Zinga vincitore.Ma del concorso “Sbaglia tutto”

Questa rubrica ha un debole per l’ineffabile Zinga. Ci affascina oltremodo quel suo carisma garbato da mietibatti spenta. Quel suo cipiglio fiero da scimitarra irrisolta. Quel suo portamento maschio da salumaio mesto. Quella sua idea di Pd nuovo e originale come un singolo qualsiasi di Ligabue. Brava persona mossa da nobili sentimenti nonché intenti, la sua capacità di sbagliare tutto nei primi mesi da segretario è parsa quasi commovente.

Breve lista concentrata. La santificazione del Tav. Zanda tesoriere. Lo strapotere concesso alla garrula De Micheli Paola. Debby Serracchiani vicepresidente. Il simpatico Marcucci confermato capogruppo. I disastri in Calabria. La totemica Marini Catiuscia, che in Umbria prima presenta dimissioni (irrevocabili) e poi vota contro la se stessa che aveva presentato le dimissioni (irrevocabili), per poi ieri ripresentare le dimissioni (irrevocabili?). E poi ancora: il combinato disposto Picierno&Calenda, giusto per disboscare ogni speranza di riconquistare qualche deluso. La misericordiosa riesumazione dei Cozzolino & Bresso. Il ritorno di “Mister Fritture” Alfieri alle Comunali. Il capolavoro a Gela e Mazara del Vallo, con Pd e Forza Italia uniti come un sol canchero elettorale sotto la regia dell’intonso bolscevico Micciché. I manifesti nei bus, in cui il nostro bel Zinga sorride come se avesse appena vinto un altro ovino Kinder alla Sagra della Sugna. Moscovici arruolato come portafortuna europeista (auguri). La nomina dell’ex magistrato berlusconiano Miller Arcibaldo a capo dell’Ipab del Lazio. L’altra nomina (“Direzione regionale per lo Sviluppo Economico, le Attività Produttive e Lazio Creativo Dirigente della Regione Lazio”) di Tiziana Petrucci, imputata nell’ambito di un processo per truffa nei confronti del suo stesso ente – che si è pure costituito parte civile – e su cui pende una richiesta di condanna di 10 anni di carcere. E poi ancora: candidare Beppe Sala come Premier del centrosinistra. Aver votato contro la riforma del voto di scambio politico-mafioso, proprio come gli amici di sempre di Forza Italia. L’assenza totale in luoghi feriti come Casal Bruciato. E il patto mitologico con Paolo Cirino Pomicino, in attesa di trovare un accordo soddisfacente anche con le buonanime di Rumor, Badoglio e possibilmente pure dell’assai sbarazzino Scelba.

È una progressione esaltante. O l’ineffabile Zinga sta giocando in gran segreto al concorso “Sbaglia tutto anche tu”, e in quel caso ha già vinto per distacco, oppure è il più renziano del mondo e opera affinché la Diversamente Lince di Rignano venga richiamata come Salvatore della baracca che lui stesso ha divelto come nessuno dalle fondamenta. Daje Zinga! Sia come sia, l’iconoclastia nichilista del cognato della moglie del Commissario Montalbano è così avvincente che, da suoi fan, desideriamo consegnargli alcune mosse definitive e finali. Per esempio: proporre Nardella come attaccante dell’Inter, sbloccando così l’impasse derivante dall’odioso caso Icardi. Proporre Luciano Nobili come attore protagonista nel remake di Scarface. Prendere come stratega Caressa, da usare come cervello suppletivo in aggiunta al già irresistibile aruspice Fassino. Quindi, per far sognare appieno il proletariato, cercare la sponda con ras locali e berlusconiani (ah no, questo l’ha già fatto da solo). E magari votare contro l’inasprimento delle pene per i voti di scambio politico-mafioso… no, pure a questo ci è già arrivato da solo. Niente da fare, ineffabile Zinga: sei il più bravo di tutti. Neanche Salvini e Di Maio riescono a farsi così bene la campagna elettorale da soli.

Tra l’insegnante e Salvini, non è la stessa storia

La Storia va maneggiata con estrema cura. A maggior ragione se si tratta del dramma del fascismo, che è stato – è bene ricordarlo – persecuzione e annientamento (reale) di nemici, oppositori, indesiderati. Per questo bisognerebbe smetterla con parallelismi storici – li faccia Moscovici, un opinionista su un giornale o in tv, o un gruppo di studenti – che non hanno alcun fondamento, anzi denotano ignoranza storica e paradossalmente offrono scappatoie a chi si vuole contestare: nel caso della scuola di Palermo, Salvini e i suoi provvedimenti. Li si critichi duramente nel merito (come ad esempio ha fatto in questi ore l’Onu, affermando che il Decreto Sicurezza Bis deve essere fermato perché viola i diritti umani), invece di evocare vicende storiche drammatiche che – va detto per amore di verità – non c’entrano nulla.

Come non c’entrano nulla Mussolini e Hitler con Salvini – e, badate bene, non è un’attenuante – così non c’entra nulla in questa brutta storia (minuscola) la professoressa: lo dicono gli stessi studenti (ragazzi quasi maggiorenni, non bambini), che raccontano di aver lavorato autonomamente, senza farle vedere il video ma solo una scaletta.

Cosa avrebbe dovuto fare l’insegnante? Censurarli preventivamente? Ha perfettamente ragione a dire che il suo dovere di docente è “formare buoni cittadini, consapevoli e capaci di pensare con la propria testa”, “aiutarli a sviluppare un pensiero critico”. È quello che ha fatto, e appare folle che per lei sia scattata una sospensione dal lavoro e dallo stipendio che, nel nostro paese all’incontrario, non si dà manco ai truffatori del cartellino (per restare nella pubblica amministrazione), che rubano denaro a tutti.

E ha ragione anche a dire che questo è “un incidente figlio dei tempi”, di cui sono responsabili – aggiungo io – più che lei e gli studenti, la politica di destra e di sinistra e l’informazione di stampa e tv che quotidianamente esasperano i toni del dibattito pubblico (non è certo un caso che i ragazzi si siano ispirati a quotidiani ed editorialisti e che il primo a diffondere la notizia, scrivendo al ministro dell’Istruzione, sia stato un attivista di destra). E responsabili sono pure il Provveditorato che l’ha sospesa e la Digos, intervenuta nella scuola a interrogare gli insegnanti manco fossimo in uno stato di polizia.

Ultime due note a margine, ma importanti: 1) una cosa è la libertà d’opinione che va tutelata, altra cosa sono i reati, come ad esempio l’apologia di fascismo. È significativo che a puntare il dito contro prof e studenti siano gli stessi che difendono CasaPound e hanno difeso il suo editore, giustamente indagato per aver detto che “l’antifascismo è il male di questo paese” e per questo escluso dal Salone del Libro di Torino (l’apologia di fascismo non è solo un reato, ma – sul piano culturale – una negazione dei valori costituzionali con la quale ci si chiama fuori dalle nostre radici democratiche); 2) Con questa polemica strumentale abbiamo perso un’altra settimana in chiacchiere, invece di occuparci dei problemi reali e urgenti del paese.

E aiutato Salvini in campagna elettorale, facendone un martire indulgente – attaccato eppure così buono da voler incontrare professoressa e ragazzi e chiedere una marcia indietro sulla sospensione – e parlando, ancora una volta, sempre e solo di lui. Il solito copione, insomma.

Un ministro così deve finire in tribunale

Alle ore 20,45 di domenica – mentre il ministro degli Interni promette in tv che “negherà lo sbarco” dei migranti dalla “Sea Watch” e “nessuno deve scendere da quella nave” – il procuratore della Repubblica di Agrigento, da alcuni minuti, sta facendo sbarcare dalla nave i 47 migranti avendo ordinato alla polizia giudiziaria (Guardia di finanza e Guardia costiera) di sequestrare la nave con l’accusa di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e far scendere tutti.

Si è trattato di un provvedimento giurisdizionale, che non solo ribadisce l’autonomia della magistratura, ma riafferma anche lo Stato di diritto a fronte di un evidente abuso dell’esecutivo. Il Fatto Quotidiano, già in occasione dell’analoga vicenda della nave “Diciotti” (agosto 2018), aveva osservato che la Procura di Agrigento – pur avendo incriminato il ministro degli Interni per sequestro di persona e abuso continuato di atti di ufficio – non aveva ordinato lo sbarco dei migranti pur essendo ben possibile emettere un “provvedimento legalmente dato per ragioni di giustizia”, previsto dall’art. 650 del Codice penale per dare attuazione al diritto obiettivo e impedire che i reati di sequestro di persona e di abuso di ufficio perdurassero e, comunque, fossero portati a conseguenze ulteriori.

Ora invece il pm ha adottato questo provvedimento, ponendo fine a un perdurante comportamento adottato in violazione di legge. Invero, il ministro degli Interni: a) non ha alcun potere di chiudere i porti, facoltà di competenza del ministro dei Trasporti e delle Infrastrutture da cui, tra l’altro, dipendono le Capitanerie di porto; b) ha emesso illegittime direttive (addirittura, “ad navem”) che mirano a bloccare quelle imbarcazioni che abbiano soccorso migranti fuori dalle acque italiane; direttive che – oltre a essere in contrasto con gli articoli 11 e 13 della Costituzione che tutelano, rispettivamente, il diritto di asilo e la libertà personale – sono state duramente censurate dall’Alto Commissario Onu per i diritti umani, in quanto violano diritti fondamentali, in particolare “il principio di non respingimento”, e convenzioni internazionali, tra le quali quella dell’Onu sui diritti del mare, che prevede l’obbligo di salvare chiunque sia in difficoltà e di sbarcarlo in un porto sicuro.

A fronte della legittima iniziativa dell’Autorità giudiziaria, si è registrata la scomposta reazione del Salvini il quale – dopo la rituale, stucchevole frase “se qualche procuratore intende fare il ministro si candidi alle elezioni” – ha aggiunto: “Sono pronto a denunciare per favoreggiamento della immigrazione clandestina chiunque sia disponibile a far sbarcare gli immigrati irregolari su una nave fuorilegge. Questo vale anche per organi dello Stato: se questo Procuratore autorizza allo sbarco io vado fino in fondo”.

Ora, poiché i troppi atti autoritari e intimidatori posti in essere dal protervo ministro di polizia non sono più tollerabili e stanno creando un pericoloso clima di odio nel Paese (da ultimo: gli scontri di Firenze), è forse giunto il momento che ad andare “fino in fondo” sia il Parlamento (che lo ha già salvato impropriamente per la vicenda della nave “Diciotti”) consentendo ai magistrati che egli sia tratto al giudizio di un Tribunale che valuti se nei suoi comportamenti siano ravvisabili estremi di reato, e segnatamente l’abuso continuato in atti dell’ufficio, in attuazione del precetto costituzionale “La legge è uguale per tutti”.

Huawei, la guerra di Trump (via Google) affossa gli utenti

E ora? Non si sa. Non lo sa Huawei, che ieri è stata improvvisamente sbattuta fuori dalle licenze Android di Google. E non lo sa Google, che ha detto di essersi limitata a “conformarsi all’ordine”, quello esecutivo firmato dal presidente Usa, Donald Trump: ha dichiarato l’emergenza tecnologica nazionale per impedire alle società Usa di ricorrere a dispositivi prodotti da aziende straniere a rischio sicurezza, come le cinesi Huawei e Zte (e le loro 70 affiliate) che ne minacciano la supremazia sul 5G.

IL PANICO. Ieri in tutto il mondo si è scatenato il panico: la decisione di Google implica che dai nuovi dispositivi Huawei non si possa accedere alle applicazioni e ai servizi di Google (tipo Gmail e Youtube) tramite app e che, probabilmente, sui dispositivi già esistenti e su cui siano già state scaricate le applicazioni non si potranno scaricare gli aggiornamenti.

Le reazioni. In una nota, ieri, Google ha cercato di rassicurare: “Per gli utenti dei nostri servizi, Google Play e le protezioni di sicurezza di Google Play Protect continueranno a funzionare sui dispositivi Huawei esistenti”. Nella stessa nota c’è però un altro importante passaggio: “Stiamo valutando le ripercussioni”.

L’azienda non è stata in grado di delineare infatti cosa accadrà nei prossimi giorni e lo stesso vale per Huawei: “Continuerà a fornire aggiornamenti di sicurezza e servizi post-vendita a tutti gli smartphone e tablet Huawei e Honor esistenti che coprono quelli già venduti o ancora disponibili a livello globale. Continueremo a costruire un ecosistema software sicuro e sostenibile”. Inoltre, la società ha confermato il lancio, oggi a Londra, del nuovo smartphone Honor 20, come previsto.

Cos’è. Android è uno dei sistemi operativi più diffusi sul mercato (è seguito da Ios di Apple) ed è stato creato da Google. È utilizzato nei dispositivi Huawei e Google dà ai produttori la possibilità di scegliere tra due versioni: quella con licenza, che prevede nel sistema operativo alcuni servizi come Gmail, Youtube, Chrome e una versione open source (detta Android Open Source Project, Aosp). Per la prima, Huawei paga quindi a Google le licenze. Ora, al massimo, potrà ricorrere alla seconda versione che però non ha le stesse funzionalità e che è già utilizzata in Cina, dove i prodotti di Google sono banditi.

Il mercato. In Cina Huawei ha solo poco più della metà del suo mercato (ma è prima per la diffusione dei dispositivi). Il resto è oltre confine e in particolare è concentrato in Europa: nel nostro continente, Huawei spedisce 13,1 milioni di smartphone a trimestre che corrispondono al 29 per cento del mercato di Huawei secondo la società di ricerche di mercato Idc, al 24,5 per cento di smartphone circolanti, secondo Canalys (ricerche di mercato).

Piano B. Da tempo l’azienda cinese stava già lavorando a un sistema operativo proprietario chiamato Kirin OS, annunciato a fine dicembre proprio a fronte dell’ostilità statunitense. Ma non c’è ancora stato un annuncio del suo lancio né del suo essere ultimato. L’autonomia totale di Huawei da Google, quindi, potrebbe non essere così lontana.

Altro problema.Ma il sistema operativo non è l’unico punto critico per il gruppo cinese. Il divieto di Trump, infatti, riguarda pure la fornitura delle materie prime: Intel, Qualcommn e Broadcom non possono fornire più né componenti, né progettazione a Huawei. Secondo Bloomberg, ai dipendenti delle più importanti aziende statunitensi produttrici di chip sono stati messi al corrente della necessità di “congelare” i contratti di fornitura con Huawei. Intel, per esempio, fornisce a Huawei vari chip per i server e i processori per notebook, Broadcom componenti per le architetture di networking, Qualcomm fornisce chip-modem e altri processori.

Microsoft. L’azienda fondata da Bill Gates, al momento, è la grande incognita. I laptop della linea MateBook prodotti e commercializzati da Huawei sono infatto basati sulla piattaforma Windows. Ancora non ci sono ste prese di posizione ufficiali ma le decisioni potrebbero arrivare nei prossimi giorni.

Le perdite.Di sicuro, questo “ban” americano porterà perdite economiche pesanti sia a Google che a Huawei. Se i cinesi, infatti, rischiano di veder crollare già nei prossimi giorni vendite e ordini, anche la scelta di Google non è indolore visto che perderà una quota rilevante di introiti dalle licenze.

Pensiamo solo all’Europa: se teniamo conto che in un anno vengono spediti almeno 40 milioni di smartphone Huawei e per ognuno di essi ipotizziamo il pagamento di 2,5 dollari (la tariffa minima ipotizzata da The Verge sulla base di alcuni documenti riservati e applicata alla fascia più bassa), il calcolo spannometrico (non si hanno infatti numeri ufficiali) arriva a più di un miliardo di dollari di mancati ricavi.

Viterbo, la vittima dei due di CasaPound conferma lo stupro

Ha confermato o tutto chiarendo che da parte sua non c’è mai stato alcun consenso la 36enne vittima dello stupro nel pub “Old Manners” di Viterbo per il quale lo scorso 29 aprile sono stati arrestati due ex militanti di Casapound, Francesco Chiricozzi, consigliere comunale a Vallerano, e Riccardo Licci. Durante l’incidente probatorio che si è svolto ieri, durato circa due ore, la donna ha risposto alle domande del pm e delle controparti: in particolare ha detto di essere uscita per andare al pub per mangiare qualcosa. La donna ha riferito che il pomeriggio aveva assunto un farmaco ansiolitico che usa per dormire e che, mischiato all’alcol, le ha provocato un vuoto mentale, ribadendo che l’ultima cosa che ricorda è di aver ricevuto un pugno in viso. Di ciò che è successo dopo, e cioè degli abusi – registrati col telefonino dagli stessi arrestati – lei non ricorda nulla. “Ha risposto a tutte le domande in modo molto equilibrato e senza tensioni fornendo risposte coerenti e molto precise”, afferma il difensore della donna, Franco Taurchini. All’incidente probatorio hanno partecipato anche i legali dei due arrestati, fra cui l’avvocato Giovanni Labate, secondo cui “la donna ha risposto in maniera generica”

Sospetta morte per mucca pazza. Indagine su chi curò la paziente

L’autopsia di una 59enne ravennate morta il 5 maggio scorso all’ospedale di Ravenna per un sospetto caso di Creutzfeldt-Jakob, una cui variante è meglio nota come “morbo della mucca pazza”, è stata eseguita ieri all’ospedale Bellaria di Bologna. Una precauzione chiesta dal Pm ravennate Monica Gargiulo nell’ambito dell’indagine che vede 40 persone tra medici e paramedici indagati per omicidio colposo distribuiti tra i reparti di Malattie Infettive e Neurologia dell’ospedale di Ravenna (tutti quelli venuti a contatto con la paziente).

La patologia, una malattia neurodegenerativa rara, colpisce in forma sporadica. Ma il contagio può avvenire anche per ingestione di materiale infetto: da qui le precauzioni speciali a cui sono stati chiamati gli anatomo-patologi Carmine Gallo e Irene Facchini, esperti nella diagnosi del morbo, incaricati dalla Procura ravennate.

I due specialisti, assieme al neuropatologo Piero Parchi, dovranno chiarire se la diagnosi di decesso fatta dall’ospedale di Ravenna sia stata corretta. E, sulla base delle condizioni della paziente, dovranno dire se altre terapie ne avrebbero evitato il decesso. A rivolgersi alla magistratura, era stata la figlia della donna attraverso l’avvocato Francesco Furnari.

In passato la 59enne era stata curata da un linfoma all’Irst di Meldola (Forlì-Cesena). Era poi stata ricoverata il 7 aprile a Ravenna per via di un nuovo malessere. Quindi al reparto delle Malattie Infettive, le era stata diagnosticata una sospetta polmonite; poi in Neurologia, una encefalite auto-immune, infine il sospetto del morbo Creutzfeldt-Jakob con conseguente diagnosi di decesso. Una tac avrebbe invece escluso una recidiva del tumore. L’esito dell’autopsia si conoscerà tra sessanta giorni.

La Regione Lombardia ricompra l’ex chiesa per evitare la moschea. “Soldi buttati, ci saranno ricorsi”

La giunta regionale di centrodestra della Lombardia guidata dal leghista Alberto Fontana ha approvato la delibera per esercitare il diritto di prelazione sulla ex chiesa dei Frati di Bergamo, situata nell’area degli ex Ospedali Riuniti e acquistata dall’Associazione dei Musulmani tramite un’asta pubblica bandita dall’Azienda sociosanitaria territoriale Papa Giovanni XXIII, un ente della stessa Regione. L’obiettivo dell’associazione era farne una moschea, il Pirellone così vuole bloccare il progetto. “Regione Lombardia – spiega una nota – intende esercitare il diritto di prelazione e realizzare un percorso di valorizzazione del complesso connesso alla Chiesa dei Frati dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo, affinché possa continuare a essere un centro di culto e, insieme, un polo di aggregazione culturale per la città”. Si parla di “valorizzazione del luogo di culto” e della “creazione della sede di una consulta/osservatorio sul dialogo interreligioso”, nonché di “un progetto culturale pilota per esaltare l’ingente patrimonio artistico di proprietà degli enti ospedalieri lombardi, a partire proprio dalla realtà storico-culturale dell’ospedale Papa Giovanni XXIII”.

Dal 2015 la cappella bergamasca è utilizzata dalla comunità ortodossa per le sue funzioni religiose. Per riappropriarsi del bene, che è sottoposto al vincolo dei Beni culturali, la giunta lombarda nella precedente riunione aveva accantonato 452.196 mila euro, da prelevare dal fondo investimenti infrastrutturali.

“Mezzo milione di euro dei lombardi per far quadrare un pasticcio targato Lega”, protesta Niccolò Carretta, consigliere regionale del gruppo Lombardi civici europeisti e a Bergamo coordinatore della lista civica “Giorgio Gori sindaco”. Secondo Carretta è “una grande ingiustizia per chi il bando l’ha vinto e per chi, come la comunità ortodossa, non potrà rientrare nel luogo di culto. Temo fortemente che, visti i dubbi sulla prelazione, possano esserci ricorsi ed esposti”.

Scontro in aula sul pentito che accusa l’ex ministro Mannino di essere affiliato a Cosa nostra

Calogero Mannino? ‘’È affiliato alla famiglia mafiosa di Agrigento’’. È la rivelazione del neo pentito Filippo Bisconti, contenuta in un verbale che i pm Giuseppe Fici e Sergio Barbiera hanno chiesto alla corte d’appello del processo stralcio della trattativa Stato-Mafia di depositare sollecitando la riapertura dell’istruttoria dibattimentale per sentire il collaboratore, dopo avere chiesto la condanna dell’ex ministro, assolto in primo grado, a 9 anni. ‘’Dal 1991, tra processi mediatici e giudiziari – ha replicato nella sua arringa l’avvocato Grazia Volo, legale dell’ex ministro dc – Calogero Mannino è in servizio permanente di imputato, a combattere per dimostrare la propria innocenza. Questo processo comincia nel 2012, e sta in piedi, dal punto di vista del diritto, in maniera piuttosto incerta, debole e inconsistente’’.

Arrestato nel dicembre scorso nell’operazione Cupola 2.0, perché indicato come il capo mafia di Belmonte Mezzagno, un centro a pochi chilometri da Palermo, Filippo Bisconti ha iniziato subito a collaborare indicando la fonte delle sue informazioni su Mannino in Rosario Lo Bue, un presunto mafioso corleonese, arrestato per favoreggiamento del capo di Cosa Nostra Bernardo Provenzano. Nell’udienza di ieri, dedicata alle arringhe difensive, ha parlato anche l’altro difensore di Mannino, l’avvocato Carlo Federico Grosso, intervenuto in aula su una sedia a rotelle: ‘’Si è cercato da parte della procura generale – ha detto il legale – di tirar fuori il sangue dalle rape ma non vi è stato alcun elemento nuovo a supportare la tesi dell’accusa”.

Al termine dell’udienza che si svolge con il rito abbreviato, la Corte, presieduta da Adriana Piras, ha rinviato il processo al 22 luglio, giorno in cui verrà sciolta la riserva sulla richiesta di sentire Bisconti, e, in caso negativo, ritirarsi in camera di consiglio per la sentenza.

La Croce rossa italiana caccia il leghista che “confondeva” affari e doni post-sisma

Duro colpo per la Lega marchigiana a pochi giorni dalle elezioni. La Croce rossa italiana (Cri) ha espulso Giovanni Casoni, fino a pochi giorni fa presidente del comitato dell’organizzazione di Visso (Macerata) e socio di Giuliano Pazzaglini che è senatore della Lega e sindaco del paese, uno dei più importanti del cratere del terremoto del 2016, nonché suo assistente parlamentare. Casoni e Pazzaglini sono indagati dalla Procura di Macerata per vari reati contro la Pubblica amministrazione legati a donazioni post sisma per un ammontare di decine di migliaia di euro che mancherebbero all’appello. Il provvedimento di espulsione a firma del presidente nazionale della Cri, Francesco Rocca, contiene accuse molto pesanti: “Al termine dell’ispezione sono emersi profili associativi di rilievo tra cui, in particolare, un palese conflitto d’interessi ed una impossibile valutazione della consistenza associativa del Comitato stesso e profili contabili e finanziari di rilievo tra i quali una mancanza di evidenza di cassa che avrebbe dovuto essere presente”, si legge nella delibera N.45 dell’11 maggio. Rocca sottolinea il “malcontento della comunità derivante dall’impatto mediatico della vicenda che l’ha visto coinvolto” con chiaro riferimento all’inchiesta del Fatto quotidiano da cui sono partite le indagini della Procura.

Nel febbraio 2018 il nostro giornale aveva rivelato che Pazzaglini, sindaco di Visso, poi senatore, era socio di Casoni nella Sibyl Project per il confezionamento di cesti con prodotti tipici acquistati dai produttori locali da rivendere sul mercato con la scritta “Ripartiamo da qui… Pacco solidale Sisma”. Una normale attività commerciale, finalizzata al profitto, certamente, se non fosse che la scritta sui pacchi lasciava intendere che acquistarli equivalesse ad aiutare i terremotati oltre al fatto che i soggetti interessati all’affare erano il sindaco e il presidente della Croce Rossa locale. L’inchiesta del Fatto aveva anche rivelato la storia di sei casette di legno donate a Visso dai Comuni di Meolo (Venezia) e Taino (Varese) transitate nelle società del senatore e di Casoni attraverso operazioni opache a cui si è aggiunto un corposo esposto di cittadini sulle donazioni. In seguito a Pazzaglini, in un altro filone della stessa inchiesta, la Procura ha contestato il reato di peculato e notificato l’atto di sequestro preventivo del conto corrente, in quanto mancherebbero all’appello anche due consistenti donazioni di Emil Banca di Bologna e la somma di 11.800 euro di una iniziativa di beneficenza organizzata da Moto Nardi “In moto per ricostruire” a favore dei commercianti, di cui non vi è traccia. Soldi in contanti consegnati al sindaco in Comune dal titolare, Vincenzo Cittadini. Il ricorso di Pazzaglini era stato respinto. E mentre Casoni viene espulso dalla Cri con motivazioni gravissime, la sua compagna, Loredana Remigi, dipendente della stessa Croce rossa locale di cui lui era presidente, è candidata sindaco alle Amministrative del 26 maggio di Castel Sant’Angelo sul Nera, altro centro del cratere a pochi chilomteri da Visso, con la lista civica “Rinascita delle Torri” appoggiata dalla Lega e benedetta, il 10 maggio scorso, dal Ministro dell’Interno, Matteo Salvini.

“Non ci fu alcuna evasione fiscale”. Assolto Max Biaggi

Non c’è stata evasione fiscale. L’ex campione del mondo di motociclismo Max Biaggi è stato assolto in primo grado dal Tribunale di Roma dall’accusa di evasione fiscale, “perché il fatto non sussiste”. Secondo la Procura, che aveva chiesto una condanna a un anno di reclusione, l’ex centauro romano aveva evaso circa 18 milioni di euro, fino al dicembre 2012, perché riteneva fittizia la “residenza nel Principato di Monaco”. Inoltre, era finita sotto accusa anche la gestione dello “sfruttamento dei suoi diritti di immagine derivanti dai contratti di sponsorizzazione con la Dainese Spa”, che secondo il magistrato Giancarlo Cirielli, sarebbero finiti a “società di capitale con sedi a Londra, Montecarlo e Madrid”, per “rendere inefficace il recupero delle somme dovute al fisco”. Il giudice Bruno Costantini ha creduto alla difesa del quattro volte campione del mondo, che nel corso del dibattimento ha spiegato di vivere da “almeno venti anni nel Principato di Monaco”, dove risiedono “i figli”, le sue moto, gli amici, e le sue proprietà: un ristorante e un palestra. Mentre nella capitale non ha nessun bene.