Salvini, alle finestre ci sono striscioni. Non sacchi di sabbia

C’è di bello – anzi: di estremamente rassicurante – che questa è l’ultima rubrica a essere pubblicata tra gli insopportabili strepiti dell’eurocampagna elettorale: tra sette giorni sarà almeno finito tutto questo inutilissimo casino. Non si è mai parlato così poco di politiche europee come in queste ultime settimane in cui si è discusso perfino del grembiulino a scuola (Gesù). È auspicabile che a risultati acquisiti – dopo i consueti teatrini in cui nessuno ha mai davvero perso -i toni si abbassino. E possibilmente che alcune ossessioni smettano di tradursi in decreti legge che hanno i requisiti di urgenza e necessità solo nelle nevrosi di qualche ministro.

Ovviamente parliamo del fondamentale decreto Sicurezza bis, che ieri è stato in parte modificato ma che non smette di essere un obbrobrio giuridico. Leggiamo per esempio che la misura si rende necessaria nella forma governativa del decreto, viste “la straordinaria necessità e urgenza di prevedere misure volte a contrastare prassi elusive dei dispositivi che governano l’individuazione dei siti di destinazione delle persone soccorse in mare, tenendo conto dei peculiari rischi per l’ordine e la sicurezza pubblica scaturenti dall’attuale contesto internazionale”. Come dite? Non vedete la straordinaria urgenza? Anche noi, per dire, sapevamo che gli sbarchi sono in calo dalla seconda metà del 2017 (non da dieci minuti). E quindi se gli sbarchi non sono un’emergenza, non si capisce il motivo di questo nuovo pacchetto di norme, tenute insieme con le spille da balia (dentro ci sono gli sbarchi, ma anche l’inasprimento dei daspo sportivi, disposizioni in materia di ordine pubblico e di esecuzione delle sentenze e le Universiadi di Napoli). In pratica è un milleproroghe: manca solo il piano di guerra alle zanzare.

Uno dirà: tutti i governi abusano della decretazione d’urgenza per farsi i fatti propri. Vero. Qui però – al di là delle nevrosi da campagna elettorale e della litigiosità interna alla maggioranza acuita dalla suddetta campagna elettorale, ma giunta ormai oltre il limite della tollerabilità – ci sono svariati problemi di costituzionalità. Uno dei quali riguarda le multe per i soccorritori di migranti, anche se il testo ieri è stato così modificato: “La sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10.000 a euro 50.000 si applica nei confronti del comandante, dell’armatore e del proprietario della nave”. La multa è prevista per chi violi le acque territoriali: di fatto è destinata alle Ong, anche se non le nomina, ma l’effetto pratico sarà soprattutto scoraggiare i soccorsi da parte di pescherecci e imbarcazioni commerciali. La convenzione Onu sul diritto del mare impone di salvare i naufraghi e di sbarcarli nel più vicino porto sicuro. Non solo: è pure – bisognerebbe che il ministro Salvini se ne facesse una ragione – fonte sovraordinata (come lo è la Costituzione) rispetto a qualunque decreto legge. Se lo magna.

È poi previsto – ricorda qualcosa? – anche l’ampliamento delle ipotesi di fermo di indiziato di delitto (in caso di delitto commesso in occasione o a causa di manifestazioni sportive). Ora questo simpatico atto non può essere emanato senza la firma di Sergio Mattarella che speriamo voglia esercitare un controllo inflessibile dei requisiti di costituzionalità (anche perché il testo entra subito in vigore). A leggere tutti in fila i 17 articoli del decreto, sembra di essere tornati ai terribili anni di piombo, tempi dei sacchi di sabbia vicino alle finestre. E dire che noi vediamo più che altro striscioni.

Il sonno dello Stato genera corrotti

Nel nostro Paese il livello del malgoverno continua a salire. come confermano le recentissime storie di corruzione diffusa nella ricca Lombardia dove la Lega governa ormai da decenni al Pirellone e in tante amministrazioni locali.

Unimpresa stima la corruzione in 10 miliardi di Pil all’anno poiché essa riduce gli investimenti esteri del 16 per cento e fa aumentare di un 20 per cento il costo degli appalti. Eppure i sempre più raffinati controlli informatici incrociati possono svelare più facilmente tangenti e trucchi in appalti e forniture pubbliche. Eppure i cittadini hanno più di ieri accesso agli atti pubblici e quindi, secondo alcuni giuristi, più facilità di controllo. Teoricamente. Chi infatti rappresenta a livello locale i cittadini? Il Consiglio comunale (quello provinciale se lo eleggono in secondo grado gli amministratori comunali e così pure quello delle maxi-Città metropolitane) e poi regionale. Ma quali sono attualmente i poteri di un Consiglio comunale e/o regionale?

Un giurista come Manin Carabba, presidente emerito della Corte dei conti, con lunga esperienza ministeriale, ritiene prioritaria “l’esigenza di rafforzare le assemblee elettive dopo aver assistito al loro totale svuotamento nei Comuni e nelle Regioni”. Secondo lui, “i Consigli regionali sono in condizioni terribili di vacuità e di perdita di peso”. E quindi per essi propone il controllo della Corte dei conti.

Ci ha provato il governo Monti, ma purtroppo la Corte costituzionale l’ha escluso. Senza poter proporre alcun correttivo. Infatti nel 2001 una autentica sciagura si è abbattuta sullo Stato italiano col frettoloso varo, col voto del Pd e della Lega, della riforma del Titolo V della Costituzione, segretario dei Ds, Piero Fassino, erede di Walter Veltroni, giurista eminente del momento Franco Bassanini (che poi ha proficuamente veleggiato verso posizioni assai meno di sinistra approdando alla Cassa depositi e prestiti). Con esso si è infatti abrogato l’articolo 130 della Costituzione sostenendo che in tal modo si dava corso a un primo federalismo, in realtà sperando di captare nelle imminenti elezioni suffragi di parte leghista (illusione subito svanita). Non solo: è stato pure fatto scomparire dal Testo unico sull’edilizia l’articolo 12 della legge n. 10 del 1977 sui suoli (Bucalossi), la quale imponeva ai Comuni di riservare unicamente a spese di investimento (restauri, recuperi dei centri storici, ecc.) i proventi degli oneri di urbanizzazione. Di modo che gli stessi sono stati liberamente usati per la spesa corrente, per tappare le falle dei bilanci provocando un ingannevole (socialmente) e disastroso (urbanisticamente) boom edilizio fatto di seconde e terze case, che non ha minimamente colmato il drammatico deficit di edilizia economica e sociale.

Ma torniamo al soppresso articolo 130 della Costituzione. Con esso sono stati cancellati i Coreco, Comitati regionali di controllo preventivo sugli enti locali e regionali i quali non avevano dato i risultati sperati ma che, proprio per questo, potevano e dovevano essere migliorati e rinforzati. Dopo una buona partenza erano stati infatti inzeppati di ex politici trombati indebolendone il carattere tecnico e la “terzietà” rispetto a partiti, enti locali, clienti, maneggioni, ecc. D’ora in avanti, il “miglior controllo” l’avrebbero dunque espresso – allegria! – i cittadini stessi col loro voto… C’è da trasecolare. Come se non si sapesse che a livello locale soprattutto (ma anche regionale) i legami fra certi politici già al potere o emergenti sono stretti o addirittura organici col malaffare, tanto più dopo la liquefazione dei partiti.

Come aveva giustamente avvertito Sabino Cassese, quando le funzioni pubbliche vengono trasferite, cresce la “prossimità”. Tanto più che le burocrazie locali e regionali sono più “permeabili”. Per accrescerne il grado di permeabilità, il governo Renzi ha provveduto a cancellare i segretari comunali nominati soltanto “per concorso”, facendoli scegliere da sindaci e giunte. A ciò si aggiunga lo spoils system che ha dato altri strumenti ai partiti eliminando i “fedeli servitori dello Stato” e facendo assunzioni importanti “fuori sacco”, con trattamenti di favore, aggiuntivi.

Risultato: aumento massiccio dell’indebitamento pubblico, della corruzione, dello sgangheramento delle amministrazioni. “Il sonno dei controlli genera mostri”, ha dichiarato nel 2012 uno degli storici più lucidi dell’amministrazione. Reclamando il ripristino di quei controlli preventivi esterni che naturalmente fanno inorridire altri giuristi, i quali ci vedono un ritorno alla legge Scelba, ma senza Scelba. Ma vogliamo almeno discuterne seriamente di fronte a questa fiumana limacciosa di corruzione che ci investe? O fare soltanto dei sermoni moralistici? L’Anac fa quello che può, ma non basta di certo.

Stragi, la verità ufficiale non regge

Più trascorrono gli anni e più cresce la mia sensazione di disagio nel partecipare il 23 maggio e il 19 luglio alle pubbliche cerimonie commemorative delle stragi di Capaci e di via D’Amelio.

La retorica di Stato ha i suoi rigidi protocolli ed esige che il discorso pubblico consegni alla memoria collettiva una narrazione tragica e, nello stesso tempo, semplice e pacificata, che si può riassumere nei seguenti termini: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono assassinati perché uomini simbolo di uno Stato che con le condanne inflitte con il maxiprocesso aveva sferrato un colpo mortale a Cosa Nostra, mandando in frantumi il mito della sua invincibilità. I carnefici, i portatori del male di mafia, sono stati identificati e condannati. Hanno i volti noti di coloro che l’immaginario collettivo ha già elevato a icone assolute e totalizzanti della mafia: Riina, Provenzano e altri personaggi di tal fatta. La tenuta di tale narrazione semplificata è di anno in anno sottoposta a dura prova, per le crescenti difficoltà di epurare il discorso pubblico da ogni riferimento alla pluralità di risultanze probatorie che, tra mille difficoltà e resistenze, si vanno accumulando nei processi (da ultimo il processo c.d. Borsellino quater, quello sulla “trattativa Stato-mafia” e quello sulla “’ndrangheta stragista) e che, nel loro sommarsi, lumeggiano una storia per nulla semplice e rassicurante, anzi scabrosa e inquietante, intessuta di segreti a tutt’oggi irrisolti a causa del pervicace silenzio di coloro che ne sono custodi e della sequenza di depistaggi – processualmente accertati – realizzati in vari modi per occultare l’emersione di verità che vanno oltre il livello mafioso.

Le complesse motivazioni della campagna stragista del 1992/1993 sono rimaste nella conoscenza esclusiva di un ristrettissimo numero di capi perché furono in buona misura tenute segrete sia agli esecutori materiali che alla quasi totalità degli stessi componenti della Commissione provinciale di Palermo, l’organo decisionale di vertice della mafia palermitana. A costoro furono comunicate solo le causali interne all’organizzazione, cioè la necessità di vendicarsi di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino perché artefici del maxiprocesso, e di punire i referenti politici che non avevano mantenuto la promessa di far annullare in Cassazione le condanne inflitte nel maxi. Ad alcuni fu anche detto che si voleva costringere lo Stato a trattare.

A tutti furono taciute le causali esterne di quella campagna stragista, in parte coincidenti con gli interessi dell’organizzazione, in parte invece talmente divergenti da alimentare progressivamente in taluni capi e persino negli esecutori, la certezza che Riina e i suoi fedelissimi, tra i quali i fratelli Graviano e Matteo Messina Denaro, componenti di quella che Riina aveva definito la “Super Cosa”, non dicevano loro tutta la verità,

Nessuno dei numerosi collaboratori di giustizia della mafia palermitana, per esempio, ha mai riferito alcunché delle riunioni che nel 1991 si svolsero nelle campagne di Enna e nel corso delle quali i massimi vertici regionali della mafia discussero dell’attuazione di un complesso piano di destabilizzazione politica suggerito da entità esterne. In quelle riunioni fu anche stabilito che gli omicidi e le stragi sarebbero stati rivendicati con la sigla “Falange armata”, così come in effetti poi avvenne.

Riina e i suoi fedelissimi non comunicarono nulla delle decisioni assunte in quella sede agli altri capi della Commissione provinciale di Palermo nella riunione svoltasi nel dicembre del 1991 nella quale – come hanno concordemente dichiarato i capi mandamento poi divenuti collaboratori di giustizia Giovanni Brusca, Salvatore Cangemi e Antonino Giuffrè – l’unica causale esternata dell’avvio della sequenza di fatti di sangue programmati fu appunto solo quella interna della vendetta per l’esito del maxiprocesso che si sapeva già sarebbe stato infausto.

E neppure Riina spiegò in seguito perché aveva ordinato l’improvviso rientro da Roma del gruppo di fuoco capeggiato da Matteo Messina Denaro che si apprestava a uccidere Giovanni Falcone a colpi di arma da fuoco nella Capitale dove egli si muoveva spesso senza scorta, e aveva deciso di cambiare completamente strategia con l’esecuzione di una strage eclatante la cui realizzazione richiedeva complesse capacità tecniche in materia di esplosivi e che, proprio per questo motivo, presentava un rischio significativo di insuccesso; rischio invece pressoché inesistente o ridotto ai minimi termini se l’esecuzione dell’omicidio fosse stato eseguito a Roma da killer di micidiale e sperimentata abilità.

E neanche Riina spiegò agli altri capi perché nel luglio del 1992 aveva improvvisamente cambiato programma decidendo di dare esecuzione in tempi rapidissimi alla strage di via D’Amelio. Una decisione irrazionale e assolutamente controproducente se valutata esclusivamente alla luce degli interessi di Cosa Nostra. Il 9 agosto 1992 scadeva infatti il termine per convertire in legge il decreto legge n, 306 voluto da Falcone che aveva introdotto il famoso 41 bis dell’ordinamento penitenziario. Come è stato accertato nel processo sulla trattativa Stato-mafia, si aveva la certezza che il decreto legge non sarebbe stato convertito in legge perché in Parlamento esisteva una solida maggioranza garantista che riteneva quell’articolo in contrasto con i principi costituzionali. Era evidente, dunque, che la decisione più conforme agli interessi di Cosa Nostra sarebbe stata quella di attendere l’esito del voto parlamentare del 9 agosto e incassare il risultato della vanificazione del 41 bis. Invece eseguire la strage prima del 9 agosto, cambiando i programmi, era assolutamente controproducente perché – come infatti puntualmente avvenne – era prevedibile che l’ondata di sdegno popolare conseguente alla seconda strage avrebbe indotto molti parlamentari a retrocedere dalla loro precedente decisione, convertendo il decreto legge.

Di fronte alla motivate perplessità degli altri capi, Riina tagliò corto assumendosi la responsabilità di quanto sarebbe accaduto. E fu a quel punto che alcuni di loro capirono che Riina taceva qualcosa che evidentemente non poteva dire neanche a loro. All’uscita dalla riunione in cui era stato comunicato quel cambio di programma, Raffaele Ganci, prestigioso capo mandamento, aveva commentato: “Questo è pazzo, ci vuole rovinare tutti quanti”, come ha riferito il collaboratore di giustizia Salvatore Cancemi. Lo stesso Cancemi in occasione del suo esame dibattimentale nell’ambito del processo per la strage di via D’Amelio, ha dichiarato: “Io ho capito che Riina aveva preso un impegno e doveva rispondere a qualcuno”. In altri termini aveva capito che Riina stava assecondando interessi che non coincidevano con quelli di Cosa Nostra e anzi li ponevano in secondo ordine. Come è stato rilevato nella motivazione della sentenza sulla trattativa Stato-mafia, l’intuizione di Cancemi è stata confermata dallo stesso Riina il quale nel corso di una conversazione intercettata il 6 agosto 2013 all’interno del carcere Opera di Milano, confidò al suo interlocutore che mentre la strage di Capaci era stata studiata da mesi, quella di via D’Amelio era stata invece “studiata alla giornata”, perché, come aggiunse in una successiva conversazione del 20 agosto: “Arriva chiddu, ma subito… subito… Eh… Ma rici… macara u secunnu? E Vabbè, poi ci pensu io… rammi un poco di tempo ca…”. E cioè era arrivato qualcuno che aveva detto che bisognava fare quella strage “subito, subito” e Riina aveva chiesto di dargli un poco di tempo.

Erano dunque improvvisamente sopravvenute ragioni che non consentivano di attendere la manciata di giorni che mancavano al fatidico 9 agosto 1992; ragioni che Riina non poteva esternare ad altri capi e che lo indussero ad assumersi la responsabilità di quanto sarebbe inevitabilmente accaduto. Assunzione di responsabilità che derivava dal fatto che, in ogni caso, l’organizzazione “aveva le spalle coperte”, come Filippo Graviano, organizzatore della strage e fedelissimo di Riina, assicurò al capo mandamento Vito Galatolo, il quale divenuto collaboratore di giustizia nel riferire tale circostanza ha poi aggiunto che gli uomini d’onore di livello detenuti in carcere erano pervenuti alla conclusione che “…non è stata Cosa nostra a volere queste Stragi, ma sono stati… è stato… sono stati dei pezzi dello stato deviati che hanno costretto cosa nostra a fare questi favori diciamo”.

Ma cosa si apprestava a fare Borsellino prima di quel 9 agosto di talmente irrimediabile e compromettente da “studiare la strage alla giornata” pagando l’elevatissimo prezzo dello scontato effetto boomerang che ne sarebbe conseguito?

In quei giorni Paolo Borsellino aveva programmato due appuntamenti importanti. Doveva ritornare dal collaboratore Gaspare Mutolo, braccio destro di Rosario Riccobono noto come “il terrorista” per i suoi rapporti con i servizi deviati, il quale gli aveva anticipato che avrebbe finalmente dichiarato a verbale quanto gli aveva in precedenza confidato informalmente sui rapporti tra esponenti dei servizi segreti e la mafia. Inoltre doveva recarsi alla Procura della Repubblica di Caltanissetta per dichiarare quel che aveva appreso sulla strage di Capaci sulla quale dal 23 maggio non aveva mai smesso di indagare, raccogliendo una serie di informazioni che lo avevano profondamente turbato. Nel luglio aveva incontrato il collaboratore di giustizia Leonardo Messina, appartenente alla mafia di Caltanissetta, il quale era a conoscenza del piano segreto di destabilizzazione che era stato discusso a Enna dai vertici regionali della mafia nel 1991 e che aveva avuto il suo incipit con la strage di Capaci. Anche lui, come Mutolo, aveva chiesto espressamente di parlare con Borsellino e non aveva ancora messo a verbale quanto sapeva.

Da altre fonti rimaste sconosciute Borsellino aveva poi appreso notizie sulla complicità con la mafia di soggetti appartenenti ai massimi vertici delle Forze di Polizia, come confidò alla moglie Agnese, alla quale raccomandò significativamente di tenere abbassate in casa le tende delle finestre perché temeva di essere osservato dai servizi segreti che avevano una postazione al castello Utveggio di Palermo. Ma non bastava uccidere Borsellino, occorreva fare sparire anche l’agenda rossa dove egli aveva annotato tutte le informazioni confidenziali che aveva acquisito e che gli avevano fornito chiavi di lettura della strage di Capaci e di quel che si preparava, tali da pervenire alla drammatica conclusione che accanto alla mafia si muovevano altre forze. La stessa conclusione a cui sarebbe pervenuta nel 1993 la Direzione Investigativa Antimafia trasmettendo alla magistratura una informativa nella quale si comunicava che dietro le stragi si muoveva una “aggregazione di tipo orizzontale, in cui ciascuno dei componenti è portatore di interessi particolari perseguibili nell’ambito di un progetto più complesso in cui convergono finalità diverse”; e che dietro gli esecutori mafiosi c’erano menti che avevano “dimestichezza con le dinamiche del terrorismo e con i meccanismi della comunicazione di massa nonché una capacità di sondare gli ambienti della politica e di interpretarne i segnali”.

Se quella agenda rossa fosse finita nelle mani dei magistrati, Borsellino avrebbe provocato gravi danni anche da morto e lo scopo dell’accelerazione della sua uccisione sarebbe stato vanificato. Era assolutamente consequenziale dunque che dopo l’esplosione di via D’Amelio soggetti che certamente non appartenevano alla mafia ma ad apparati istituzionali, intervenissero sul luogo con un un’unica mission: fare sparire l’agenda rossa. Le pagine dedicate nella sentenza del c.d. Borsellino quater alla “caccia” all’agenda rossa che si scatena pochi minuti dopo l’esplosione dell’autobomba, sono agghiaccianti. Un pullulare di agenti segreti giunti sul luogo ancor prima delle Forze di Polizia, totalmente indifferenti ai feriti e ai cadaveri e freneticamente intenti solo alla ricerca dell’agenda che scomparirà dalla borsa di Paolo Borsellino lasciata all’interno dell’autovettura in fiamme. Ed è altrettanto conseguenziale alla certezza dei vertici corleonesi di avere “le spalle coperte” che all’esecuzione della strage abbiano partecipato soggetti esterni. Circostanza questa nota a Francesca Castellese, moglie del collaboratore di giustizia Santo Di Matteo, che – come viene ampiamente riportato nella sentenza citata – in un drammatico colloquio intercettato il 14 dicembre 1993, poco dopo il rapimento del loro figlio undicenne Giuseppe (avvenuto il 23 novembre), scongiurò il marito di non parlare ai magistrati degli “infiltrati della polizia” nell’esecuzione della strage di via D’Amelio. Infiltrati rimati senza volto ma uno dei quali fu ben visto in volto dal Gaspare Spatuzza, reo confesso della strage, il quale ha rivelato che alle operazioni di caricamento dell’esplosivo aveva partecipato un soggetto esterno la cui identità era stata tenuta segreta. Lo stesso Spatuzza ha dichiarato che le stragi eseguite nel 1992 e nel 1993 gli erano apparse talmente anomale per le eclatanti modalità terroristiche prescelte (esplosione di autobombe collocate nelle pubbliche vie con la conseguente uccisione di cittadini innocenti) da avere avvertito la necessità di esternare i suoi dubbi sulla loro utilità per Cosa Nostra a Giuseppe Graviano il quale lo aveva rassicurato chiedendogli, significativamente, se lui sapesse qualcosa di politica, materia nella quale egli, a differenza dello Spatuzza, si era dichiarato abbastanza preparato. A tutto ciò si aggiunge che nella motivazione della sentenza del processo Borsellino quater la Corte di Assise di Caltanissetta dopo avere accertato che “le dichiarazioni di Vincenzo Scarantino sono state al centro di uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”, si è interrogata sulle finalità di tale depistaggio, lasciando aperti i seguenti interrogativi inquietanti:

“….è lecito interrogarsi sulle finalità realmente perseguite dai soggetti, inseriti negli apparati dello Stato, che si resero protagonisti di tale disegno criminoso, con specifico riferimento:

– ai collegamenti con la sottrazione dell’agenda rossa che Paolo Borsellino aveva con sé al momento dell’attentato e che conteneva una serie di appunti di fondamentale rilevanza per la ricostruzione dell’attività da lui svolta nell’ultimo periodo della sua vita, dedicato ad una serie di indagini di estrema delicatezza e alla ricerca della verità sulla strage di Capaci;

– alla eventuale finalità di occultamento della responsabilità di altri soggetti per la strage, nel quadro di una convergenza di interessi tra ‘Cosa Nostra’ e altri centri di potere che percepivano come un pericolo l’opera del Magistrato”.

Interrogativi ancora senza risposta e che forse possono spiegare anche il pervicace silenzio mantenuto dai fratelli Graviano sui segreti delle stragi che coinvolgono centri di potere rimasti temibili e la straordinaria longevità della latitanza di Matteo Messina Denaro.

*Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Palermo

L’accusa: perseguitava il sindaco di Mantova. Arrestata ex maestra

Prima via social, poi con un libro a luci rosse diffuso in città aveva perseguitato e diffamato sia il sindaco di Mantova Mattia Palazzi, del Pd, che il capogruppo di Forza Italia Pierluigi Baschieri. Ieri è finita in carcere l’ex maestra Lorenza Buzzago con l’accusa di stalking, anche con l’utilizzo di strumenti informatici e social, nei confronti del sindaco e del capogruppo dell’opposizione. L’arresto è stato eseguito da agenti della Questura.

La 49enne era già indagata per diffamazione, stalking e atti persecutori nei confronti dei due esponenti politici e raggiunta da un provvedimento del gip che le ordinava di non avvicinarsi a meno di 200 metri dai due. La scorsa settimana la donna era finita di nuovo nel mirino della magistratura per la diffusione di un memoriale hot, “50 e più sfumature di giallo”, distribuito clandestinamente in centinaia di copie.

Nell’ottobre del 2018 la donna aveva denunciato il sindaco dem per una presunta violenza sessuale risalente al 2015. Accuse ritenute infondate.

Buste esplosive ai magistrati, arrestati tre anarchici: “Voglio mettere le bombe”

Tre buste esplosive e una sola firma: quella della rete anarco-insurrezionalista. Due sono arrivate il 7 giugno 2017 ed erano indirizzate ai pm Antonio Rinaudo e Roberto Sparagna. Entrambi i magistrati si occupavano di terrorismo ed eversione. Sparagna, in particolare, aveva coordinato l’inchiesta per terrorismo, chiamata Scripta Manent, sugli anarchici delle Fai-Fri. Una terza invece era destinata al dottor Santi Consolo, all’epoca direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria di Roma. Ieri, il Ros di Torino coordinato dalla procura di Milano ha arrestato i tre autori delle bombe. Gli arrestati per attentato per finalità terroristiche o di eversione sono Giuseppe Bruna, 49enne che vive a Ferrara, Robert Firozpoor, 23enne iraniano e Natascia Savio, 35enne torinese. In una intercettazione la Savio “commentava negativamente l’inerzia del movimento spagnolo, affermando di voler invece mettere le bombe”. Dice la donna: “Sono stufa di tutta sta roba, io voglio mettere le bombe, un anarchico quando diventa vecchio che fa?!”. I tre pacchi sono stati allestiti e spediti da Genova. A incastrare i tre è stato il prezzo scritto a matita sulle buste acquistate in un bazar cinese del capoluogo ligure. La visione delle immagini ha fatto il resto. Secondo la procura di Milano, poi, la rete anarco-insurrezionalista che ha inviato i plichi esplosivi a due pm di Torino e al Dap è la “stessa rete” degli attacchi recenti, sempre con pacchi esplosivi, alla sindaca di Torino Chiara Appendino. È stato poi accertato che le bombe avevano una forza d’urto pari a 1000 metri al secondo e dunque “la loro potenzialità offensiva avrebbe provocato la morte”. Il metodo usato, secondo il giudice, è stato ispirato da uno degli ideologi del Fai, Alfredo Cospito (non indagato in questa inchiesta), condannato nell’indagine Scripta manent e per la gambizzazione di Roberto Adinolfi, ad di Ansaldo nucleare, avvenuta a Genova nel 2012. L’indagine ha evidenziato una “saldatura” tra “due componenti: quella più sociale e interventista, che appoggia il movimento “No Tav”, e quella più insurrezionalista e violenta “che fa attentati esplosivi”.

La 19enne che ha ucciso il papà torna libera: “È legittima difesa”. Lei: “Lo ringrazio per la boxe”

Dopo tre giorni passati ai domiciliari, torna libera Deborah Sciacquatori, la ragazza di 19 anni arrestata per aver ucciso il padre Lorenzo, nel loro appartamento a Monterotondo, vicino Roma. Il procuratore di Tivoli Francesco Menditto annuncia che non ci sono esigenze cautelari anche perché l’atto “si può qualificare allo stato come episodio di eccesso colposo”. Per i pm quindi il quadro probatorio in cui si è consumata la tragedia di Monterotondo rientra pienamente nella legittima difesa. “Il grave fatto di sangue – è scritto nel provvedimento – si colloca in un contesto di una aggressione della vittima nei confronti delle donne della famiglia, aggressione che deve essere contestualizzata nel più ampio quadro di maltrattamenti subiti da anni dalla giovane arrestata, dalla madre e dalla nonna paterna”. E ancora: “Anche alla luce della personalità della ragazza, non si ritengono sussistenti le esigenze cautelari, e in particolare quelle di reiterazione del reato, essendosi trattato di un episodio chiaramente determinato da un contesto familiare difficilmente replicabile”. La ragazza è stata già ascoltata dai magistrati con i quali ha ricostruito le varie fasi della tragica colluttazione. “Papà fermati, non fare più niente”, gli ha gridato Deborah. Un tentativo disperato quanto vano. E così a quel punto, la 19enne ha impugnato un coltello da cucina e lo ha colpito alla nuca, uccidendolo. Dopo il fendente che ha ridotto l’uomo in fin di vita, la giovane, secondo anche quanto confermato da testimoni agli inquirenti, si è avvicinata al padre e tra le lacrime gli ha detto: “Non mi lasciare, ti voglio bene”. Ai magistrati la ragazza avrebbe anche riferito: “L’unica cosa per la quale dico grazie a mio padre è per avermi trasmesso la passione per il pugilato”. “Al momento resta indagata – ha spiegato Menditto – ma non è escluso che, nelle prossime due settimane si possa chiedere al gip l’archiviazione perché Deborah, allo stato degli atti a nostra conoscenza, ha agito per difendersi”. I funerali di Lorenzo Sciacquatori si celebreranno giovedì nella chiesa di Santa Maria del Carmine, a Monterotondo Scalo.

Il tribunale su Alemanno: “Funzione venduta in cambio di soldi da parte di Buzzi”

Gianni Alemanno ha venduto la sua “funzione di sindaco di Roma” e quella di Franco Panzironi, ex amministratore delegato nella municipalizzata Ama, per favorire le cooperative di Salvatore Buzzi in accordo con l’ex Nar Massimo Carminati (entrambi condannati in Appello per associazione mafiosa). È quanto scrivono i giudici di primo grado nelle motivazioni della sentenza di condanna per l’ex primo cittadino a 6 anni di carcere per corruzione e finanziamento illecito in uno dei filoni nati dall’inchiesta “Mafia Capitale”. Secondo le accuse, l’ex sindaco avrebbe favorito il gruppo di Buzzi e Carminati e in cambio avrebbe ricevuto “dazioni di denaro e appoggio elettorale”, con il “sistematico pagamento di tangenti” per “sé e per la Fondazione Nuova Italia”. Quasi 300 mila euro, consegnate sia “in nero” che “in chiaro” tramite Panzironi, passate dai conti della “Fondazione Alcide De Gasperi e Fondazione Nuova Italia”. Quest’ultima, utilizzata da Alemanno come “portamonete” necessaria a “finanziare la propria attività politica”, e usata come “salvagente per assicurarsi un sostentamento economico personale una volta terminato il periodo della sua sindacatura”. I giudici specificano di non avere prove che l’ex sindaco sapesse del “legame che univa Buzzi a Carminati”, e nonostante fosse vicino “politicamente a soggetti” coinvolti nell’inchiesta (come ad esempio Luca Gramazio, ex consigliere regionale del Pdl), non è possibile dimostrare che “abbia fornito un “consapevole apporto” al sodalizio. Alemanno ha agito per “indebito tornaconto personale”, creando con Panzironi e Buzzi un rapporto mosso “su un piano di parità, tra collaborazione e convenienza reciproca”, consentendo alle “tre cooperative” di Buzzi, di aggiudicarsi appalti “per 9,6 milioni di euro”, “3,6 in più rispetto alla sindacatura di Veltroni”. “Gli stralci delle motivazioni della sentenza – ha commentato ieri Alemanno – convalidano definitivamente la mia totale estraneità al sodalizio criminale definito Mafia Capitale. In appello dimostrerò la mia completa innocenza anche rispetto ai singoli reati che mi vengono addebitati”.

Depistaggi su Cucchi, l’Arma contro i suoi: “Gravissimo intralcio all’azione dei pm”

L’Arma contro otto suoi uomini imputati, accusati, a vario titolo, di aver depistato e commesso falsi per sviare le indagini sulla morte di Stefano Cucchi, arrestato da tre colleghi, il 15 ottobre 2009 e morto a una settimana dall’arresto in seguito, secondo la procura di Roma, a un pestaggio dei militari. A dieci anni di distanza, ieri, è cominciata l’udienza preliminare che deve stabilire se processare, tra gli altri, il generale Alessandro Casarsa, all’epoca comandante del gruppo Roma e poi capo dei corazzieri del Quirinale fino a gennaio, e i tenenti colonnello Francesco Cavallo e Luciano Soligo, accusati di aver fatto riscrivere una nota ai piantoni della caserma di Tor Sapienza, dove era stato portato Cucchi, nella parte, cruciale, che riguardava le condizioni del giovane dopo l’arresto.

Nell’atto di costituzione di parte civile dell’Arma, si indica il ministero della Difesa, da cui dipende, la consueta presidenza del Consiglio e anche il ministero dell’Interno. Dal Viminale, infatti, dipende il Dipartimento di pubblica sicurezza, che si occupa del “coordinamento tecnico-operativo delle forze di polizia”. Il ministro Matteo Salvini, quasi giustifica la decisione del Viminale: “Per colpa di poche mele marce non possiamo accettare che vengano infangate tutte le divise. Mi auguro finiscano gli attacchi e le insinuazioni contro tutte le donne e gli uomini che tutti i giorni vigilano sulla sicurezza degli italiani”. Di “mele marce” ha sempre parlato Ilaria Cucchi, la sorella della vittima che da anni si batte con i suoi genitori per la verità.

Nel 2016, proprio Salvini, però, al programma radiofonico La Zanzara la insultò: “Mi fa schifo, il suo post fa schifo”, disse. Ilaria, con parole amare, aveva postato una foto del carabiniere Francesco Tedesco, sorridente su una spiaggia. Quello stesso carabiniere a cui ha stretto la mano poche settimane fa per aver, finalmente, parlato al processo in corso per omicidio preterintenzionale. L’atto di costituzione di parte civile dell’Arma, scritto dagli avvocati dello Stato Maurizio Greco e Massimo Giannuzzi, contiene passaggi per nulla burocratici, che hanno fatto “emozionare” i genitori e la sorella di Stefano Cucchi, anche loro parti civili. C’è scritto che le condotte dei carabinieri imputati hanno causato “un gravissimo intralcio all’azione della magistratura… hanno sortito l’effetto criminogeno di sviare l’accertamento” dei fatti. E ancora: “Gli atti e i comportamenti tenuti sono palesemente contrari ai principi di moralità e rettitudine che devono improntare l’agire di un militare, nonché ai doveri attinenti al giuramento prestato e a quelli di correttezza ed esemplarità discendenti dalla condizione di appartenente all’Arma”. Dai fatti e “dalla loro rilevanza mediatica” ne è derivato un danno non solo per la credibilità e per l’immagine dell’Arma ma anche per la presidenza del Consiglio “preposta alla tutela del corretto svolgersi” dei rapporti tra organi dello Stato. E per i ministeri si indica una provvisionale di 120 mila euro complessivi. Hanno chiesto di esser parte civile anche gli agenti di polizia penitenziaria ingiustamente accusati, il sindacato dei militari e Riccardo Casamassima, il carabiniere che ha fatto riaprire l’inchiesta.

Genny “la carogna” si pente: distrutta l’auto della sorella

Giallo a Forcella intorno al danneggiamento della Smart della sorella di Gennaro De Tommaso, famoso alle cronache come Genny la Carogna, l’ex capo ultras del Napoli diventato collaboratore di giustizia dopo una condanna in primo grado a 18 anni per traffico internazionale di stupefacenti. Nella notte tra sabato e domenica due persone hanno distrutto il vetro anteriore dell’autovettura in uso a Filomena De Tommaso e secondo alcune ricostruzioni – la famiglia si è dissociata dalla scelta di Genny – l’episodio, raccontato dalla diretta interessata a Il Mattino, sarebbe inquadrabile come una delle numerose minacce subìte dai De Tommaso dopo l’avvio della collaborazione coi magistrati. Genny De Tommaso ha iniziato a parlare coi pm a inizio marzo e si avvicina la scadenza de i 180 giorni per la stesura dei verbali. A giugno De Tommaso dovrebbe deporre in un processo per narcotraffico che vede imputati alcuni malavitosi di Forcella. A marzo il padre di Genny ripudiò il figlio al Tg2: “Io lo disconosco, sta dicendo solo balle. Se era uomo e teneva le palle, si faceva la carcerazione”.

“Ulivi e Xylella, lo Stato chiede scusa: non resta che tagliare”

“Xylella, non ci resta che tagliare”. Questo il titolo del Corriere all’articolo sul viaggio in elicottero del ministro dell’Agricoltura Gian Marco Centinaio in Puglia. Il leghista ha sorvolato le zone degli ulivi in sofferenza e 45 minuti gli sono bastati per raggiungere conclusioni su cui non esistono dati scientifici chiari: “Lo Stato – ha detto Centinaio agli agricoltori di Coldiretti – in questi anni ha voltato la faccia dall’altra parte. Per questo chiedo scusa alla Puglia”. Perché proprio adesso va in Puglia? Perché dalle carte della richiesta di archiviazione della Procura di Bari emerge che i ricercatori impegnati contro Xylella non hanno complottato per diffondere la malattia (questa la accusa). Ma la Procura ha rilevato una “incredibile sciatteria da mettere in seri dubbi anche gli accertamenti in campo su cui poi si sono basate le conclusioni degli enti coinvolti”. I ricercatori di Bari si preoccupano di Xylella già nel 2004, ma iniziano a combatterla soltanto nel 2014 e su quelle ricerche costruiscono una carriera a colpi di bandi europei da milioni di euro per la ricerca. Eppure neanche quegli stessi ricercatori sono sicuri che sia proprio Xylella a causare il disseccamento degli ulivi (CoDiRo). In una email del 2014, agli atti dell’inchiesta, Donato Boscia del Cnr di Bari scrive a Maria Saponari, un’altra ricercatrice: “Se usiamo la Coratina (una varietà di ulivo) la infettiamo con la (Xylella, ndr) fastidiosa, la osserviamo asintomatica per uno, due, tre… quindici anni. Poi quando (…) tu avrai la mia età e pubblicherai che (Xylella, ndr) non è patogenica (ma questo lo sappiamo già): embé?”. Ma leggere carte giudiziarie, per Centinaio, non è divertente come farsi un giro in elicottero.