“Diego non ha nulla a che fare con Maradona, però Maradona porta Diego ovunque”. Il fermo-immagine del suo storico preparatore, Fernando Signorini, viene da Diego Maradona, il documentario con cui il bravo Asif Kapadia completa la trilogia iniziata con Senna (2010) e proseguita con il premio Oscar Amy (Winehouse) nel 2015. Fuori concorso a Cannes, assembla footage inedito degli anni ’80 e interviste ad hoc, consapevole – come dice un tifoso napoletano – che “non puoi criticare Maradona perché non puoi parlare male di Dio”, ma provare a comprenderlo tra exploit sportivi ed eccessi notturni, dribbling e tiri di coca, questo sì. “Mi interessa più la gloria che i soldi”, dice il Pibe de Oro, mentre 85mila tifosi lo attendono al San Paolo e il presidente Corrado Ferlaino caccia un giornalista reo di avergli chiesto della camorra: la storia la conosciamo, dagli scudetti – “Non sanno che si son persi”, stampigliato al cimitero – alla Coppa Uefa col Napoli, dal Mondiale vinto con l’Argentina nell’86 all’eliminazione dell’Italia nel ‘90, per cui Diego diverrà “l’antipatico” e “Lucifero”, dalle aderenze con il clan Giuliano alla squalifica per doping, eppure, questo potente doc non serve da ripasso, ma da omaggio senza piaggeria. In Concorso, delude Frankie di Ira Sachs, sciapa reunion familiare con Isabelle Huppert malata terminale, e ancor più i Dardenne dello stolido e semplicistico Le jeune Ahmed, che tallonano la radicalizzazione di un mussulmano adolescente: fratelli, dove siete?
Com’è umano il mostro
Adelphi dà alle stampe in contemporanea due libri che risuonano nelle zone sensibili delle menti soggette al fascino del mostro, quell’entità composta di angelicità, terrore, stranezza, disponibilità e spiritualità tutte mischiate insieme e che rimanda, sulla sua superficie impenetrabile, la stessa immagine umana. Si tratta de Il libro dei mostri di J. Rodolfo Wilcock e di Dialettica del mostro. Inchiesta su Opicino de Canistris di Sylvain Piron.
Di Wilcock, della sua selvatichezza furente, si sa ormai quasi tutto: originario di Buenos Aires, nel 1957 si trasferì a Roma e poi nel ’60 a Velletri, da dove coltiverà il suo gusto da giostraio della parola votato all’irragionevole e al sarcastico, al perturbante e al rigoroso. I mostri di Wilcock tornano a inquietare (questa è una riedizione del volume di Adelphi del 1978) e a mostrarsi, appunto, a noi come a una specie di spietato pubblico da fiera, mentre l’autore li ostenta in una tassonomia malinconica. La Spoon River dei mostri umani degenerati e abbandonati che subiscono metamorfosi, amputazioni e accrescimenti carnali o semplicemente si allontano dal mondo, come Wilcock, per cuocersi dentro la loro bizzarria, è ipnotica: due per tutti, il meccanico Fizio Milo, “una persona così modesta che a poco a poco è scomparso quasi del tutto, soltanto è rimasta in un angolo dell’officina una specie di fosforescenza diffusa” e ora passa il tempo “a contare alla luce di sé stesso quante lenticchie ci sono nel libro di Daniele o nei Giudici, quanti elefanti ci sono nei Salmi (nessuno)”; e il musicista Sligo, di cui “qualcosa è rimasto”, “ma che cosa sia non si vede bene, tutto il suo corpo è come avvolto in una specie di schiuma rosea appiccicosa… la testolina indiscernibile nel suo cappuccio di bava”.
Sylvain Piron è un medievalista che ha dedicato anni a cercare di decifrare il materiale autografo, riportato alla luce dai bibliotecari vaticani, di un certo Opicino de Canistris, nato a Pavia nel 1296, miniatore e scriba per conto del papato a Avignone.
Opicino è un mostro meraviglioso: affetto, secondo gli studiosi di oggi, da “parafrenia fantastica”, nel corso del travagliato e schizofrenico 1300, tra indulgenze, simonia e cattività avignonese, scrisse un diario angoscioso sulla sua vita “da bestia” e disegnò tavole disturbanti e surreali, ispirate alle mappe dei cartografi genovesi, nelle quali la topografia classica si ibrida con figure antropomorfe, organi, vene, creature deformi, sangue, latte.
“Ero nella lotta della carne”, scrive Opicino, “nutrito in mezzo alle bestie” (che sono poi gli umani, dei quali aveva terrore), sopra le distese marine che solo due secoli dopo sarebbero state solcate dalle pance delle navi spagnole. Il Mediterraneo rigurgita di anatomie bizzarre; l’Africa delimita il corpo di una donna-Europa nuda, vestita di stivali che occupano il Sud Italia e la Dalmazia; il ventre insanguinato, sito in Lombardia, contiene il feto di una piccola Europa che sta per nascere per parto cesareo nel golfo di Genova; altrove, il pugno di un braccio risale l’Adriatico e assale le parti intime della donna nella laguna veneziana, e un sesso maschile in erezione eiacula sul litorale di Alicante, lungo la costa aragonese, appoggiato al collo della donna. Considerando che partoriva le sue creazioni mentre Dante moriva, la mente morbosa e surrealista di Opicino allibisce e affascina.
L’occasione di poter disporre insieme del trattato mostruoso di Wilcock e della cosmogonia deviante e feticistica di Opicino è imperdibile: un’entrata dentro due camere delle meraviglie separate dai secoli e unite dall’ossessione e da umanissima grazia. Wilcock: “Chi riesce a fare questo deve senz’altro essere bello, per quanto schifo possa fare la sua apparenza generale”. Opicino: “Chi sono io? Sulla mia schiena, il grande fiume Danubio, da Dan che significa giudizio e dubium, come tutti i giudizi di cui dubito”.
L’Olocausto, Al Jazeera e il video negazionista
Per la prima volta Al Jazeera ha sospeso due suoi reporter per aver mandato in onda un servizio palesemente antisemita, un’altra solita storpiatura della Storia con cui abitualmente i revisionisti – arabi e non – invadono la Rete, il Web e la tv. È un video di sette minuti andato in onda sabato scorso su Al Jazeera in lingua araba in cui sostiene che le dimensioni dell’Olocausto sono state “abilmente amplificate” perché gli ebrei controllano la stampa mondiale. Violentando la Storia a loro piacimento i due autori del programma dubitano delle cifre: “Come si è arrivati alla cifra di 6 milioni di ebrei uccisi dai nazisti?”.
Ancora: “Hanno sfruttato l’Olocausto facendo concentrare tutto il mondo sui loro morti, le altre vittime sono state dimenticate, per ricevere denaro dalla Germania – si afferma nel video – sei decenni dopo l’Olocausto, rispetto ad altri Paesi che ne sono stati colpiti Israele ha ricevuto sono state riparazioni sproporzionate”.
Dobbiamo condannare inequivocabilmente l’Olocausto, prosegue il servizio, “ma Israele adesso usa gli stessi metodi dei nazisti nella pulizia etnica contro i palestinesi”.
Indignate e immediate le reazioni in Israele sul contenuto anti-semita del programma. Immediata anche la reazione di Al Jazeera che ha subito rimosso il video dal proprio sito ufficiale e poi ha annunciato che i due giornalisti responsabili del servizio sono stati sospesi dall’emittente del Qatar.
“Al Jazeera rinnega completamente il contenuto offensivo del servizio in questione e non può tollerare questo tipo di contenuto su nessuna delle piattaforme della rete”, scrive Yaser Bishr, direttore esecutivo della divisione digitale, in una dichiarazione ufficiale pubblicata dal sito. Dima Khatib, managing director di Al Jazeera, ha aggiunto che il video è stato prodotto “senza la dovuta supervisione” e che il pezzo ha violato gli standard editoriali della rete.
La marcia indietro del network del Qatar è arrivata dopo una salva di dichiarazioni di fuoco sabato sera da Israele. Il portavoce del Ministro degli Esteri Emmanuel Nahshon ha scritto su Twitter che “quel video è il peggior tipo di male: perpetua l’odio per Israele e gli ebrei”. Anche il portavoce per i media arabi del premier Benjamin Netanyahu, Ofir Gendelman, ha commentato che il “video ora è stato rimosso, ma noi continueremo a combattere l’antisemitismo sui media arabi, specie su Al Jazeera in arabo che è un’incitante macchina di propaganda”.
Il gesto rapido del network – la rete in lingua araba è ben diversa da quella in inglese per contenuti e programmi – rispecchia in qualche modo il sistema di relazioni che ci sono in questo momento tra Israele e Qatar. Fra i due Paesi, che non hanno relazioni diplomatiche ufficiali, esiste da tempo un efficace dialogo sotterraneo che spazia in vari ambiti compreso l’antiterrorismo. È il Qatar, poi, che paga gli stipendi di Hamas nella Striscia di Gaza. D’intesa con Israele trenta milioni di dollari al mese entrano dal valico di Kerem Shalom. È un accordo importante voluto dal premier Benjamin Netanyahu – e fortemente criticato dalle opposizioni – seguito al ‘cessate il fuoco’ con Hamas di tre settimane fa. Un’intesa fragile, raggiunta con la mediazione di Egitto e Qatar. L’emirato – sempre in accordo con Israele – è pronto con altri 500 milioni di dollari da investire fra Gaza e Cisgiordania. È un sistema di relazioni delicate ma al momento molto importanti, per entrambi i Paesi.
Il caso Lambert, i giudici ordinano: va tenuto in vita
I medici ieri mattina avevo iniziato a staccare la macchine dalle quali dipende la vita di Vincent Lambert, ma ieri a tarda sera i genitori ottengono dalla Corte di appello di Parigi lo stop della procedura. Ora toccherà a una commissione Onu stabilire la sorte del 42 enne tetraplegico dal 2008. Senza macchine l’ex infermiere può morire in qualsiasi momento. Lambert rimase vittima di un’incidente stradale 11 anni fa che gli causò una lesione al cervello. Da allora vive bloccato su un letto d’ospedale, respira da solo ma dipende da una sonda per alimentarsi.
Il suo è uno stato “neurovegetativo irreversibile”, secondo i medici. Ieri il dottor Sanchez che lo ha in cura all’ospedale di Reims ha avviato la procedura che prevede l’interruzione delle cure e una somministrazione di sedativi “controllata e profonda”, in linea con la legge sul fine vita Leonetti del 2005 (aggiornata dalla legge Claeys-Leonetti del 2016) che vieta l’eutanasia, ma rifiuta l’accanimento terapeutico. Di pazienti in stato vegetativo cronico ce ne sarebbero almeno 1.500 in Francia. Il caso di Vincent Lambert è però l’unico che coinvolge e divide i francesi perché la stessa famiglia dell’ex infermiere è spaccata da anni e ne è nata un’accesa e mediatica battaglia giudiziaria. Viviane e Pierre Lambert, i genitori di Vincent, cattolici praticanti, appoggiati da altri due figli, sono contrari all’interruzione delle cure e hanno portato il caso davanti alle più alte istanze giudiziarie francesi e fino alla Corte europea dei diritti umani. Tutti i loro ricorsi sono stati respinti. Dall’altra parte, la moglie di Vincent, Rachel Lambert, un nipote e altri due fratelli di Vincent, sono per la sospensione delle cure, perché quella di Vincent, secondo loro, non è una vita degna di essere vissuta. Per la moglie, staccare la macchina è “un atto d’amore” nei suoi confronti. In Francia è possibile comunicare delle “direttive anticipate” sul proprio fine vita. Vincent Lambert non ha lasciato nulla di scritto ma la moglie sostiene che non avrebbe voluto vivere così. Nel 2013, non ottenendo risultati, i medici di Reims, con l’accordo di Rachel, hanno sospeso le cure. Ma alla decisione si sono opposti i genitori che hanno ottenuto dai giudici di far riattaccare la sonda nell’attesa di nuove perizie. Da allora Vincent Lambert è diventato suo malgrado in Francia il simbolo di un dibattito sul fine vita, come lo fu il caso di Eluana Englaro. Finora tutti i medici e i tribunali si sono pronunciati contro l’“ostinazione irragionevole” delle cure.
La decisione del Consiglio di Stato, il 24 aprile scorso, è andata nella stessa direzione. Nell’ultimo ricorso, i genitori di Vincent hanno scritto a Emmanuel Macron perché intervenisse in favore del figlio. “Non sta a me sospendere una decisione che appartiene ai medici e che è conforme alle nostre leggi”, ha risposto il presidente. Per Viviane e Pierre Lambert e per chi li sostiene Vincent ha un handicap, ma non è in fin di vita e interrompere le cure è sinonimo di eutanasia. Ieri davanti all’ospedale di Reims, Viviane ha denunciato: “Sono dei mostri, lo stanno uccidendo”. C’è una petizione di 130.000 firme che la appoggia. Una “marcia per la vita di Vincent” è stata organizzata a Parigi.
I gemelli di Putin: Alina, lo zar ancora papà e il parto “segreto”
Lunedì 6 maggio nasce Archie, conte di Dunbarton, figlio del principe Harry e dell’ex attrice Meghan. Il giorno dopo, martedì 7 maggio, a Mosca, nascono due gemelli: sarebbero i figli di zar Vladimir e di Alina. Mentre del Royal Baby sappiamo tutto, dei “putini” non si sa nulla. Nemmeno che sono venuti alla luce. Perché la storia d’amore tra Putin e l’ex ginnasta Kabaeva è tabù in Russia. Guai a parlarne. Si sa, non si dice, tantomeno si scrive. Neanche Oliver Stone, durante la sua lunga e pur amichevole intervista con il presidente russo diventata un best seller, si è azzardato ad affrontare l’argomento. Appena ha accennato al divorzio dalla moglie Ljudmila (avvenuto nella primavera del 2014), ha visto Putin incupirsi. Il capo del Cremlino ha aggrottato la fronte, ed ha cambiato argomento. Stone ha capito che non era il caso di insistere.
Perché tanto riserbo? “Ho una vita privata con cui nessuno deve interferire”, ha sancito una volta per tutte Putin. Non vuole finire come i reali d’Inghilterra sulle prime pagine dei tabloid. E poi, ha spiegato l’ex diplomatico Vladimir Fédorovskij (che vive in Francia e scrive saggi sulla Russia a ritmo torrenziale), Putin è stato plasmato dalle paranoie del Kgb, e “sa che i parenti sono vulnerabili”. Putin teme per la loro incolumità. Non vuole che siano vittime della perniciosa curiosità di tabloid e social network.
Per questo ha protetto la vita delle due figlie avute dalla prima moglie, obbligandole a mantenere un profilo basso, e talvolta, ad usare altre generalità. Per questo Alina Kabaeva, che ha appena compiuto il 12 maggio scorso 36 anni, avvenente ex campionessa olimpica ai Giochi di Atene, detentrice di 9 titoli iridati e 15 europei, si è chiusa sempre nel più stretto riserbo e non ha mai rivelato chi fosse il padre di Dmitrj, il figlio nato nel dicembre del 2009, o della figlia nata nel novembre del 2012, sebbene la loro paternità sia stata attribuita a Putin dai mezzi di informazione stranieri, soprattutto tedeschi ed americani. I due si sono conosciuti nel 2000. Alina non ha mai nascosto la sua ammirazione per il presidente, al punto che nel 2007 è diventata deputata alla Duma, per Russia Unita, il partito egemone di Putin.
Ad infrangere la regola (non scritta ma severamente applicata) del silenzio è stato ieri il coraggioso giornalista investigativo Sergej Kaneev, 57 anni, che in passato, lavorando per la Novaja Gazeta, lo stesso giornale di Anna Politkovskaja, ha rischiato la pelle (hanno tentato di strangolarlo). Gli è capitato spesso di finire in cella. Nel 2016 ha scritto un articolo sulla figlia maggiore di Putin, Maria Vorontsova e sulla sua vita lussuosa (al contrario della narrazione ufficiale) il che gli ha provocato grossi problemi, per usare un eufemismo.
Oggi vive in esilio. La notizia dei gemellini, da lui riportata in un post della sua seguita pagina di Facebook, è circostanziata da alcuni dettagli: ad assistere la partoriente, sottoposta a taglio cesareo, ci sarebbe stato “un medico superstar italiano”, di cui non rivela il nome, almeno per il momento. Con lui, l’accademico professore Ghenadij Sukhikh, direttore del centro medico nazionale di ostetricia. Prima del ricovero, uomini della sicurezza avrebbero perlustrato ogni metro quadrato dell’ospedale, allontanato metà dei medici e garantita la privacy totale, questo riferisce Kaneev.
Anche la data del parto ha una sua importanza. Perché è avvenuto due giorni prima della tradizionale sfilata nella piazza Rossa per commemorare la Grande Guerra Patriottica e la sconfitta dei nazisti. Dunque, nel sentire nazionalpopolare russo, i “putini” sarebbero figli della Vittoria. Un buon auspicio, tenuto però ben custodito, all’ombra del Cremlino. Eccesso di segretezza? Una volta il sito ReadRussia.com ha scritto: “La cosa più imbarazzante è che non un solo media russo ha mai scritto che la Kabaeva ha avuto un figlio”.
Nel giro di poche ore, la notizia dei gemellini ha fatto il giro del web russo. Sugli scudi, ovviamente, i filoputiniani che negavano la storia. Più scettico dni.ru/showbiz: forse “c’è stato qualcosa”. La reputazione di Kaneev è tale che qualche sito d’informazione, come new9ru ha cercato di metterla sull’equivoco, scrivendo che siti d’informazione alzavano le barriere difensive, effettivamente in quell’ospedale c’è stata una donna che ha dato alla luce due gemelli, ma si chiama Kabajeva e non è quella di Putin.
Anni fa, nel 2008, quando il giornale Moskovskij Korrespondent osò scrivere che Putin stava per divorziare dalla moglie Ljudmila, successe il pandemonio. Putin s’infuriò, l’editore Alexander Lebedev chiuse il giornale. E quando, in Sardegna, una cronista chiese a Putin, ospite di Berlusconi, se la notizia era vera, B. fece il siparietto della mitragliata all’indirizzo dell’indiscreta cronista.
Lo scandalo russo di Strache travolge l’intero governo e Kurz
“Se verrà rimosso il ministro degli Interni, usciremo tutti dal governo”. E cosi hanno fatto. I ministri del partito di ultradestra austriaco FPÖ non hanno accettato la destituzione del ministro degli Interni Herbert Kickl da parte del cancelliere Sebastian Kurz in seguito allo scandalo che sabato ha portato alle dimissioni del vice-cancelliere e leader del loro partito Heinz-Christian Strache. Ripreso in un video a offrire contratti in cambio di aiuto alla campagna elettorale ad una presunta nipote di un oligarca russo, in una villa a Ibiza, Strache trascina con sé così tutto l’esecutivo. “Proporrò la sua rimozione al presidente della Repubblica” aveva ribadito in conferenza stampa il cancelliere Kurz, poco dopo che il presidente Alexander Van der Bellen aveva annunciato il fiuto di Peter Goldgruber a direttore generale della sicurezza pubblica proposto proprio da Kickl. L’opposizione socialdemocratica chiede ora le dimissioni del cancelliere e del’intero governo da sostituire con un esecutivo di tecnici ad interim fino alle elezioni anticipate annunciate per settembre. Dal Cremlino intanto fanno sapere di non conoscere la presunta oligarca, mentre il video dell’incontro potrebbe costare a Strache anche il matrimonio. “Sono scioccata e devo prima raccogliere le idee”, ha detto Philippa, moglie dell’ex leader del Fpo cui Strache prima di dimettersi ha porto le sue scuse in mondovisione. “Guardo avanti. Tutta la mia energia ora va a mio figlio”. A trarre maggiori benefici dallo scandalo sarebbe invece il partito popolare del cancelliere Kurz, mentre l’estrema destra scende di 4 punti nei sondaggi. Risultato questo in cui sperano i centristi europei che hanno subito avvisato di altri possibili casi austriaci gli elettori di destra. A dar loro man forte è un rapporto di Corporate Europe Observatory, che analizza come i partiti anti-establishment siano finanziati da “note” lobby.
Brexit Party: Nigel Farage e il partito che non c’è
“La democrazia è in pericolo. Unisciti a noi nella lotta per difenderla”. Lo slogan del Brexit Party, la nuova creatura politica di Nigel Farage che, secondo tutti i sondaggi, trionferà alle elezioni europee di questo weekend, è un efficace distillato della propaganda Brexiteers: vogliono impedire l’uscita del Regno Unito dall’Ue, voluta dalla maggioranza della popolazione con il referendum del giugno 2016. L’unico modo per fermarli è votare Brexit Party, il campione del popolo contro le élite. Anche se non tutti credono a questo slogan, a giudicare dall’accoglienza riservata ieri a Newcastle a Farage. Un uomo, Paul Crowther, 32 anni, che gli ha tirato addosso un frullato appena comprato in un vicino fastfood. “Non sapevo neppure che fosse qui, l’ho visto e ho pensato fosse la mia chance”, ha rivendicato l’uomo, per nulla pentito. Il Brexit Party, prima che un partito, è letteralmente un’azienda. Per la precisione una Ltd, società a responsabilità limitata, di cui Farage è il direttore.
“Il Fatto quotidiano” ha esaminato i documenti depositati presso la Companies House e la Commissione elettorale: “The Brexit Party Limited” è stata registrata il 23 novembre 2018 sotto l’ombrello “Attività di organizzazioni politiche”. Il 29 marzo 2019 Farage ne è diventato uno dei due direttori, insieme a Richard Tice, ricco uomo d’affari del settore immobiliare e già presidente del partito. Ma dal 9 maggio, una settimana dopo gli esiti delle Amministrative fallimentari per i Tories, Farage diventa l’unico dirigente della società with significant control. Ha “il diritto, direttamente o indirettamente, di nominare o far decadere la maggioranza dei membri del consiglio direttivo”. “È il padrone” ci conferma un esperto di diritto societario. Un assetto senza precedenti rispetto agli altri partiti, organizzati con probiviri, organi direttivi, strutture intermedie: contrappesi democratici al potere dei rispettivi leader. “Guido un’azienda, non un partito” ha ammesso Farage al Sunday Telegraph, rivelando anche la sua fonte di ispirazione: “Ho seguito fin dall’inizio la crescita del movimento 5Stelle, ne sono totalmente affascinato”. Fatto sta che il Brexit Party non ha nemmeno un programma elettorale: democrazia interna e obbligo di mantenere le promesse ne limiterebbero libertà d’azione e velocità di reazione. Il documento che gli si avvicina di più è il memorandum costitutivo della società, che indica come obiettivo “la creazione e il mantenimento di una campagna per portare il Regno Unito fuori dall’Ue”. E anche: “Fare campagna per un programma di rilancio della nazione”. Farage lo ha detto esplicitamente: oltre le Europee c’è un progetto più ampio, che potrebbe sconvolgere gli assetti politici attuali, specie in caso di elezioni anticipate a ottobre, con i Tories e il Labour indeboliti dalle rispettive ambiguità su Brexit. In che direzione? Con quali politiche? Mistero. Una opacità che sembra riguardare anche i finanziatori. Farage si è vantato di ricevere fino a 100 mila sterline al giorno in piccole donazioni e quote di registrazione al partito. Ma ci sono altri flussi. Elargizioni molto più ampie, anche di 200 mila sterline, da ricchi sostenitori ancora quasi tutti ignoti. E tante piccole somme transitate verso le casse del partito, anche dall’estero, tramite un conto PayPal. Secondo la legge britannica non è obbligatorio indicare l’origine di finanziamenti privati inferiori ai 500 pound, ma ora in molti, fra cui l’ex premier laburista Gordon Brown, lanciano l’allarme su possibili interferenze straniere o il rischio di riciclaggio di denaro.
“Un’accusa ridicola -ha commentato Tice – Westminster è gelosa del nostro successo”. La Commissione Elettorale ha annunciato per oggi un ispezione nel quartiere generale del Brexit Party. Non è l’unico fronte aperto: secondo l’Indipendent, il Parlamento europeo potrebbe avviare un’inchiesta sull’eurodeputato Farage: non ha dichiarato almeno 450 mila sterline in lussuosi regali ricevuti nel 2016 da Arron Banks, co-fondatore della campagna Leave.eu e grande sostenitore della Brexit. C’è un ma. Per provare eventuali irregolarità ci vorranno mesi. Le elezioni europee, invece, sono alle porte. E gli ultimi sondaggi danno il Brexit Party in testa con il 34%, più della somma di Conservatori e Labour.
Ma quale Eurofestival, aridatece i Jalisse
Se prima di domenica c’era qualche dubbio che l’Unione Europea non fosse alla canna del gas, la finale dell’Eurofestival li ha fugati alla grande. Dici Europa e non sai cosa vedi, tanto meno sai cosa ascolti. I confini si sono fatti di anno in anno più creativi. C’è Israele (quest’anno paese ospitante, come se a Roma si ospitasse il Super Bowl), ma non c’è la Palestina. Non c’è il Belgio, non c’è il Lussemburgo, ma c’è l’Olanda (e vince). Non c’è il Portogallo, ma porte aperte all’Australia (speriamo che Salvini non se ne sia accorto). Non c’è Andorra, ma c’è San Marino (perché San Marino è San Marino). Ma se i confini di questa Europa da baraccone canzonettaro infarcita di balletti stile proloco sono mutevoli, in compenso la musica è tutta uguale, una flat music stillata dalla disco anni 80 e campionata in barrique. Nell’elettro-melassa impossibile distinguere la Germania dall’Azerbaijan. Al massimo riconosci qualche clone, un aspirante Ricky Martin, un Elton John bonsai, una Lady Gaga della mutua. Poi c’è anche Madonna vera, ma nessuno nota la differenza. Alla faccia delle 24 lingue ufficiali, tutti cantano in inglese, segno che il Vecchio mondo è ormai una omologata brutta copia del Nuovo. Tra le rare eccezioni c’è stato Mahmood, secondo assoluto ma primo tra chi non ha cantato in inglese. Veniva voglia di rivalutare il Festival di Sanremo (modello dichiarato del Song Contest), Baglioni e perfino le battute di Insinna nella diretta di Rai1. Aridatece i Jalisse.
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Nonostante i tanti cittadini onesti, l’Italia sta affogando
In un interessante articolo su Il Fatto Quotidiano del 20 maggio 2019, Nando Dalla Chiesa alla luce del tempo presente, rievoca l’apologo di Calvino sull’onestà nel paese dei corrotti, che Calvino propose ormai 40 anni or sono. Dalla Chiesa non rinuncia ad esporre i meriti degli onesti, a riconoscerli presenti da sempre, eppure parte dal contemporaneo riconoscimento che “in questo Paese continua a dettare legge l’antilegge”. “Dove si è sbagliato? Dove in quale punto preciso, tutto finisce e ricomincia?”. Si chiede anche.
Ieri sollecitato dall’affermazione di un’amica, “sono più pericolosi i furbi degli ignoranti. Occhio!”, mi sono ri-trovato di fronte ad una mia convinzione; vero che sono più pericolosi i furbi degli ignoranti, ma sono una disgrazia per questo paese, molto di più i “buoni” che non i “cattivi”.
Dai “cattivi” non c’è da aspettarsi niente, dai “buoni” purtroppo ci arriva innanzi tutto una difesa d’ufficio di sé stessi, come se la situazione penosa nella quale oggi affoghiamo non fosse anche (sottolineo anche) figlia di quello che Ettore Scola ha magistralmente descritto nel suo film “La terrazza”, che il premio per la miglior sceneggiatura lo ha preso a Cannes nel 1980, coevo guarda caso dell’apologo di Calvino. E 39 anni, ormai 40, non sono bastati ai “buoni” per provare, dico provare, a correggersi.
Nell’articolo di Nando Dalla Chiesa, a leggerlo con attenzione una risposta implicita al dramma che stiamo ancora vivendo in questo Paese, la troviamo proprio nella formulazione della domanda che Dalla Chiesa si pone: “dove stiamo sbagliando”? Chiediamoci in quanti, fra i “buoni”, si pongano oggi la stessa domanda di Dalla Chiesa, ed avremo la spiegazione della drammatica situazione nella quale, nonostante i tanti onesti che abitano questo Paese, stiamo tuttora affogando.
Vittorio Melandri
Se non si può votare “a favore”, bisogna farlo “contro” il peggio
Ho sempre votato in vita mia e naturalmente lo farò anche questa volta. Quando non potevo votare “pro” votavo “contro” chi ritenevo il peggio: per me, per i miei princìpi, per il mio Paese. Ora ci ritroviamo un ministro degli interni che non festeggia il 25 Aprile, vuole mettere una multa a chi salva un naufrago, si fa campagna elettorale agitando rosari e madonne e pensa che la magistratura debba rendere conto a lui; per me è costui il peggio del peggio, ma sorge una spontanea una domanda. Mi chiedo infatti chi è il più indicato e che abbia il potere per fermare questa deriva, che più che autoritaria la definirei squallida e miserabile. Ci rifletterò fino all’ultimo.
Vincenzo Bruno
I partiti pensano solo al “monopolio” degli elettori
Le liti di Salvini e Di Maio cominciano a stancarci. Un anno fa non avevo trovato fosse una cattiva idea stipulare quel contratto di governo da parte di due forze così diverse: accusare adesso, per fini elettorali, i Cinque Stelle di governare con i “cattivi” è molto disonesto. Che sorgessero in seguito dei conflitti fra i due leader non ci dovrebbe stupire, dovrebbero lasciarci perplessi ben altri conflitti. E non parlo solo di quelli fra Cinque Stelle e PD, che avrebbe potuto condividere alcune battaglie del Movimento (Decreto dignità, Reddito di cittadinanza, Spazzacorrotti, legge sul voto di scambio politico-mafioso…) e invece li ha bocciati tutti d’amore e d’accordo con FI. Ci sono altre forze e istituzioni che sembrano volere a tutti i costi l’esclusiva, se non il “monopolio”, di certe categorie di cittadini, e questo non ci sembra sia fatto nell’interesse di questi ultimi, per quali ci si dovrebbe sempre sforzare di trovare un accordo. Mentre il PD sembra pretendere il “monopolio dei cittadini di sinistra”, la Cgl di Landini, il cui atteggiamento mi ha molto deluso, vorrebbe il “monopolio dei lavoratori”, infatti è stata fin troppo critica sia riguardo il Decreto dignità che il Reddito di cittadinanza, e l’abbiamo vista più in sintonia con Confindustria che con un ministro del lavoro che sta cercando di smantellare il jobs act .La Chiesa dei vescovi sembra volere il “monopolio dei poveri”, altrimenti non avrebbe fatto certe imbarazzanti affermazioni sul Reddito di cittadinanza. Certamente, per par condicio, si potrebbe dire che i Cinque Stelle, pur essendo sulla strada giusta nella lotta, non possono pretendere di avere “l’esclusiva dei cittadini onesti”. La pretesa di “monopolizzazione” da parte di Salvini, come vediamo, è addirittura “totalizzante”: da nord a sud, isole comprese. E col suo vinci Salvini sembra voler togliere il pubblico anche a “Uomini e donne” di Maria De Filippi.
Enza Ferro
I nostri errori
In un sommario della rubrica Storie Italiane di Nando Dalla Chiesa, nell’edizione di ieri, abbiamo indicato Salvatore Borsellino come vittima della strage di Capaci. A Capaci, il 23 maggio 1992, furono uccisi Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta. Paolo Borsellino fu ucciso il 19 luglio seguente e suo fratello Salvatore è vivo e vegeto. Ci scusiamo per l’errore con lui, con Nando Dalla Chiesa e con i lettori.
Fq
Clima pazzo Mercalli: “Il surriscaldamento è globale e non smentito da questo freddo”
Gentile redazione, vorrei condividere con voi la mia preoccupazione sul clima: siamo a metà maggio ma sembra novembre, a Roma, almeno. Non doveva esserci un surriscaldamento globale? La nostra casa non era forse “in fiamme”, come sostiene Greta Thunberg? Mi sembra tutto surreale e anche poco scientifico (vedi le previsioni). Che dicono i climatologi?
Lia Sarri
La DOMANDA è assolutamente lecita, ma di semplicissima risposta. Andiamo per punti: primo, il tempo non è il clima. Il tempo si misura su una scala di qualche giorno e su una piccola parte di territorio; il clima, viceversa, si misura su tutto il pianeta e lungo i secoli. Non basta guardare quel che si ha sopra la testa per giudicare; ci vogliono i dati dei satelliti e delle stazioni meteorologiche internazionali. Altro punto: è vero che questo maggio in Italia è freddo, ma non peregrino. Ne abbiamo già avuti di simili, come, ad esempio, quello del 1957. Questo per dire che non è un fenomeno eccezionale: ogni tanto capita un maggio fresco. Quello che conta, però, è che in tutto il resto del mondo fa molto più caldo: quindi il nostro è un fatto locale, e interessa infatti solo il Mediterraneo e l’Europa. In generale, questa prima metà di maggio è più calda della media, di circa 1° C in più, che è tanto su scala mondiale. Sono le zone molto calde a doverci preoccupare: se fossimo in questo momento in Russia o in Alaska capiremmo che cosa vuol dire il riscaldamento globale perché lassù si registrano 20° C oltre la media, mentre noi la scorsa settimana avevamo 10° C sotto la media. Addirittura, giorni fa, nella Russia settentrionale, c’erano 32° C oltre il Circolo polare artico. Quindi, il riscaldamento globale esiste eccome, non è assolutamente contraddetto dalle “nostre” temperature di maggio: Italia ed Europa sono uno sputo sulla carta geografica del mondo. Mentre tutto il resto del mondo si sta riscaldando, in questi specifici giorni qua c’è stata una discesa di aria fredda da Nord, però magari tra un mese crepiamo di caldo. Perciò, bisogna ricordarsi che il clima non è il tempo e che il riscaldamento è globale. L’aggettivo è importante: globale, non di Roma, non si parla di “riscaldamento di Roma”. Comunque, per saperne di più, si può consultare il sito www.nimbus.it.
Luca Mercalli