Google e la guerra di Trump: tutte le mosse dei cinesi da Huawei a Zte

Sospiro di sollievo, seppur breve: chi ha comprato un dispositivo Huawei può stare tranquillo almeno per i prossimi tre mesi. A farlo sapere, ieri, la stessa Google che ha spiegato che tutti i dispositivi su cui sono già installati il sistema operativo Android e la suite Google continueranno a funzionare e avranno anche gli aggiornamenti. E se per le applicazioni non cambierà nulla, perché gli aggiornamenti passano direttamente tramite Google Play, l’unica incognita potrebbe essere – tra tre mesi – la possibilità di aggiornare le patch di sicurezza che invece vengono ricevute dall’azienda produttrice e poi applicate al sistema operativo. Per allora però, ammesso che la situazione Usa – Cina non si sblocchi, gli aggiornamenti potranno comunque passare per la versione open source di Android, che Huawei può usare liberamente. Inoltre, durante la tregua (fino al 19 agosto), Huawei potrà continuare a ricevere le forniture per i device e i servizi già venduti ma non le componenti per nuovi dispositivi. Intanto, la casa di Shenzhen ha fatto sapere di essere pronta a tirare fuori dal cassetto un proprio sistema operativo (Hongmeng)a cui starebbe lavorando dal 2012. “Gli Stati Uniti sottovalutano le nostre capacità – ha detto il fondatore di Huawei, Ren Zhengfei – la società è in grado di continuare a fornire prodotti e servizi, le sanzioni statunitensi non danneggeranno il core business aziendale”. E anzi, minacciano concorrenza ad Android e IOs .

E mentre le tensioni geopolitiche si combattevano sul campo della tecnologia, l’altra cinese osteggiata dagli Usa, Zte (leader come Huawei nelle tecnologie del 5G) inaugurava a Roma il suo laboratorio europeo sulla Cybersicurezza alla presenza del sottosegretario alla Difesa del M5s, Angelo Tofalo, e dell’assessore capitolino Flavia Marzano. Un centro che Zte mette sotto l’etichetta di “operazione trasparenza”, il primo dell’azienda in Europa. Un altro sarà aperto in Belgio. L’obiettivo è rassicurare e mostrare collaborazione. Prima che qualche ban ne vanifichi gli investimenti milionari.

La crisi è colpa della finanza ma non del risparmio

L’euro continua a essere inteso come soluzione o dannazione. Quasi sempre questa polarizzazione interpretativa impedisce di focalizzare i problemi. Una recente pubblicazione aiuta a uscire da questa trappola. Gli autori sono l’economista Riccardo Bellofiore, il sociologo Francesco Garibaldo e la giovane economista e parlamentare del Bloco de Esquerda portoghese Mariana Mortagua: Euro al capolinea? La vera natura della crisi europea (Rosenberg & Sellier). Il contributo più interessante del libro è l’analisi della crisi che va oltre quelle che gli autori definiscono “isole nazionali”. La crisi non è stata principalmente la risultante di squilibri commerciali, come sostenuto sia in campo ortodosso sia eterodosso, trascurando le principali novità del nuovo modello economico dominante, cioè “l’evoluzione spettacolare e l’integrazione dei mercati finanziari internazionali”.

Gli squilibri globali, infatti, “sono finanziati da complesse vie multilaterali di flussi finanziari lordi, che sono in genere molto più grandi dei divari stessi delle partite correnti”, cioè delle transazioni che un paese effettua per la vendita e l’acquisto di beni e servizi. Tali flussi, per entità e ruolo, ormai possono essere persino scollegati dalla configurazione globale degli scarti tra risparmio e investimento. Le partite correnti non ci informano adeguatamente circa il ruolo che un Paese gioca nei prestiti internazionali, il grado in cui i suoi finanziamenti provengono dall’estero, gli impatti che i flussi di capitale internazionale hanno al proprio interno. In un’economia chiusa, il risparmio coincide con il reddito non consumato, il quale si può trasformare in investimento. Ma per produrre e investire c’è bisogno del finanziamento, un vincolo non necessariamente correlato né ai livelli di risparmio né alla dimensione delle partite correnti.

La crisi deriva da un problema di finanziamento che non è più sovrapponibile al risparmio, tantomeno lo precede. Nel nuovo modello il finanziamento è centrale tanto per i Paesi importatori quanto per quelli esportatori. La crisi esplode per i flussi finanziari lordi a livello internazionale e non per quelli netti derivanti dalla bilancia commerciale.

Il pensiero mainstream individua nella mancanza di risparmio della periferia la causa della crisi, mentre quello eterodosso sottolinea l’eccesso di risparmio del centro, ma oggi le transazioni commerciali catturano solo una frazione delle transazioni e ogni transazione richiede un finanziamento. L’economia dominante, dunque, è soprattutto economia monetaria e finanziaria, in cui i flussi di capitale hanno effetti decisivi sull’economia e sulle sue fragilità. Da questa impostazione deriva un’accurata analisi delle trasformazioni degli assetti produttivi europei, della loro centralizzazione e integrazione. L’industria si espande per cerchi concentrici piuttosto che su base nazionale, con una funzionalizzazione verticale a dominanza tedesca. Qui sta il motore primo del processo di unificazione monetaria sostenuto dalle classi dominanti.

Gli autori non si nascondono le difficoltà di un’alternativa e ripropongono “una rivoluzione non solo delle nostre idee ma anche delle nostre pratiche, sociali e politiche”. Una volta ribadito che i dilemmi sono di carattere sovranazionale, il difficile è misurarsi con la irriformabilità politica di questa Europa, con l’ipercompetizione globale, con i nodi materiali che si frappongono a un progetto di trasformazione. Qui gli autori ancora faticano, ma chi non lo farebbe?

“Tutto in regola”, così il colosso assolse l’uomo del complotto

La rete dell’Eni non riesce a prendere i pesci. O meglio: è selettiva. I controlli sono implacabili quando si tratta di far fuori due membri del consiglio d’amministrazione come Luigi Zingales e Karina Litvack. Sono assolutamente inefficienti quando si tratta di individuare corruzioni internazionali (in Nigeria e in Congo), conflitti d’interesse (affari dell’Eni con società della moglie dell’amministratore delegato), avvocati della compagnia petrolifera che poi finiscono in galera con accuse gravi. Quest’ultimo è il caso di Piero Amara, arrestato nel 2018 e accusato, fra l’altro, di essere uno dei manovratori del “complotto” per depistare le indagini della Procura di Milano sulle tangenti africane.

Un anno prima, nella primavera 2017, escono su di lui le prime notizie di stampa. Poi Luigi Ferrarella sul Corriere della sera dell’8 settembre 2017 allinea una serie di informazioni imbarazzanti su quello che viene definito il “legale esterno di Eni spa”.

L’azienda avvia le verifiche di rito. Il 14 settembre si muove il Comitato controllo e rischi, che commissiona un audit interno. Il responsabile dell’Internal audit department, Marco Petracchini, si mette al lavoro il 18 settembre e in soli due mesi consegna alla presidente Emma Marcegaglia e all’amministratore delegato Claudio Descalzi un “documento riservato-uso interno”, dieci paginette piene di vuoto, che sostanzialmente assolvono Amara. Ecco il contenuto dell’audit, che il Fatto quotidiano ha potuto leggere.

Oggetto: “Approfondimenti sugli incarichi affidati da Eni al legale esterno avvocato Piero Amara, citato nell’articolo del Corriere della sera dell’8 settembre 2017”. Valutazione di sintesi: “Le verifiche effettuate, svolte in ragione di quanto riportato nel predetto articolo, hanno evidenziato un sostanziale rispetto delle normative Eni di riferimento in merito alle attività di assistenza legale assegnate all’avvocato Piero Amara”. Tutto a posto, insomma. Infatti Amara sarà arrestato pochi mesi dopo con l’accusa di aver fatto parte del “complotto” per far fuori Zingales e Litwack e intralciare le indagini della Procura di Milano, insieme all’allora responsabile dell’ufficio legale di Eni, Massimo Mantovani. Ma anche di essere stato il “regista” di una serie di episodi di corruzione per aggiustare sentenze davanti ai giudici amministrativi e al Consiglio di Stato. Per queste ultime accuse, Amara ha già patteggiato una pena di 3 anni di reclusione.

Eppure gli occhiuti auditors dell’Eni nulla vedono. Si limitano a registrare gli incarichi assegnati all’avvocato. “Dall’anno 2000 fino a settembre 2017, risultano registrati 81 fascicoli legali con parcelle pagate all’avvocato Piero Amara, per un valore complessivo di circa 13,5 milioni di euro. Di questi, circa 3 milioni di euro sono riferiti al periodo interessato dalle verifiche (gennaio 2014 – settembre 2017)”. Per il resto, le pagine dell’audit sono riempite da note di metodo, “modalità di esecuzione dell’intervento”, organigrammi aziendali e alcuni “rilievi”, “piani d’azione” e “raccomandazioni”.

Degne di rilievo le righe dedicate ai (pesanti, dal punto di vista reputazionale) precedenti giudiziari di Amara. “La vicenda processuale che ha previsto un patteggiamento con una pena sospesa di 11 mesi per accesso abusivo si è conclusa con una dichiarazione di estinzione del reato”. Poi, “per i procedimenti penali che vedevano coinvolto l’avvocato in concorso con diversi magistrati ai quali era stato contestato il reato di abuso d’ufficio, vi è stata un’assoluzione dalle accuse già nella fase dell’udienza preliminare”. Infine, “per ciò che concerne le accuse di falsa fatturazione, le indagini condotte dalla Procura di Roma, diversamente da quanto riportato dalla stampa, risulterebbero finalizzate a verificare se sussistano operazioni economiche reali a fronte di specifici flussi finanziari”, ma, “alla data della presente nota, nessun atto risulta essere stato notificato a Piero Amara”.

Insomma: tutto bene. Dovranno arrivare i magistrati perché l’Eni interrompa i rapporti con l’avvocato. Anzi: non è Eni a rompere, è Amara nel febbraio 2018 a rinunciare agli incarichi.

Il mistero della Napag. Gli affari con Eni e il suo legale indagato

Perché l’Eni dovrebbe acquistare polietilene ad alta densità (Hdpe) da un’azienda esterna, quando la sua controllata Versalis è leader italiana del settore? È uno dei quesiti che i magistrati di Roma si sono posti quando si sono trovati davanti alla Napag Italia Srl di Francesco Mazzagatti. Domande alle quali prova a rispondere anche Eni che, spiega, sta verificando “le attività” che sarebbero intercorse con la “Napag” e “altre società del relativo gruppo”.

Ma chi è Mazzagatti? La sua cavalcata imprenditoriale parte dal Sud. Originario di Polistena (Reggio Calabria) con un passato da presidente regionale del Fronte Nazionale, nel 2012 fonda a Gioia Tauro la sua azienda con un capitale sociale di 10 mila euro e si dedica all’import-export di alimentari e materiali edili. In meno di due anni cambia business, puntando sul settore oil & gas. Il rinnovamento passa anche dall’aiuto di Piero Amara, uno dei legali dell’Eni, poi finito indagato in un’inchiesta per le sentenze comprate al Consiglio di Stato. “L’ho conosciuto nel 2014, mi chiese di sviluppare un documento organizzativo riguardo al business specifico della sua società”, spiega l’avvocato al Fatto. Originario di Augusta, Amara non è un semplice legale. È il “Mr Wolf” dei dirigenti Eni: si è definito il “canale non istituzionale” dell’azienda. Lo troviamo nel pool difensivo dei processi per inquinamento ambientale a carico del gruppo in Sicilia. Secondo i magistrati milanesi avrebbe contributo a un complesso dossieraggio, inviando esposti anonimi alle Procure di Trani e Siracusa, per indebolire l’inchiesta della Procura di Milano per corruzione internazionale nell’ambito dell’acquisto del giacimento nigeriano Opl245, in cui sono imputati l’ad Claudio Descalzi e l’ex Paolo Scaroni, e per screditare Luca Zingales e Karina Litvack, che all’interno del cda chiedevano ai vertici spiegazioni sulla vicenda. Amara ha anche partecipato a incontri top secret con Claudio Granata, responsabile delle relazioni istituzionali dell’Eni e braccio destro di Descalzi, nella sede “schermata” romana di piazza Campitelli.

Mentre la Procura di Roma indaga su un giro di false fatturazioni che ruota attorno ad Amara – che a Roma ha patteggiato 3 anni per corruzione in atti giudiziari – si imbatte nella Napag. I pm scoprono che tra il 2015 e il 2016, la Dagi, società di Amara, ha emesso fatture per oltre 40 mila euro all’azienda di Mazzagatti, più altre operazioni da 40 mila euro.

Oltre ai legami con Amara, Mazzagatti può contare su un’importante parentela. È il genero del tycoon Faisal Ali Al Matrook, fondatore del colosso Famcorp, una holding che spazia dal settore dell’edilizia agli investimenti finanziari, passando per il commercio di prodotti petrolchimici. La figlia Nadia Faisal Ali Al Matrook, moglie di Mazzagatti, è membro del board dell’azienda e detiene il 5% di Napag. Quando la Guardia di Finanza, nel febbraio 2017, perquisisce l’appartamento romano dell’avvocato Giuseppe Calafiore, il socio di Amara che ha anch’esso patteggiato due anni e sei mesi per corruzione, trova l’invito al matrimonio di Mazzagatti e Al Matrook.

Quando l’imprenditore calabrese decide di spostare il suo business a Roma, Amara gli suggerisce di “locare una stanza” all’interno del suo studio, in via della Frezza. La Napag in quel momento sta crescendo: passa da un capitale di 300 mila euro a 13 milioni. In Inghilterra nasce la Napag Trading Limited, subito registrata all’Eni Spa Trading desk di Londra. Oggi l’azienda inglese dispone di un capitale da 43 milioni. Nel 2018, le quote italiane finiscono sotto la società del Regno Unito, mentre per il Medio Oriente ci si affida alla Napag Middle Est Fczo. Il 25% di quest’ultima viene acquistata per 500 mila euro dalla Simest, controllata della Cassa depositi per l’internazionalizzazione delle imprese italiane, con l’obiettivo di gestire una piattaforma logistica per commerciare prodotti italiani negli emirati.

Con la crescita muta anche la governance di Napag. Entra come presidente l’avvocato Giancarlo Lanna, già vice-coordinatore di Alleanza Nazionale in Campania, nella fondazione Fare Futuro ed ex presidente proprio di Simest. “Ho finito il mio mandato in Simest nel luglio 2012, se non sbaglio l’operazione invece è del 2014 – precisa Lanna al Fatto – Sono stato in Napag dal febbraio 2017 fino al 2018, Mazzagatti mi chiese di ricoprire la carica perché cercava un nome credibile per i rapporti con il mondo finanziario”. È con l’ingresso di Lanna che il gruppo vira verso il settore petrolifero. “Fino a quel momento non era il core business ma un’attività secondaria – spiega Lanna – anche se Mazzagatti già lo faceva visto che il suocero Al Matrook era molto forte nel settore”.

Prima che scoppiasse lo scandalo del depistaggio Eni, tra gli amministratori di Napag figuravano Danilo Broggi e Claudio Zacchigna. Il primo è presidente di Poste Assicura, gruppo di Poste Italiane, ed ex ad di Consip e Atac. È stato condannato in abbreviato a febbraio per truffa aggravata, per aver assunto nella municipalizzata dei trasporti romani, un autista di sua fiducia e oggi è indagato per abuso d’ufficio per un appalto del servizio di pulizia del comparto metro-ferroviario. Zacchigna invece è un ex dirigente Eni.

Nello studio romano di Amara, oltre alla Napag, figurava l’avvocatessa catanese Giorgia Panebianco, nipote del dirigente Antonio Vella, alto dirigente di Eni. “Mi è stata presentata da un comune amico – replica Amara –, ma non sapevo della parentela con Vella, che in seguito ho informato, ma non ha ricevuto mandati professionali da parte di Eni”. Forse è solo un caso ma, una volta chiuso lo studio, la Panebianco ha iniziato a lavorare per la Napag.

Il crepuscolo dei capitalisti all’italiana

L’anagrafe inizia a porre termine alle eroiche biografie dei grandi capitalisti italiani e l’epilogo è, per certi aspetti, sorprendente. Le aziende familiari che negli anni del successo avevano svoltato verso un modello manageriale, al crepuscolo (biografico, più che finanziario) ripiegano sul modello originario. Si scopre che dietro la patina internazionale, dietro le professioni di fede nello shareholder value, dietro il coinvolgimento di tutti gli stakeholder ecc. sono sempre rimaste fabbrichette padronali. Anche se con fatturati di miliardi. Dopo aver congedato il manager dei suoi successi, Andrea Guerra, il primo socio di Luxottica Leonardo Del Vecchio è tornato alla guida della società. Oggi ha 84 anni. Marco Tronchetti Provera, 71 anni, sta dimostrando una forma di talento particolare: continua a guidare Pirelli come se fosse ancora sua, anche ora che è cinese. Guai a immaginare un passaggio di testimone. Poi ci sono i Benetton: per un giorno non parliamo del ponte Morandi, ma della loro Edizione Holding, fatturato da 12 miliardi, partecipazioni dai maglioni alle Autostrade. Con un’intervista Luciano Benetton, 84 anni anche lui, annuncia la cacciata dell’ad Marco Patuano senza indicare un sostituto. Più che trovare un nuovo capo azienda per una cassaforte finanziaria da cui dipendono, indirettamente, 67.000 lavoratori, i Benetton sono preoccupati di ridefinire i rapporti di forza all’interno della seconda generazione della famiglia, rappresentata pro quota nel consiglio di amministrazione. Si parla di uno “schema collettivo di gestione”, perifrasi che farebbe sbiancare un fondo d’investimento. Ma Edizione è e deve restare un affare di famiglia, specie ora che è morto Gilberto (quello del passaggio dai maglioni alle autostrade). Di fronte a tali pasticci viene da rivalutare la famiglia Agnelli che, pur tra mille traumi, si è compattata dietro John Elkann. E diventa più comprensibile la scelta di Paolo Savona alla Consob: chi meglio di un 82enne può sorvegliare questa fase senescente del capitalismo italiano?

Poltronificio Cdp, con l’addio di Guzzetti il rischio è la deriva

La consegna ufficiale è di smentire e sopire. Ma è ormai un segreto di Pulcinella: dopo le elezioni europee, cioè a partire da lunedì prossimo, il presidente della Cassa Depositi e Prestiti Massimo Tononi darà le dimissioni. Un terremoto non da poco per l’azionista di controllo di Cdp, il ministro dell’Economia Giovanni Tria. Non solo perché c’è una nuova rogna in arrivo, ma soprattutto perché l’addio di Tononi scoperchia il clima infernale del poltronificio pubblico nell’era gialloverde.

Proprio lunedì prossimo compie 85 anni Giuseppe Guzzetti, finalmente libero di riposarsi, come dice agli amici. Ieri ha lasciato dopo 19 anni la presidenza dell’Acri, l’associazione delle fondazioni bancarie, la prossima settimana dirà addio dopo 21 anni alla Fondazione Cariplo, seconda azionista della prima banca italiana, Intesa Sanpaolo. Esce di scena l’ultimo highlander del potere democristiano, in sella da quarant’anni come presidente della Lombardia e poi come deputato prima del ventennio bancario che ha fatto di lui, nel bene e nel male, un decisivo giroscopio per gli equilibri del potere finanziario.

Fino a un anno fa ha funzionato, poi il governo M5S-Lega ha messo in crisi anche l’affidabile tecnologia democristiana dell’avvocato di Turate. Subito hanno cominciato ad aggrovigliarsi i nodi che adesso arrivano al pettine. La Cdp è stata, per così dire, privatizzata nel 2003 da Giulio Tremonti che ha consegnato a 60 fondazioni bancarie il 16 per cento delle azioni tenendo nelle mani del governo l’84 per cento. Il patto parasociale tra pubblico e privato assegna al Mef la scelta dell’amministratore delegato e alle fondazioni il presidente. Le fondazioni hanno sempre avuto una voce sola, quella di Guzzetti. Il quale si era già messo d’accordo con il premier Paolo Gentiloni e il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan per sostituire il presidente in scadenza Claudio Costamagna con Massimo Tononi e l’ad Fabio Gallia con il vicepresidente della Bei Dario Scannapieco. Giovanni Tria, prendendo il posto di Padoan, aveva benedetto l’intesa. Ma gli uomini di Luigi Di Maio e Matteo Salvini, con il più classico dei blitz partitocratici, hanno imposto Fabrizio Palermo (mostratosi più disponibile ad ascoltare i loro suggerimenti) al posto di Scannapieco. Tononi a quel punto voleva sganciarsi ma Guzzetti gli ha chiesto di restare a fare argine alla nuova partitocrazia.

I risultati sono stati deludenti. Tononi ha dovuto constatare che alla Cdp il codice civile (secondo cui i vertici di una società prendono ordini, e fino a un certo punto, solo dagli azionisti) trova un’applicazione limitata: le decisioni degli organi societari vengono ispirate, a volte ruvidamente, anche dalla Presidenza del consiglio e dai due vicepremier, attraverso i loro invadenti emissari. Palermo è il soddisfatto regista di questo modo disordinato di gestire lo scrigno che contiene 350 miliardi di denaro dello Stato e dei risparmiatori. Tanto che i rapporti dello stesso Tria con l’ad di Cdp, a quanto si racconta nei corridoi del ministero, non sono splendidi. E infatti non si è ancora chiusa la partita per i vertici della Sace, la compagnia controllata da Cdp che assicura l’export: Tria difende il presidente uscente Beniamino Quintieri, mentre Palermo sta tentando di piazzare il suo consulente Andrea Pellegrini al posto dell’ad Alessandro Decio. Lo spareggio è stato affidato ai cacciatori di teste.

Nel frattempo toccherà alle fondazioni indicare un nuovo presidente. In corsa ci sono Matteo Melley, presidente della Fondazione di La Spezia, che è già nel cda della Cassa, e l’ex ministro Vittorio Grilli, dato in cerca di una sistemazione dignitosa per lasciare la guida della Jp Morgan italiana. Nel turbinio delle voci gira anche quella inverosimile del ritorno del 79enne Franco Bassanini, già presidente dal 2008 al 2015.

Ma senza il giroscopio Guzzetti per Tria sarà una partita difficile, che si aggiunge a quella intricatissima della sostituzione di Antonino Turicchi, direttore generale con delega alle società partecipate dal Tesoro, scaduto lo scorso 20 aprile.

L’ambita poltrona ha attirato l’attenzione di Claudia Bugno, consigliere di Tria che adora intromettersi nelle delicate procedure delle nomine in aziende pubbliche (ormai quasi tutte controllate attraverso Cdp). Il direttore generale del Mef Alessandro Rivera, appena captate le mire della Bugno, s’è fiondato nell’ufficio di Tria per mettere sul tavolo le sue dimissioni in caso di promozione della consigliera. Tria lo ha rassicurato assegnando a lui, ad interim, le deleghe di Turicchi. Il quale a sua volta punta alla presidenza di Ansaldo Energia e dovrà lasciare la vicepresidenza di banca Mps, in cui rappresentava il Mef che detiene il 68 per cento, e il cda di Leonardo-Finmeccanica. Ora Bugno pensa a queste due poltrone, anche se, vista la sua sfortunata esperienza nella vicina Banca Etruria, un buon amico come Tria le sconsiglierà di tentare un bis a Siena.

Mail Box

 

Non c’è sintonia tra gli elettori del Pd e quelli del M5S

Prima di leggere l’editoriale di Travaglio sui Tafazzetti che continuano nonostante tutto a votare Pd, ho avuto una forte discussione con uno di loro, uno dei miei coetanei 70enni che mi rimproverava perché dopo aver votato sempre a sinistra ho cambiato idea dando il voto al M5S, secondo loro sono incompetenti e irresponsabili, e stanno “portando il Paese al disastro” (sic). Invano cercavo di spiegare le motivazioni, che poi ho ritrovato con sorpresa nell’editoriale suddetto; non solo, ma anche nell’articolo di giorni fa, “Il cretino prevalente”, dove si ricostruisce in maniera mirabile la storia della Sinistra, questa Sinistra (sic). Le dico solo questo, non ci sono persone oneste forse ingenue che votano Pd nonostante tutto, chi lo vota lo vota scientemente, mi creda, li conosco bene quegli elettori che passano da un cavallo all’altro scaricandone le responsabilità della scelta precedente e saltando sul cavallo successivo (alias Zingaretti) fino al prossimo cavallo. Molti di loro provengono dal ’68, dove allora facevano “i rivoluzionari”, mangiano e digeriscono di tutto salvo coloro che gli possono portare via i piatti dal tavolo, che non sono certo i Berlusconi, i Salvini o la Sinistra LeU o S.I. Lascio a voi intuire chi. Credetemi, non c’è nessuna sintonia tra gli elettori fedeli del Pd e del M5S, bisogna farsene una ragione.

Michele Lenti

 

Le copie del Fatto nascoste tra i banchi di Porta Portese

Sono un assiduo lettore del Fatto Quotidiano da sempre. Volevo segnalarvi (per vostra opportuna conoscenza) quello che mi è successo ieri. Recandomi al mercato di Porta Portese, a Roma, dove come ogni domenica a un ragazzo straniero che vende i vari quotidiani chiedo una copia del Fatto, mi sento rispondere “Finito! prendine un altro”, gli rispondo di no! Lo comprerò altrove. Stavo per andare via, quando lui mi dice: “Aspetta”, si abbassa e da sotto un banchetto tira una copia del Fatto, estratta da un gruppetto di copie ben nascoste. Gli dico: “Fai il furbacchione? O ti hanno detto di vendere altri giornali?” Accenna a un sorriso e alza le spalle”! Vado via, e le copie del Fatto restano nascoste!

S. Ruggeri

 

Non voglio vivere in un Paese che punisce l’umanità

Da quanto riportato dalla stampa, il nuovo decreto legge in materia di sicurezza prevede multe cospicue pro capite per coloro che salvano clandestini in pericolo di vita. Dunque siamo alla disumanità. Io non voglio vivere in un Paese così. Probabilmente il Dl non vedrà la luce, ma questo non è il punto. Il fatto che vi sia chi può monetizzare in forma punitiva il salvare vite umane è un indicatore del livello di cinismo politico e sociale che rischiamo di raggiungere. Ergo, chi arriva a tali livelli non può fare il ministro della Repubblica e neanche l’impiegato in qualsiasi pubblica amministrazione. Voglio vivere in un Paese dove l’accoglienza si accompagna alla solidarietà. Per questo chiedo a me stesso ed ai miei connazionali di non aver paura e di non dare più credito a chi, tramite la paura, vuole ottenere il consenso per meri fini di potere. Riprendiamoci il futuro partendo dal presente.

Paride Antoniazzi

 

In provincia le scorrettezze aumentano sotto elezioni

È ormai virale il video nel quale Giorgia Manghi, candidata di Fratelli d’Italia, passeggia nel Parco del Popolo a Reggio Emilia. A un certo punto lamenta che i suoi tacchi a spillo, a causa della pioggia di questi giorni, siano sporchi di fango e abbiano bisogno di una pulita. Quindi estrae dalla borsa una maglietta col logo Antifa, il collettivo antifascista internazionale, e si pulisce le eleganti scarpe bianche. La maglietta finisce poi nel cestino. Il direttore della Gazzetta di Reggio, Stefano Scansani, bolla il suo gesto come “ignoranza del tempo”, alludendo al totalitarismo fascista che non avrebbe permesso video del genere ed esternazioni così audaci. Personalmente considero, tenendo le distanze da ogni faziosità politica, il video della signora Manghi di cattivo gusto.

E offensivo. E potremmo disquisire all’infinito su meriti e colpe dei due schieramenti, ma non è questo il mio intento. In sede di campagna elettorale le scorrettezze sono più fronti. E ne sto ravvisando parecchie in questi giorni, anche a livello locale. Come un fotomontaggio offensivo ai danni del candidato sindaco del Pd, a S. Ilario d’Enza, o i manifesti strappati inerenti alla candidatura di Paolo Delsante a Gattatico, esponente della Lega. Scorrettezze basse ed ineleganti. Che “sporcano” il dibattito politico con gesti e frasi a effetto delle quali non abbiamo bisogno. Spero che, come sempre, vinca il migliore. Che spesso significa anche il più corretto.

Cristian Carbognani

 

Non sottovalutiamo il pericolo di un ritorno ai tempi infausti

Spataro riprende a camminare sui solchi di Mani Pulite: parteciperò ovunque si realizzi pubblica opposione all’espandersi dell’anti legalità allo scopo di cancellare i più elementari diritti umani, non sono incauti presagi quelli di un ritorno a tempi infausti, anche allora tutto appariva legittimo.

Giampiero Buccianti

Fulvio Tomizza. Un autore ingiustamente dimenticato. Come tanti, purtroppo

 

Vent’anni fa, il 21 maggio 1999, moriva a Trieste un amico scrittore, Fulvio Tomizza, uno dei massimi narratori del nostro 900, istriano poi “esule” a Trieste dopo la separazione dell’Istria dall’Italia, nel 1955. Da Materada il suo primo romanzo, alle sue ultime storie, La città di Miriam, I rapporti colpevoli, La miglior vita e tanti altri romanzi, ogni sua pagina suda tristezza per quella separazione, per l’esodo, la diaspora di italiani davanti all’out out (e aut aut, non fa differenza) dell’essere cacciati da qua e non essere ben visti da là… Radici strappate e radici mal attecchite altrove. Ecco, volevo solo segnalare questa situazione. Io seppi per radio, in attesa a un semaforo, la notizia. Fulvio era mio amico, me lo dimostrò fin da quando, sconosciuto scrittorucolo, gli feci leggere un mio romanzo che pure apprezzò molto e caldeggiò invano. Oggi è pressoché dimenticato, ed è ingiusto, come troppe cose nella nostra attuale inutile cultura!

Mario Dentone

 

Gentile Mario, come non darle ragione: quante “cose ingiuste nella nostra attuale, inutile cultura”!?! Troppe, indubbiamente; perciò, ci uniamo volentieri, e un poco vergognandoci per averlo trascurato, al ricordo di Fulvio Tomizza, autore tra l’altro Premio Strega nel 1977. Ma quanti altri, come lui, blasonati o no, sono caduti nell’oblio? Pensiamo, ad esempio, a Massimo Bontempelli o a Guido Morselli, snobbato in vita ancor prima e ancor più che post mortem. I media hanno certamente parte della responsabilità, condivisa con un mercato editoriale sempre più fast and furious e appiattito sul presente, un mondo accademico afono e stanco e una classe intellettuale ininfluente e “disagiata”, come da felice definizione di Raffaele Alberto Ventura. Ciò detto, il piagnisteo è un altro tratto caratteristico dell’intellighenzia nostrana, ma – purtroppo o per fortuna – l’oblio è nell’ordine delle cose, ovvero esiste una percentuale fisiologica di smemoratezza, a tutti i livelli: individuale così come collettivo. Che fare, dunque? Il consiglio di Italo Calvino resta valido e fa sempre scena: far durare e dare spazio a “chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno”. Però, senza drammatizzare: per uno che dimentica c’è sempre un altro che ricorda. Anzi: se non ci fosse il secondo, il primo non avrebbe ragione di esistere. Come la certezza col dubbio, la memoria – tecnicamente – viene prima dell’oblio: altrimenti chi, o cosa, ci sarebbe da dimenticare?

Camilla Tagliabue

Tutti i meriti Ue: integrazioni alla lista del “CorSera”

Domenica, com’è noto, ci sono le Europee. Per rendere il lettore conscio della posta in palio lunedì la rubrica “Dataroom” del CorSera ci ha dunque ricordato “tutti i meriti dell’Ue”: c’è l’Erasmus – che è nato prima dell’Ue e riguarda 37 Paesi, cioè una decina più dei membri Ue – e l’immancabile roaming su dati e telefonate, ma pure il calo dei prezzi dei viaggi aerei (le compagnie low cost, com’è noto, le ha inventate Juncker) e le politiche ambientali (l’acquiescenza di Bruxelles dopo il “dieselgate”, per dire, è colpa di Putin); senza dimenticare la “sicurezza alimentare” e la segnalazione delle fake news (sic!). Pare poi che “se verranno completate tutte le riforme” (?) il Pil dell’Ue crescerà di “1.751 miliardi l’anno” (ma anche millemila). Purtroppo l’elenco si interrompe per mancanza di spazio e non ricorda tra “i meriti dell’Ue” – oltre ai 70 anni di pace (saluti dalla Nato e pure da Sarajevo) – l’invenzione del raccoglibriciole elettrico e del deodorante, che ha liberato – pur con sacche di resistenza sovranista – il continente dalla puzza di ascelle. Lo stesso giorno, curiosamente, sempre sul CorSera c’era un altro merito dell’Ue, assai meno propagandato anche se ormai figura persino nei documenti ufficiali: la “guerra dei salari” – riassumiamo – sposta dai Paesi periferici alla Germania i lavoratori più qualificati e ha finito per regalare a Berlino investimenti in istruzione per 200 miliardi. Insomma, un sistema disfunzionale produce squilibri regionali e stipendi bassi: però puoi emigrare con 19,90 euro se non ti porti la valigia (di cartone).

Dalla tassa sui balconi a Conte all’Inter: cosa accadrà fino a domenica

Mancano quattro giorni alle elezioni europee, che si attendono ormai con l’apprensione dello schianto del meteorite: quali forme di vita sopravviveranno?, chi si salverà?, emigrare in Nuova Zelanda potrebbe servire? Ecco la spaventosa cronaca degli ultimi giorni in esclusiva per i lettori de Il Fatto Quotidiano.

Mercoledì – Matteo Salvini si presenta in Consiglio dei ministri con il decreto Sicurezza-ter che prevede il confino a Ventotene per chi racconta barzellette su Salvini, mazze chiodate in dotazione alle forze dell’ordine e il Milan in Champions League. I dubbi del Colle. I dubbi di Conte. I dubbi della governatrice dell’Umbria Catiuscia Marini, che si dimette, ma solo durante i pasti. Polemiche per il papa che agita il rosario durante l’Angelus. Il sottosegretario Giorgetti: “Basta simboli politici nella Chiesa!”. Proposta choc dell’economista (?) della Lega Borghi: usciamo dall’euro e adottiamo il dollaro canadese, ma solo il sabato e nei centri commerciali convenzionati. Cronaca: sparatoria a Napoli in un asilo nido. Umorismo: recital in piazza di Giorgia Meloni.

Giovedì – Si scaldano gli animi durante il Consiglio dei ministri, dove Salvini presenta il decreto Sicurezza-quater che prevede l’arresto immediato per chi si veste da Zorro, una tassa sui balconi e il daspo per i cani di grossa taglia. Corretta la norma sulle multe per chi salva naufraghi in mare, non più 5.000 euro, ma 4.985: un cedimento alle perplessità del Quirinale, ma ancora non c’è l’accordo: i 5 Stelle si battono perché si arrivi a 4.970. In un comizio a Caserta Luigi Di Maio prende le distanze da Luigi Di Maio: “Mai al governo con la Lega”, poi si chiude da solo in albergo per un chiarimento. Grosse novità nella campagna elettorale del Pd: ricompare Renzi che promette un milione di posti di lavoro, un nuovo referendum, duemila asili in duemila giorni… finché non lo chiudono nei bagni. Catiuscia Marini, governatrice dell’Umbria, si scorda di dimettersi durante il pranzo, ma vota contro il dessert. Cultura: manifestazione nazionale a Roma contro gli sceneggiatori di Games of Thrones.

Venerdì – A sorpresa, la governatrice dell’Umbria Catiuscia Marini si dimette durante la prima colazione, poi convoca una riunione e vota contro le dimissioni. Sconcerto nel Pd. In un comizio a Ravenna, Luigi di Maio attacca duramente Luigi Di Maio: “Mai al governo col Pd” e annuncia un chiarimento interno a Luigi Di Maio. Salvini al lavoro sul decreto sicurezza quinquies che prevede pene severissime (fino a tre anni di carcere) per chi entra troppo abbronzato in un porto turistico, i neonati che girano senza documenti saranno deportati in Valtellina, detrazioni fiscali per chi mette sul balcone un crocifisso alto almeno due metri. Esteri: in Alabama potranno abortire solo gli uomini. Sport: Conte all’Inter, ma il presidente del Consiglio smentisce: con uno spogliatoio così litigioso, meglio il governo.

Sabato – Giornata di silenzio elettorale. Salvini presenta il decreto sicurezza sextus, che prevede pene pecuniarie per chi non vota Lega, l’arresto immediato per chi acquista formaggi francesi e l’amnistia per tutti i cittadini con il cognome che comincia per F e che abbiano fatto il sindaco di Legnano. I dubbi del Colle. Proposta-choc di Carlo Calenda: i lavoratori devolvano una giornata di stipendio alla settimana alla parte più debole della popolazione: gli imprenditori del Nord-est. In un comizio a Udine, Luigi Di Maio usa toni provocatori contro Luigi Di Maio: “Mai un governo coi 5 Stelle”, poi annuncia un vertice con Luigi Di Maio. Catiuscia Marini, governatrice dell’Umbria, dimentica di dimettersi ma si ricorda di ritirare le dimissioni, sconcerto di Zingaretti. Esteri: suicidio di massa dei sovranisti austriaci, ma l’autopsia smentisce: “È stato lo champagne russo”.

Domenica – Si vota.