Secondo la commissione antimafia, sono 5 i candidati “impresentabili” nelle liste per le prossime elezioni europee. Tra di loro i nomi più che noti di Silvio Berlusconi e Pietro Tatarella, finito nell’inchiesta su appalti e tangenti della Dda di Milano. Forza Italia colleziona ben 4 candidati sui cinque ritenuti non idonei: gli altri due sono Giovanni Paolo Bernini e Salvatore Cicu. La quinta è la candidata di CasaPound Emmanuela Florino. La commissione parlamentare antimafia ha raggiunto queste conclusioni dopo le analisi sulle segnalazioni delle Procure. Come spiegato dal presidente della commissione, il senatore del Movimento Cinque Stelle Nicola Morra, le candidature segnalate sono “non conformi al codice di autoregolamentazione” perchè si tratta di soggetti “rinviati a giudizio e con dibattimento in corso”. Svariati reati per corruzione in atti giudiziari hanno riguardato l’ex Cavaliere, secondo quanto ricordato dall’Antimafia, mentre l’ “impresentabile” Florino di CasaPound è imputata per associazione sovversiva e banda armata.
Laburisti primo partito: a sorpresa i populisti fanno flop
In Olanda, primo paese dove sono resi pubblici i risultati del voto europeo, gli exit pool davano ieri sera a sorpresa in testa i laburisti di Frans Timmermans, che si sarebbe aggiudicato il maggior numero di seggi alle elezioni del Parlamento europeo e battendo il partito dei liberal-conservatori del primo ministro Mark Rutte e il partito populista di destra Fvd (Forum voor Democratie).
In base ai primi dati Ipsos, diffusi dall’emittente pubblica Nos, al partito laburista del vicepresidente della Commissione andrebbero 5 seggi su 26 assegnati ai Paesi Bassi, corrispondenti a circa il 18% dei consensi (ovvero 2 in più rispetto al 2015). Ai liberali di Rutte 4 seggi e al neo-nato partito del populista Thierry Baudet 3. L’alleato di Salvini Wim Wilders (presente sul palco con il vicepremier la settimana scorsa alla manifestazione di Milano) passerebbe da 4 a un seggio (circa il 4% dei voti).
L’Aaffluenza alle urne è aumentata rispetto a quelle del 2014. Secondo la proiezione dell’Ipsos, ieri hanno votato il 41,2% degli aventi diritto contro il 37,3% di cinque anni fa.
Genova, botte al comizio di CasaPound. La polizia carica chi manifesta contro
Fuori 5mila persone. Dentro 22 persone, candidati di CasaPound compresi. In mezzo centinaia di poliziotti in tenuta antisommossa dietro grate alte tre metri. Il primo comizio dell’estrema destra nella storia di Genova è finito con 5 feriti. Tra questi Stefano Origone, giornalista di Repubblica, preso a manganellate dalla polizia, poi tempestato di calci anche in testa dalle forze dell’ordine mentre era a terra e urlava: “Sono un giornalista!”. È finita con dita rotte e un trauma cranico. Da giorni Genova era in fibrillazione per il comizio di CasaPound mentre il Pd protestava: “Hanno concesso la piazza alla destra estrema e non a noi”. In una città dove ormai i consiglieri comunali di maggioranza con la fascia Tricolore partecipano alle commemorazioni dei caduti di Salò.
Così ieri sembrava di tornare ai tempi del G8. Fuori una folla antifascista divisa in due tronconi: antagonisti da un lato; dall’altro gente comune, associazioni, sindacati. Dentro una manciata di militanti. Alle sei di sera comincia il comizio. Parlano il candidato alle europee Marco Mori e Gianni Plinio, da una vita rappresentante della destra a Genova. Uno che risponde così alla domanda: è fascista, sì o no? “Sono un patriota”. La voce sale dagli altoparlanti, le bandiere di CasaPound vengono agitate. E la folla si infiamma. Ci sono striscioni, cori, tamburi. Qualche decina di persone arriva fino alle grate. Lancia petardi. Tenta un impossibile sfondamento. Polizia e carabinieri paiono non reagire, poi sparano lacrimogeni, “tirano sassi” (racconta l’ex vice-sindaco Stefano Bernini) . Caricano e seguono i manifestanti per centinaia di metri. Qui arrivano gli scontri e i pestaggi.
A sera i manifestanti si spostano a presidiare la questura. Mentre tra gli agenti c’è chi dice: “Perché dobbiamo cacciarci nei casini per difendere questi gruppi dove c’è chi si dice fascista?”. Mentre i militanti di CasaPound agitano bandiere e sorridono: “Abbiamo vinto”.
“B. teme il sorpasso, lunedì Matteo e io maggioranza”
“In genere sono catastrofista, stavolta sono molto molto molto ottimista”. A due giorni dalle Europee, Giorgia Meloni ha buone sensazioni su Fratelli d’Italia. Ma non dà numeri: “Per scaramanzia. Ma andremo sensibilmente meglio rispetto alle Politiche” (quando presero il 4,3%).
Vi aspettate il sorpasso su Forza Italia?
A giudicare dal nervosismo, mi sa che se lo aspettano loro…
Anche Salvini è meno sereno ultimamente.
È stanco. La campagna elettorale molto aggressiva dei suoi alleati di governo non l’ha aiutato.
Che quadro si immagina lunedì? Il governo si spacca?
La Lega andrà molto bene. Ma la questione non è se (e quanto) Salvini sarà più forte di Di Maio. Ma quanto saranno forti quelli che possono allearsi con Salvini per fare un governo senza Di Maio. È quello il mio obiettivo. Se confermeremo la nostra crescita, avremo i numeri per essere maggioranza autonoma.
Forza Italia è fuori dai suoi piani per il centrodestra.
In Europa portano i voti al Ppe, che si allea con i socialisti. Per noi non esiste: siamo gli unici monogami del centrodestra… Di certo nel futuro vedo l’alleanza tra Lega e FdI. Il resto non lo so.
“Berlusconi” e “futuro” non stanno bene insieme.
Questo l’ha detto lei…
Salvini vuole abolire il reato di abuso d’ufficio. Voi non siete legalitari?
Un po’ ha corretto il tiro. Io condivido la seconda parte del suo ragionamento: una cosa è l’abolizione, un’altra la rimodulazione. È sbagliato punire un amministratore che fa una telefonata in più per risolvere un problema.
Nelle vostre liste ci sono riciclati e indagati.
Non so che cosa intende per riciclati.
Per esempio la Gardini, berlusconiana storica.
La Gardini in Forza Italia ha combattuto battaglie importanti. Ha cercato di convincere il suo partito a lasciare i popolari per entrare nei conservatori, la nostra famiglia europea. Sugli “impresentabili” abbiamo uno degli statuti più rigidi.
Non vi ha impedito ad esempio di candidare Remo Sernagiotto, accusato di corruzione e truffa aggravata.
Credo non sia nemmeno rinviato a giudizio (c’è la richiesta dei pm, ndr). Poi bisogna distinguere i casi. I 5Stelle ci rinfacciano quattro condannati in via definitiva. Eccoli: Salvatore Ronghi… 50 mila lire per una rissa quando era militante del Msi. Luca Romagnoli: un’ammenda da 70 euro, per un gesto di protesta contro i partigiani sloveni nella giornata delle foibe. Fabrizio Bertot: diede in escandescenza al seggio dove gli stavano rubando i voti. Per me queste sono medaglie.
A proposito di riciclati… dopo Fitto arriva anche Toti?
Deve chiederlo a lui. Giovanni è una persona coraggiosa.
In questa campagna elettorale avete ammiccato più del solito all’ultradestra. La candidatura di Caio Mussolini, gli slogan su Roma e l’Italia. Non teme di confinarsi nella nicchia post fascista?
Non mi pare. Le mie frasi su Roma, diventate virali, erano una risposta alla scandalosa intervista di Fazio a Macron. E a proposito: è normale che Gozi, ex sottosegretario italiano, sarà eletto in Francia nelle liste di Macron? Ha qualcosa di cui ringraziarlo?
Ha capito cosa intendo: se presenta Caio Giulio Cesare Mussolini davanti al “Colosseo Quadrato” sa bene a chi si rivolge.
Persona capacissima, l’ho candidato per il suo profilo.
Però ci giocate: il suo slogan è #scrivimussolini.
Si chiama così! Di certo non lo censuro per il cognome.
In futuro si vede sindaco di Roma?
La questione l’affronteremo quando si presenterà.
Quindi si presenterà.
(Ride) Non è detto.
Via l’abuso d’ufficio: Salvini cambia idea e tira in ballo Conte
La domanda è solo una: cos’altro farà Matteo Salvini prima che si concluda la campagna elettorale per le Europee di domenica? Perché ieri dopo aver dichiarato di voler abolire il reato di abuso d’ufficio che impedirebbe per esempio ai sindaci di “fare il loro lavoro, ossia firmare atti, aprire cantieri, sistemare scuole, ospedali” ha innescato l’ennesima polemica di giornata. Con annessa rissa verbale tra il capo della Lega e Luigi Di Maio. Nel giorno della legalità che ricorda la strage di Capaci, Salvini si è detto pronto a “cancellare il reato che blocca il Paese. Noi invece scommettiamo sulla buona fede degli italiani”. La risposta di Di Maio è stata di pancia, quasi liberatoria: “Basta stronzate”, ha detto prima che si scatenassero le dichiarazioni e i commenti su un tema che hanno precisato dai 5Stelle “non è nel contratto”.
L’ultimo riordino nel ’97. La profezia di Davigo
Sarà stata la levata di scudi o forse qualcos’altro, fatto sta che Salvini ha poi deciso di fare una parziale retromarcia: ammainata la cancellazione si è detto convinto che la norma, già oggetto di una duplice riforma negli anni 90, “vada rivista, sono d’accordo con Conte e con Cantone” ha detto tirando in mezzo il premier e il capo dell’Anticorruzione che in passato hanno fatto accenno alla possibile revisione della norma. E che probabilmente non hanno gradito.
Ma cosa prevede il reato finito nel mirino del ministro? L’articolo 323 del codice penale scatta quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, “nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale”. Il testo riformato da ultimo nel 1997 subordina l’illecito penale al verificarsi di determinate condotte che intenzionalmente procurano un danno ingiusto o un ingiusto vantaggio. Insomma come ha ripetuto pure recentissimamente la Cassazione l’intenzionalità del dolo presuppone la volontà certa di procurare il vantaggio. E non è affatto cosa facile da provare. Tant’è che a ridosso della riforma Piercamillo Davigo era stato facile profeta: “L’abuso d’ufficio era un reato serio, oggi è diventato difficilissimo provarlo”. Per l’ex sottosegretario alla Giustizia, Cosimo Ferri oggi eletto come indipendente nelle file del Pd, la riforma ha praticamente azzerato l’efficacia del reato che spesso è spia della corruzione. E tutto questo “quasi impossibile arrivare a una sentenza di condanna”.
Da Aosta a Riace: ce n’è per tutti
L’ultimo in ordine di tempo indagato per abuso d’ufficio è il governatore leghista della Lombardia Attilio Fontana, finito nel mirino per la nomina in Regione del suo ex socio di studio: coincidenza che ha fatto dire a Di Maio che quella di Salvini è una proposta “ad partitum”. Il 29 maggio l’ex presidente della Valle d’Aosta Augusto Rollandin andrà a processo per le lettere di patronage che nel 2014 aveva inviato agli istituti bancari per rassicurarli sul debito che il Casinò di St-Vincent aveva nei loro confronti. Ad aprile l’inchiesta sulla Sanitopoli umbra ha messo in ginocchio la giunta: la governatrice Catiuscia Marini ha annunciato le dimissioni dopo che le è stato contestato l’abuso d’ufficio, ma anche il falso ideologico e materiale e il reato di rivelazione di segreti d’ufficio per un concorso che, secondo la Procura, sarebbe stato pilotato. Aprile infausto pure per il presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, indagato dalla Procura della Repubblica di Bari insieme al suo capo di gabinetto e tre imprenditori baresi per una fattura alla società di comunicazione che ha curato la sua campagna elettorale per le primarie del Pd del 2017. Con buona pace di Salvini, al sindaco di Riace Mimmo Lucano che avrebbe pure favorito l’immigrazione clandestina è stato contestato anche l’abuso d’ufficio.
I governatori nei guai e i sindaci Cinque Stelle
A febbraio la Procura di Pescara ha chiesto il processo nell’ambito dell’inchiesta su PescaraPorto per l’ex presidente della regione, Luciano D’Alfonso che invece l’anno prima è stato archiviato per quella che riguardava Palazzo Centi a L’Aquila. Nei mesi scorsi l’ex presidente della Regione Molise, Michele Iorio, eletto con una coalizione di centrodestra, si è visto annullare dalla Cassazione la condanna riportata in appello per una vicenda di abuso d’ufficio legata allo zuccherificio regionale. Il tribunale di Salerno ha assolto a settembre il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, nell’ambito del processo Crescent scongiurando il rischio sospensione dal ruolo per gli effetti della legge Severino. Prosciolto anche in appello il sindaco di Milano Giuseppe Sala per il reato di abuso di ufficio che gli era stato contestato per un appalto per la Piastra dei servizi Expo. Assoluzione pure per il sindaco di Livorno Filippo Nogarin indagato con altri in un’inchiesta sulla municipalizzata dei rifiuti e per quello di Roma, Virginia Raggi per la nomina del suo caposegreteria, mentre lo è ancora nell’ambito dell’inchiesta sullo Stadio. Ma questi sono i casi meno recenti legati all’abuso di ufficio. Un rosario di nomi e inchieste. E di rosari Salvini dice di intendersene.
Forza Abusi
“Abusivi di tutti i posteggi urbani e interurbani, unitevi!”. E questo è Totò. “Abusatori d’ufficio di tutti i comuni, province e regioni, unitevi!”. E questo è Salvini. L’altra sera, avendo appreso dell’esistenza di questo reato dall’avviso di garanzia del Tribunale dei ministri che glielo contestava insieme al sequestro di persona nel caso Diciotti, e avendone risentito parlare quando è stato indagato il suo governatore della Lombardia Attilio Fontana, il noto giureconsulto leghista ha deciso che la soluzione migliore è abolirlo. Poi qualcuno deve avergli fatto notare che depenalizzare i reati propri e del proprio giro ricorda troppo B., così il Carnelutti padano ha optato per “rivederlo”, qualunque cosa voglia dire. E ha attaccato il solito piagnisteo contro “la burocrazia, vincoli, la paura di firmare atti, aprire cantieri, sistemare scuole, ospedali” (che non c’entrano una mazza, delinquenti a parte), concludendo con una supercazzola delle sue: “Se per paura che qualcuno rubi blocchiamo tutto, mettiamo il cartello Affittasi ai confini dell’Italia e ci offriamo alla prima multinazionale cinese. Se uno ruba lo metto in galera, ma non possiamo per presunzione di colpevolezza bloccare tutto”. A parte il fatto che lui quelli che rubano non li mette in galera, ma al governo, l’abuso non riguarda chi ruba. Ma chi viola leggi o regolamenti per favorire “intenzionalmente” sé o altri con vantaggi “patrimoniali”, o per procurare “danni ingiusti” a qualcuno.
Se poi ruba pure, incorre in altri reati: dalla corruzione al peculato, dall’illecito finanziamento all’appropriazione indebita, dalla bancarotta fraudolenta alla truffa (quasi tutte specialità della casa, vedi i 49 milioni spariti). Salvini pretende “che sindaci, funzionari pubblici, presidenti e associazioni di volontariato possano lavorare tranquillamente”. Ma le associazioni di volontariato, anche volendo, non possono abusare del proprio ufficio, perché essendo soggetti privati non ce l’hanno proprio, quell’ufficio. Invece sindaci, funzionari e presidenti (di regione: di squadre di calcio no) ce l’hanno. Ma hanno pure un modo semplicissimo per non incappare nell’abuso: evitare di abusare del loro potere pro o contro qualcuno (è vero: le denunce pretestuose e strumentali per abuso, vedi le 600 ricevute dalla Raggi, innescare indagini che sul momento discreditano; ma poi vengono archiviate: cancellare il reato per evitarle non è una soluzione, perché esistono anche denunce fondate, per comportamenti gravi). Forse l’avv. on. min. Giulia Bongiorno dovrebbe dare qualche ripetizione al ministro ripetente.
Se erudisce il pupo, gli risparmia altre figure barbine. Resta invece da capire quali altre “modifiche” a un reato già ridotto al lumicino auspica il presidente dell’Anticorruzione Raffaele Cantone. Perché è vero – come dice – che “c’è una quantità enorme di procedimenti che non arrivano a condanna, per cui qualcosa nella norma non funziona”. Secondo i dati Anac dal 2004 al 2009 il 29% delle denunce per reati contro la PA hanno riguardato abusi d’ufficio, ma poi le condanne sono scese al 22%: appena 150 definitive negli ultimi 10 anni. Dunque Cantone, non da oggi, propone di “delimitare la categoria delle violazioni penalmente rilevanti e prevedere una migliore tipizzazione della condotta, per punire meno, in modo più selettivo e mirato”. Ma è esattamente il contrario di ciò che andrebbe fatto: rimpolpare l’abuso di nuovi contenuti, al passo con le ultime tendenze criminali dei colletti bianchi (l’infinita gamma dei conflitti d’interessi). Altro che aggiungere altri buchi al colabrodo. Se oggi le condanne per chi abusa del proprio ufficio per favorire uno o danneggiare l’altro sono pochissime e quasi tutti la fanno franca, è proprio perché il reato è troppo “delimitato” e “tipizzato”.
Prima della controriforma del 1990, si chiamava “interesse privato in atti d’ufficio” e chiunque abusasse del proprio potere per interessi privati veniva condannato. Poi si passò all’“abuso in atti d’ufficio”, patrimoniale e non patrimoniale. E le maglie della punibilità si restrinsero. Ma non abbastanza per le usanze della casta: nel 1997 tre intere giunte – Piemonte, Lombardia e Abruzzo – erano sotto processo per abusi non patrimoniali, così come l’allora premier Prodi (per il caso Cirio). Furono tutti salvati da una seconda controriforma, che depenalizzava l’abuso non patrimoniale e, per quello patrimoniale, prevedeva addirittura un doppio dolo, cioè la prova impossibile diabolica. Se un pubblico ufficiale trucca un concorso o un esame per favorire un parente o un amico o un compare di partito, non basta dimostrare che l’ha fatto: bisogna pure provare che voleva sortire quell’effetto e quello soltanto, e pure che il vantaggio è di natura “patrimoniale”. Risultato: è più facile che un cammello entri nella cruna di un ago che un lottizzatore o un clientelista, un nepotista, un taroccatore di concorsi venga condannato. In galera, poi, è impossibile che ci finisca, viste le pene irrisorie previste dal Codice (da 1 a 4 anni, sotto la soglia-carcere minima): qualche mese, fra un’attenuante e l’altra, e un bacio sopra. Quindi Fontana, per l’amico trombato alle elezioni e risarcito con un posto in Regione, rischia poco o nulla. Ma la strisciante depenalizzazione del reato a questi impuniti non basta ancora: abbiamo politici, locali e nazionali, talmente criminali che riescono a finire intrappolati anche nelle maglie larghissime di una legge finta. E tornano all’assalto per disossarla un’altra volta, la terza in trent’anni. Non perché temano le denunce infondate, che poi finiscono regolarmente in archivio. Ma perché sono terrorizzati da quelle fondate. Quelle che smutandano i loro culi sporchi.
Dolan e la precoce sindrome di Peter Pan
Mancano solo quattro titoli, tra cui Il traditore di Marco Bellocchio che passa oggi, per completare il Concorso tutt’altro che eccelso di Cannes 72, e in attesa del palmarès Once Upon a Time in Hollywood di Quentin Tarantino finisce sul podio della critica. Quello che Leonardo DiCaprio definisce “una lettera d’amore a tutti gli outsider dell’industria cinematografica” e Brad Pitt un apologo “sulla perdita dell’innocenza che gli omicidi della Manson Family hanno rappresentato” ha polarizzato i giudizi: chi gli commina zero stellette, chi gli prenota la Palma, sicché nella griglia di Screen Daily si piazza per gradimento al terzo posto (3.0 su 4) dopo Dolor y gloria di Pedro Almodóvar (3.3) e Portrait de la juene femme en feu di Céline Sciamma (3.2).
Non dovrebbe sconvolgere queste posizioni Matthias & Maxime, nuova prova del figliol prodigo Xavier Dolan, tornato sulla Croisette dopo qualche lacrima e l’autoesilio a Venezia. Il trentenne regista québécois fa baciare gli eponimi amici d’infanzia per gioco, anzi, per un filmino amatoriale e poi sta a guatare le conseguenze relazionali, lavorative e personali. Maxime, vistosa voglia sul viso e Australia nell’immediato futuro, lo interpreta egli stesso, con fastidiose smorfie e risparmiabilissimi ammiccamenti, ma ancor più nociva è la sensazione che il suo cinema si stia rimpicciolendo, che l’architettura poetica si stia riducendo a design d’interni, e non sempre psicologici. L’ex enfant prodige palesa una precoce sindrome di Peter Pan: ci sta che lui non voglia crescere, meno che non lo faccia il suo cinema, puerile, minimo più che minimalista e, di questo passo, condannato all’irrilevanza.
Decisamente meglio Roubaix, une lumière del francese Arnaud Desplechin, che ispirandosi a Il ladro di Hitchcock trova atmosfere, colpe e tare à la Simenon: l’ispettore capo Daoud (Roschdy Zem, perfetto) ama i cavalli da corsa e indaga su auto bruciate, rapine e vecchie strangolate, ma lungi dall’essere un genere il crime qui è uno stato d’animo. Trattenuto nella forma, esistenziale nel voltaggio, morale nel deposito, questo polar eterodosso rischia di essere sottovalutato, e sarebbe oltremodo disdicevole: Léa Seidoux incarna una derelitta con licenza di bere e non solo, Desplechin fa della meta della classica di ciclismo un territorio accidentato dalla miseria e dalla turpitudine, ma riesce a tenere accesa la luce alla speranza.
Guerra e malalegna: la rivolta della donna né santa né Eva
Da qualche giorno in libreria con “La malalegna”, la scrittrice Rosa Ventrella ha indagato per noi sul ruolo femminile durante la Seconda guerra, da Femmina Madre a “donna e basta”.
L’eterna diatriba tra la donna-Eva, tentatrice, peccaminosa e corrotta, e la donna-Madonna, la vergine casta e pura che diventerà poi la moglie, l’angelo del focolare: due raffigurazioni opposte e da sempre presenti nell’immaginario collettivo che racchiudono in sé non solo una visione della donna ma anche una precisa rappresentazione del maschio. Non è forse ancora così la donna alle soglie della Seconda Guerra Mondiale? Una sorta di Mater Matuta, madre fascista come madre di Dio, abnegazione di una donna votata al suo figlio, in una mirabile forma di intesa tra sacro e profano. E non è forse così che il fascismo la vorrebbe? “La patria si serve anche spazzando la casa” diceva il regime, e poi ancora, “la donna è la prima responsabile del destino di un popolo”. E non sono neanche lontani i tempi in cui Ferdinando Loffredo, nel suo saggio Politica della famiglia, così scriveva: “La donna che lavora concorre alla corruzione dei costumi, in sintesi inquina la vita della stirpe”.
La guerra però cambia tutto, trasformando la femina mater in altro, dandole volti nuovi e una voce inedita. Non c’è niente che renda di più l’idea di empowering della donna che risponde alla violenza scoprendo la libertà. Che donne meravigliose quelle che hanno vissuto la loro guerra silenziosa: madri, mogli, infermiere, lavoratrici, combattenti. Affondavano le mani nella terra, nutrivano i loro figli, leggevano a stento le lettere dei mariti dal fronte, imbracciavano i fucili, sfilavano per le strade. Tenevano le fila della solidarietà sociale, dettando il ritmo delle giornate, sciogliendo in esso le frustrazioni, le speranze, i desideri. Sorridevano, piangevano, amavano, contrapponendo ad anni di male gaze il loro peculiare sguardo sul mondo. Come dimenticare la bellezza della Ciociara quando ammira con entusiasmo il bel torace nudo di un soldato russo? Siamo anche questo, senza peccato. In un fotogramma del film documentario The Liberation of Rome del 1944 – realizzato dai governi inglese e americano – delle giovani donne fanno il segno della vittoria agli alleati. Forse in questo gesto così semplice sta tutto il senso della guerra delle donne, una sorta di anticipazione dell’american way of life che si sarebbe affermato negli anni Cinquanta. Ci avete tolto tutto ma non il sogno.
E così, proprio tra i volti delle donne del nostro Sud, ritroviamo, sempre in quegli anni, masciare che sbarcano il lunario leggendo i fondi del caffè o togliendo il mal di pancia ai bambini segnando la pelle intorno all’ombelico con decine di croci, intente a recitare litanie in lingue arcaiche e sconosciute. Troviamo contadine che sfidano la legge e attraverso il mercato nero sfamano i propri figli. Dai campi partono, anche tra le donne, le prime ondate di scioperi organizzati. Incipienti forme di affiancamento alla Resistenza armata. È in fondo il medesimo spirito di lotta, organizzata dal “basso”, che ha animato le Quattro giornate di Napoli nel 1943. Sono le stesse donne che qualche anno dopo occuperanno le terre incolte d’Arneo ribellandosi – questa volta accanto ai loro uomini – a secoli di vessazioni da parte dei grandi latifondisti. Tutto questo portandosi sempre accanto un altro nemico, invisibile, subdolo che si muove insinuandosi sotto le porte, intrufolandosi nelle case attraverso gli spifferi. Talvolta è così forte da sembrare sostanza solida, corpo vero e proprio. La maldicenza, lo scuorno, le malalegne, i luoghi comuni, il falso perbenismo sono il sostrato viscido, vecchio millenni, su cui le donne sono costrette a muovere i loro passi. Persino le povere “marocchinate” sono state poi scansate dalla comunità e ripudiate dalle loro stesse famiglie. “La donna ha molti caratteri che l’avvicinano al selvaggio, al fanciullo e al criminale”, recitavano Cesare Lombroso e Guglielmo Ferrero nel saggio La donna delinquente, la prostituta e la donna normale. Ditelo alle 16 medaglie d’oro, alle 17 d’argento di quella “Resistenza taciuta” che ha avuto tutti i colori, le sfumature e i tratti tipici dell’universo femminile. Alle 683 fucilate o cadute in combattimento, alle 4633 arrestate, torturate e condannate dai Tribunali fascisti. Niente più donne-Eva, donne-Madonna o, nella versione mista di Orvieto, donne-Maddalena “ibrido coacervo di tre Marie, peccatrice redenta, donna che rifiuta la femmina ch’è in lei”. Donna e basta. Femina. Non più invisibile però.
“Vado a girare in Cina, da noi il cinema è finito”
Al 72° Festival di Cannes Emir Kusturica non c’è. Non c’è stato nemmeno con il suo ultimo film, On the Milky Road, atteso nel 2016 e poi approdato alla Mostra di Venezia: la mancata première sulla Croisette fu collegata al suo appoggio a Vladimir Putin, egli stesso lasciò intendere, salvo poi negare l’evenienza. Acqua passata. Tre anni dopo, il regista, sceneggiatore e musicista serbo è atteso a un altro festival, quello della Bellezza a Verona, e ha in cantiere un nuovo film, sulle gesta di Gengis Khan.
Kusturica, che cos’è oggi la bellezza?
La bellezza corrisponde a quello che l’arte ci può ancora dare, non solo nel cinema, ma nella letteratura, nella musica, nell’architettura. Questo rende la vita migliore e ci permette continuamente di riflettere e spostare lo sguardo fra la nostra storia e il nostro futuro prossimo.
Il 28 maggio aprirà il sesto Festival della Bellezza con lo spettacolo “L’estro poetico dell’anima underground”.
L’anima underground serve per sopravvivere al presente, in modo tenace e resistente. È come un allenamento quotidiano necessario.
Tornerà sul set per inquadrare il condottiero mongolo Gengis Kahn?
È un progetto a cui sto lavorando da tanto tempo, sarà una grande produzione realizzata e girata interamente in Cina, con attori e maestranze locali. È una sfida che mi appassiona molto.
Barbaro e spietato, così ci è stato tramandato: perché proprio Gengis Kahn?
La mia visione di Gengis Khan nella sceneggiatura è quasi diventata un’ossessione: se lo si paragona a certi eroi dei film americani, appare meno rude e violento di tanti protagonisti che vengono fatti passare come persone positive. Vedrete nel film, la lettura che ho dato della sua storia.
La Cina è vicina anche per un regista europeo?
Sicuramente, la Cina rappresenta un nuovo grande palcoscenico, offre opportunità anche al cinema d’autore con numeri di sale e pubblico impensabili oggi in Europa. E senz’altro rappresenta per un regista un orizzonte importante.
Del cinema italiano, invece, che cosa pensa?
Se parliamo del cinema di oggi, conosco personalmente due autori di rilievo internazionale che sono Matteo Garrone e Paolo Sorrentino. Ma anche Alice Rohrwacher è molto brava, e fra gli attori mi piacciono molto Toni Servillo e Giancarlo Giannini.
Su On the Milky Road ha lavorato con Monica Bellucci: che attrice è?
Monica ha un notevole talento e ha imparato i dialoghi in serbo con estrema professionalità. Ha una grande capacità d’adattamento e una tenacia straordinaria. Nei tre anni di lavorazione, ha fatto davvero di tutto per il film, si è persino tuffata da un’altezza di dieci metri in un fiume, con una temperatura inferiore a dieci gradi.
A Cannes ha partecipato sei volte, vincendo due Palme con Papà… è in viaggio d’affari nel 1985 e Underground nel 1995. Dopo tutti questi anni, che rimane di quei film, di quei premi?
Il mondo è completamente cambiato e anche quello del cinema oggi è molto diverso. Progetti come Underground non so se sarebbero ancora possibili, gli autori hanno sempre meno voce per realizzare i loro film.
E di quel Kusturica, che cosa resta?
Una visione del mondo, penso, quella che ti porta a raccontare le storie di chi non ha voce e che ti fa sentire vicino a loro. Anche se la politica oggi non sempre offre punti di riferimento e il popolo della sinistra si è come smarrito, mentre dovrebbe rimanere unito per poter contrastare le logiche imperanti.
L’ideologia modella ancora il suo cinema?
Quando racconti una storia, esprimi sempre un punto di vista, è qualcosa di fondamentale per un autore o un artista. Parlare di ideologie oggi non è facile, ma credo rimangano un riferimento stabile: nel mio caso, una visione di sinistra nella lettura e nell’analisi della società.
Nel 2008 ha realizzato il documentario Maradona by Kusturica: c’erano Fidel Castro, Hugo Chavez ed Evo Morales, e idee alternative al neocapitalismo stelle e strisce.
Oggi l’unico modello delle società globalizzate è il capitalismo, ma non per questo sono venute meno le sue contraddizioni e le ingiustizie che produce e produrrà. L’America neoliberista non brilla certo per esportare nel mondo egualitarismo e democrazia, ma interessi economici e di potere.
La bellezza salverà il mondo?
Non so il mondo, ma l’arte può almeno salvare la nostra parte migliore. E questo vale sia per il presente che per il passato. Mi sono formato guardando i film di Federico Fellini, Andrej Tarkovskij, Stanley Kubrick e leggendo Fëdor Dostoevskij. E questo per me è diventato un modo di crescere, di avere degli strumenti per leggere la realtà, per comprenderla. O almeno tentare di farlo.
Libero l’italiano Alessandro Sandrini: “Preso da una banda di sequestratori”
Il governo di salvezzadi Hayat Tahrir al-Sham, formazione jihadista di Idlib ha annunciato di aver liberato Alessandro Sandrini, italiano in mano “a una banda di sequestratori”. È stata un’azione “coordinata dell’intelligence italiana, della polizia giudiziaria e dell’unità di crisi del Mae”, ha dichiarato il premier Conte. Sandrini, 33 anni, scomparso nel 2016 in Turchia, in Italia era ricercato per rapina. Andrà ai domiciliari.