Quelli che parlano tanto e nessuno ascolta: il mite “Zinga”, il neutro Tria e il vecchio B.

Potrebbe essere il titolo di una serie televisiva sulla politica. “Gli inascoltati”. Quelli che parlano, propongono, indicano una strada, un percorso, che però poi resta disegnato nell’aria. Ad avvalorare la tesi di B. che ha sempre derubricato la politica a “chiacchiericcio”. Categoria però perfettamente incarnata dall’ultimo Berlusconi.

Da quando è nato questo governo non si contano più gli appelli dell’ex Cavaliere a Matteo Salvini per rompere con i 5Stelle e tornare nel centrodestra. Invito ripetuto anche nell’overbooking televisivo di queste ore. “Questo governo è alla frutta. Dopo il voto europeo Salvini non potrà che rinsavire e tornare con noi”, va ripetendo davanti alle più disparate telecamere. Nonostante le liti e le fibrillazioni continue, per il momento il Capitano non molla l’esecutivo. “Il governo non cade, va avanti. Lavorerò ancora con Di Maio”, ha ribadito anche ieri. Per vedere il finale della storia toccherà attendere l’esito del voto europeo, ma per ora Berlusconi sembra davvero il classico cane che abbaia alla luna. Respinto da tutti, pure da Giorgia Meloni, che per la prima volta ha escluso una futura alleanza con Forza Italia.

Anche la leader di FdI, però, in quanto ad appelli al vuoto non scherza. “Salvini molli i 5Stelle, siamo pronti per governare, anche subito”, va dicendo l’ex vicepresidente della Camera. In che modo, però, non si sa, dato che i numeri in Parlamento per una maggioranza di centrodestra non ci sono e alle urne lei e Salvini hanno ancora bisogno di Silvio. Restando da questa parte della barricata, un altro inascoltato doc è Giovanni Toti, capace di farsi ignorare da Berlusconi, Salvini e Meloni in un colpo solo. Se fosse per lui, Fi e FdI si sarebbero già dovuti sciogliere per farsi annettere dalla Lega.

Guardando al governo, anche qui gli “inascoltati” non mancano. A cominciare da Giovanni Tria. Che assomiglia sempre più alla meravigliosa imitazione di Crozza: per sapere cosa pensa occorre leggere il labiale. Il ministro dell’Economia spesso dice una cosa e l’esecutivo va nella direzione opposta. Come quando, in epoca di legge di bilancio, parlò di uno sforamento dei parametri europei dell’1,9%. Il governo rispose col 2,4% per poi concludere, con l’invenzione di Conte, al 2,04%.

Nelle ultime ore il ministro dell’Economia ha detto che il miliardo avanzato dal reddito di cittadinanza che Luigi Di Maio vuole utilizzare per il decreto sulla famiglia non c’è. “I soldi ci sono. È la politica che decide, non i tecnici”, la risposta di Di Maio.

Un altro parolaio è diventato Giancarlo Giorgetti. Che in questi giorni con le sue dichiarazioni ha terremotato l’esecutivo. “Il governo è paralizzato, così è impossibile andare avanti”, ha detto. Per il sottosegretario questa maggioranza è giunta al capolinea e, come una Cassandra, lo va ripetendo a macchinetta a Salvini. Che lo lascia sfogare, ma non lo ascolta, altrimenti il governo sarebbe già caduto.

Nell’elenco non può mancare Nicola Zingaretti. “Catiuscia Marini si dimetterà dalla presidenza della Regione Umbria”, ha annunciato il segretario del Pd appena appreso dell’indagine sulla sanità umbra. La governatrice prima ha detto sì e poi ha fatto il contrario, votando contro le sue dimissioni per alzata di mano. Alla fine le dimissioni le ha date davvero, ma “Zinga” non ne è uscito bene. Nel centrosinistra, infine, staziona pure il più “inascoltato” di tutti: Carlo Calenda. Meraviglioso quando prese la tessera del Pd ma nessuno lo invitava al partito. Ora per farsi notare va ai comizi altrui (Salvini) e vuole riallacciare con Renzi. Tanti auguri.

Il “conto” leghista post-urne: regioni, flat e abuso d’ufficio

La mina più urgente può attendere. Forse l’hanno perfino disinnescata, se davvero “le criticità nel dl sicurezza bis sono superate” come giura Giuseppe Conte. Ma quella tra i gialloverdi non è pace e non è neppure una tregua, è il break chiamato dall’arbitro, cioè dal Quirinale, che pure non avrebbe mai voluto intervenire. Perché nel giorno del pericolo scampato, con il Consiglio dei ministri che scivola alla prossima settimana assieme al decreto di Salvini e a quello per le famiglie che era la carta elettorale di Di Maio, i Cinque Stelle e la Lega se le promettono. E non è solo e non è tanto questione di una possibile rottura dopo il voto del 26 maggio.

È innanzitutto altro, “perché si è entrati nel personale, quindi non si potrà cancellare tutto dopo il voto” dice Matteo Salvini a Porta a Porta. Perché lui e Di Maio non si salutano più da settimane, estranei che si insultano ogni giorno. Ergo, “dopo il voto Luigi e Matteo dovranno regolare i conti” conferma un 5Stelle di rango. E lo strumento con cui picchiarsi, e la vera partita, sarà l’agenda con cui ripartire, cioè quello che sarà il governo del dopo-Europee. E il Carroccio già ostenta la lista della spesa, mentre scommette sulle percentuali nelle urne. Così Giancarlo Giorgetti garantisce che “se prendiamo il 30 per cento ci sarà subito l’autonomia”, ed è una promessa “alla vecchia Lega”, cioè innanzitutto a quella del Veneto e della Lombardia che con il M5S romperebbe in un amen. Ma pure un pro-memoria per Matteo Salvini, non proprio sensibile al tema.

E ovviamente lo fanno notare i 5Stelle, ansiosi di soffiare sulla distanza vera o presunta tra i due vertici della Lega, peraltro assenti all’assemblea di Confindustria di ieri a Roma, “Ed è la conferma che i leghisti sono divisi, non sapevano con quale voce parlare agli industriali” morde una fonte di governo del Movimento. Però la certezza è che il ministro dell’Interno invoca la flat tax e, tanto per gradire, l’abolizione dell’abuso di ufficio, il reato per cui ora è indagato il governatore della Lombardia Fontana. Ed è un altro schiaffo al Movimento dal Salvini che non sa a quali sondaggi votarsi, e nell’incertezza parla di guerra. Però del dl sicurezza se ne riparlerà dopo domenica grazie al muro del Quirinale, ma non si doveva dire, per lo meno non durante un Consiglio dei ministri come pure aveva fatto Conte tre sere fa.

E così ieri mattina il premier fa visita a Sergio Mattarella. Poi compare in sala stampa per assicurare che no, il Quirinale non ha esercitato “un sindacato” e “una censura preventiva” sul testo, e comunque nella nuova versione “le criticità sembrano superate”. Si vedrà nel prossimo Cdm annunciato genericamente da Conte per la prossima settimana. Ma l’isteria gialloverde trabocca ugualmente. E dal M5S rivendicano: “Il dl sicurezza tanto voluto dalla Lega è stato svuotato di ogni proposta sui migranti, di sostanza sono rimaste solo le misure sulla violenza negli stadi. È un pasticcio: ci eravamo offerti di voler dare una mano ma non ci hanno ascoltato”. E Di Maio lo dice in chiaro, fintamente conciliante: “Ora c’è il tempo di lavorare sui rimpatri, che sono una questione importante”. Ed è un altro modo per dire che dei rimpatri “non c’è traccia nel decreto” come soffiano dal M5S. Ma per ora è evaporato anche il dl famiglie, e anche su questo hanno pesato i dubbi del Colle, dove preferirebbero una legge apposita per i sussidi alle coppie con figli. Ieri Conte ha assicurato a Mattarella che rimanderà entrambi i testi al Colle solo dopo le necessarie modifiche, e che il Quirinale non verrà (più) tirato in mezzo alla battaglia.

Concetto risuonato anche nelle telefonate ai due vicepremier, a cui il presidente del Consiglio ha ribadito che di Cdm adesso non era proprio aria, perché i decreti vanno aggiustati (a Chigi vogliono maggiori garanzie sulle coperture per il dl famiglie). Però lì fuori “c’è un’aria incandescente” come sillaba un sottosegretario del Movimento. E tira specialmente da Nord, dove il M5S ha paura di crollare e da dove a Salvini chiedono la testa di Di Maio.

Non a caso, il capo dei 5Stelle ha messo il naso a un evento Vicenza pochi giorni fa, con un nugolo di imprenditori e il suo luogotenente in Veneto, il capogruppo in Regione Jacopo Berti. E si è portato i tecnici del Mise, a cui ha fatto spiegare gli incentivi alle imprese. Un segnale di vita. Ma il futuro è fosco. “Così non si potrà andare avanti” salmodia Giorgetti. Un leghista di medio peso sintetizza così: “Se davvero prendiamo più del 30 per cento da lunedì Matteo dovrà usare la clava, i nostri lo pretenderanno”. E così sia.

Il Riesame e la “cricca” dell’ospedale: “Ci sono gravi indizi”

Secondo il Tribunale del Riesame ci sono “gravi indizi” a sostegno dell’ipotesi di reato di associazione per delinquere, cuore dell’inchiesta sui concorsi pilotati all’ospedale di Perugia Santa Maria della Misericordia che vede coinvolta anche la presidente della regione, Catiuscia Marini. Così viene accolto il ricorso dei magistrati, dopo che il gip aveva escluso la sussistenza del reato nell’ordinanza di applicazione della misura cautelare. Secondo la Procura gli ex direttori amministrativo e sanitario dell’ospedale operavano per “eseguire le direttive impartite dalla classe politica locale” del Pd – Barberini, Marini e Bocci (che comunque non sono accusati del reato associativo) – “manipolando” i “concorsi a favore dei candidati raccomandati” o da loro “indicati”. Il Riesame ha deciso il ritorno ai domiciliari dello stesso Barberini, ex assessore regionale alla Sanità, mentre dal giudice per le indagini preliminari è arrivato il rigetto della richiesta di revoca della custodia, sempre a casa, per Bocci, ex segretario regionale del Pd. Le motivazioni saranno depositate entro 45 giorni.

Arcigay: “Lega e M5S non firmano l’appello per i diritti Lgbt”

Sono due i partiti meno “gay friendly” in corsa alle elezioni europee di domenica. Il primo non è una sorpresa: la Lega di Matteo Salvini rivendica ogni volta che può il primato della “famiglia tradizionale” e la scarsa passione per i diritti civili. Il secondo invece era meno scontato: il Movimento 5 Stelle. È quanto emerge da una petizione della piattaforma Come Out, sottoscritta da Ilga (gruppo internazionale di difesa dei diritti Lgbt) e rilanciata in Italia da Arcigay. In tutto sono 89 (ad oggi) i candidati alle elezioni europee che hanno sottoscritto il documento in 5 punti che impegna i firmatari e le firmatarie a lottare per i diritti umani e per l’eguaglianza delle persone lesbiche, gay, bisessuali, trans e intersessuali dell’Unione europea e del mondo. Il partito con più firmatari è La Sinistra (29 candidati), seguito dai Verdi (24), Partito democratico (16), + Europa (13), Partito Pirata (3), Fratelli d’Italia (2), Forza Italia (1), M5S (1). Nessun firmatario invece nelle altre compagini politiche. “Se da un lato davamo per scontato che la Lega di Salvini fosse distante dalle nostre istanze – commenta Gabriele Piazzoni, segretario di Arcigay – il silenzio del M5S conferma l’ambiguità che questa forza politica ha sui nostri temi”.

Vicinissimo a Salvini, è nell’indagine sui tangentari

Tra i contatti della cricca delle tangenti milanesi c’è il calabrese Pietro Marrapodi, candidato leghista in Lombardia alle Europee, molto vicino a Matteo Salvini che alle ultime Regionali l’ha voluto nella lista “Fontana presidente”. Marrapodi risulterà il più votato. Il politico, non indagato, emerge nelle intercettazioni del consigliere comunale di Forza Italia Pietro Tatarella, anche lui candidato alle Europee, centravanti della lobby di Nino “Jurassic Park” Caianiello, forzista di Varese.

Nel gennaio scorso Marrapodi è consigliere del Municipio 3 a Milano. Lì l’imprenditore Mirko Paletti (non indagato) lavora alla riqualificazione di parte dell’istituto Rizzoli, contestata da un comitato di zona. Paletti chiede aiuto a Tatarella “per superare gli ostacoli” e capire le posizioni del comitato. Tatarella chiama Marrapodi e fissa un appuntamento nello studio di Paletti, che è anche vicepresidente del Pisa Calcio. Marrapodi: “Quando vuoi, quando ti fa comodo io sono qui a Milano (…) quando vuole lui”. Tatarella punta sul progetto perché ci vede un tornaconto. Alla fine sarà un nulla di fatto. Ma Marrapodi si mette a disposizione. La sua vicinanza a Salvini è nota. Di più: Marrapodi ha rapporti di famiglia con Daniela Javarone, presidentessa del circolo “Amici della lirica” che ha organizzato il compleanno di Salvini all’Hotel Principe di Savoia. Ci sono diverse foto di Marrapodi con il ministro. Marrapodi, poi, si candida alle Europee con Silvia Sardone, ex consigliera regionale, citata nelle intercettazioni (non indagata) per un affare che sta a cuore all’ex assessore regionale Buscemi. Oggi Marrapodi sarà a Como per un aperitivo elettorale organizzato da Francesco Scopelliti, fratello dell’ex governatore calabrese e già in contatto (mai indagato) con uomini della ‘ndrangheta, in particolare Alfredo Rullo, definito “santista” dall’antimafia.

Eurodinosauri. Verso Bruxelles capibastone, iper-riciclati e voltagabbana

Dopo la prima puntata del 18 maggio sugli indagati, riecco le euro-liste. Protagonisti, stavolta, i cambiatori seriali di casacche. D’altro canto il voto europeo è un’occasione propizia, ci sono le preferenze, serve gente che “conosca il territorio”: la campagna acquisti è continua. Tra gli ultimi movimenti, quello di una berlusconiana storica: Elisabetta Gardini ha abbandonato la zattera di B. per abbracciare la Meloni. Al Fatto aveva detto: “Tajani è un becchino, me ne vado. E non mi ricandido”. E infatti…

Il calciomercato meloniano ha annesso anche il dominus del centrodestra pugliese Raffaele Fitto (pure lui ex berlusconiano, come anche Stefano Maullu). Al povero B. non resta che riaccogliere i reduci dell’ex delfino senza quid Angelino Alfano, come la portavoce di Ncd Valentina Castaldini e Mauro Parolini. O affidarsi all’innato mestiere del vecchio Lorenzo Cesa, un aspirapolvere per le preferenze al Sud.

La Lega al Meridione – ma non solo – si è inventata una classe dirigente in un baleno. Ovviamente appoggiandosi a destra e sinistra. E anche ai Cinque Stelle: l’uomo che cura gli interessi di Matteo Salvini a Bruxelles è l’ex grillino Marco Zanni. In corsa c’è anche la stellina del Capitano Susanna Ceccardi. Non è una riciclata, ma se fosse eletta, per lei arriverebbe il quarto incarico a stretto giro di posta: è già sindaco di Cascina (Pi), responsabile della Lega in Toscana e consulente del vicepremier Salvini a Palazzo Chigi.

Nel Pd riecco Giuliano Pisapia. La lunga traversata nel campo largo, larghissimo della sinistra, ha finalmente portato l’ex sindaco di Milano alla candidatura con i dem: fu già Democrazia Proletaria, Rifondazione Comunista e vendoliano nella “Rivoluzione arancione”; ha flirtato per un anno intero con Bersani e gli scissionisti antirenziani, è vicino a Tabacci e pure a Emma Bonino. A proposito, il partito radical-democristiano della coppia Tabacci-Della Vedova ovviamente ha imbarcato la qualsiasi: un po’ di ex Dc, un po’ di ex pannelliani, due ex 5Stelle e un ex Idv. La fantasia non manca.

 

Si lavicchia

Ogni tanto ci mettiamo nei panni degli studenti che assistono dalle tribune ai lavori parlamentari. E ci corrono i brividi nella schiena al pensiero del messaggio che possono trarne e portare con sé per il resto dei loro giorni. Se i docenti e i politici pensano di colmare così l’abisso che separa il Palazzo dai cittadini, soprattutto dai più giovani, è meglio che se ne inventino un’altra. Perché questa non funziona, o addirittura sortisce l’effetto opposto a quello sperato. E non tanto per gli scandalosi tassi di assenteismo, volgarità e pressappochismo che si registrano nei due emicicli, quanto per il linguaggio che vi si parla. Appena si sfiora il tema Giustizia, l’impressione non è di trovarsi in una seduta parlamentare, ma in un summit di mafiosi o di rapinatori che pianificano un colpo in banca. Perché nei paesi normali certe ossessioni non appartengono alle istituzioni, ma alle associazioni per delinquere. Oddio, qui arriva la pula. Mi sa che fuori della porta c’è la madama. Ho sentito un rumore strano nel cellulare, secondo me ci intercettano. C’è un’auto che mi segue, non vorrei essere pedinato. Girano strane voci di inchieste sulla sanità in Lombardia, qui ci vogliono fottere. Questi pm stanno diventando onnipotenti, bisogna fermarli. Siamo sotto assedio giudiziario, dobbiamo reagire. Stanotte mi sono svegliato tutto sudato: sognavo i carabinieri che venivano a prendermi. Non dirlo a me, ogni notte mi appare la Finanza. E io, allora? Vedo manette e sento sirene dappertutto.

L’altroieri a Dimartedì c’era B., che esercita nella politica italiana le funzioni didattiche svolte da Totò ne I soliti ignoti, con la vecchia cassaforte sul terrazzo, dietro i lenzuoli stesi (“Buongiorno brigadie’, come vede si lavicchia!”). Ed era sinceramente sgomento: “Floris, ma si rende conto che i 5Stelle hanno abolito la prescrizione?”. Ne parlava come di un diritto acquisito, più vitale dell’aria, dell’acqua, del lavoro, dell’istruzione, della salute, della pensione. Un ammortizzatore sociale. E non sembra, ma a parlare era un tre volte presidente del Consiglio. Intanto il leghista Edoardo Rixi, imputato per peculato nella Rimborsopoli ligure, con una richiesta di condanna a 3 anni e 4 mesi, dunque viceministro dei Trasporti, denunciava al Messaggero non meglio precisate “presenze del Movimento 5 Stelle nelle Procure”: ovviamente alludeva agli uffici dei magistrati (notoriamente grillini), perché al banco degli imputati ci pensano lui e i suoi amici. Il mese scorso il premier Conte e i 5Stelle hanno accompagnato alla porta il sottosegretario leghista Armando Siri.

Il noto patteggiatore per bancarotta fraudolenta è indagato per corruzione e soprattutto si è fatto beccare col sorcio in bocca mentre tentava di piazzare una norma ad personam per favorire l’azienda di un suo compare e di un imputato per mafia. Dunque non potrebbe stare al governo neppure in Botswana. Ma tanto è bastato perché in Parlamento scattasse l’allarme rosso per il pericoloso precedente: se passa il principio che un indagato in palese conflitto d’interessi perde la poltrona, siamo fottuti. A diventare un paese normale, si sa dove si comincia ma non si sa dove si va a finire. L’on. avv. Francesco Paolo Sisto (FI) s’è fatto portavoce del terrore dilagante, mettendo in guardia i colleghi: “È la prima volta che si revoca un membro del governo per una semplice informazione di garanzia. Noi non possiamo consentire che sia la magistratura a selezionare il governo, è di una gravità assoluta, significa che il nostro Paese è nelle mani di chi decide di indagare qualcuno! Ma ci vogliamo svegliare, in questo Paese? O vogliamo consentire che la politica, il Paese, la Costituzione siano nelle mani delle Procure? C’è una trasmigrazione del potere dell’inquisizione nella scelta della politica, come nelle peggiori tirannie che la storia ci abbia mai consegnato. Sveglia! Svegliaaaa!”. Applausi scroscianti dai banchi della Lega e delle opposizioni. Non sappiamo se c’era anche qualche studente, ad ascoltarlo. Ma sappiamo che, se c’era, si sarà domandato dov’era capitato: in un fumetto del Gruppo Tnt? O della Banda Bassotti?

Lo stesso spettacolo, moltiplicato per cento, è andato in scena nei dibattiti parlamentari sulla Spazzacorrotti e sul voto di scambio. Due leggi che dovrebbero preoccupare solo i politici che intascano mazzette e/o contrattano voti dai mafiosi in cambio di favori. Invece hanno suscitato ondate di sdegno sia nella Lega, che poi le ha votate entrambe per disciplina di governo, sia in FI e nel Pd, che le hanno fieramente respinte. Carlo Fatuzzo, fondatore del Partito Pensionati eletto con FI, ha dichiarato testualmente: “Con la legge sul voto di scambio rischiamo di trovarci tutti quanti a fare il Parlamento dentro la galera”. Gli ha fatto eco la forzista Giusi Bartolozzi, con la classica excusatio non petita: “Non sono tenuta a sapere se la persona che ho di fronte è o non è appartenente a un’associazione mafiosa”. Il compagno di partito Enrico Aimi ha paventato la trasformazione “di questa assemblea in una sorta di dottor Frankenstein del codice penale, al di fuori dei principi di civiltà”. E la pidina Monica Cirinnà ha tuonato contro la “nuova formulazione pericolosa”: ovviamente per chi scambia voti con favori ai mafiosi. Il fatto singolare è che il terrore coinvolge anche quanti mai commetterebbero un reato in vita loro: ce ne sono persino nel Parlamento italiano. Ma, non potendo mettere la mano sul fuoco per i vicini di banco, tremano lo stesso. Per conto terzi. Più invocano la presunzione d’innocenza, più diffondono la presunzione di colpevolezza. O perché sono colpevoli, e lo sanno. O perché sono innocenti, ma non lo sanno. E, nel dubbio, si sospettano da soli.

Gli orsi erano stranieri in Sicilia

“Esiste un immaginario diverso da quello americano o giapponese. Tutta la nostra cultura visiva non la utilizziamo come dovremmo: forse per mancanza di soldi o di creatività, non vediamo la ricchezza che abbiamo alle spalle”. Il disegnatore che fece l’impresa, non sovranista ma autoctona, è uno tra i nostri più celebrati, Lorenzo Mattotti, il suo La famosa invasione degli orsi in Sicilia adatta il romanzo (1954) scritto e illustrato da Dino Buzzati con “un’iconografia mediterranea, e non quella gotica-barocca degli anglosassoni a cui siamo ormai assuefatti: bellissima, per carità, ma perché non restituire il nostro immaginario?”.

In cartellone a Un Certain Regard di Cannes 72 e prossimamente in sala, co-prodotta da Francia (maggioritaria) e Italia, nel cast vocale Toni Servillo, Antonio Albanese, Corrado Guzzanti e Andrea Camilleri, l’animazione segue il Grande Re degli orsi che, per ritrovare il figlio Tonio e far fronte ai rigori dell’inverno, conduce il popolo dei plantigradi dai monti alla pianura abitata dagli uomini.

Preziosa, ancor più di questi tempi, la riflessione sullo straniero, l’invasione, la contaminazione (identitaria e etica) e la convivenza, l’afflato umanista è palpabile, la denominazione d’origine visuale protetta, l’apologo morale per tutte le età: “La forza di questa favola è che si rinnova continuamente, parla di cose universali. È stato un dialogo continuo con il lavoro di Buzzati, chiaramente, il film doveva essere spettacolare, volevamo fare cinema-cinema”. Omaggiato con la creazione ex-novo di un cantastorie e della giovane Almerina, dal nome della moglie, invero, lo scrittore è presenza persino ingombrante: dall’ossequio anche formale a Buzzati, ovvero alla naïveté delle sue originarie illustrazioni, a Mattotti rischia di venire un po’ la matitina corta.

Niki Lauda, l’uomo nato pilota diventato leggenda (già in vita)

Vienna, fine giugno del 2013. Per la prima volta viene proiettato Rush, le cui riprese erano appena terminate. Il film è su Lauda. Ma è anche sul grande rivale James Hunt. Sulla loro sfida perfetta, sulla Formula Uno quando ancora i piloti contavano più delle monoposto. E sugli anni Settanta: quelli da bere, il tempo della dissipazione. La favola sportiva affonda spesso nella palude degli stereotipi esistenziali. Lauda, il “pilota robot”. Hunt, lo scavezzacollo. In Rush la rivalità “è una sorta di terapia adrenalinica”, spiegò il regista Ron Howard.

Niki Lauda non batté ciglio. Accennò un sorriso con gli occhi. Si apprestava a rivivere sullo schermo le immagini del primo agosto 1976, quando dopo una curva del Nurburgring la sua Ferrari prese fuoco. Rimase intrappolato nell’abitacolo perché le cinture di sicurezza non si staccavano. Fu Arturo Merzario a estrarlo in tempo. Proprio il pilota che aveva perso il posto perché Enzo Ferrari gli aveva preferito il giovane austriaco. Solo il 5 agosto fu dichiarato fuori pericolo. Quarantadue giorni dopo il rogo, Lauda ritornò miracolosamente in pista. A Monza. Le bende in testa, il volto sfigurato. Di nuovo a battagliare con Hunt.

L’abbronzatura di Lauda, quel giorno a Vienna, celava le cicatrici delle vecchie ustioni che s’intravedevano appena sulla tempia destra e lungo la fronte. Parevano tracciassero il confine della vita da quello della morte. Niki Lauda mi avrebbe detto più tardi: “Non toccava ancora a me. Però ho sopportato sofferenze indicibili. Volevo ricominciare a fare quello che secondo gli altri non sarei più stato capace di fare. Ci riuscii”. E aggiunse: “Non sono mai stato un robot. Ma un pilota preciso, essenziale”. Capace di vincere tre titoli mondiali e 25 dei 171 Gran Premi disputati. James Hunt scomparve nel 1993, consumato dagli eccessi. Ora Lauda l’ha raggiunto lunedì scorso, stroncato da una polmonite, in una clinica svizzera dove era stato ricoverato per problemi ai reni (probabili postumi del trapianto di un polmone cui si era sottoposto pochi mesi prima). Aveva 70 anni. Col senno di poi, Rush può essere rivisto come un testamento. Il confronto tra due modi opposti di vivere e di battersi. Forse, in quelle due ore di proiezione, Lauda ne fu consapevole. In Chris Hemsworth rivide l’Hunt affascinante come il peccato, alto, biondo, bello che gli contendeva la gloria e la memoria. Il pilota spericolato che sfidava il pilota serio e metodico come un computer. Lo chiamavano Hunt The Skunt, Hunt lo Schianto. “Io aveva meno istinto, ma più cervello. E più volontà. Non so dire perché. Probabilmente lo devo alla buona educazione che ho ricevuto”. Nel calepino degli appunti ho sottolineato una frase: “Io volevo correre per il gusto di correre e vincere”. E ancora: “Per diventare campione del mondo non basta essere veloci, devi crederci. Sono parole che ho suggerito a Ron Howard…”. Hunt aveva paura di morire, Lauda sapeva che era un rischio, ma non temeva la morte, perché “la mia volontà era più forte. Sono nato in una famiglia molto importante in Austria: banchieri, imprenditori, capitani d’industria. Mio padre pretendeva che continuassi a studiare e mi laureassi in Economia, i miei non apprezzavano che fossi ritenuto un pilota molto promettente. Non ascoltai mio padre. Mi trasferii da Vienna a Salisburgo. Continuai a occuparmi di auto e di motori. Ma addosso mi è rimasto il senso buono dei principii trasmessi dall’educazione familiare. Impegno. Tenacia. Serietà. Fiducia in se stessi. Ero convinto che prima o poi sarei diventato il più forte del mondo. E che l’avrei dimostrato senza i soldi di mio padre”.

Lauda conquistò il titolo iridato nel 1975. L’anno dopo era in testa alla classifica, quando ci fu l’incidente. Lo seccava che Hunt avesse fatto il pieno di punti mentre lui era in ospedale. Dribblò i medici, la Scuderia, la moglie, ricominciò a correre da Monza: “Per guidare una monoposto non mi serve la faccia, ma il piede destro”. Contese il titolo ad Hunt sino all’ultimo Gp, in Giappone. Perse. Si sarebbe rifatto l’anno dopo, nel 1977. La prima volta che provò la Ferrari, disse chiaro e tondo: “È un’auto di merda!”. Leggenda? No: “Successe nell’autunno del 1973. A Fiorano mi dettero una B3. Dopo qualche giro, mi fermai. Il sottosterzo mi portava fuori a ogni curva. Era una trappola. Enzo Ferrari mi chiese perché ero scontento. Suo figlio Piero, che parlava inglese, esitava a tradurre. Il Vecchio insistette. Obbligai Piero a ripetere ciò che avevo detto. Il Vecchio infilò la grossa mano destra in una tasca dei pantaloni, si grattò vistosamente. E mi disse: nessuna Ferrari è di merda. Tutte le Ferrari sono ottime macchine. Tienilo sempre a mente. Ti do una settimana per lavorare con l’ingegnere Forghieri. Se non abbassi di almeno mezzo secondo il tempo sul giro, sei licenziato”. Due anni dopo, riportò la Ferrari a vincere un titolo mondiale. Nell’agosto del 1977 l’avventura con il Cavallino terminò. Il terzo titolo lo conquistò nel 1984, con la McLaren. Poi smise il volante e passò alla cloche delle sue compagnie aeree. Per chiudere da presidente del team Mercedes. Vincente, naturlich…

C’era una volta a Hollywood l’amore di Tarantino

Bastardi con gloria. Per Quentin Tarantino il cinema può ancora cambiare la storia e può sempre salvare il mondo, a partire da quello del cinema. Dieci anni dopo Inglourious Basterds e venticinque dopo la Palma d’Oro Pulp Fiction, il regista americano torna in Concorso a Cannes con un film che di quei due è la sintesi perfetta: ucronia e cinefilia, che lungi dall’essere intellettuale è sopra tutto filantropia per chi il cinema lo fa, e a ogni livello.

I nuovi bastardi sono Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) e la sua controfigura Cliff Booth (Brad Pitt): il primo è bastardo di nome, anzi, di ruolo, fa il cattivo in western televisivi, dal vecchio successo Bounty Law al nuovo e forse terminale Lancer; l’altro ha buone maniere ma è bastardo di fatto, fa volare Bruce Lee contro un’auto e in giro si dice pure che abbia ucciso la moglie con un fucile subacqueo.

Li incontriamo l’8 febbraio del 1969, ormai agli sgoccioli dell’età dell’oro di Hollywood: Once Upon a Time in Hollywood ci ricorda cosa fosse, ma lungi dall’essere modernariato e passatismo quello di Tarantino è un ritorno al futuro, un peana alle virtù salvifiche della Settima Arte e degli artisti, e artigiani, cui si deve. Lo humour è in campo, e la carica la suona l’agente Al Pacino: Pitt ha 55 anni, DiCaprio 44, ma a Rick chiede: “È tuo figlio?”. Tutto il resto è meta-cinema, forse mai come stavolta elevato a potenza da Quentin, e quando Rick Dalton brucia con il lanciafiamme dei nazisti sul set, il Grand Théâtre Lumière contiene a stento l’applauso, e qualcosa fa clic: ma dove l’avevamo già visto? Eppure, la sequenza che meglio illumina la cinefagia, la mise en abyme e il gioco di specchi di C’era una volta… a Hollywood, che arriverà nelle sale italiane il 19 settembre, non ha per protagonisti né Rick né Cliff, bensì Sharon Tate, reincarnata da Margot Robbie: compagna di Roman Polanski, l’attrice era all’ottavo mese di gravidanza quando il 9 agosto del 1969 venne assassinata a Los Angeles dai seguaci di Charles Manson.

Ma quella che interessa a Tarantino è altrove, va a rivedersi in sala in The Wrecking Crew (Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm, 1969) al fianco di Dean Martin, distende i piedi nudi – i feticisti possono prepararsi sin d’ora – sulla poltroncina e si ammira sullo schermo, crogiolandosi delle reazioni del pubblico. Eccolo qui, il nono film di Tarantino: noi spettatori in sala guardiamo Margot Robbie che interpreta Sharon Tate che vede in sala un film interpretato dalla vera Sharon Tate. Frattali? Quasi. Tarantino? 100%. Non esistono – ci dice per bocca di una giovane e tosta attrice sul set di Lancer – attrici ma solo attori, e che in pausa leggano la biografia di Walt Disney o, Rick, un western con l’ineffabile Easy Breezy poco importa: sono esseri preziosi, fragili e perfettibili, soprattutto – sempre Rick – se la notte prima hanno bevuto otto whisky e non si ricordano le battute.

In tv si vede FBI e Bonanza, le macchine sono Cadillac, sul giradischi Paul Revere & the Raiders, ma la fine di un’epoca è già nell’aria: Cliff torna allo Spahn Movie Ranch dei suoi primi stunt e lo trova infestato di hippie, una bella da morirci, Pussycat (Margaret Qualley), le altre solo da morirci. Che ne è del sogno pratico ma romantico dell’industria cinematografica? Come l’ha pervertito Charles Manson (Damon Herriman), e chi ha plagiato?

Il redde rationem può attendere, Rick non tira più come una volta, deve accettare il consiglio di Pacino e i western spaghetti che tanto detesta, e volare in Italia: da Nebraska Jim del “secondo miglior regista di spaghetti western Sergio Corbucci” al bondiano Operazione Dyn-O-Mite, quattro film in sei mesi, i “paparazzos” che ne solleticano l’ego e una moglie da riportare in America. Nostalgia? No, non solo. Tanto parla di ieri quanto ci dice di oggi, Once Upon a Time in Hollywood, e dice anche delle relazioni tra i sessi, soprattutto nel cinema e in tempi di #metoo, da Roman Polanski a Harvey Weinstein – è il primo lavoro di Tarantino senza il suo apporto produttivo. Quando Pussycat gli offre una fellatio per ringraziarlo del passaggio, Cliff le chiede quanti anni abbia e, dopo il “nessuno mi ha mai fatto questa domanda!” della ragazza, le chiede pure la carta d’identità. Non si scherza.

Strepitoso DiCaprio, perfetto e strafigo Pitt, non sarà – non lo è – un capolavoro, la nona di Tarantino, ma è forse qualcosa di più profondo, perfino necessario: l’elogio dell’amicizia, del rispetto e del lavoro; l’ode al cinema, e che lo si veda in sala o in tv poco importa: l’importante è come lo si fa. Potrebbe anche andare a premio, Once Upon a Time in Hollywood, a Cannes 72, ma forse “messicani del cazzo” risuona un po’ troppe volte, perché il presidente di giuria Alejandro González Iñárritu non se la leghi al dito.