Il numero dei membri italiani nel Parlamento europeo aumenterà da 73 a 76, ma solo quando l‘uscita del Regno Unito dall’Ue diventerà giuridicamente efficace: lo fa sapere la Cassazione, aggiungendo che con la votazione di domenica sarà possibile eleggere anche questi tre ulteriori esponenti dell’Italia che si insedieranno in un secondo momento. L’Ufficio Elettorale Nazionale della Corte di cassazione comunica che “per individuare i 3 parlamentari, adotterà i seguenti criteri: individuazione delle tre liste che a livello nazionale hanno ottenuto seggi con i minori resti utilizzati o, in mancanza, non utilizzati; sottrazione ad ognuna di dette tre liste di un seggio, individuato nell’ambito delle tre circoscrizioni cui è stato assegnato un seggio supplementare per effetto dell’aumento dei parlamentari”. E le modifiche causate dalla Brexit non finiscono qui: ieri il Consiglio Affari generali dell’Ue ha deciso anche che quando l’uscita dell’Inghilterra diventerà realtà (dal punto di vista giuridico) il numero di membri sia del Comitato europeo delle Regioni (CdR) che del Comitato economico e sociale europeo (Cese) scenderà da 350 a 329.
Radio Radicale, destino segnato: bocciate le norme per salvarla
La storia di Radio Radicale, di fatto, potrebbe essersi chiusa ieri: a mezzanotte è scaduta la convenzione da 10 milioni di euro all’anno con il ministero dello Sviluppo economico. Sono falliti gli ultimi tentativi di salvataggio: tutti i partiti (compresa la Lega ed escluso il M5S) hanno presentato degli emendamenti al decreto Crescita in commissione Bilancio alla Camera con delle proposte di proroga della convenzione. Emendamenti che però sono stati giudicati inammissibili. In serata anche il ricorso degli stessi partiti è stato bocciato. Il direttore della radio Alessio Falconio (nella foto) ha issato bandiera bianca: “Gli stipendi di maggio – ha dichiarato – saranno pagati ai giornalisti e a tutti gli altri dipendenti di Radio Radicale, quelli di giugno no. Allo stato attuale non potremo andare oltre un periodo di poche settimane”. Nel frattempo prosegue da 5 giorni lo sciopero della fame e della sete del deputato del Pd Roberto Giachetti, ricoverato in ospedale per le precarie condizioni fisiche e raggiunto da una delegazione di colleghi del partito. Sciopero della fame portato avanti anche da altri parlamentari ed esponenti politici, come Giuseppe Moles (FI) e l’ex Pci Alfonso Gianni.
Nomine Rai: Salini cancella Ferragni (filo-Carroccio)
Sbloccate dopo giorni di serrate trattative in Viale Mazzini le nomine aziendali rimaste ferme per una settimana. Con qualche novità nelle scelte dell’ad Fabrizio Salini che mettono un argine alle richieste dell’area leghista. Sono saltate, infatti, due nomine sponsorizzate dal Carroccio. Quella di Massimo Ferrario, leghista di lungo corso ed ex direttore di Rai2, alle produzioni tv, dove rimane Roberto Cecatto. E quella di Fabrizio Ferragni alle relazioni istituzionali, dove arriva invece Stefano Luppi, nome sempre di area centrodestra. Per quanto riguarda il resto, Marcello Giannotti (finora addetto stampa di Salini) è il nuovo responsabile della comunicazione (prende il posto di Giovanni Parapini); Simona Martorelli (vicina a Marcello Foa) va alle relazioni internazionali; l’ex direttore del Tg1 Andrea Montanari (area Pd) diventa direttore dell’ufficio studi Rai; Pietro Gaffuri (area centrodestra) va al trasformation office; Felice Ventura (ex An) diventa direttore delle risorse umane; Monica Caccavelli va alla direzione acquisti; Alessandro Zucca (ex An, centrodestra) alle infrastrutture immobiliari; Elena Capparelli (in quota FdI) diventa direttrice dell’area digital.
Sono scelte fatte “in maniera indipendente, guardando alla competenza delle persone”, si fa sapere da Viale Mazzini. Congelate, invece, le nomine dei nuovi vicedirettori di Raiuno, chiesti da Teresa De Santis. Tra lei e Salini i rapporti restano freddi, specie dopo il taglio delle puntate a Fabio Fazio e l’infornata di nuovi autori di area centrodestra a Unomattina. Guai, infine, pure al Tg2, che ha ricevuto una diffida da Agcom per violazione delle norme sulla par condicio per alcuni servizi trasmessi nell’edizione serale del 17 maggio scorso.
“Il governo è inconcludente, non produce”. Giorgetti il “disertore” si sfoga per 23 minuti
Le tensioni delle ultime ore? “Ricomponibili. In cdm sono stati fatti passi in avanti”. I rilievi del Colle sul decreto sicurezza bis? “Conte sta lavorando per superarli”. E dopo le Europee? “Si va avanti, ma il metodo di lavoro non può essere quello della campagna elettorale”. È un Giancarlo Giorgetti pompiere quello che ieri ha regalato qualche parola ai cronisti che lo attendevano a Novara, dopo la visita al centro ricerche Eni. Ben diverso da quello che, nemmeno 24 ore prima, incendiava il clima del consiglio dei ministri di lunedì sera. Da lui disertato, forse diplomaticamente. “Giorgetti è il classico iper tranquillo che ingoia per settimane, ma poi a un certo punto sbotta. Forse è meglio che non sia andato…”, sussurra un leghista di lungo corso.
Proprio lunedì sera, mentre Conte e i ministri si accomodavano a Palazzo Chigi, il sottosegretario alla presidenza è salito su un palchetto nel salone dell’Hotel Four Season di Milano, ospite d’onore di una cena di imprenditori italiani e americani, e ha bombardato l’esecutivo per 23 lunghissimi minuti. “Il governo è inconcludente. È inutile andare avanti perché non produce più nulla e i provvedimenti non riguardano le vere emergenze del Paese”, ha detto il leghista. “Mi chiedono: cosa succederà? – ha proseguito il numero due di Salvini – Io rispondo che un governo ha senso nella misura in cui produce cose che il Paese si aspetta e si possono fare. Se, per veti incrociati o interessi contrastanti, questo non avviene, allora bisogna trarre le conseguenze”. E ancora: “Per il 26 maggio mi auguro uno shock benefico per tutti”.
Parole che seguivano di poche ore quelle dell’intervista alla Stampa che ha terremotato Palazzo Chigi. “Conte non è più super partes. Il governo è paralizzato da 20 giorni perché M5S ci fa opposizione. La lealtà di Salvini a Di Maio è irragionevole…”, i concetti espressi dal sottosegretario. Che da circa sei mesi è persona ben diversa da quella che tutti, colleghi e cronisti, hanno imparato a conoscere in una ventina d’anni di cronache parlamentari. Prima, nei tre lustri a fianco di Umberto Bossi, poi nella fase iniziale dell’ascesa salviniana, e pure durante l’interregno di Bobo Maroni, le esternazioni pubbliche durante l’anno non andavano oltre la decina. Silente, affidabile, profondo conoscitore di umori e personaggi della galassia nordista, sempre pancia a terra a lavorare, fedele al principale di turno. Il bocconiano della Lega negli anni è diventato il punto di riferimento delle categorie imprenditoriali del nord e l’interlocutore privilegiato delle istituzioni europee e americane. Adesso, invece, Giorgetti parla. In pubblico e pure in maniera ufficiosa, con interlocutori vari, in modo che il suo pensiero si depositi soffice sui giornali. Da lui, mai una smentita.
Perché questo cambiamento? Il motivo principale, come ha ammesso lui stesso, è che non ne può più di questo governo: lui quest’alleanza spuria non l’ha mai capita fino in fondo e da tempo spinge per rompere e tornare al voto, riallacciando col vecchio centrodestra, a trazione salviniana. E Berlusconi in questo disegno, a suo parere, c’è. Eventualità che invece Salvini tende ad escludere. È tutta qui, raccontano fonti leghiste, la diversità di prospettiva tra Salvini e Giorgetti. Siccome il primo nei colloqui a due non ci sente, il sottosegretario ha deciso di abbandonare la sua riservatezza per dire come la pensa.
È irrequieto, Giorgetti. Anche per le inchieste sulla Lega in Lombardia, col suo nome che spunta qua e là nelle scelte di uomini che ora sono inquisiti. Infine, ci sono da rassicurare gli imprenditori filo leghisti in fibrillazione per un’economia ferma al palo e le troppe concessioni all’alleato di governo. Per questa serie di motivi, Giorgetti ha deciso di non essere più il Richelieu muto di Salvini. Anche se mai si metterà contro il Capitano. Anzi, il rapporto tra i due viene definito “saldissimo”. In attesa dello “shock” del 26 maggio.
5S all’assalto di Tria, ma il loro decreto è senza le coperture
Quando sale la tensione tra Lega e Cinque Stelle, il ministro dell’Economia Giovanni Tria si mette sempre in mezzo con qualche dichiarazione che lo rende il perfetto parafulmine su cui scaricare tutto l’astio. È successo anche ieri. Tema: il mancato decreto famiglia con gli incentivi alla natalità e sostegni fiscali che il M5S voleva approvare lunedì in Consiglio dei ministri, prima delle Europee. Invece niente. Il premier Giuseppe Conte, forte della sponda del Quirinale, ha fermato il decreto sicurezza bis di Matteo Salvini ma è saltato pure quello per le famiglie. Il capo dello Stato Sergio Mattarella non è affatto convinto che la politica di bilancio si faccia per decreto.
E le coperture? “Non sono state individuate”, dice Tria ad Agorà, su Rai3. Subito fonti anonime dei Cinque Stelle dettano alle agenzie di stampa la risposta velenosa: “Curioso che il ministro Tria parli di assenza di coperture, quando il miliardo è stato certificato anche dal presidente Inps, e ammetta poi che la Flat tax si potrebbe invece fare, quando le coperture secondo i tecnici superano i 30 miliardi”. Ma sul miliardo di coperture è difficile dare torto a Tria: il M5S vuole usare le minori spese per il reddito di cittadinanza, rispetto a quanto stanziato, per finanziare altri interventi. Ma quel miliardo di euro di risparmi potenziali oggi figura tra le coperture del reddito di cittadinanza: o si fa una legge per ridurre lo stanziamento a bilancio, oppure bisogna aspettare la fine del 2019 per verificare che i soldi ci siano davvero e solo a quel punto si possono destinare altrove. E, comunque, solo per finanziare interventi una tantum, visto che non si può sapere se l’avanzo ci sarà anche nei prossimi anni.
Ma la campagna elettorale ha i suoi riti, tra questi il tiro al bersaglio sul ministro dell’Economia. E Luigi Di Maio attacca: “È la politica che decide, non in tecnici”. Ma il ministro dello Sviluppo ha abbastanza tecnici intorno che sicuramente sarà già stato informato che la posizione di Tria è sensata, che non si può contare un miliardo due volte. Ma, appunto, è campagna elettorale.
Tria ha poi il talento di riuscire a far irritare perfino il Pd. Perché prima promette che gli 80 euro verranno “riassorbiti”. Termine che non significa nulla ma rivela che il bonus introdotto dal governo Renzi (10 miliardi all’anno) è ormai considerato sacrificabile. La Lega ha sempre proposto di usarlo per finanziare la flat tax, i Cinque Stelle stanno valutando di immolarlo per evitare almeno in parte l’aumento dell’Iva a gennaio 2020 (23 miliardi). Anche se limitarsi a togliere gli 80 euro senza contropartite equivale ad alzare le tasse a 10 milioni di italiani.
Un tempo considerato l’argine alle derive dei gialloverdi sui conti pubblici, oggi Tria viene sostanzialmente ignorato. Sia dai colleghi ministri che dagli investitori. Ieri lo spread, la differenza di rendimento tra titoli di Stato italiani e tedeschi, è scesa da 277 punti a 271. Eppure il giorno prima Tria aveva detto frasi che, se in bocca a qualcuno preso sul serio dagli investitori, avrebbero terremotato l’intera eurozona, a cominciare dalla Germania “Io credo sia venuto il momento di affrontare il ‘tabù’ della monetizzazione del debito e recuperare appieno gli strumenti di politica macro economica per assicurare un coordinamento non risolto, certamente in Europa, tra politica monetaria e di bilancio”. Tradotto: la Bce deve comprare il debito italiano per ridurne il peso e gli interessi. Traduzione alternativa: l’Italia deve uscire dall’euro per tornare a quando la Banca d’Italia poteva comprare liberamente Bot e Btp. Nessuno ha cercato di capire cosa intendesse Tria. Perché, ormai, tutti hanno capito che le sue sono soltanto opinioni personali prive di rilevanza politica.
Il Colle irritato con i 5 Stelle, ma non vuole il dl Sicurezza
Riassumendo: Sergio Mattarella ha gradito assai poco l’ipocrisia di Giuseppe Conte e dei 5 Stelle, ma continua a gradire ancor meno il decreto Sicurezza bis messo assieme da Matteo Salvini. In giornalistese, dal Colle filtra dunque – come scrivono in questi casi i quirinalisti – una composta irritazione di fronte alle irrituali citazioni del capo dello Stato sul testo caro al leghista con cui i grillini e il presidente del Consiglio ne hanno bloccato (per ora) l’approvazione.
Questo, per non fare che un esempio, è Luigi Di Maio ieri: “Per il decreto sicurezza so che c’è un’interlocuzione fra Palazzo Chigi e il Quirinale per eliminare alcuni dubbi di incostituzionalità. Prima di andare in Consiglio dei ministri bisogna risolvere questi dubbi. Noi non siamo contrari al decreto”. Ecco, ovviamente il Colle dà sempre un’occhiata informale ai testi di legge, specie i decreti, prima della loro approvazione in Cdm e, ovviamente, invia al capo del governo consigli altrettanto informali: ma è un gioco che deve rimanere nella nebulosa della cosiddetta “moral suasion”, non certo essere spiattellato in conferenza stampa o nelle veline per i giornali.
Tutto questospiegherà oggi Mattarella quando Conte salirà al Colle. Come detto, però, se non ha gradito essere usato come frangiflutti contro Salvini, il presidente della Repubblica ancor meno ama il decreto Sicurezza bis, i cui contenuti principali non sembra possano essere sanati dai vizi di incostituzionalità semplicemente perché è contro la Costituzione quel che il ministro dell’Interno vuole fare.
Il braccio di ferro a colpi di Mattarella avviene adesso sulla convocazione del Consiglio dei ministri: Salvini ha fatto sapere di aver riscritto il decreto e che vuole sia approvato oggi; i 5 Stelle, come detto, nicchiano per interposto Quirinale. Il presidente, infine, vorrebbe non vedere prima delle Europee né il decreto del leghista, né quello M5S sulla famiglia: entrambi, peraltro, mancano dei “requisiti di necessità e urgenza” previsti dalla Costituzione, ma il primo – eufemizzando – continua a sollevare più di una perplessità su assai più di un articolo dei 17 totali.
Ieri, per dire, è proseguito il lavoro di riscrittura di un testo che era arrivato a Palazzo Chigi (e al Quirinale) in una forma quasi dilettantesca. A sera al Viminale s’erano inventati la “sanzione astratta”: Salvini voleva una multa per ogni migrante salvato in mare dalle Ong e portato in Italia (da 3.500 a 5.500 euro); poi è passato alla multa al comandante, all’armatore e al proprietario della nave (da 10mila a 50mila euro) se sbarcavano migranti; ora la multa resterebbe, insieme al sequestro della barca, ma solo per chi viola “il divieto di ingresso, transito o sosta in acque territoriali italiane” (il divieto, s’intende, di Salvini stesso). Di “soccorso” e “migranti” non si parla più: evidentemente c’è un’epidemia di barche che violano le acque territoriali italiane che non ha rapporto con Ong e dintorni.
Anche in questa formulazione – visto che la ratio della norma è immutata ed è rubricata sotto “contrasto all’immigrazione illegale” – resta il problema che, secondo le convenzioni internazionali, un peschereccio che – poniamo – abbia notizia di un naufragio ha il dovere di soccorrere l’imbarcazione in difficoltà e poi di sbarcare i superstiti (chiunque siano) nel “porto sicuro più vicino”: l’ordine del Viminale non può scavalcare il diritto internazionale (che è, dicono quelli bravi, sovraordinato). Pure sulle competenze dei ministeri – ad esempio l’Interno che “ruba” poteri sul mare e i porti alle Infrastrutture – il testo è confuso e si presta ad accrescere la litigiosità tra apparati dello Stato.
Tanto a Palazzo Chigi che al Colle vengono ritenute non potabili anche molte norme sull’ordine pubblico, tutte accomunate dall’idea di reprimere il conflitto sociale punendo come una rapina a mano armato chi indossi un casco o una sciarpa sulla faccia in un corteo e persino chi si difende con uno scudo dalle manganellate. Delizia per gli intenditori: un reato tutto sommato innocuo come la resistenza a pubblico ufficiale non può mai essere di “lieve entità” e dunque “non punibile”. Tutto il resto sì, pure il furto, quello no. O ancora: il reato di danneggiamento, se commesso durante un corteo, vale fino a 5 anni di galera, due in più di un danneggiamento “normale”.
Insomma, pur senza altri dettagli (da Stato di polizia sono anche le norme anti-ultrà), un testo che non ha bisogno di essere riscritto, ma abbandonato: Salvini però, che è un ottimista, ha messo alla frusta gli uffici e pretende un Cdm oggi. I grillini dicono “per noi va bene”: forse poi sosterranno che Mattarella non vuole.
Ancora tu
L’altra sera, facendo zapping, ci siamo imbattuti in uno di quei revival di archeologia televisiva, tipo Techetè, con vecchi guitti in bianco e nero di tanti anni fa. Così almeno abbiamo pensato, quando abbiamo visto la buonanima di Silvio B. in gran forma, tutto pittato, laccato, moquettato e levigato come un set di sanitari Ideal Standard, con un suo impiegato che lo “intervistava” (si fa per dire) sulle tante, infami “calunnie” che ha subìto in vita sua. Attendevamo che, da un momento all’altro, entrassero le ragazze del Drive In o di Colpo Grosso, accompagnate da Greggio e D’Angelo o da Smaila. Poi abbiamo scoperto che era tutto in diretta: la buonanima era viva. E parlava. Strascicando alla Crozza, ma parlava. Come se, a cinque anni dalla dipartita dal Senato palla volta di Cesano Boscone, l’avessero scongelato dal freezer e liberato dalla funzione Pause per restituirlo al più consono Play. Il Rieccolo riprendeva il discorso da dove l’aveva interrotto nel 2013, come se intanto non fosse successo nulla, risultando lievemente sfasato rispetto al momento attuale. Anzi, al secolo attuale, visto che usava arcaismi come “gabina elettorale” che non si sentivano dai tempi di Costantino Nigra, prima di annunciare che a Bruxelles lui ci andrà davvero. Anzi, a minacciarlo.
Il Cavalier Findus intratteneva il folto pubblico, accuratamente selezionato nella casa di riposo di Cesano Boscone per attenuare l’asincronia della scena e lo straniamento della testata Quarta Repubblica, su temi di interesse non proprio bruciante come i suoi “ben 88 processi con ben 105 fra avvocati e consulenti”. O come i suoi soldi all’estero, ormai cristallizzati da anni di sentenze definitive sulle sue 64 società nei paradisi fiscali e le sue evasioni da 360 milioni di dollari, ormai digerite anche dai suoi fan più accaniti. “Neanche un euro!”, trillava giulivo il conduttore. E B.: “Se mi trovate dei soldi all’estero, sono vostri!”. Risate in sala, anzi in bara. Altra “calunnia”: la condanna per frode fiscale, emessa da un fantomatico “collegio di deputati” (i cinque giudici di Cassazione, che firmarono tutti la sentenza, anche se a lui risulta che uno “non voleva firmarla, ma fu costretto da qualcuno in alto, forse un alpinista”), per “eliminare un avversario politico”. Fu così che lui presentò “un appello in 18 punti alla Corte di Strasburgo che in cinque anni non ha mai aperto neanche un foglio”. In realtà la Corte ha archiviato il caso il 27 novembre senza pronunciarsi, perché i suoi legali, probabilmente senza dirglielo, hanno ritirato il ricorso con una lettera del 27 luglio.
Lì non le eurotoghe rosse, ma Ghedini&C., spiegavano alla Corte che un verdetto “non avrebbe prodotto alcun effetto positivo” per lui, cioè sarebbe stato respinto con perdite) Uno si sarebbe atteso una replica del conduttore informato dei fatti, ma trattandosi di un giornalista di Mediaset e del Giornale era troppo sperare. Altra “calunnia”: “Una frase irriferibile e volgarissima che non ho mai pronunciato sulla signora Merkel”. Che, essendo irriferibile, nessuno in studio e a casa conosceva. Peccato, perché era carina: “Culona inchiavabile”. Noi, che a suo tempo la riportammo perché i suoi la riferivano, terrorizzati che uscisse da qualche intercettazione, sappiamo bene di non aver inventato nulla. E lo sapevano persino il Giornale e Libero, che per due anni chiamarono la Merkel “culona” sapendo di far cosa gradita al padrone, che le attribuiva il famoso “complotto dello spread” per rovesciare il suo terzo governo. Poi, come spesso accade a quell’età, batté la testa, si scordò tutto e si risvegliò da antieuropeista sfegatato a filoeuropeista arrapato, da nemico ad ammiratore dell’“amica Angela”. L’altra sera, per dire, s’è inventato di averla convinta a fargli “eleggere Draghi” affinché “la Bce stampasse moneta” (tutti eventi mai accaduti nella realtà, ma nessuno ha ancora avuto il coraggio di comunicarglielo). Ma ecco l’ultima “calunnia”: il bunga bunga. Migliaia di pagine di sentenze hanno accertato il “sistema prostitutivo” orchestrato per lui, nella villa di Arcore, a Palazzo Grazioli, a villa Certosa e non solo, dai vari Tarantini, Mora, Fede, Minetti. E lui che fa? Come se fosse ancora il 25 aprile 2009 sul palco di Onna, travestito da partigiano col fazzoletto rosso al collo, osannato da tutti ignari di tutto, racconta che “il bunga bunga è una barzelletta che ho inventato io sui due più sfigati che avevo: Bondi e Cicchitto” (la gratitudine è sempre stata il suo forte), simpaticamente sodomizzati “da una tribù libica rivoluzionaria”.
Quanto ai festini nelle ville, “Emilio Fede scoprì che lavoravo pure il sabato notte e allora mi portò due delle sue meteorine, che la volta dopo portarono quattro amiche, che ne portarono altre, finché mi ritrovai con 32 ragazze”. E non ebbe cuore di lasciarle fuori all’addiaccio. Ma erano frugali “cene eleganti, i miei figli passavano a salutare prima di andare a letto, io raccontavo storielle e cantavo”, del resto era o non era già “a vent’anni il miglior cantante di Parigi”, quando anche Aznavour gli faceva una pippa? Subito dopo, in un fuorionda, dice al pubblico che “qualche anno fa me ne facevo sei per notte, ora invece mi addormento dopo la terza”, però ciò che conta è quel che va in onda, no? Dunque tutti a votare per lui che, appena seduto a Bruxelles, fermerà con le nude mani “il progetto egemone del comunismo cinese”. Non solo, ma – con grave sprezzo del pericolo – “aumenterò le pene contro l’evasione e l’elusione fiscale”, avendo appena scoperto con raccapriccio che “in Italia c’è un nero enorme”. E non è Balotelli, no! Sono le “centinaia di miliardi di evasione”. Senza contare, modestamente, i suoi.
Il “Puro desiderio” di Teresa, gatta dispettosa
Teresa De Sio è la tradizione che è aria fresca, un pugno di note che sanno di passato ma che ti sembrano già un futuro che non fa paura.
C’è questo e altro dentro Puro desiderio, il suo nuovo cd, un’opera che vive di archi e pianoforti, stesi su un tappeto ritmico sobrio e con chitarre che sembrano graffi. E di graffi, di cicatrici, ne racconta parecchi De Sio, classe 1952, in un lavoro che è chiaramente autobiografico, “un disco della rinascita” come l’ha definito sul Mattino. Un lavoro che talvolta ricorda la Pj Harvey più acustica e intimista, quella di un piccolo gioiello di tanti anni fa come White Chalk (chissà se De Sio l’ha mai ascoltato). Perché c’è la stessa nudità, di suoni e parole. Così ecco la voce dell’artista campana che spesso si confessa in dialetto, senza schermi. “A chi canto se nessuno mi sente?” si chiede in Quante nuvole, e sotto rimbalzano percussioni che sembrano tamburi del giudizio.
Ma tra i solchi c’è anche il sole (magari pallido), per esempio in Sorridi o in Certi angeli. E c’è la seduzione cercata e chissà se rimpianta in L’amore, l’attimo, il treno, il pezzo più divertito e divertente, con la De Sio che pare una gatta dispettosa e contenta della sua sfacciataggine quando lo ammette senza fronzoli: “A me interessa la tua bocca”. Ma di amore trabocca anche Tot le chanzon, un brano che pare scritto da un Manu Chao in vena rumorista, gioco dissonante (forse troppo).
Certo, nell’opera c’è anche qualche passaggio che sa di ripetizione (Il pane della domenica, finale un po’ trascinato del disco). Però poi c’è soprattutto l’alchimia quasi perfetta, ovvero la modernità che si mischia all’antico di In un soffio di vento, dove su ritmi strappati all’Oriente l’artista fa la sintesi del momento che viviamo (in napoletano, ed è tutta un’altra cosa): “Pare che siamo sempre dentro una guerra, e sembra che non ci alziamo più, pare che ognuno sia diventato una minaccia”. E dentro il brano irrompe anche Ghemon, che porta i suoi versi, i ritmi di un mondo diverso, e ci stanno benissimo. “Mi riprendo il mondo”, giura il ragazzo con i capelli platinati. E la padrona di casa gli spalanca la porta.
Magari affacciata su una spiaggia piena di vento, quella evocato nei versi e nel videoclip di Sarebbe bellissimo, il pezzo di apertura che è un dolce elenco di desideri impossibili. “Sarebbe bellissimo potersi svegliare ogni mattina davanti al mare”, chiosa De Sio. Ed è una preghiera laica che spinge via la notte.
Con “My Songs” i successi di Sting sono sempreverdi
“My Songs è la mia vita in canzoni. Alcune di queste ricostruite, altre ristrutturate o dotate di una nuova cornice, tutte comunque con un focus contemporaneo”. Pochi sanno del perenne desiderio di Sting di reincidere costantemente i suoi brani durante la sua lunga carriera. Ci aveva provato dopo Syncronicity tentando di rileggere in chiave elettronica tutti i classici ma un furibondo Stewart Copeland – con la scusa di una caduta da cavallo durante le registrazioni – bloccò tutto, con il risultato di partorire solo il topolino Don’t Stand So Close To Me ‘86. Su YouTube si può trovare anche l’inedita De Do Do Do De Da Da Da ‘86, oggettivamente irrilevante, mentre una brillante Truth Hits Everybody, piena di synth, è rintracciabile in Messagge In A Box. Anche le versioni funky di Shadows In The Rain e Bring On The Night sono la testimonianza della volontà di Gordon Sumner (vero nome di Sting) di dare nuova linfa alle sue composizioni. Recentemente l’artista di Newcastle ha dichiarato che la sua voce oggi ha sfumature più articolate ed è questa la scintilla principale della nascita di My Song. Nel disco – in uscita il 24 maggio e da noi ascoltato in esclusiva –, si nota in primo luogo l’influenza di Shaggy con il quale Sting ha da poco pubblicato l’album reggae 44/876 (vincendo un Grammy) e intrapreso un tour mondiale di successo. Soprattutto nelle tracce So Lonely e Walking On The Moon, interamente risuonate: va dato atto all’ex insegnante di letteratura di aver rivitalizzato una delle cifre stilistiche di maggior impatto dei Police, il reggae bianco. A parte Roxanne, autentico Moloch intoccabile – soprattutto dopo l’orrenda versione hip hop con Puff Daddy – offerta in una versione live, s’azzarda un nuovo arrangiamento per Messagge In A Bottle. Le altre due perle “profanate” sono Every breath You Take con una rilettura molto simile alla versione proposta da anni sul palco e Can’t Stand Losing You nella quale Sting, novello Dorian Gray, si misura con la sua giovinezza, con la stessa energia e una voce più drammatica (la canzone parla di un suicidio nonostante il refrain orecchiabile). In Demolition Man, originariamente affidata a Grace Jones, Sting fa uscire tutti i demoni trasformandola in una versione heavy quasi giocosa. È la scelta utilizzata per riproporre If You Love Somebody Set Them Free, con l’incedere dichiaratamente dance anche se lo storico remix di Jellybean Benitez resta insuperabile. If I Ever Lose My Faith In You è tra le tracce la più sporcata, per nulla paragonabile a quel capolavoro di arrangiamenti presente in Ten Summoner’s Tales. Chiude il disco Englishman in New York bistrattata in stile Dylan e Fragile, vero capolavoro di Sting. Shape Of My Heart – una delle tracce più sottovalutate dell’artista – e Fields Of Gold sono le più riuscite, non solo rinnovate ma dotate di un nuovo equilibrio tanto da preferirle alle versioni precedenti. Nell’album sono presenti i testi accompagnati dalle note dall’artista su ogni singola canzone, narrandone la genesi o le storie legate al brano. Il tour mondiale di Sting approderà in Italia il 29 luglio al Lucca Summer Festival e il 30 a Padova all’Arena Teatro Geox.
Balestrini è uscito dal Gruppo 63.Addio al Poeta dell’Avanguardia
Eadesso? Nanni Balestrini, ventenne allora, ottantenne nel giorno della chiusura, ha sempre provveduto alla esistenza, alla convivenza, allo stare e ritornare insieme, al rilanciare la fune cui aggrapparsi per continuare un legame che avrebbe dovuto evaporare negli anni e che è stato chiamato Gruppo 63.
È vero, si è disperso, ma per un ritrovarsi continuo, in un intrico di rapporti che – dalla citazione alla collaborazione professionale -, finisce solo, di volta in volta, per ragioni di destino, mai per noia o caduta di interesse. Qui sto usando la parola “destino” nel senso spagnolo di destinazione, perché uno dei più importanti eventi del Gruppo 63 ha avuto luogo a Barcellona (nel 1966), complici un gruppo di architetti, una attivissima casa editrice e alcuni pittori catalani già celebri. Erano gli ultimi giorni del franchismo, ma la Catalogna si considerava libera, e Balestrini non ha avuto alcuna esitazione nel convocare la nostra riunione in Spagna (dove il Gruppo aveva già la sua filiale).
Infatti ignorare i confini e non tener conto “dei nostri valori tradizionali” era già lo spirito profondo del gruppo che Balestrini aveva, allo stesso tempo, portato nel gruppo e assorbito dal gruppo. Esempi: da un lato Balestrini aveva agganciato la piccola (e poi molto cresciuta) casa editrice Wagenbach di Berlino, e gli scrittori del Gruppo tedesco 47. Dall’altra, con Arbasino autore della Gita a Chiasso (il messaggio era: “Andate almeno al confine svizzero per intravedere il resto del mondo, e sapere che c’è vita fuori dai sacri confini della patria”), aveva lanciato il manifesto della nuova aggregazione di poeti, scrittori, filosofi, musicisti, pittori, scienziati, liberi da ogni superstizione sovranista (la parola non esisteva, ma c’erano già i post-fascisti).
Balestrini non aveva (e dunque il Gruppo 63) e non ha mai avuto agganci politici nel senso italiano della espressione. La destra aveva trovato nel Gruppo 63 i suoi nemici (contro la tradizione, scherziamo?). Il centro non si fidava e non si sarebbe neppure accostato. Craxi era celebre per il suo rude modo di rivolgersi alla cultura con parole come “intellettuali dei miei stivali”. Il Pci non trovava l’oggetto “avanguardia” (parola comunque sospetta) nei suoi scaffali, neppure sotto la voce “sperimentalismo” (che avrebbe potuto essere un escamotage del capitalismo in cerca di infiltrazioni tra i giovani), e non apprezzava humour e satira che il gruppo spargeva intorno, anche per avere spazio e respiro rispetto all’assedio perdurante della letteratura del sentimento.
Nasce Quindici, il giornale del gruppo, dal disegno e formato unico (nel senso di enorme ed elegantissimo), proposto e realizzato (la produzione), ovviamente, da Balestrini, scritto dal gruppo, cominciando con Umberto Eco, atteso dai grandi settimanali per cogliere titoli e argomenti. Qui la politica si accosta in un altro modo, in forma di rivoluzione. Si tratta di decidere se e a chi dare la parola, nel mondo giovane che esplode al di fuori del gruppo, ma quasi contiguo. Il Gruppo 63 dice no, perché scarta e respinge la violenza. Interrompe le pubblicazioni. Comincia una stagione difficile, afona. La festosa creatività che era stata il segno del gruppo diventa un lavorare più intenso e isolato.
Balestrini scrive Vogliamo tutto, forse il libro simbolo di quegli anni (che sono anche gli “anni di piombo”), la più attendibile interpretazione di quello che sta accadendo, che non chiede adesione ma fornisce il più straordinario murale di un’epoca. Eco pubblica Il nome della Rosa con il suo immenso, leggendario successo. E qui leggereste, in ogni altra storia di gruppi culturali, che il legame si scioglie e ognuno torna alla suo unico mondo. Ma non è stato così. Nel 2016 a Milano, c’erano tutti alla mostra di Balestrini (figure ottenute da un collage di parole) a cominciare da Eco.
Poche sere fa, da Otello, a Roma, Angelo Guglielmi (il critico divenuto manager), Giovanni Battista Zorzoli (lo scienziato divenuto letterato) e Balestrini erano insieme a cena, in un incontro convocato da Balestrini per un nuovo numero della rivista Alfabeta.