornato da Atene dove ho chiuso la campagna del Kke, il partito comunista greco, davanti a 100 mila persone”, dice Rizzo che in questa campagna si è speso moltissimo accendendo i riflettori sulle critiche all’Europa: “Questa Europa ce la siamo già beccata con diminuzione della produzione e dei diritti dei lavoratori”. Ma lo scontro, avverte, “non è tra sovranisti e europeisti, perché anche i primi non mettono in discussione il Fiscal compact”. Serve “un cambio di sistema” per “lavorare tutti, lavorare meno, vivere meglio”. Per questo torna la falce e martello sulla scheda, “il simbolo del lavoro” ma tornano anche tanti giovani: “Alle elezioni studentesche abbiamo preso fino al 30%”.

Di Maio a sorpresa: “Gentiloni meglio di noi sui rimpatri”

Parole forti, quelle pronunciate dal vicepremier Di Maio a Pomeriggio 5 nella giornata di ieri: parlando di immigrazione, infatti, il ministro ha dovuto ammettere che su quel fronte non si sta facendo abbastanza. “Adesso noi sull’immigrazione dobbiamo risolvere un problema: si chiamano rimpatri”, ha dichiarato, per poi rincarare la dose con un confronto col governo passato: “Mi fa male sapere che il governo Gentiloni sui rimpatri aveva fatto meglio del nostro governo, quindi acceleriamo su questo”. Frecciata che ha punto sul vivo l’altro vicepremier, Matteo Salvini, che sull’immigrazione ha incentrato molta della sua politica: la risposta è arrivata sempre per via televisiva, su Otto e Mezzo, in onda su La7. “Non so se Di Maio ha nostalgia dei governi con il Pd”, ha ribattuto, aggiungendo: “È bizzarro che dica una cosa del genere, facciamo che sia nervosismo da campagna elettorale”.

Si prevede un seguito alle polemiche: oggi, infatti, altro round ad Agorà su Rai3. Interviste per Salvini, Di Maio e lo stesso Gentiloni.