Libia, la guerra civile degenera in lotta tra bande

Per qualche ora si è temuto che Tripoli sarebbe stata strangolata dall’arsura. Una milizia locale, comandata da un signore dalla guerra scatenato, ma poco conosciuto, Khalifa Hanaish, lunedì ha assalito la centrale idrica di Shuwairif, 450 chilometri a sud di Tripoli, costringendo i tecnici, armi in pugno ma senza sparare un colpo, a chiudere le valvole che alimentano l’acquedotto della capitale. Tripoli è rimasta senza acqua per 24 ore. Khalifa Hanaish è uno stretto alleato del potente generale Khalifa Haftar che il 4 aprile scorso ha cominciato una dura offensiva verso Tripoli per rovesciare il governo, riconosciuto dall’Onu, guidato dal primo ministro Fayez Al Serraj. Poiché quella in Libia è una guerra che si combatte sul piano delle propaganda, appena l’acqua ha smesso di scendere dai rubinetti della capitale, l’apparato pubblicitario del governo ha addossato la responsabilità ad Haftar, accusato di voler annientare gli avversari prendendoli per sete.

Il generale della Cirenaica ha smentito le accuse, sostenendo di aver subito spedito i suoi uomini alla centrale di Shuwairif per garantire la distribuzione. Fatto sta che poco ore dopo l’acqua ha ricominciato a defluire nelle case di Tripoli. Un portavoce di Haftar ha respinto le accuse: “Credete che vogliamo fare morire di sete la nostra gente? I nostri soldati sono appostati e controllano la periferia di Tripoli. Come pensate che avremmo potuto lasciarli senz’acqua?”

Non è il primo attacco di Khalifa Hanaish per cercare di convincere il governo a rilasciare suo fratello Al Mabruk Hanaish arrestato con l’accusa di appartenere a un gruppo armato. Qualche tempo fa i suoi uomini hanno rapito e tenuto in ostaggio quattro espatriati, un sudcoreano e tre filippini, tecnici che lavoravano in un impianto idrico nel Fezzan (la regione meridionale della Libia). La loro liberazione, avvenuta il 17 maggio, è stata possibile grazie all’intervento del generale Haftar in persona, che ha esercitato forti pressioni sul suo alleato. E così gli ostaggi sono stati consegnati alle autorità degli Emirati Arabi Uniti e immediatamente liberati. Occorre poi sottolineare che la milizia locale di Brak comandata da Hanaish, assomiglia più a una banda di briganti tagliagole che a un gruppo politico. Prima il suo business era rappresentato dal trasposto di migranti che dal deserto del Fezzan volevano arrivare al Mediterraneo. Ora che gli affari si sono assottigliati sono costretti ad arrangiarsi con taglieggiamenti e estorsioni.

Austria, Kurz spera nel governo tecnico dopo il “caso russo”

Sarà un governo semi-tecnico quello che traghetterà l’Austria alle elezioni di settembre, dopo la rottura della coalizione per lo scandalo che ha coinvolto l’ex vice-cancelliere Heinz-Christian Strache. Un governo in cui esperti sostituiranno i ministri che il partito di estrema destra Fpoe ha ritirato lunedì dopo la richiesta del cancelliere Sebastian Kurz di allontanare dal suo incarico il ministro degli Interni del Fpoe, Herbert Kickl. Non è ancora certo che Kurz riuscirà nella sua impresa. Il voto di fiducia in Parlamento è previsto per lunedì. Il presidente Van der Bellen sostiene il cancelliere nella sua ipotesi di transizione: “Non c’è un piano B”, ha detto a chiare lettere. Se il governo di Kurz non dovesse superare la prova, allora rimarrebbe l’opzione di un governo puramente tecnico. Questa ipotesi è stata ventilata dai socialdemocratici del Spoe. Molto dipenderà anche da cosa offrirà in cambio Kurz nei prossimi giorni. Gli ex alleati dell’estrema destra sono in una situazione analoga. Prima hanno lasciato intendere che non avrebbero mai sostenuto un governo senza di loro, poi sono tornati indietro. A favore del cancelliere si sono schierati i liberali di Neos, che però contano solo 10 seggi, non sufficienti a raggiungere la maggioranza anche insieme a quelli dei popolari. Intanto sul giallo di Ibiza prende quota l’ipotesi di un coinvolgimento dei servizi segreti. Oggi il tabloid Bild ha preso in esame la possibilità di una partecipazione del Mossad, dei servizi russi e del metodo Silberstein, dal nome di un consulente dei socialdemocratici che aveva usato pagine Facebook anonime per diffamare Kurz nel 2017. Sull’ipotesi servizi più di tutti pesa l’uscita di ieri del presidente del Bundestag, Wolfgang Schäuble: “In qualche modo c’è odore di servizi segreti”.

Usa, il “bastardo mentitore” che toglie il sonno a Trump

C’è un avvocato – l’ennesimo – che turba i sonni del magnate presidente Donald Trump e che agita le acque della politica statunitense: Donald McGahn, ex consigliere legale della Casa Bianca, ieri non s’è presentato a testimoniare di fronte alla Commissione Giustizia della Camera, sfidando un’ingiunzione.

L’opposizione democratica cerca di girare il coltello nella piaga del Russiagate, l’indagine sui contatti nel 2016 tra la campagna del magnate ed emissari del Cremlino e sul ruolo della Russia in quelle elezioni. Una storia che non finisce mai, non finirà mai: accompagnerà tutto questo mandato presidenziale, sarà una spina nel fianco costante di Trump senza magari arrivare alla messa sotto accusa e tanto meno all’impeachment.

L’ingiunzione a McGahn e il rifiuto a comparire toccano questioni giuridiche e politiche: che cosa il presidente Trump può davvero mantenere segreto invocando il ‘privilegio esecutivo’; e se un suo consigliere è “assolutamente immune” dagli ordini a comparire dei legislatori.

“È gravissimo, le nostre citazioni non sono un optional”, sostiene il presidente della commissione, il democratico Jerry Nadler, accusando Trump d’impedire a McGhan di presentarsi. Nadler, deputato dello Stato di New York, al quarto mandato, è protagonista d’un braccio di ferro a distanza con Trump, ingaggiato per conto dell’opposizione democratica, che alla Camera è maggioranza. “Se non fosse presidente, Trump sarebbe già stato incriminato per ostruzione alla giustizia”, dice.

Quello di McGahn non è l’unico fronte aperto tra il presidente e la commissione: ci sono citazioni per altri quattro legali della Casa Bianca e per il figlio maggiore di Trump, Donald jr. Poi c’è la questione delle dichiarazioni fiscali mai rese pubbliche da Trump (e delle tasse mai o poco pagate). Lunedì, un giudice ha sancito che il fiscalista del presidente dovrà trasmetterne i documenti finanziari al Congresso: è solo il primo round. Il presidente è deciso a resistere alle ingiunzioni congressuali, che, d’altra parte, hanno una forte valenza politica.

Donald Francis McGahn II, 51 anni, cattolico, sposato con due figli – la moglie Shannon era consigliere del segretario al tesoro Steven Mnuchin – è stato nel team legale del presidente Trump dal giorno del suo insediamento, il 20 gennaio 2017, al 17 ottobre 2018, quando si dimise. Prima, era stato alla Commissione elettorale federale ed aveva poi gestito le numerose beghe giudiziarie della campagna Trump. Dopo l’elezione, era stato consulente del team della transizione.

Il suo ruolo nel consigliare il presidente sul Russiagate è stato difficile, perché Trump non è sempre docile ai consigli legali, e controverso, perché c’è chi pensa che McGahn in qualche caso sia andato oltre i confini legali del proprio ruolo. Fra frizioni con il presidente, cui doveva talora spiegare che non poteva fare quello che lui voleva, e imbarazzi con il procuratore speciale Robert Mueller, di cui è stato il principale referente, McGahn, alla fine, si dimise: un addio annunciato a fine agosto e attuato a metà ottobre. Nel rapporto finale del procuratore Mueller, c’è scritto che, a un certo punto del 2017, McGahn si sarebbe lamentato con l’allora capo dello staff della Casa Bianca Reince Piebus che il presidente voleva che facesse “cose da pazzi”. Trump avrebbe così reagito all’accusa: “McGahn è un bastardo mentitore”.

Messico e corruzione. Il governatore fidato che ha tradito Amlo

Ha chiamato il partito con cui è arrivato alla presidenza a dicembre scorso “Movimento per la rigenerazione nazionale” (Morena). Ha definito la corruzione “la radice di tutti i mali del Messico”, ha dedicato alla lotta al malaffare l’obiettivo dei primi 100 giorni del suo governo conferendo all’esercito i poteri di scovare i corrotti, mossa questa che ha “impressionato” il magistrato spagnolo Baltasar Garzon – colui che ha permesso l’arresto di Augusto Pinochet in Cile –. Eppure il presidente del Messico Andrés López Obrador, in cinque mesi di governo non smette di inciampare in casi di corruzione nel suo giro più intimo. Ultimo in ordine di tempo, quello sollevato dalla Procura di Jalisco, lo stato a maggior concentrazione di narcotrafficanti del Paese.

Lì, il delfino di Amlo, Carlos Lomelí da poco eletto governatore e superdelegato del governo sotto l’ombrello di Morena, è accusato di conflitto di interessi. Si indaga su 11 aziende gestite da stretti familiari del governatore che avrebbero ottenuto appalti pubblici per milioni di dollari. Per una di queste, la Abisalud, si parla addirittura dell’aggiudicazione di gare per milioni di pesos. Ma non è la prima volta in questi pochi mesi di governo che il leader di Morena si trova in un impasse simile. Già ad aprile dovette annunciare l’intenzione di annullare un contratto pubblico vinto da Bio Pappel Scribe, incaricata di vendere carta alla segreteria del ministero dell’Educazione. La compagnia, in quel caso, era di proprietà dell’imprenditore Miguel Rincon, amico di López Obrador e parte del suo Consiglio di Assessori alle Emprese. La Bio Pappel non aveva chiesto neanche l’indennizzo per l’affare saltato. Il caso di Lomelí, però, potrebbe avere dei risvolti più seri per il presidente. Quello di superdelegato di governo, infatti, è un incarico che di per sé già smuove gelosie tra i governatori, essendo a diretta elezione del governo federale, in questo caso di Amlo in persona. A questo si aggiunge che l’allora candidato di Morena al governo di Jalisco, aveva negato per l’intera campagna elettorale di avere un legame di qualunque tipo con l’impresa in questione. “Non si tratta di una mia azienda, informatevi e indicate le persone giuste”, aveva dichiarato Lomelí un anno fa, a pochi mesi dall’elezione. Stando invece all’inchiesta delle giornaliste messicane Valeria Duran e Laura Sanchez, la Abisalud, fondata nel 2009 avrebbe lo stesso domicilio fiscale dell’azienda farmaceutica di Lomelí, mentre altre due imprese, controllate da sua moglie e dai suoi figli, sarebbero registrate nella stessa strada a pochi numeri civici di distanza dalla principale. E non finisce qui. Due collaboratori del governatore, tra cui uno dei suoi segretari e un ex coordinatore della compagna elettorale, sono stati rispettivamente direttore e rappresentante legale della Abisalud. Mentre sulle altre imprese (Lomedic, Corporativo Internacional Vigilando tu Salud, Laboratorio Solfran, Laboratorio Bioterra, Lo Vending Group, MC-Klinical, Proveedora de Insumos Hakeri e Grupo Quiropráctico del Bajío) Lomelí ha dichiarato il vero, riconoscendo in parte i legami con queste, per quanto riguarda Abisalud non li ha mai confermati. Mesi dopo, però, proprio questa ha iniziato a vincere appalti pubblici sia sotto il governo “amico” di Veracruz, che sotto quello federale di López Obrador, dal quale nel 2019 Abisalud ha ottenuto una commessa di 164 milioni di pesos (8,5 milioni di dollari) per otto contratti di vendita di medicine come paracetamolo o altri materiali sanitari. Sei di questi bandi pubblici – cosa più grave – sono stati vinti dall’azienda legata al governatore su affidamento diretto. Lomelí ancora non ha risposto agli inquirenti sulla questione Abisalud. Finora l’unico dato certo è che l’azienda farmaceutica lavora per il governo dal 2013 e che in poco meno di sei anni ha ottenuto 150 milioni di dollari in appalti, che gli hanno permesso di guadagnare a titolo personale 113 milioni di dollari tra commesse in ospedali e cliniche negli stati di Jalisco, Guanajuato, Città del Messico, Stato del Messico, Chiapas e Michoacan. Tra i suoi clienti si annoverano l’Istituto Nazionale di Pediatria, l’Istituto messicano della prestazioni sociali e le azienda di petrolio nazionali (Pemex).

Un’inchiesta questa destinata a gettare un’ombra sul presidente messicano, impegnato in questi giorni nella presentazione del cosiddetto “Piano Marshall per il Centramerica”. Un’agenda di sviluppo lunga trenta punti per un totale di più di 10 miliardi di dollari promessi dal presidente degli Usa, Donald Trump ai paesi americani in cambio del freno all’immigrazione. Andrés Manuel López Obrador si è presentato agli Usa come capo e garante del Cepal (Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi). “No con la forza, non con la violenza”, è il suo motto per gestire la crisi migratoria. “Non si può combattere il male con il male, dobbiamo andare al fondo del problema”. Il che, per Amlo significa investire sul Centramerica, dare lavoro alla popolazione e non solo respingerla alla frontiera. Un piano – dall’Honduras al Guatemala, passando per El Salvador – che incrocia due momenti storici: da una parte l’assenza di leader americani in grado di rappresentare la Regione ad appuntamenti importanti come la ratifica del nuovo trattato di libero commercio del Nordamerica (T-Mec), dall’altra le elezioni Usa 2020 in cui Trump cerca la rielezione. Da qui l’idea di Amlo di passare alla storia come il presidente che rivoluzionò le Americhe. Ma forse non il Messico.

Amore e morte via Facebook: le trappole del seduttore sadico

Mark Caltagirone ha ucciso una giovane donna. Non lui, perché lui non esiste, ma il catfish (o love scam) ovvero il fenomeno che si nasconde dietro alla creazione di profili falsi sui social per manipolare e ingannare. La storia, raccontata in una lunga inchiesta dal giornalista James Oaten per la tv pubblica australiana Abc, spiega come il caso Prati sia la punta dell’iceberg di un fenomeno molto più complesso.
Siamo nel 2011. La protagonista è Emma, una hostess appena uscita da una relazione dolorosa. Emma riceve una richiesta di amicizia su Facebook da un compagno delle elementari, l’attore della soap australiana Home and Away, Lincoln Lewis. I due iniziano una relazione virtuale fatta di messaggi continui, foto e telefonate. Lincoln però rimanda sempre il momento di incontrarsi, finché Emma non inizia ad avere dubbi e rintraccia il numero del vero Lincoln.

“Io e te abbiamo avuto una relazione per due mesi?” gli domanda. “No, di cosa parli?”, le risponde lui. Emma gli racconta tutto, lui rimane sconvolto, ma dopo poco, mentre si trova in vacanza a Bali, una sconosciuta lo ferma per strada “Hey Lincoln, mi riconosci?”. Lui non la conosce. La sconosciuta gli spiega che sono amici su Facebook da tempo. Solo che quel Lincoln che ha relazioni e amicizie virtuali non è lui.

Emma nel frattempo scrive al finto Lincoln che ha scoperto l’inganno. Il finto Lincoln ammette la bugia, spiega che lui in realtà si chiama Michael e che quel profilo è uno scherzo, ma che di lei si è innamorato sul serio. Emma gli crede. La storia ricomincia, lui le invia foto in cui appare come un ragazzo bellissimo. “Ci parlavamo tutti i giorni, era una relazione profonda”, dirà Emma alla polizia. Emma però scopre che quelle foto appartengono a un attore inglese, Danny Jason McGreen. Michael le spiega che lui in realtà è il vero Danny Jason McGreen ma usa uno pseudonimo sui social per sfuggire a una sua ex che lo stalkerizza. Emma gli crede. “Baby, questo amore è stato un giro sulle montagne russe, ma sono l’uomo più fortunato del mondo”, le scrive lui. Le montagne russe sono appena iniziate.

Emma comincia a ricevere anche 80 messaggi al giorno da vari profili, alcuni amichevoli, altri ostili. È confusa. Un giorno riceve la mail di un sedicente agente federale che la informa che il suo fidanzato è stato rapito, allegando una foto di lui legato in un luogo imprecisato. Emma riceve messaggi anche da sedicenti familiari di lui disperati e crolla. “Ero nel panico, stavo distruggendo il mio lavoro”, dirà alla polizia in seguito.

Dopo un po’ Michael riappare e le dice che non era stato rapito: era andato a Miami e aveva staccato la spina per un po’. Nonostante questo Emma non ha la forza di interrompere il rapporto. Riprende a lavorare, finché un giorno, atterrata a Los Angeles, apre il messaggio di uno sconosciuto che minaccia di andare dalla sua famiglia con una pistola. Si rivolge alla polizia che mette la sua famiglia sotto scorta, ma a quel punto è in un incubo senza ritorno. Lo sconosciuto invia delle sue foto intime alla famiglia, ma allo stesso tempo le manda a casa cioccolatini e peluche. “Diceva che non riusciva più a vivere la sua vita, era come se la sua mente e il suo corpo fossero dissociati”, racconterà in seguito la psicologa a cui Emma si era rivolta. Alla fine, grazie a Jess, un’altra vittima, l’identità del persecutore verrà scoperta, ma Emma non aspetta la fine del processo. Si suicida nel 2017, incapace di superare il trauma.

Anche Jess è una hostess, solo che lei incontra sul serio il vero attore Lincoln Lewis su un volo e ci scambia qualche parola. Quindi gli chiede l’amicizia su fb, ma il profilo è quello falso, quello del catfishing a Emma. Jess e il finto Lincoln iniziano una relazione, lui aiuta perfino sua figlia a fare i compiti al telefono. “Sembrava un teenager quando sta cambiando la voce ma non dubitavo”, dirà alla polizia. Lui le spiega che non può incontrarla perché lei è molto più grande di lui e i media lo massacrerebbero. Jess fa delle verifiche e intuisce l’inganno, ma continua la relazione, cerca di scoprire chi si nasconda dietro quel profilo. “Non potevo accettare l’idea di non sapere di chi mi fossi innamorata”, confesserà alla polizia.

Un giorno lui le scrive che la mattina era dietro un cespuglio e l’ha vista col suo vestito blu e la bambina con la divisa della scuola. Lei si spaventa e va dalla polizia. Cambia casa e scuola alla figlia. La polizia le chiede di registrare le telefonate e, quando lo sconosciuto si offre di sostenerla economicamente, le suggerisce di farsi fare un bonifico. Lo sconosciuto si reca nella sua banca e le fa accreditare 200 dollari sul suo conto. Individuata la banca, la polizia controlla le telecamere e scopre l’identità del donatore. È una donna. Una ragazza di 29 anni di Melbourne di nome Lydia Abdelmalek. Lei è la mente del più tragico catfish della storia. Una ragazza copta che frequenta la chiesa con assiduità, con un profilo Facebook in cui si mostra amorevole con la mamma e gli amici, carina d’aspetto, insospettabile. La sua casa viene perquisita, lei viene arrestata.

Le prove, definite dal magistrato “impressionanti e inequivocabili”, sono profili falsi, indirizzi ip, regali che avevano codice postale dei suoi genitori, la sua voce nelle registrazioni, i telefoni pieni di password e foto di celebrità. Aveva addirittura violato alcuni profili per cancellare conversazioni e prove. È accusata di stalking ai danni di sei ragazze e a giugno arriverà la sentenza. In tribunale non ha dato spiegazioni e non ha mostrato rimorso. La sua psicologa Vanda Brink ha affermato: “Il suo movente non è chiaro. La forza trainante del catfishing proviene dal desiderio di manipolare, di rendere un burattino un altro essere umano”. Jess e Emma si erano legate molto, Emma poco prima di suicidarsi aveva scritto all’amica: “Non ce la faccio più”. Jess non ha più avuto relazioni, non si fida di nessuno. “Quella donna ha le mani sporche di sangue”, ha dichiarato.

Reddito di cittadinanza, al Sud si è più obbligati a cercare lavoro

Il reddito di cittadinanza porterà più persone nei centri per l’impiego siciliani e calabresi che in quelli lombardi e veneti. Non solo perché al Sud lo strumento contro la povertà raggiunge più cittadini, ma pure perché la percentuale di beneficiari obbligati a cercare lavoro è più alta nelle due Regioni meridionali che in quelle settentrionali.

Il dato è relativo alla prima infornata: quella di chi ha fatto domanda a marzo e ha avuto risposta positiva ad aprile. In Sicilia il sostegno nel primo mese è andato a 87.775 richiedenti, ognuno dei quali rappresenta il proprio nucleo. Dal 24 giugno saranno convocati in 27.111 per iniziare la ricerca di un posto: il 31% dei capifamiglia che hanno firmato i moduli. In Calabria saranno 13.400 su 35.997, il 37%. Diverse le proporzioni in Lombardia, dove la chiamata arriverà per 6.282 persone su 37.152; ogni 100 percettori, 17 cercheranno un’occupazione e 83 andranno ai servizi sociali. Ancora più ristretta la platea di individui da avviare al lavoro in Lazio, ferma al 15% (6.510 su 44.705). In Veneto, cuore del ricco Nord-Est, la ricerca sarà imposta al 22% dei percettori. La possibile spiegazione del paradosso è che nelle aree con più posti, e stipendi più alti, chi resta disoccupato può accedere ad ammortizzatori sociali più generosi e non ha bisogno di chiedere il reddito. A presentare la domanda restano quelli molto lontani dal mondo del lavoro. Al Sud, invece, è più facile essere poveri pur essendo occupati, o essendo rimasti a casa da poco. Ecco perché nel Mezzogiorno è superiore la percentuale di “attivabili”.

I dati comunque sono provvisori; a breve saranno aggiunti gli altri componenti della famiglia – non solo il firmatario dei moduli – e potrebbero cambiare le percentuali. Resta un fatto: il reddito funzionerà come accompagnamento al lavoro solo per il 25% della platea. Numero che crescerebbe se si accogliesse l’idea, presentata dal presidente Inps Pasquale Tridico, di estenderlo a chi è da poco disoccupato. Proposta inserita nel dibattito su come utilizzare il miliardo che potrebbe avanzare rispetto allo stanziamento. Anche l’Acli, associazione che guida l’Alleanza contro la povertà, ha detto la sua, chiedendo di “destinare i risparmi in favore di minori e stranieri”, due categorie finora penalizzate dagli stringenti requisiti sulla cittadinanza e sulla scala di equivalenza per i nuclei numerosi.

Intanto è ancora in tensione il personale dell’Anpal Servizi, società pubblica che assumerà i 3 mila navigator. Tra gli attuali operatori, saranno stabilizzati solo 25 su 650 precari. Per questo ieri hanno scioperato per due ore e domani si fermeranno per l’intera giornata.

L’eredità rock di un grande economista

Alan Krueger è stato molte cose: economista a Princeton, capo dei consiglieri economici di Barack Obama, pioniere delle ricerche sul salario minimo (che, dimostrò, non fa salire la disoccupazione, almeno in New Jersey). Ma era anche un grande appassionato di musica e con “Economia Rock” ci lascia un saggio che è sia divulgazione che ricerca. Perché è un libro che spiega l’economia attraverso le dinamiche del settore musicale, ma è anche un lavoro di indagine qualitativa (interviste) e quantitativa (dati su concerti, download, streaming) che rivela le dinamiche nascoste di un mondo in cui sono all’opera da anni le forze che plasmano il nostro mondo: il passaggio dal mondo fisico al digitale e ritorno, la precarietà, la tendenza del mercato a premiare poche superstar globali lasciando le briciole a tutti gli altri. Il libro è un capolavoro di rigore e scrittura. Purtroppo anche Krueger ha seguito il destino di molte rockstar ed è morto, ancora giovane e bello come tutti gli eroi, a marzo per un incomprensibile suicidio.

Decrescita (poco) felice: storia dell’eterna illusione

Periodicamente le civiltà subiscono la tentazione della decrescita. Ai tempi delle polis greche e nella fase declinante dell’Impero Romano erano spuntati dei filosofi, detti stoici, che predicavano il distacco dai beni materiali come rimedio all’infelicità. Seneca denunciava il tempo speso ad accumulare cose inutili, i supervacua, anticipando di molti secoli la scoperta da parte dell’economista Richard Easterlin del paradosso per cui oltre una certa soglia la felicità cessa di aumentare assieme al reddito. L’età moderna ebbe in Jean-Jacques Rousseau il profeta di un ritorno alle piccole comunità autarchiche, nelle quali ogni individuo era contemporaneamente contadino e artigiano. Oggi qualcuno torna a chiedersi se non faremmo bene anche noi a tornare a una vita più frugale.

Di cosa abbiamo bisogno per essere felici? Lo psicologo Abraham Maslow la faceva semplice. Disegnava una piramide e diceva: alla base ci sono i bisogni fisiologici (l’alimentazione, il sonno…) poi c’è la sicurezza, poi quello che lui chiama “appartenenza” ovvero l’amicizia e la famiglia, poi la stima e infine l’autorealizzazione. Il sistema capitalista può facilmente soddisfare i bisogni situati alla base della piramide. Eppure, come sapeva Maslow, questo non basta. Raggiunto un certo grado di prosperità economica, il problema è un altro: come si fabbrica l’autorealizzazione?

Nel dibattito americano dell’ultimo ventennio si parla di “politica del riconoscimento” per indicare la domanda proveniente dalle minoranze etniche, religiose, sessuali di un maggiore rispetto della propria differenza. Rousseau parlava di amor proprio, contrapposto al puro istinto di conservazione ovvero l’amore di sé.

La visione materialista di Maslow era coerente con l’ideologia della sua epoca, che mentre sviluppava il più imponente apparato produttivo della storia si illudeva che la società industriale sarebbe riuscita a garantire la soddisfazione di tutti i bisogni. Ma le cose girano al contrario rispetto a quanto pensava Maslow: via via che i nostri bisogni materiali vengono soddisfatti, cresce la competizione per quei bisogni sociali la cui soddisfazione dipende dall’insoddisfazione degli altri.

Nel corso degli anni la classe media occidentale ha vissuto una storia di progressivo arricchimento e imborghesimento, raggiungendo nell’epoca del boom un picco unico di ricchezza: una ricchezza accumulata nel tempo e nello spazio, ovvero mettendo a profitto il lavoro di persone che ci hanno preceduto oppure di altre che, dall’altra parte del mondo, estraevano le materie prime di cui avevamo bisogno. Questo sistema di divisione internazionale del lavoro ha fissato i nostri standard di esistenza come se fossero naturali e universali. Oggi ci accorgiamo che siamo stati beneficiari di un sistema economico tanto fragile quanto fondamentalmente ingiusto, anche sul piano ecologico. Via via che s’incrina il predominio occidentale, una parte crescente della popolazione mondiale si concede finalmente il diritto di desiderare la stessa cosa che desiderano le classi medie americane ed europee, trascinando l’intero pianeta in un conflitto per l’accesso alle risorse materiali ma anche a quelle simboliche.

E se invece di accelerare la soluzione fosse decrescere? Non possiamo escludere che un uomo del paleolitico fosse più felice di noi stressatissimi impiegati del terziario, ma possiamo essere abbastanza sicuri che nessuno di noi potrebbe vivere come un uomo del paleolitico; basta osservare come reagisce la popolazione a qualsiasi minaccia che riguardi il proprio stile di vita.

Il problema ecologico del pianeta è lo stesso, esistenziale, della classe media occidentale “disagiata”: una domanda drogata dal bisogno di riconoscimento, che impegna una quantità enorme di risorse, di energie, di lavoro e di violenza. Per questo non ci potrà essere decrescita che non sia innanzitutto decrescita culturale, un massiccio cantiere di deprogrammazione dell’amor proprio.

Ma il mondo sta andando in tutt’altra direzione. Oggi la lotta per il riconoscimento che contraddistingue la società liberale è diventata planetaria. Non stupisce che molti si percepiscano come perdenti – ognuno lo è rispetto a qualcun altro, o rispetto a se stesso in un altro momento della vita – e dunque covino un crescente disagio e un profondo risentimento. Proprio la paura di decrescere ha messo sul piede di guerra la classe disagiata occidentale, che oltre a non volere spartire la propria ricchezza teme di scivolare giù nella gerarchia sociale della dignità internazionale. Questo disagio caratteristico della civiltà capitalistica porta anche a una percezione distorta dei rapporti politici ed economici.

Come Rousseau qualcuno si è convinto che potremmo vivere coltivando un orticello; oppure trasformando l’intero Paese in un grande campo da zappare. Mentre sogniamo il pomodoro coltivato in perfetta autonomia, perdiamo di vista qualcosa di più grande: ovvero che dipendiamo da un complesso sistema di estrazione delle materie prime, di approvvigionamento delle risorse, di sfruttamento del lavoro, di regolazione dei rapporti sociali, di profilassi sanitaria – un sistema complesso, e costoso, senza il quale non potremmo sopravvivere un sol giorno.

Indubbiamente, notava Montesquieu nelle sue Lettere persiane, Parigi è corrotta dai lussi; ma ogni tentativo di tornare a un’ideale età dell’oro riconvertendosi a un’economia di pura sussistenza sarebbe stato pura follia.

Pensioni d’oro e conguaglio: a giugno tagliati gli assegni più alti

Doppia tegola a giugno per i pensionati: scatteranno sia il taglio alle pensioni d’oro che il conguaglio relativo alla mancata rivalutazione piena delle pensioni. Nel primo caso il “prelievo di solidarietà” per i trattamenti compresi tra 100mila e 130mila euro sarà del 15%. Il taglio sarà invece del 25% per le pensioni da 130mila a 200mila euro, del 30% per gli assegni compresi tra 200mila e 350mila euro, del 35% per chi percepisce tra 350mila a 500mila euro e del 40% per tutti gli assegni sopra i 500mila euro.

Decisamente più ampia la platea dei pensionati interessati dal taglio della rivalutazione annuale: coinvolgerà tutti i trattamenti superiori a tre volte il minimo. È la legge di Bilancio ad aver stabilito che l’adeguamento pieno delle pensioni all’inflazione sarebbe spettato solo a chi aveva un trattamento pari o inferiore a tre volte il minimo. Il ricalcolo però è avvenuto solo a partire da aprile. E nei primi tre mesi del 2019 molti pensionati hanno ricevuto un assegno più favorevole.

Dal 2021 saranno vietati posate e piatti di plastica. Ma non i bicchieri

Il Consiglio europeo ha approvato la direttiva che limita fortemente la produzione di oggetti monouso in plastica. Dal 2021 verrà messa al bando la plastica usa e getta per posate e piatti (sono esclusi stranamente i bicchieri), cannucce, cotton fioc, bastoncini per palloncini, contenitori per alimenti e tazze in polistirolo espanso. I Paesi si sono inoltre impegnati a raggiungere la raccolta delle bottiglie di plastica del 90% entro il 2019. Dal 2021, inoltre, scatterà anche il principio della responsabilità estesa del produttore che viene applicato a prodotti che contengono plastica come filtri del tabacco, palloncini, assorbenti igienici, salviette umidificate e prodotti per la pesca. Con le nuove norme si eviterà l’emissione di 3,4 milioni di tonnellate di CO2, si scongiureranno danni ambientali per un costo equivalente a 22 miliardi di euro entro il 2030. Per il consumatore si genereranno risparmi per 6,5 miliardi di euro.”