Incursione nera alla Rai: a settembre il processo contro l’editore di Salvini

Per Francesco Polacchi, titolare della casa editrice Altaforte, che ha pubblicato il libro intervista a Matteo Salvini, il processo per un’irruzione in Rai nel 2008 contro Chi l’ha visto? inizierà il prossimo 23 settembre. Titolare anche della Pivert, i cui vestiti piacciono al ministro dell’Interno, solo pochi giorni fa Polacchi è stato espulso dal Salone del Libro per alcune affermazioni fatte sul fascismo durante un’intervista e poi è finito indagato per apologia di fascismo a Torino. Intanto a Roma, imputati con lui per violenza o minaccia a incaricato di pubblico servizio, ci sono altre 11 persone. Tra loro il presidente di CasaPound Italia Gianluca Iannone, il segretario nazionale Simone di Stefano e il vicepresidente Andrea Antonini.

È stato Il Fatto, il 15 maggio, a ricordare come da anni questo fascicolo giacesse in attesa della fissazione dell’udienza. Infatti era il 2010 quando la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per i 12. Il fascicolo, con la Rai parte civile, arriva per la prima volta davanti al Gup nel marzo del 2011, quando si stabilisce che per il reato contestato bisognava andare subito a giudizio davanti al giudice monocratico senza il filtro dell’udienza preliminare. Dal 2011 non succede nulla, neanche quando nel 2017 la Procura sollecita la fissazione del processo. Solo pochi giorni fa, e dopo l’articolo del Fatto, è stata fissata la data. La vicenda, per la quale sono imputati i massimi dirigenti di CasaPound, risale alla notte tra il 3 e il 4 novembre 2008 quando un gruppo di circa 25 persone poco prima dell’una di notte entra negli uffici del palazzo Rai, in via Teulada, a Roma. Un testimone racconterà di aver sentito dire che ce l’avevano con Chi l’ha visto?.

Infatti due ore prima, la conduttrice Federica Sciarelli aveva mostrato alcune immagini sugli scontri avvenuti il 29 ottobre 2008 durante una manifestazione contro la riforma Gelmini. Fino a quel momento i Tg avevano parlato solo dei militanti di destra attaccati da quelli di sinistra. Il programma su Rai3 invece mise in onda l’altra parte della medaglia: le riprese di scontri a colpi di cinghia contro i militanti di sinistra. Proprio per i fatti di Piazza Navona, nel giugno 2017 sono arrivate le condanne in primo grado (la sentenza è stata appellata) per 15 persone (di entrambe le parti). Tra loro c’è Polacchi al quale è stata inflitta una pena di un anno e 4 mesi, come pure per Davide Di Stefano, responsabile comunicazione di CasaPound e fratello del segretario. Quest’ultimo non è imputato per l’incursione in Rai, mentre Simone sì.

In ogni modo, le immagini di Chi l’ha visto? non devono esser piaciute molto agli estremisti di destra, che poco dopo irrompono in Rai. La tv di Stato sporge denuncia. La Procura di Roma indaga dodici persone per violenza o minaccia a pubblico ufficiale perché “al fine di conseguire per alcuni di loro e per terzi l’impunità per la partecipazione alle aggressioni e alla rissa verificatesi in piazza Navona il 29 ottobre, minacciavano giornalisti, redattori e registi di Chi l’ha visto?”. In particolare, continua il capo di imputazione, “in relazione e a seguito della trasmissione (…) nella quale venivano trasmesse immagini degli scontri del 29 ottobre in cui potevano essere riconosciuti alcuni dei partecipanti, facevano ingresso in gruppo compatto e con atteggiamento intimidatorio nella sede Rai, (…) alla ricerca – senza esito per l’allontanamento pochi minuti prima – di giornalisti e addetti. Spingendosi fino all’interno degli studi di regia, manifestando di ‘avercela con il programma Chi l’ha visto?’ e imbrattando i muri con ortaggi”.

Quella casa dei Servizi per i Nar (dopo la strage)

L’ultimo processo sulla strage del 2 agosto 1980, in corso a Bologna, deve decidere se anche Gilberto Cavallini è tra i responsabili del più cruento degli attentati neri italiani (oltre ai già condannati dei Nar Giusva Fioravanti, Francesca Mambro e Luigi Ciavardini). Ma potrebbe finire per decidere anche se su quegli 85 morti e oltre 200 feriti si allunga l’ombra degli apparati dello Stato. Cavallini, Fioravanti e Mambro avevano rapporti con uomini dei servizi segreti? È quanto chiedono gli avvocati che assistono l’Associazione dei familiari delle vittime, che ieri hanno depositato una memoria in cui si racconta la strana storia di un palazzo in una zona elegante di Milano, in via Washington 27. Due cose sono certe. La prima è che in un appartamento di via Washington 27 Mambro e Fioravanti sono stati ospitati dopo la strage di Bologna. La seconda è che in via Washington 27 aveva sede la Siati, Società Italiana Applicazioni Tecniche Industriali, società di copertura dell’Ufficio Rei del Sifar, il servizio segreto militare. Vi era domiciliato Vittorio Avallone, “elemento già in servizio al Sid”, il nuovo nome assunto dal Sifar nel 1965. Anzi, secondo una visura camerale depositata dagli avvocati insieme alla loro memoria, Vittorio Avallone è tutt’oggi residente in via Washington 27. E la Siati ancora oggi ha sede in via Washington 27.

Come ci arrivano, i neri di Fioravanti, in quel numero civico? È una storia che profuma di gangster anni Settanta. È Carla Martelli a offrire riparo a Valerio Fioravanti, Francesca Mambro e Dario Mariani, nel dicembre 1980. Erano tutti ricercati dai magistrati di Roma per le loro attività terroristiche. Carla Martelli è una delle femme fatales della banda Vallanzasca. Era la donna di Pino Di Girolamo, uno dei luogotenenti di Renato Vallanzasca, il “bel Renè”. Per questa ospitalità, Carla Martelli è stata condannata a 1 anno e 6 mesi per favoreggiamento. Aveva intestato un contratto di subaffitto a un’amica, Maria D’Auria, che era la donna di Vito Pesce, un altro degli gangster della banda Vallanzasca. Di Girolamo, però, aveva anche rapporti di altro tipo: era legato ad Adalberto Titta, considerato uno dei capi di una struttura segreta chiamata “Noto Servizio” o “Anello”. È l’oggetto più misterioso dell’eversione italiana, di cui si trovano tracce in molte vicende drammatiche: dal sequestro di Aldo Moro alla liberazione dell’assessore dc Ciro Cirillo rapito nel 1981 dalle Br, dai traffici di armi e di petrolio alla fuga nel 1977 del colonnello delle Ss, Herbert Kappler, dall’ospedale militare del Celio. Ora gli avvocati di parte civile Nicola Brigida, Andrea Speranzoni, Roberto Nasci, Antonella Micele, Alessandro Forti e Andrea Cecchieri offrono elementi che potrebbero collegarlo anche alla strage di Bologna. Già hanno segnalato, in una memoria precedente, che Cavallini aveva nella sua agendina telefonica dalla copertina nera il numero 342111, che corrispondeva a una “linea prova e lavoro Sip – Mi (Riservato)”, cioè a una sede coperta dei servizi segreti, in cui lavorava Luciana Piras, la moglie divorziata di Carlo Titta, legata sentimentalmente a suo fratello Adalberto Titta, il capo dell’“Anello”. Ora, nella nuova memoria, pongono una domanda: l’appartamento di via Washington 27 dove sono stati ospitati i neri, è lo stesso che faceva da sede coperta dei servizi?

Titta, l’uomo dei misteri, torna anche in questa vicenda. Perché Pino Di Girolamo, il boss della banda Vallanzasca compagno di Carla Martelli, dopo un conflitto a fuoco con i poliziotti in seguito a una rapina, è stato curato clandestinamente dal dottor Giovanni Mancini, medico della clinica milanese San Giovanni di Dio, che per questo è stato condannato per favoreggiamento, insieme a Carla Martelli. Ebbene: Mancini era legato all’“Anello”, tanto da aver eseguito nel 1978, insieme al chirurgo Pietro Bellinvia, l’intervento di chirurgia plastica ad Adalberto Titta che voleva cambiare volto. Lo prova la cartella clinica n. 649 allegata alla memoria.

Fili da annodare. Ci riusciranno l’ultimo processo e l’ultima indagine in corso, promossa della Procura generale di Bologna?

“Una giunta senza conflitti di interessi non è una giunta”

“Guardate che una giunta senza conflitti di interessi non sarebbe una giunta vera”. L’incipit è di Mattia Palazzi, sindaco Pd di Mantova, già nelle grazie dell’ex premier Matteo Renzi. La frase viene estrapolata da una chat di Whatsapp chiamata “giunta”. Il passaggio è messo agli atti del procedimento per la tentata concussione sessuale e per l’abuso d’ufficio. Due filoni finiti entrambi con un’archiviazione per il primo cittadino. Nel frattempo, due giorni fa, la Digos ha arrestato Lorena Buzzago, ex maestra e presidente di un’associazione culturale, per una diffamazione reiterata nei confronti del sindaco e di altri politici locali. Già avvertita, secondo la Procura, la donna ha proseguito, pubblicando e distribuendo in modo clandestino un libercolo sul presunto sex-gate mantovano dove uno dei protagonisti è lo stesso Palazzi, il quale va all’incasso dell’ennesima vittoria giudiziaria di questi ultimi due anni. Torniamo alla chat. Il passaggio è contenuto in una informativa dei carabinieri datata 3 maggio 2018. È l’analisi sui cellulari dello stesso Palazzi. Vi sono le chat con Elisa Nizzoli, la vicepresidente dell’associazione “Mantua me genuit” che l’ha denunciato per tentata concussione, salvo poi confessare di aver taroccato i messaggi e finire indagata.

Ma c’è anche altro che viene rubricato al capitolo “ulteriori contatti”. In alcuni si torna indietro al 2015. E in diversi passaggi ci sono elementi che avrebbero potuto interessare maggiormente la Procura. Da un lato perché la tentata concussione è stata già archiviata a gennaio, mentre l’abuso d’ufficio riguarda i finanziamenti del Comune alle associazioni culturali. E dunque l’informativa, pur allegata ai quattro faldoni, non produce sviluppi. Palazzi e gli altri protagonisti dell’annotazione non risultano indagati per queste vicende. A corredo vi sono poi i brogliacci delle telefonate fatte da Palazzi nel periodo dell’indagine. In queste i contatti con l’allora premier Matteo Renzi che più volte chiama per capire quale sia il contenuto dell’indagine. Ma fa di più. Si legge: “Renzi aggiunge che poi dal punto di vista politico la situazione verrà gestita al meglio”. Nei giorni caldi dell’indagine il sindaco ha ricevuto il conforto del deputato dem Matteo Colaninno e dell’allora capo di Confindustria Emma Marcegaglia. Le analisi sulle sue chat però fanno emergere altro. Ad esempio i contatti del sindaco con il capo dei Vigili di Mantova per farsi togliere diverse multe. “Comandante – scrive Palazzi nel luglio 2015 – sono entrato in telecamera e ho parcheggiato senza pass (…). Ti mando la targa si può evitare la multa?”. Risponde laconico Paolo Perantoni: “Ok”. Il 29 agosto 2015 altra multa. Palazzi: “Paolo mi devi scusare ma è arrivata anche questa (…) dimmi se si può fare qualcosa (…)”. Risposta breve: “Lunedì ti faccio sapere”. Del tema delle multe che pare stare a cuore al sindaco si discute in vari periodi, dal 2015 ad almeno il 2017. Va detto però che l’annotazione non chiarisce se le multe siano state effettivamente tolte. Nel 2017 Palazzi si occupa di un bar troppo rumoroso e comunica alla zia della sua fidanzata, che abita vicino al locale, di averne parlato con i Vigili. L’inoltro del messaggio ha una didascalia. Scrive Palazzi: “Riservato”. Di seguito: “Sindaco quando mi ha ordinato gli uomini della polizia locale sono andati a fare sopralluogo (…). È stato avvisato di rispettare gli orari (…). Andremo a sorpresa con Arpa”.

Palazzi viene eletto nel giugno 2015 e già a novembre l’avvocato Paolo Gianolio lo avverte su procedure errate nelle assunzioni negli enti locali. Gianolio in tutti questi messaggi assume più la vesta di consigliere politico che di legale. Dice: “Ti devo fare vedere una email (…) Riguarda la graduatoria che scade nel 2016 e che tu non scorri rischiando l’arresto”. Gianolio è anche presidente della Fondazione Università di Mantova e come tale comunica a Palazzi di un lascito di un milione di euro. Soldi che per volere della defunta dovrebbero essere usati per gli studenti bisognosi. Esclama Palazzi: “E a me un cazzo? (…). Ti devo parlare perché sto per promuovere una cosa che potreste cofinanziare”. E poi ci sono i conflitti d’interessi di cui all’incipit. Nel luglio 2017 c’è la nomina del presidente della partecipata Tea. Palazzi punta sul marito di una sua consigliera di maggioranza, la quale tutte le volte che si vota su Tea dovrebbe lasciare l’aula. Gianolio “invita Palazzi a non dire a nessuno nulla in merito”. Palazzi, però, resta di sasso e infila una bestemmia dietro l’altra. Dice Gianolio: “Non si può nominare parenti fino al 2° grado e coniugi”. Palazzi: “Scherzi vero”. E poi ci sono i lavori affidati ai parenti dei politici. Se ne discute nel gruppo WhatsApp “giunta”. Dice Palazzi: “Uscirà anche il conflitto di interessi di Rebecchi (assessore alla Legalità)”. Risponde Rebecchi: “Ognuno ha il suo parente ingombrante”. Palazzi: “Speriamo non interessino a Cantone”.

“Bisogna ripartire dalle parole di Graviano su Berlusconi”

Roberto Tartaglia, 37 anni, il più giovane dei pm che ha sostenuto l’accusa nel processo sulla Trattativa Stato-mafia a Palermo, dopo l’approvazione del Csm, ha lasciato la Procura per fare il consulente della Commissione parlamentare antimafia e si è insediato alla vigilia dell’anniversario della strage di Capaci. Lo abbiamo incontrato.

Dottor Tartaglia, di cosa si occuperà in Commissione Antimafia?

Il presidente Nicola Morra ha fatto due scelte non scontate come insediare un comitato apposito sulla Trattativa Stato-mafia e poi scegliere come consulente me. Io sono onorato anche perché la Commissione, storicamente, ha svolto un ruolo pionieristico: la relazione di minoranza del 1976, firmata da Pio La Torre e Cesare Terranova riuscì a prevenire l’azione della magistratura. Certo, allora era solo la minoranza a sostenere che ‘la mafia è un fenomeno di classi dirigenti’. Oggi invece il primo comitato è intitolato dalla presidenza alla Trattativa Stato-mafia. Il passo avanti è enorme.

Sono passati 27 anni dalla strage di Capaci. Quando riusciremo a sapere la verità sui cosiddetti mandanti esterni alla mafia delle stragi del 1992-1993?

Una domanda giusta che però non deve far dimenticare i grandi passi avanti compiuti in questi ultimi anni. Sappiamo molte più cose e penso che la Commissione parlamentare antimafia possa svolgere un ruolo importante.

Quali sono i punti fermi da cui partire?

Le sentenze sulla Trattativa, la sentenza Borsellino quater e poi la sentenza Montante. Su ciascuna di queste macro-aree poi ci sono filoni meno approfonditi dal punto di vista giudiziario che potrebbero diventare tema di inchiesta per la commissione.

Quali sono i filoni che lei ha incrociato come pm e che le sembrano degni di approfondimento?

Certamente le intercettazioni di Giuseppe Graviano in cella nel 2016 quando al compagno di detenzione racconta di avere concepito suo figlio in cella come aveva fatto anche il fratello Filippo. Erano entrambi reclusi allora a Palermo. Quella è una questione da approfondire.

Se un ragazzo nato nel 1992 le chiedesse di spiegare con due tweet quali sono le possibili ragioni dell’inizio e della fine delle stragi, cosa direbbe?

Potrebbe esserci stata una convergenza di interessi tra realtà diverse come Cosa Nostra e alcuni esponenti dei Servizi che temevano per la loro sorte in uno scenario politico mutato. Al tramonto della Prima Repubblica queste forze volevano ribaltare l’ordine in modo eclatante per poi accelerare e guidare il processo di transizione. A questo punto abbiamo la risposta anche all’altra domanda, cioè perché le stragi sono finite. Certo, i fratelli Graviano che avevano attuato la politica stragista erano stati arrestati nel 1994 ma restavano liberi altri boss. Credo di più a una risposta diversa. Le stragi terminano quando il nuovo assetto si è determinato.

Riina e Provenzano sono morti in cella e i fratelli Graviano sono sepolti al 41 bis da un quarto di secolo. La mafia cosa avrebbe ottenuto? Ci sono contropartite che non vediamo?

Innanzitutto ci sono cose ben visibili come i figli concepiti in cella dai fratelli Graviano, l’isolamento o le floride condizioni economiche delle famiglie dei boss. Infine non mi pare che Graviano sia entusiasta e anzi dice al compagno di detenzione: ‘Umbè non può finire così’. Questa delusione minacciosa è uno dei profili da esplorare.

Graviano è stato arrestato a Milano nel 1994 con il papà di un piccolo calciatore che doveva fare il provino al Milan, in precedenza raccomandato da Dell’Utri. Proprio Graviano parla in cella – secondo la sentenza Trattativa – di Berlusconi come di un ‘traditore’…

Questo è un altro passaggio importante delle intercettazioni. Graviano fa tutte quelle confidenze al suo compagno di detenzione perché sa che Adinolfi potrebbe uscire di cella e gli vuole affidare un compito: inviare tramite un terzo soggetto un messaggio minaccioso a Berlusconi. Sarebbe molto interessante individuare chi sia il soggetto vicino a Berlusconi che potrebbe essere a conoscenza dei segreti di quel periodo.

Ci sarà una collaborazione tra voi e i magistrati della Procura Nazionale?

Il primo comitato insediato in Commissione è quello dedicato a mafia e politica, trattativa e stragi. Anche il procuratore nazionale Federico Cafiero De Raho ha creato un gruppo di lavoro intitolato a mafia ed entità esterne per le stragi, al quale lavora tra l’altro anche Antonino Di Matteo. C’è la possibilità di creare sinergie. Ci sono poi in Commissione tante personalità che hanno grandi capacità ed esperienza come il presidente Pietro Grasso o come l’ex ministro Andrea Orlando. E ci sono tutte le condizioni per fare un ottimo lavoro.

Quali sono i punti oscuri da chiarire?

Graviano in cella parla dell’urgenza e probabilmente fa riferimento alla ragione dell’accelerazione della strage di via D’Amelio in cui fu ucciso Borsellino, 57 giorni dopo Falcone. La sentenza mette in relazione l’urgenza alla consapevolezza di Borsellino della Trattativa. Io penso che sulle ragioni di quell’urgenza dobbiamo lavorare. Un’altra traccia che andrebbe esplorata è il ruolo di Matteo Messina Denaro nell’elaborazione della strategia politica di Cosa Nostra e nella trattativa. Secondo il collaboratore Giuffrè, era lui la creatura di Totò Riina, l’uomo che potrebbe avere ereditato i suoi segreti.

Come valuta le norme antimafia attuali?

Valuto positivamente alcune riforme come l’agente sotto copertura nei reati contro la Pubblica amministrazione e la riforma dell’articolo 416 ter, il voto di scambio politico-mafioso. Ho letto critiche che, dal punto di vista giuridico, non condivido. La precedente normativa non puniva lo scambio quando la mafia non usava la minaccia. La riforma estende la punibilità anche al politico che compra il voto senza avvalersi della minaccia ma solo dell’influenza sul territorio della mafia. Basta inoltre la semplice disponibilità politica, non è più necessario che il politico paghi per l’appoggio mafioso.

Finmeccanica, la Cassazione assolve Orsi e Spagnolini

È stato confermato dalla Cassazione il proscioglimento dall’accusa di corruzione internazionale e frode fiscale per gli ex ad di Finmeccanica e Agusta Westland, Giuseppe Orsi e Bruno Spagnolini, in relazione alla vicenda delle presunte tangenti per la fornitura di dodici elicotteri all’India, un appalto da centinaia di milioni di euro. La Suprema Corte, infatti, ha respinto il ricorso del Pg di Milano contro la sentenza emessa dalla Corte di Appello del capoluogo lombardo l’8 gennaio 2018, nell’appello bis disposto nel 2016. Respinti anche i ricorsi dell’Agenzia delle Entrate e del Ministero della Difesa dell’India. Dal Pg della Cassazione Mariella De Masellis è venuto l’ok alla convalida dell’appello bis per la “mancanza di elementi oggettivi” sulla responsabilità di Orsi e Spagnolini non solo per le presunte mazzette – per circa 10,5 milioni di euro – ma anche per l’accusa di fatture false, dato che “non è stata dimostrata la sovrafatturazione dei costi sostenuti” che, ha ricordato il Pg, “sono stati effettivamente sostenuti”. In India è ancora aperto un procedimento gemello, con tanto di rogatorie nonostante il ne bis in idem.

Cultura, altri bandi per i volontari a 5 euro l’ora

L’ultimo bando è stato pubblicato l’8 maggio: la Biblioteca Angelica di Roma, a due passi da piazza Navona e pietra miliare del sistema delle biblioteche pubbliche, cerca una “associazione di volontariato senza scopo di lucro e con esperienza almeno triennale nel settore della tutela del patrimonio culturale” per “archiviazione e digitalizzazione documentale con particolare riferimento al prezioso Fondo geografico della biblioteca”.

La collaborazione è di 4 mesi ed è previsto “un contributo a titolo di rimborso spese per un importo lordo non superiore a 25 euro al giorno, per ciascun volontario” (ne cercano 7) per una presenza giornaliera “della durata di 5 ore e per un massimo di cinque giorni a settimana”. Il bando indica anche i compiti (“movimentazione del materiale geografico”, “sistemazione organica”) e i motivi: “Si rappresenta l’impossibilità di utilizzare il personale di ruolo della Biblioteca in considerazione della carenza di impiegati”.

All’Istituto superiore per la Conservazione e il Restauro serve invece “Supporto alle attività di accoglienza, assistenza al pubblico oltreché ricollocazione di materiale bibliografico e raccolta di informazioni sul patrimonio librario”. Si chiede sempre esperienza triennale, si offre contributo a rimborso spese per ognuno degli 8 volontari non superiore a 500 euro netti al mese per massimo 4 ore al giorno. Durata: un anno, ma rinnovabile. Stessa situazione alla Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma. Sei mesi, rinnovabili per altri sei. Contributo a titolo di rimborso spese, per venti giorni al mese, per un costo lordo non superiore a euro 27.50, per ciascun volontario impiegato per una giornata di attività della durata massima di 4 ore”. Otto volontari, di età non superiore a 50 anni, anche qui per attività di accoglienza, distribuzione, ricollocazione di materiale bibliografico e di raccolta informazioni sul patrimonio librario”.

Rapido calcolo: questi volontari riceveranno cinque euro o meno all’ora per il loro lavoro, ipotizzando che ricevano per intero i rimborsi spese previsti. “Sono i bandi quasi fotocopia – spiega Leonardo Bison, della associazione “Mi riconosci?” che li ha segnalati –. Il confine tra volontariato e lavoro nero è molto labile in questo caso e stiamo parlando del ministero dei Beni culturali, non di un piccolo imprenditore di provincia”. Ricordano, sottolinea Bison, il caso degli scontrinisti della Biblioteca Nazionale, scoppiato nel 2017, quando venne fuori che alcuni servizi essenziali erano assicurati da anni da questi volontari pagati solo con rimborsi spese via scontrino. “Com’è possibile che impiegare personale, spesso specializzato, a queste condizioni sia non solo ancora legale (seppur al limite della legge) ma addirittura sostenuto da un ministero? Il ministro Bonisoli dice di voler regolare l’abuso del volontariato culturale: lo faccia”.

La Fp Cgil Roma e Lazio nei giorni scorsi, ha segnalato un bando legato alla mostra “Eva vs Eva” a Villa d’Este e al Santuario di Ercole Vincitore, dal maggio a novembre 2019. Anche qui la direzione dell’Istituto prevede un rimborso spese per gli operatori, organizzati in turni di 4-5 ore. Unica a rispondere, l’associazione Avaca (quella degli scontrinisti alla Biblioteca nazionale di Roma) e il cui presidente era anche un dipendente del Mibact e un sindacalista (Flp Bac). “Con il pensionamento di 12 unità di personale la direzione affida all’associazione di volontari le attività per la mostra. Lo contestiamo – spiega la Fp Cgil Roma e Lazio –. All’emergenza di personale e all’ondata di pensionamenti non si può far fronte con lo sfruttamento del volontariato, utilizzato a tutti gli effetti come lavoro subordinato. È in contrasto sia con il codice del terzo settore e con la normativa sul volontariato”. Di fatto, si sostituiscono dipendenti dello Stato con volontari a cui viene erogato un rimborso “non formati per garantire adeguatamente la tutela del patrimonio” conclude .

Guerra di dossier, l’ombra degli 007 sul software spia

Un black team di giovani e giovanissimi esperti informatici calabresi – promettenti al punto da competere sulla scena hacker internazionale – ingaggiati dalla E-Surv, l’azienda di Catanzaro che aveva tra i clienti del suo “software spia” non solo le Procure di mezza Italia, ma i Servizi Segreti. Il black team – si legge nell’ordinanza firmata dal Gip di Napoli Rosa De Ruggero – tramite “condotte assolutamente spregiudicate, e certamente consumate con consapevole e deliberata violazione delle più elementari regole di cautela e di sicurezza informatica” aveva captato e immagazzinato nei cloud di Amazon Web Service in Oregon (anziché nelle unità fisiche di storage dei server delle Procure) almeno 80 terabyte di dati riferibili a oltre 800 attività di indagine, tra intercettazioni telefoniche e telematiche autorizzate e quelle invece realizzate abusivamente.

Sarebbero almeno 234 le captazioni illecite, realizzate o per un malfunzionamento del software o, ormai pare certo, mutuando, dal punto di vista tecnico, un sistema di attività di controspionaggio militare. La piattaforma messa a punto dagli informatici di E-Surv era in grado di intercettare i dati sfruttando un virus tipo Trojan che inoculava un captatore di informazioni (dai contatti in rubrica a video e foto) e di attività (conversazioni, email, visualizzazioni in tempo reale dello schermo). Bastava aver scaricato una app da Google Play e il gioco era fatto.

Queste 234 captazioni illecite riguardavano i “volontari”, come in gergo il black team chiamava i soggetti “cavie”, usati per testare il sistema (non si sa se e quanto scelti a caso). Le cartelle prodotte – tutte identificate da un numero – e le informazioni sensibili captate potevano riguardare dai casi di presunta infedeltà coniugale alla più classica attività di profilazione commerciale, alla ben più pericolosa creazione di veri e propri “dossier” su indagati, o potenziali tali, su inchieste “delicate e sensibili”, condotte dall’Antiterrorismo piuttosto che da determinate procure calabresi.

Da ieri l’amministratore di questa impresa informativa di Catanzaro e il creatore della piattaforma Exodus, Diego Fasano e Salvatore Ansani, sono agli arresti domiciliari. Il pool cybercrime della Procura partenopea, coordinato dal procuratore capo Giovanni Melillo e dall’aggiunto Vincenzo Piscitelli, li accusa di accesso abusivo a sistemi informatici, intercettazioni illecite, trattamento illecito di dati e frode in pubbliche forniture.

Determinanti i verbali di un “cyber security analyst” di E-surv, Francesco Pompò, sentito prima come persona informata dei fatti e poi come indagato. Pompò, 25 anni, ha raccontato che in passato aveva svolto, per conto di una società, “un’attività di ‘penetration test e code review’ presso il Reparto sistemi informatici automatizzati del Ministero della Difesa”. Arrivato a Catanzaro, Pompò si accorse che “Ansani (il creatore di Exodus, ndr) non si limitava ad esaminare la piattaforma ma addirittura esaminava il contenuto”. “Parlando del nostro lavoro – racconta l’hacker – Fasano ci diceva che dovevamo essere orgogliosi: aiutavamo la Nazione a combattere il terrorismo e a tenere i nostri cari al sicuro”. E a proposito di sicurezza, come aveva anticipato nelle scorse settimane l’Espresso, anche la Procura di Roma ha aperto un’indagine su Exodus e su come e perché i Servizi acquistarono questo software da E-surv senza mai usarlo ufficialmente.

Qualcosa in più emergerà dalle perquisizioni eseguite ieri nelle sedi di alcune società (Innova Spa, Rpc spa e Rifatech srl), accreditate presso molte Procure e in rapporti con la E-Surv. Tra le aziende interessate c’era anche la Stm, di fatto gestita dal poliziotto calabrese Vito Tignanelli. Un’indagine, questa, che presenta ancora molti punti oscuri.

L’Istat taglia la stima del Pil 2019 a +0,3% (più di quella del Def)

Per l’anno in corso l’Istat prevede una crescita del Pil del +0,3%. Una “forte revisione” al ribasso – di un punto percentuale – rispetto alla previsione rilasciata a novembre scorso, sottolinea l’Istituto, quando però non era ancora noto il brusco rallentamento dell’economia italiana nel secondo semestre 2018. La stima di crescita dell’Istat resta superiore a quella inserita dal governo nel Def , +0,2% tenendo conto dell’effetto di manovra e decreti Crescita e Sblocca cantieri, e anche a quella diffusa martedì dall’Ocse che prevede un aumento del Pil pari a zero nel 2019 (a inizio aprile la stima era addirittura -0,2%). Le stime risultano “lievemente” migliori anche rispetto a quelle rilasciate il 7 maggio dalla commissione Ue (+0,1%) grazie a previsioni più alte per gli investimenti, fa notare lo stesso Istituto. L’Istat, nella pubblicazione ‘Le prospettive per l’economia italiana nel 2019, sottolinea il “deciso rallentamento” rispetto al 2018 (+0,9%). Il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, si è detto si è detto fiducioso che il Paese “sulla buona strada”. Nel nostro Def abbiamo stimato una crescita dello 0,2%”, ha ricordato il premier Giuseppe Conte, “ma siamo ferocemente determinati a superare questo livello”,

La storia del signor Capecchi promosso perché “non lavorò”

Un tipico caso italiano. Riccardo Capecchi, raro esemplare di lettiano, nel senso di Enrico Letta, poiché in passato fu tesoriere dell’associazione VeDrò, dal 1º aprile 2016 è il segretario generale dell’Autorità di garanzia per le comunicazioni, in sigla Agcom. Il suo mandato scade tra un semestre, ma da tre anni è un caso, un tipico caso italiano, controverso, dibattuto, irrisolto. Attribuito per infusione, non per selezione, è stato oggetto di interrogazioni, interpellanze, giaculatorie parlamentari, sindacato dai sindacati che hanno firmato esposti, prodotto decine di pagine, tabelle, verbali. Secondo i contestatori, che trovano sponde pure tra i commissari Agcom, Capecchi era sprovvisto dei titoli e in peccato per un conflitto di interessi.

Il regolamento interno dell’Autorità impone che il segretario generale vanti una carriera di otto anni di magistrato, consigliere parlamentare, docente universitario, alto dirigente di Stato o di imprese e organismi pubblici e privati. E Capecchi ha un biennio di capo di Poste Energie e circa quattro anni di dirigente di secondo livello su cinque sempre di Poste, più altre esperienze gracili per chi l’accusa. Così l’Agcom ha interpellato il Consiglio di Stato per un parere non vincolante sul proprio regolamento, una sorta di introspezione giuridica, per capire se ha calpestato la legge che disciplina le assunzione statali (la n. 165 del 2001). Palazzo Spada ha concepito un documento di 14 pagine per scarnificare l’aggettivo “alto” e il sostantivo “dirigente”. Che vuol dire “alto”? Risponde il Consiglio di Stato: “Il termine ‘alto’ non può essere inteso come ‘il più alto’ né, per il significato fatto palese dalle parole usate dal regolamento, come equivalente a una posizione dirigenziale che non abbia sopra di sé alcun altro livello superiore. Certamente ‘alto’ non può significare ‘intermedio’, ma non può neppure significare necessariamente ‘apicale’. D’altra parte, nel caso in cui nell’impresa o nell’organismo pubblico o privato di provenienza del soggetto candidato vi fossero diversi livelli dirigenziali, allora l’aggettivo ‘alto’ assumerebbe, nel caso specifico, il significato di ‘almeno superiore al livello più basso’”. Né alto e né basso, Capecchi può avere l’altezza giusta, fa intendere il Consiglio di Stato e poi, conclude, l’Agcom è autonoma e prenda chi vuole. L’interessato è soddisfatto, Angelo Marcello Cardani, presidente dell’Agcom, difende Capecchi, se stesso e l’Autorità.

In mezzo c’è un’altra storia surreale, oltre i limiti dell’assurdo, tanto divertente che forse non ricapiterà mai più, per citare il fenomenale David Foster Wallace in crociera. Con l’ordine di servizio n. 17/24 protocollato 28/2014 dell’11 luglio 2014, l’amministratore delegato di Poste Italiane – azienda vigilata dall’Agcom – affidò a Capecchi, già capo del settore energia, la “responsabilità della funzione coordinamento progetti strategici della società”. Uno scioglilingua potenzialmente letale per Capecchi, perché per la conversione da controllato in Poste a controllore in Agcom, per la legge 39/2013, servono almeno due anni di pausa e, secondo il calendario, il 1º aprile 2016 non erano trascorsi due anni dai fatti. Il pericolo era la decadenza immediata. Capecchi l’ha sfangata perché l’Autorità anticorruzione (Anac), che ha esaminato la questione con la delibera dell’8 maggio scorso, l’ha “prosciolto” persuasa da una originale giustificazione di Capecchi stesso, suffragata dai vertici di Poste: in teoria l’inconferibilità sussiste; in pratica no perché non ha mai lavorato davvero come responsabile funzione coordinamento. C’era il posto, non la fatica. Poltrone (vuote) a rendere. Il vice direttore generale di Poste ha ricostruito i quattro mesi non proprio concitati di Capecchi: l’11 luglio 2014 ottiene la promozione, il 24 luglio riceve le deleghe per “avviare l’operatività”, l’operatività non s’avvia perché le vacanze sono vicine, Capecchi va in ferie dal 7 al 22 agosto, al rientro indugia perché vuole lasciare l’azienda, il 5 settembre ha un primo colloquio, non succede niente finché il 16 ottobre ratifica la risoluzione del contratto di lavoro, la procura viene revocata il 5 dicembre 2014. La poltrona al coordinamento eccetera eccetera era simbolica, ma poi simbolica sembra esagerato, neanche simbolica ecco, “aveva natura di adempimento formale e procedurale”. Un adempimento, signori, come può diventare ostativo per l’Agcom un semplice adempimento? “È accaduto perché l’ordine di servizio del luglio 2014 di Poste – replica Capecchi – non è mai stato reso operativo per scelte aziendali. Non dipendenti dalla mia volontà”.

Il precedente è curioso e un po’ grave e va oltre Capecchi: d’ora in poi l’inconferibilità di un incarico pubblico sarà misurata con l’impegno profuso dal presunto incompatibile. Altra spina. Capecchi era presidente del comitato direttivo di Consorzio Drive, un gruppo per la diffusione della ricarica dei veicoli elettrici, ma che per il codice Atecori della Camera di Commercio si occupa di “intermediazione in servizi di telecomunicazioni e trasmissione dati”, e dunque va sotto l’egida Agcom. Secondo l’Anac, il Consorzio Drive non c’entra con l’Agcom. Però c’è ancora un particolare esilarante che fa infuriare un pezzo di Agcom e un pezzo di Parlamento. Capecchi spiega che con una lettera raccomandata ha rassegnato le dimissioni irrevocabili dal Consorzio il 15 marzo del 2016, in tempo per l’investitura in Agcom e per rispettare la legge 481/95 che vieta l’esercizio di doppi ruoli, ma il verbale dell’assemblea – firmato da Capecchi – che prende atto dell’uscita di Capecchi comunicata due anni prima da Capecchi è del 31 agosto 2018. Più di una stranezza, che Capecchi tenta di dipanare: “È un ente microscopico dal quale mi sono dimesso a marzo 2016 e che da quel momento non ha più esercitato alcuna attività. Non ho firmato alcun verbale il 31 agosto 2018 (peraltro ero in volo di ritorno dagli Stati Uniti). Si tratta di un errore commesso dal Consorzio che mi dicono aver sanato depositando il giusto verbale”. Capecchi è salvo. Un bel quadro, e in estate la politica dovrà scegliere i nuovi commissari Agcom. Il leghista Capitanio ha chiesto “chiarimenti” su Capecchi al ministro per lo Sviluppo economico, Luigi Di Maio. La tenzone dura da tre anni. Non è finita. Chi vivrà, VeDrò.

Carige, la Bce contro il salvataggio di Stato: privati o liquidazione

Le Autorità di vigilanza bancaria europea ritengono che la soluzione della crisi di Banca Carige “debba passare per una procedura di liquidazione se l’istituto non troverà un acquirente, contrariamente al piano di salvataggio pubblico pensato dal governo”. È l’orientamento della Bce rivelato ieri dalla Reuters, di norma assai attenta agli umori provenienti da Francoforte. Se così fosse, verrebbe esclusa la nazionalizzazione, sul modello di Mps, pure prevista dal decreto del governo, che ha stanziato un miliardo e l’unica alternativa sarebbe la liquidazione con cessione della parte sana a un eventuale compratore, sul modello di quanto fatto per le popolari venete (in quel caso a Banca Intesa lo Stato garantì una “dote” da 5 miliardi diretti, 10 comprese le garanzie). Evidentemente Francoforte non ritiene che l’istituto sia solvibile. All’agenzia Ansa, un portavoce della Bce ha definito le indiscrezioni “solo speculazioni” e ribadito che la vigilanza ha piena fiducia che i commissari della banca riusciranno a portare a compimento una soluzione di mercato. Dalla Lega, intanto, potrebbe arrivare un emendamento al Dl Crescita che, a seconda del soggetto acquirente di Carige, potrebbe fare da volano all’operazione.