“Epurata la lady di ferro”. Ma è vietato scriverlo

Sotto una pioggia di primavera che rende Mosca più torva del solito, un pezzo di storia del giornalismo russo si interrompe. In Russia la linea delle informazioni da diffondere è solo quella dettata dallo spartito del Cremlino. E altro i giornalisti del Kommersant non dovevano né potevano scriverlo. Ora ci sono due reporter licenziati, dieci dimissionari per solidarietà, duecento firme dei colleghi sodali che arrivano a concludere una lettera aperta che chiede tutela di quel che rimane della libertà di stampa nel Paese.

In questa città matrigna dei giornalisti il fronte della redazione si è acceso per una fuga di notizie che rimangono in penombra: presto ci saranno cambi di guardia e giri di poltrone tra le più alte cariche dello Stato russo. L’epicentro di questo terremoto giornalistico è tra i desk del giornale fondato da Vladimir Yakovlev, primo quotidiano economico russo dal 1992, una leggenda con un motto preciso: “a my krepcaem”, e noi siamo forti. Il giornalista d’inchiesta Ivan Safronov e il collega Maxim Ivanov sono stati licenziati perché “hanno violato gli standard editoriali” del giornale, dice la direzione, senza specificare quali.

“Valentina Matvienko viene forzata alla pensione”. La causa è tutta da ritrovare in questo articolo del 18 aprile scorso, che cominciava con un gioco di parole sulla lady di ferro del Cremlino: secondo l’esclusiva del giornale, la Matvienko stava per diventare capo della gestione del fondo pensione russo, cedendo la sua carica al Consiglio della Federazione al capo della Svr, agenzia intelligence straniera, a Sergey Naryskin.

Un mese fa Safronov e Ivanov pubblicano questa fragile e inaspettata verità, che ha però molte conferme tra fonti anonime governative, con altri tre autori: Natalia Korcenkova, Anastasia Manuilova, Oleg Sapozkov. Il pezzo va in stampa ma l’informazione resta sottotraccia, inesplosa, mentre i vertici del potere diventano furibondi. La Matvienko, prima ancella del putinismo militante, si sarebbe lamentata di persona della fuga di informazioni richiedendo i nomi delle fonti dei reporter, che replicano con un duro silenzio. La voce che ha spiegato la scelta dei licenziamenti è stata quella del redattore capo Vladimir Zeleonkin, ma la volontà è quella del proprietario del giornale Alisher Usmanov, 37esimo uomo più ricco al mondo, per Bloomberg. Nato in Uzbekistan, un passaggio nell’associazione della commissione sovietica per la pace in gioventù, finito in prigione per frode in Unione Sovietica, trascorrerà in cella sei anni prima di diventare uno degli oligarchi più vicini al presidente. Diventato ricco con lo sfruttamento dei metalli, ricchissimo con quello dei minerali, ha allungato le sue branchie in Gazprom, fino alla squadra Arsenal e al colosso Facebook. “La storia va avanti da un mese, ora Usmanov con il suo yatch è tornato dalla Sardegna. Siamo un’azienda i cui assetti lui comanda come desidera: non c’è da farsi illusioni sulla non interferenza editoriale. Se Usmanov vuole licenziare un dirigente di Metalloinvest o Megafon, che sono di sua proprietà, quel dirigente è fregato. È il proprietario e decide” ha scritto Safronov.

A Mosca le parole valgono quanto i fatti, se non di più. Ora ci sono bocche chiuse e un commento di Safronov su Facebook. “Guardandoci indietro ci siamo chiesti se avremmo investigato ancora la storia, viste queste conseguenze. Era un tipo di storia da Kommersant, se potessi io la scriverei di nuovo”.

“Abbiamo detto no a Macron per rispettare la par condicio”

Da alcune ore c’è chi li definisce resistenti, chi persino eroi. Sono i direttori di due grandi quotidiani regionali francesi, Le Télégramme e La Voix du Nord, che hanno boicottato l’invito dell’Eliseo a intervistare in esclusiva Emmanuel Macron a qualche giorno dalle elezioni europee.

L’invito era stato inviato a diverse testate locali e la maggior parte ha accettato. Lunedì pomeriggio il presidente ha dunque incontrato un gruppo di otto giornalisti e l’intervista è stata pubblicata il giorno dopo tra l’altro su Ouest-France e Le Parisien.

A dire no a Macron sono state due testate “storiche”. Le Télégramme è il quotidiano bretone, fondato nel 1944, con sede a Morlaix. La Voix du Nord è il grande quotidiano del nord operaio, con sede a Lille, nato nel 41 come foglio clandestino della resistenza. Sono entrambi di gauche e entrambi vendono più di 200 mila copie ogni giorno. “Un’intervista si può rifiutare, non è un gesto eroico”, ha risposto il direttore del Télégramme, Hubert Coudurier, sentito da France Info, di fronte a tante reazioni. Per lui il punto è: “non perdere la propria identità”. Se i due giornali hanno rifiutato di intervistare Macron è stato innanzi tutto per rispetto del tempo di parola in vista dello scrutinio di domenica. “Dal momento che il presidente interveniva in sostegno a una lista, altri candidati avrebbero potuto pretendere lo stesso trattamento. Abbiamo preferito rispettare l’equilibrio”, ha spiegato Gabriel d’Harcourt, direttore di La Voix du Nord. Nel suo editoriale Le Télégramme ha scritto: “Chiediamo regolarmente interviste ai nostri governanti. Talvolta le richieste vengono accettate, altre rifiutate. Il tempo in cui è il giornale ad aspettare la parola pubblica e quello in cui sono i nostri dirigenti a voler pesare sul dibattito non sono sempre compatibili. Ciascuno è padrone del proprio calendario. È questa semplice libertà che rivendichiamo”.

Macron si è infatti speso in prima persona nella campagna per le Europee, che in Francia sembra riprodurre il duello tra il suo partito La République en marche, e il Rassemblement national di Marine Le Pen, proprio come alle presidenziali del 2017. Per mesi i due partiti sono stati testa a testa nei sondaggi ma, per la prima volta, l’ultimo studio Elabe ha registrato un leggero sorpasso di Rn (23,5% contro 23% per Lrem). Il volto di Macron figura quindi sui manifesti di campagna per appoggiare la candidatura di Nathalie Loiseau, trasparente capolista Lrem. “Non posso restare spettatore”, ha detto lui stesso ai giornali locali che lo hanno intervistato. La par condicio però non è la sola ragione del rifiuto.

I due giornali si sono opposti anche ad una vecchia pratica, molto diffusa in Francia, per cui presidenti, ministri e tutti i responsabili politici rileggono e correggono le interviste rilasciate prima della loro pubblicazione. Un’usanza a cui il giornale di Lille si è già opposto in un editoriale coraggioso del gennaio 2018: “Finora, come la quasi totalità dei nostri colleghi, accettavamo la rilettura. Ma nella maggior parte dei casi – scriveva all’epoca il caporedattore Patrick Jankielewicz – questa si trasforma in esercizio di riscrittura. Prendiamo dunque le distanze dai politici”. Il direttore Gabriel d’Harcourt ha confermato ieri la posizione del giornale: “Ci siamo impegnati con i nostri lettori. È una questione di coerenza, non c’è motivo che il presidente della Repubblica faccia eccezione”. Nel pieno della polemica, fonti dell’Eliseo hanno riferito a Le Monde che la rilettura dell’articolo non era stata imposta alle redazioni: “Gli altri gruppi della stampa quotidiana hanno accettato il principio, ma se avessero detto di no, l’intervista sarebbe stata fatta comunque”.

Urne contestate, sei vittime e decine di feriti negli scontri

Sei morti e centinaia di feriti: è il drammatico bilancio all’indomani delle proteste in Indonesia, a Giakarta, secondo quanto riferito dal governatore della capitale Anies Baswedan. I tumulti sono incominciati a seguito all’ufficializzazione della riconferma di Joko Widodo alle elezioni presidenziali del mese scorso: in molti erano i sostenitori del suo oppositore Prabowo Subianto, che promuoveva il nazionalismo e il conservatorismo islamico, e dopo aver appreso la sua sconfitta si sono radunati in una folla che avrebbe dato fuoco a un dormitorio della polizia e ad alcune automobili parcheggiate utilizzando bombe molotov.

Nel duro scontro innescato con le forze dell’ordine, in seguito al quale sono state arrestate 60 persone, sono stati scagliati anche i lacrimogeni: nonostante la polizia, neghi di aver utilizzato la forza per disperdere i manifestanti. Il ministro della sicurezza indonesiano ha annunciato che i social media saranno bloccati in alcune zone di Giacarta, come misura di prevenzione per le proteste ancora in corso. Su Twitter, alcuni indonesiani riportano che Whatsapp, Instagram e Facebook sono già fuori uso, se non si utilizza una connessione Vpn. Durante la campagna elettorale erano state sollevate ombre sull’operato di Widodo, accusato dall’altro candidato di brogli fin dalla pubblicazione dei risultati parziali; accuse che fanno eco a quelle del 2014, quando lo stesso Prawobo riteneva la vittoria del suo avversario unicamente legata a diffuse irregolarità. Argomentazioni smentite dagli osservatori internazionali, che hanno confermato in entrambi i casi la legittimità dei risultati: alle elezioni di aprile, Widodo ha preso il 55,5 per cento dei voti per contro il 44,5 per cento ottenuto da Prawobo. Il quale, intanto, ha annunciato che presenterà ricorso alla Corte costituzionale.

Giordania, il Trono di Spade conteso da Trump e Ryad

Il cielo sopra Amman è grigio, un velo trattiene la luce estiva di solito accecante. Grava come una cappa che ancora non è chiaro se vada verso il sereno o verso un brusco temporale estivo. Un clima che appare speculare all’atmosfera di intrigo internazionale che si respira nel regno hashemita, debole e fragile, di fronte al nuovo volto che Stati Uniti e Arabia Saudita vogliono dare al Medio Oriente – in accordo di Israele – a scapito degli impegni internazionali.

L’Accordo del secolo sul Medio Oriente – che finalmente verrà rivelato dalla Casa Bianca a fine mese – potrebbe seriamente destabilizzare il regno e avere implicazioni a lungo termine, mettendo in pericolo il trono del 43esimo discendete del Profeta. La tensione è alta, facilmente percepibile nelle strade della Capitale, affollate sempre di militari. Persino nei caffè eleganti di Rainbow Street si parla solo del complotto sventato contro il re all’inizio del mese.

Se un sovrano moderato come Abdullah di Giordania nell’arco di una settimana cambia il capo dei servizi segreti, i consiglieri per l’Antiterrorismo e la politica della sicurezza interna, molti consulenti senior del Palazzo Reale, nove comandanti regionali su dieci dell’Esercito, significa che sta accadendo qualcosa di grave, che le spire del complotto di cui parla si stanno stringendo attorno al re e al suo entourage. Abdullah ha anche ottenuto rapidamente le dimissioni di 7 ministri nei giorni successivi. Poco o niente è trapelato dalle mura del Palazzo Reale ma nelle strade di Amman la tensione è palpabile. Chi trama contro il re? Quale longa manus ha concepito il complotto? Le indiscrezioni su questa spy story raccontano di diverse autorevoli personalità giordane che hanno cospirato per organizzare manifestazioni di massa e sostituire il primo ministro Omar Azzaz con qualcuno più favorevole all’Accordo del secolo del presidente Trump, che promette miliardi di dollari in cambio del “sì” del sovrano giordano. La vicenda resta ancora fumosa, ma secondo le ricostruzioni, il Palazzo Reale è convinto che i funzionari rimossi sostengano l’Accordo del secolo e sospetta che Stati Uniti e Israele li stessero “manovrando” per modificare la posizione negativa del re sulla proposta della Casa Bianca. Molti però guardano con occhi sospettosi anche verso Ryad, dove Mohammed bin Salman – reggente di fatto dopo che il padre Salman è stato colpito da un ictus tre anni fa – è pienamente in sintonia, per metodi sbrigativi e obiettivi da raggiungere con Donald Trump.

La Giordania è il Paese chiave per la realizzazione dell’Accordo del secolo proposto da Trump, che sarà finalmente svelato nel vertice in Bahrein in giugno. Il re giordano è formalmente il custode dei Luoghi Santi di Gerusalemme, impegnato a sostenere la formula dei “Due Stati” con la parte Est della Città Santa futura capitale dello Stato palestinese. Una condizione che Trump e il premier Benjamin Netanyahu hanno invece da tempo completamente eliminato dal tavolo delle trattative in un crescendo culminato nello spostamento dell’ambasciata Usa da Tel Aviv alla Città Santa. Se il sovrano accettasse l’Accordo del secolo – in cambio del fiume di dollari americani per sanare il deficit dello Stato – si troverebbe senz’altro di fronte a proteste di piazza, manifestazioni e tumulti. Sono oltre 3,5 milioni di palestinesi che vivono in Giordania e potrebbero far esplodere la loro rabbia per il “tradimento” del re.

Al vertice in Bahrein sarà presentata la contropartita economica offerta ai palestinesi dell’Anp – prima tappa in attesa del pacchetto “politico” promesso da Trump –. A fianco delle reazioni positive di Arabia Saudita e Emirati Arabi Uniti ci sono state quelle gelide dell’Anp di Abu Mazen, quelle silenziose dell’Egitto, quelle allarmate della Giordania. Accettare il piano Usa conoscendo solo la contropartita economica – che comunque è solo teorica – senza conoscere la parte politica dell’Accordo del secolo è un suicidio per chi ospita tanti profughi palestinesi come la Giordania.

Ecco perché il sovrano hashemita suda freddo ma tira dritto. Il re ha una parola sola ed è “no” al piano americano.

Salvo la storia o smonto le fake? Un comma 22 democratico

Scusandoci, confesseremo che solo ieri l’appello “la storia è un bene comune: salviamola” ha violato, diremmo con Gadda, il cerchio doloroso della nostra appercezione. Trattasi del vibrante allarme di tre alte personalità della cultura (i due Andrea, Camilleri e Giardina, con la senatrice Liliana Segre) diffuso su Repubblica e firmatissimo: “Si costruiscono fantasiose contro-storie; si resuscitano ideologie funeste” e intanto “la storia è già soffocata”. Ansiosi come siamo di cultura comm’il faut, abbiamo subito aderito: perbacco, no pasaran! Poi ci siamo chiesti: ma che è successo? Questo: la riforma della “maturità” da quest’anno cancella il tema di storia, ma prevede che tracce di argomento storico possano esserci in due delle tre prove scritte. E chi è il responsabile di questo scempio? Il gruppo di studio creato dall’ex ministra Fedeli e guidato da uno dei più importanti storici della lingua italiana, Luca Serianni: l’idea, peraltro, era nata dall’altrettanto vibrante appello di 600 tra i meglio intellò italiani sui ragazzi che “scrivono male, leggono poco e faticano a esprimersi”. Serianni & C. hanno dunque suggerito prove che orientassero l’insegnamento alla capacità di comprendere e scrivere un testo in modo da “far crescere cittadini consapevoli in grado di difendersi dalle fake news”, spiegò l’accademico a Repubblica. E qui, la crisi: ma quindi se salviamo la storia aumentano le fake news? E allora – benedetto sia Veltroni – firmeremo per salvare la storia, ma anche per la nuova maturità: firmiamo tutto, democraticamente, per carità.

La “rivoluzione” ambientalista nelle urne europee

Nell’anno di Greta Thunberg, la sedicenne svedese assurta a eroina e simbolo dello sviluppo sostenibile e della lotta al cambiamento climatico, le elezioni europee sferzate dal vento del nazionalismo potrebbero tingersi di verde in diversi Paesi dell’Unione, premiando i partiti ambientalisti soprattutto nelle fasce dell’elettorato più giovane. Molte saranno le “matricole” di questo voto: in Italia, 5,8 milioni di ragazzi fino a 23 anni che andranno alle urne la prima volta per il Parlamento di Strasburgo e 1,1 milioni di diciottenni esordienti in assoluto. Di fronte alla contrapposizione fra sovranisti e anti-sovranisti, gli ecologisti offrono un’alternativa possibile e suggestiva alle ansie di futuro che – dall’ambiente al lavoro – attanagliano le nuove generazioni. E benché gli ultimi sondaggi attribuiscano ai Verdi italiani una quota elettorale intorno al 3%, per la lista guidata da Pippo Civati e Angelo Bonelli, l’alto numero degli indecisi costituisce una riserva potenziale di consenso in grado di riservare forse qualche sorpresa.

È soprattutto l’ancoraggio ai temi concreti della vita reale, a cominciare proprio dall’emergenza ambientale, che può attrarre gli elettori più giovani verso le formazioni ecologiste. Meno compromessi e logorati dall’esercizio del potere, i Verdi si presentano generalmente come una “nuova forza” della società contemporanea, più sensibile e consapevole dei rischi che incombono sulla sopravvivenza della Terra e del genere umano. La sostenibilità è l’ideologia che li accomuna, in difesa dell’ecosistema e della salute collettiva.

C’è indubbiamente una componente di idealismo e di romanticismo nel loro orientamento, ma è proprio questo il fattore che attira le aspettative di chi per ragioni anagrafiche ha ancora tutta la vita davanti a sé. Noi adulti possiamo anche peccare di egoismo e di cinismo, tanto non faremmo in tempo ad assistere alla fine del mondo. Ma i giovani no, loro hanno tutto il diritto di rivendicare condizioni migliori per sé e per i propri figli, combattendo l’inquinamento del pianeta e il surriscaldamento globale. E la prossima giornata del 24 maggio, dedicata alla manifestazione sul clima in tutt’Italia, sarà un test per misurare questo stato d’animo diffuso a livello generazionale ed emotivo.

Non sono certamente i Verdi a detenere l’esclusiva politica dell’ambientalismo. Altri partiti e altri movimenti, come in Italia i Cinquestelle e lo stesso Pd, coltivano sensibilità, esperienze e culture d’ispirazione ecologista. Ma all’interno di uno schieramento democratico e progressista più largo queste istanze possono integrarsi reciprocamente e trovare utili sinergie per costituire un fronte alternativo, incardinato su un nuovo modello di sviluppo: più equo, solidale e sostenibile.

Basta scorrere l’elenco delle “12 priorità per cambiare l’Europa”, proposte dal programma elettorale dei Verdi, per verificare l’opportunità di una convergenza su altrettanti obiettivi fondamentali: ambiente, economia, welfare, giustizia, migranti, mobilità, salute, alimentazione, istruzione, lavoro, donne e pace. Sono parole d’ordine che possono anche rischiare di rimanere sulla carta, se non fossero condivise da un’aggregazione di forze politiche e sociali determinate a realizzare i contenuti e le azioni che implicano. Ma, a ben vedere, queste 12 priorità tracciano un solco fra chi vuole davvero “cambiare l’Europa” in nome dell’ambientalismo a favore della collettività e chi invece vuole cambiarla all’insegna degli interessi e degli egoismi nazionali. La difesa della Terra, la lotta all’inquinamento e al cambiamento climatico avranno tante più possibilità di successo se l’Unione che uscirà da queste elezioni sarà capace di assumere la leadership di una “rivoluzione verde” su scala globale.

Dopo la strage di Capaci nasce pure la speranza

Inghiottiti da una devastante esplosione, nel territorio del Comune di Isola delle Femmine, il 23 maggio 1992 morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani, in otto rimasero feriti. Cosa rappresentò quell’attentato, che fu presentato al mondo come la strage di Capaci? A distanza di 27 anni sappiamo chi ha agito e perché? Fu l’atto terroristico eversivo più eclatante, per quantità di esplosivo impiegato e per effetti prodotti, compiuto dalla mafia nel nostro Paese, che aprì, però, la stagione della speranza.

Sebbene in molti sembrano averlo dimenticato, negli anni 90, coloro che parteciparono all’azione militare (ricostruita con estrema precisione in tutte le fasi), idearono e deliberarono l’eccidio, in seno a Cosa Nostra, sono stati individuati, catturati (ponendo fine a storiche latitanze), processati nel pieno rispetto delle garanzie. Venne svolto – e posso dirlo per avervi intensamente contribuito dal maggio 1994 alla fine di ottobre 2000 – un lavoro enorme da parte delle componenti più virtuose dell’apparato repressivo dello Stato, che portò alla confessione della loro partecipazione e alla piena collaborazione di 7 mafiosi dal 24 ottobre 1993 al 18 luglio 1996, che hanno prodotto un effetto di trascinamento verso altri uomini d’onore che hanno seguito l’esempio, dando vita alla più feconda, per qualità e numeri, stagione di collaborazioni con la giustizia, che hanno consentito anche di fare luce su centinaia di omicidi e delitti. Si sono rese necessarie due pronunce della Corte di Cassazione (il 30 maggio 2002 e il 18 settembre 2008) per consolidare gli sforzi investigativi: 29 ergastoli e 9 pesanti pene detentive, che hanno reso definitivo il carcere e il regime detentivo del 41 bis O. P. (introdotto dopo la strage di via D’Amelio), la confisca dei patrimoni dei responsabili, nonché di individuare e sequestrare i loro più forniti arsenali di armi ed esplosivi (quelli di contrada Giambascio e Malatacca nel Palermitano). Per la prima volta, sono stati riconosciuti colpevoli, per aver ideato e deliberato l’eccidio, i componenti della commissione regionale, il massimo organismo di vertice del sodalizio mafioso. Sono stati individuati plurimi moventi: il sentimento di vendetta per punire Falcone per quanto aveva fatto negli uffici palermitani quale giudice istruttore, prima, e poi quale Direttore Generale degli Affari Penali; la finalità preventiva, vale a dire bloccare la sua attività successiva; il proposito di riannodare quel rapporto politico-imprenditoriale-mafioso che si stava sfaldando, che per essere colto a pieno ha imposto di inquadrare l’attentato nella più ampia strategia in cui si è inserito, posta in essere dal 1992 agli inizi del 1994. È stato dimostrato che i vertici mafiosi, durante la fase preparatoria e successivamente alla strage, hanno agito nell’ambito di trattative avviate con esponenti delle istituzioni e si sono intraviste zone d’ombra, nel cui ambito si collocano interessi convergenti di soggetti esterni a Cosa Nostra.

La giustizia ha dimostrato di poter funzionare con maggiore efficacia rispetto all’azione di Cosa Nostra, cancellando la certezza antica del mafioso: l’impunità, che aveva vacillato con l’esito del maxi-processo (del 30 gennaio 1992), che aveva visto proprio in Falcone e Borsellino gli elementi trainanti. Per usare una metafora, il bicchiere della verità non solo è mezzo pieno, ma quasi pieno. Per questo occorre ancora investigare, non solo nell’ambito giudiziario ma anche sul terreno politico (con una commissione d’inchiesta) e storico, per dare risposta ai quesiti rimasti inevasi: perché alcuni supporti informatici in uso a Falcone vennero cancellati, dopo la sua morte? Come mai venne rinvenuto sul luogo teatro della strage un bigliettino con dati inerenti a una delle strutture dei Servizi Segreti italiani? Perché vi fu l’accelerazione della strage di via D’Amelio e, soprattutto, perché il disegno stragista si fermò agli inizi del 1994?

Renzi&Calenda, la reunion degli ego

Ci perdonerete se ogni tanto ci occupiamo di fenomeni non strettamente legati all’attualità, di personaggi negletti e di vicende frivole, bizzarre o curiose. Abbiamo appreso via social che l’altra sera un senatore del Pd, Matteo Renzi, e un candidato alle Europee col Pd, Carlo Calenda, si sono dati appuntamento presso l’Auditorium Fondazione Cariplo di Milano (poi dite che questi neo-liberisti non sanno stare in mezzo alla gente e nei luoghi popolari; appena sotto c’era una fraschetta di Ariccia) per parlare di politica.

I due uomini più permalosi se non della Storia almeno di Twitter – la bolla virtuale dentro cui essi ormai vivono e dove risiede il principio metafisico della loro genialità – si stanno costituendo, pare, in una specie di bad company del Pd di cui naturalmente sarebbero entrambi amministratori delegati – ciò per evidenti meriti acquisiti sul campo nel biennio in cui hanno lavorato insieme alla crescita e alla prosperità del Paese.

Abbiamo recuperato alcuni spezzoni della “reunion” (copyright dei due battutisti), anche perché il teatro era pieno e molta gente è rimasta fuori dai cancelli sotto la pioggia (Flaiano: “In Italia non basta avere successo, bisogna anche non meritarselo”). In uno di questi Calenda urla da far venir giù le balconate: “La prossima volta non ci si vede in un posto chiuso, ci si vede in una piazza! Perché a furia di aver paura di riempire le piazze lasciamo le piazze semivuote a quegli altri!”. Come sappiamo, infatti, il problema di Calenda è proprio l’eccesso di popolarità: quando si muove lui, bisogna deviare il percorso degli autobus, c’è rischio che si blocchi il traffico, la Prefettura l’ha proprio sconsigliato di organizzare un comizio a piazza del Popolo per evitare problemi di ordine pubblico, lui che non è riuscito a organizzare nemmeno una cena perché mancava il numero minimo di partecipanti per definirla tale e non confonderla con un casuale incontro in ascensore.

Negli altri, ci spiace per la giovane promessa Calenda, è Renzi a rifulgere. Sì, Renzi, la Xylella del Pd, l’unica alternativa ai populisti per manifesta superiorità. Parlando in piedi tipo guru motivazionale, mostra la sua caratura da oratore ciceroniano, certamente affinata dopo mesi in giro per il mondo come conferenziere costosetto: “L’Italia non conta più un’emerita cippa!”. Rieccolo, Lo spettacolo d’arte varia di uno innamorato di sé. Si arrabbia, poi di colpo si fa conciliante, ciarliero, gesticola, ansima camminando su e giù tipo il Beppe Grillo anni ’80-’90, fa il sussurro, il grido, la vocina sfiatata per provocare l’anti-climax e dunque il riso: “Ma come si fa…?”.

La sua comunicazione politica è tarata su due misure: la rivendicazione e l’insulto: “Luigi Di Maio alias l’incompetente… Intanto è apprezzabile che abbia azzeccato il congiuntivo!”. Le risate del pubblico lo fomentano, in questa Leopoldina con la twitstar confindustriale, e riappare il Renzi caustico, giovanile, aggiornato sui meme dei social: “Noi abbiamo capito che Salvini è diventato così perché gli hanno rubato il pupazzo di Zorro. E a Di Maio che pupazzo hanno rubato? La Barbie? Coccolino? Topo Gigio?”. Standing ovation. Ma, come ogni comico assoldato da una pro-loco per la serata clou della Sagra del lampredotto, Renzi sa che alle risate bisogna far seguire un momento di riflessione. Ce l’ha col presidente del Consiglio: “C’è da domandarsi come l’ha (sic) vinto il concorso, ma siccome lo sappiamo come ha vinto il concorso non ce lo domandiamo che si fa prima” (se Conte avesse aperto anche lui una mail in cui i cittadini possono spifferargli di eventuali diffamazioni ad opera di terzi, oggi avrebbe il suo bel da fare).

Renzi, un tempo cantore del futuro, vive nel passato; non riesce a parlare di niente che non sia sé stesso (l’altro ieri su Twitter ha commemorato Nicky Lauda citando una frase del pilota: “Quando ce la fai sono tutti con te, quando perdi li hai tutti contro. In mezzo non c’è niente”, laddove, proiettando moltissimo e freudianamente, “niente” sarebbe il governo del Paese). Ma la parte satirica destruens non deve occultare che nell’asse Renzi-Calenda c’è una forte “proposta”, un forte “argine”, un forte impegno a “restare umani” contro Salvini. Certissimamente: infatti il reato di immigrazione clandestina esiste ancora perché all’epoca Renzi si rifiutò di portarlo in Cdm, nonostante gli appelli dei magistrati che lo definivano un reato “dannoso e inutile”, per rispondere a “una percezione di insicurezza” e non cedere al “buonismo esasperato”, cioè per non perdere voti.

Comunque, seguiremo da vicino gli sviluppi della reunion di questa strana coppia: non sappiamo voi, ma noi gli daremmo una chance.

PS A fine spettacolo, mentre la folla si avviava ordinatamente verso l’uscita, gli ego dei due protagonisti sono stati fatti defluire sul retro per non creare disordini.

Mail box

 

La disobbedienza, in alcuni casi, può essere una virtù

Rispondendo a un lettore a proposito del caso del cardinale Konrad Krajewski che ha rotto i sigilli al contatore della luce in un edificio di Roma occupato e moroso, Corrado Augias ha scritto: “Uno Stato di diritto quale il nostro non può avere come punto di riferimento le accuse mosse a Gesù dal procuratore Ponzio Pilato e dal Sinedrio. I nostri parametri di riferimento devono essere le leggi, integrate semmai da opportuni strumenti e istituti assistenziali. Dunque, bene il gesto di rompere i sigilli posti al contatore di utenti morosi ma a patto di riconoscerne l’eccezionalità, il valore simbolico d’urgenza integrato dalla promessa dello stesso cardinale di provvedere al pagamento delle bollette arretrate” (“Violare la legge per un fine superiore”, Repubblica, 17.05.2019). Sono d’accordo con il principio secondo cui, in generale, le leggi devono essere il nostro parametro di riferimento e che i gesti come quello del cardinale Krajewski devono essere accettati a patto di riconoscerne l’eccezionalità. Ma bisogna tenere presente che viviamo in un’epoca particolare nella quale la legge spesso viola i principi fondamentali della solidarietà e dell’uguaglianza. In questa ottica i gesti come quelli di Mimmo Lucano, di Leoluca Orlando (che sfidando il decreto sicurezza ha fatto iscrivere all’anagrafe del Comune di Palermo 40 migranti) o delle Ong che salvano in mare i migranti in pericolo di vita vanno apprezzati. Va cioè accolto l’appello della resistenza civile fatto dal costituzionalista Gustavo Zagrebelsky: “A chi esalta la forza si opponga la mitezza, alla violenza la solidarietà, fino alla disobbedienza che può essere una virtù”.

Franco Pelella

 

Caro Pelella,
condivido tutto quel che scrive, con l’eccezione dei sindaci: i politici ufficiali le leggi devono applicarle e farle rispettare, non vantarsi di calpestarle. Se non le condividono, prima devono dimettersi e poi fare disobbedienza civile da privati cittadini.

M. Trav.

 

I tempi sono bui, ma gli italiani non sono stupidi

Non ne posso più di Salvini che bacia i rosari, di Di Maio and company che non sanno più che pesci prendere e sparano cavolate a raffica, degli oppositori che altro non fanno se non “sfilare in corteo colorato” sotto pioggia o sole che dir si voglia. Avevo sperato nelle lenzuolate sui balconi, ma poi si è visto che dietro c’è la solita compagnia di giro, niente è genuino. Però qualche commento che fa centro si trova e voglio condividerne uno che mi ha molto divertito. A proposito del lenzuolo esposto da “Zorro”, un lettore commentava: “Come è ingrassato Zorro, vuoi vedere che adesso fa il sindacalista”?

Gli italiani non sono stupidi, non è motivo di conforto? In questi tempi bui…

Paola Zucca

 

Caso Cucchi, un danno per la famiglia e per l’Arma

L’Arma, il ministero della Difesa, Palazzo Chigi e il Viminale hanno presentato istanza di costituzione di parte civile nel processo che vede coinvolti otto carabinieri accusati di depistaggio sul caso della morte di Stefano Cucchi e che intralciarono le indagini a vario titolo. Ma la legalità e il rispetto delle regole non hanno colore o fazione. Appartengono a tutti. E i carabinieri che hanno commesso i reati contestati hanno anche cagionato un grave danno patrimoniale e morale alle istituzioni. Abusando della loro posizione. Una conciliazione dal grande valore simbolico. Perché nessuno, nè la famiglia di Cucchi nè l’Arma dei Carabinieri, meritavano ciò che è successo. E i responsabili devono pagare penalmente per le loro colpe.

Cristian Carbognani

 

Al seggio penso prima al bene del Paese, poi a me

Per uno con le mie idee sarebbe naturale votare, alle prossime Europee, la sinistra a sinistra del Pd; tuttavia, con mio sommo rammarico, sento che questa volta votare queste briciole sia del tutto inutile. Sarebbe facile votarli per tacitarmi la coscienza, per non sentirmi in colpa dopo, ma sento il dovere di dare il mio contributo a qualcosa di un po’ più importante. L’Italia non può rimanere con quasi 50 seggi all’opposizione, nell’Europarlamento. In questo caso, allora sì che cominceremmo a non contare niente, a venire isolati sul serio, e io non penso sia una possibilità accettabile. Prima della coscienza, io metto la responsabilità. Più preferenze prenderà il M5S, meno ne prenderà l’odierna maggioranza Ppe-Pse. Prima di tutto viene il bene del mio paese; non ci posso fare nulla, lo sento come mio dovere. Io penso che, anche stavolta, il M5S sia il minore dei mali e con loro ci sia una piccola chance di fare qualcosa di buono, cosa che non avverrà se il Pd avesse successo.

G.C.

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo pubblicato ieri “Il sonno dello Stato genera corrotti” manca un nome: quell’“uno dei più lucidi storici dell’amministrazione” è il professor Guido Melis, docente alla Sapienza e autore di numerosi volumi sulla macchina burocratica come Fare lo Stato per fare gli italiani (Mulino). Melis scrisse quanto ho riportato su Rassegna sindacale nel 2012. Me ne scuso con gli interessati e con i lettori.

Vittorio Emiliani

Ambiente. “Chi inquina di più è la Cina: smettiamo di importare i suoi prodotti”

Perché non sento nessun ambientalista parlare di quanto sia inquinante far produrre tutto in Cina per poi trasportare fino qui? La Repubblica Popolare produce, da sola, più anidride carbonica di Stati Uniti ed Europa messi assieme, non dovendo rispettare tutte le normative che ci siamo autoimposti qui in Europa. Spostare le produzioni là per poi limitarsi a rivendere qui decuplicando i prezzi distrugge al tempo stesso la nostra economia e l’ambiente. Le fabbriche vengono sostituite da magazzini pieni zeppi di prodotti made in China e poi ci lamentiamo di crisi e disoccupazione. Le emissioni prodotte da una sola grande nave trasporto container sono pari a 50 milioni di veicoli. Ci si preoccupa del blocco delle auto la domenica e non si fa nulla per arginare l’invasione sregolata di merci. Il commercio è la base dell’economia ma deve essere fondato su reciprocità e regole condivise. Nessuno di questi presupposti viene garantito dalla Cina, che impone pesanti dazi e restrizioni alle nostre produzioni. Da un punto di vista scientifico la scelta più ambientalista che potremmo fare è quella di produrre e consumare italiano.

Diego Faletti

 

Gentile Diego, le sue riflessioni sono sensate ma stabilire che gli altri inquinano quindi è inutile preoccuparsi di quanto inquiniamo noi è pericoloso. Vediamo i dati: nel 2017 la Cina era responsabile del 28,2 per cento delle emissioni globali, gli Stati Uniti del 16 per cento, l’India del 6,2. Per trovare un Paese europeo bisogna arrivare alla Germania, che vale soltanto il 2,3. Le cose però cambiano in fretta. Il Partito comunista cinese ha deciso che le questioni climatiche rischiavano di inasprire le tensioni sociali. E ha deciso che la Cina doveva smettere di fare da pattumiera del mondo e così, per esempio, ha smesso di accettare la parte non riciclabile dei rifiuti di carta e cartone che ora deve essere smaltita in Occidente (o in discarica o negli inceneritori). Anche l’inquinamento metropolitano pare sia sceso molto.

Illudersi che per risolvere problemi globali basti fare una spesa responsabile significa lasciare ad altri la gestione di queste grandi trasformazioni: sia pure a fatica e molto lentamente, l’industria si sta evolvendo in una direzione più verde, a basso impatto. Possiamo imporre noi gli standard o subirli dai cinesi. Ma rinunciare a sviluppare tecnologie, ricerca e imprese più pulite equivale a combattere le conseguenze sull’occupazione del cambiamento tecnologico tornando a scrivere con penna e calamaio invece che con lo smartphone.

Stefano Feltri