Nadal, Re per la nona volta. Battuto Djokovic

Rafael Nadal trionfa per la nona volta in carriera agli Internazionali di tennis d’Italia (torneo su terra, con oltre 5 milioni di euro come montepremi). Lo spagnolo, numero 2 del mondo e del seeding, sconfigge in finale il rivale di una vita, il serbo Novak Djokovic, numero 1 del ranking Atp e prima testa di serie, con il punteggio di 6-0, 4-6, 6-1 in due ore e 26 minuti. Per il 33enne di Manacor si tratta del primo titolo stagionale, il 34° in un Masters 1000 e l’81° in totale.

Crono a Roglic, ma Nibali regge. Conti sempre rosa

Primoz Roglic vince la nona tappa del Giro d’Italia, una cronometro individuale di 34,8 km con partenza da Riccione e arrivo a San Marino. Lo sloveno del team Jumbo-Visma si impone con il tempo di 51’52” e precede il belga Victor Campenaerts di 11″, l’olandese Bauke Mollema di 1′ e l’italiano Vincenzo Nibali di 1’05”. Mantiene così la maglia rosa il romano Valerio Conti con quasi due minuti di vantaggio su Roglic ( 1’50”). Oggi il Giro d’Italia osserva la prima giornata di riposo.

Prosciutto di Parma? “Uno su tre è danese” Report nella porcilaia: topi e martellate

“Terminata la stagionatura, se andrete ad acquistare un prodotto marchiato Parma, rischierete una volta su tre di essere frodati”, cioè di comprare un prosciutto fatto con la carne di maiali allevati sì in Italia ma figli di scrofe inseminate con maiale danese “durok”, più magro, molto richiesto, ma escluso dal disciplinare di produzione che consente di fregiarsi del marchio Dop, denominazione d’origine protetta. E conclusioni simili si possono trarre per il San Daniele. Sono prosciutti comuni, buoni per carità, ma senza i marchi Dop il prezzo al dettaglio non potrebbe mai salire fino a 54 euro al chilo.

È l’inchiesta di Emanuele Bellano con Alessia Cerantola e Greta Orsi, intitolata “La porcata”, che Sigfrido Ranucci presenta nella puntata di stasera di Report (Raitre, 21,30). Le indagini degli ispettori del ministero dell’Agricoltura e dai carabinieri del Nas, coordinate dalle Procure di Torino e Udine, sono note. Un milione di cosce di prosciutto sequestrate per un valore di quasi 100 milioni di euro, i prosciutti a cui è stato revocato il marchio Dop sono circa il 20 per cento della produzione annua di Parma e San Daniela. Report ricorda i 200 indagati e i recenti patteggiamenti di una decina di allevatori: pene fino a 14 mesi di reclusione. Bellano ha intervistato il tecnico che gira per gli allevamenti con i semi del maiale danese. Ma soprattutto presenta documenti, una relazione dell’associazione degli allevatori e alcune recentissime email, in base ai quali afferma che “la frode è ancora in essere”. Uno dei controllori scrive: “Mi è stato risposto che se cominciano a far rispettare la legge, sono 2000 euro di multa per ogni suino macellato, oltre il ritiro dal commercio, quindi roba improponibile”.

Report spiega che la conformità delle carni al disciplinare è affidata, per il Parma, all’Istituto Parma Qualità (Ipq), le cui quote sono in mano ai controllati e cioè il Consorzio di Parma e le associazioni degli industriali della carne e degli allevatori; la filiera Dop del San Daniele è vigilata dall’Ifcq di San Saniele del Friuli, di proprietà di un trust i cui beneficiari sono Assica, l’associazione industriali della carne e il consorzio del San Daniele stesso. E ancora, Report documenta le condizioni in cui vivono i maiali, perfino in allevamenti “sostenibili”. Gli animali, tutti col tatuaggio delle filiere Dop, sono “ammassati, a stretto contatto sviluppano fenomeni di cannibalismo e si mordono le orecchie a vicenda”; qua e là spuntano topi. In un allevamento collegato al Parma, una scrofa malata viene invitata a spostarsi con un pistola elettrica, un’altra è abbattuta a martellate.

Villone: “Norma incostituzionale Mattarella non deve firmarla”

“La responsabilità politica del contenuto del decreto è di certo del governo, ma la firma del capo dello Stato è necessaria”. Massimo Villone, costituzionalista ed ex senatore, ha firmato un appello con alcuni colleghi contro il decreto sicurezza bis: la sua tesi è che, venisse approvato, Sergio Mattarella non dovrebbe firmarlo.

Ci spieghi.

Intanto va chiarito il ruolo del presidente. Se si trattasse della legge di conversione del decreto, il Colle potrebbe solo rimandarla alle Camere e, se gli tornasse indietro, dovrebbe promulgarla. Nel caso del decreto, invece, l’atto non può essere emanato senza la sua firma: è diversa l’intensità della sua presenza e questo comporta una più intensa assunzione di responsabilità e un controllo più incisivo dei requisiti di costituzionalità anche perché quel testo entra subito in vigore.

E quindi?

La mia opinione è: stavolta non se la può cavare mandando una letterina. Deve far sapere ai proponenti che non firmerà il decreto e, nel caso, non firmarlo: ci sono troppi profili di incostituzionalità. Pensi al ‘riscatto’ per ogni naufrago salvato in mare o alle norme sull’ordine pubblico che addirittura raddoppiano le sanzioni previste dal legislatore fascista.

Lei è perplesso anche sui requisiti di “necessità e urgenza” obbligatori per emanarlo.

Certo. Dove sono necessità e urgenza? Dovè l’emergenza immigrazione? Dove sono i disordini per le strade? Ci sono solo un bel po’ di lenzuola…

S’è fatto un’idea del perché Salvini abbia prodotto un decreto così scombiccherato?

Non è casuale e non è un errore. È il modo in cui rappresenta sé stesso ed è così che consolida il suo consenso che il decreto passi oppure no.

Perché il dl Sicurezza-bis non può essere approvato

Il problema del decreto Sicurezza bis redatto dagli uffici di Matteo Salvini è che non è correggibile, non può essere riscritto in modo da risultare conforme alla Costituzione: quel che il vicepremier leghista pretende di imporre per legge semplicemente non si può fare. Non è solo il convincimento del Fatto alla lettura della bozza entrata nel pre-consiglio dei ministri alla fine della settimana scorsa, ma pure l’opinione che s’è andata formando tra i giuristi del governo (da Palazzo Chigi ai ministeri) e – per ora informalmente – del Colle.

Il testo, molto snello (12 articoli), è una sorta di compendio delle ossessioni di Salvini: reprimere l’immigrazione irregolare e il conflitto sociale. Obiettivi, se non condivisibili, politicamente legittimi, che però non possono essere perseguiti in modo da confliggere con Carta e leggi vigenti, cioè a danno dei diritti di cittadini italiani ed esseri umani in genere. In attesa di sapere se il dl andrà in Consiglio dei ministri oggi, quello che segue è un breve riassunto delle proposte di Salvini e della loro debolezza tecnica, che a sua volta sottende la loro inaccettabilità etica e politica.

La multa. La bozza del decreto parte con la creazione di un nuovo illecito amministrativo: una multa da 3.500 a 5.500 euro per ogni migrante irregolare salvato in acque internazionali e portato in Italia se non si è esplicitamente autorizzati. Un modo per colpire le navi delle Ong che avrà come primo effetto, fosse approvato, di far sì che pescherecci e mercantili lascino affogare i naufraghi per non avere guai.

Qui ci sono vari problemi: il testo è generico (“migranti” in senso tecnico-giuridico non vuol dire nulla) e non è chiaro nemmeno se la previsione riguardi solo le navi italiane o anche le altre e, in questo caso, come si possa far multe a barche straniere per fatti commessi fuori dall’Italia. In generale, peraltro, se l’operazione è di “soccorso” (il termine usato nel decreto) integra lo “stato di necessità”, il che (per legge) esclude la sanzione. Senza contare che il testo confligge in maniera irragionevole col Testo unico sull’immigrazione che già punisce “il trasporto di stranieri in posizione irregolare”. I profili di incostituzionalità sono plurimi: il più evidente è che la multa è elevata per non aver obbedito all’ordine di un’autorità amministrativa, anche se quello confligge con fonti sovraordinate com’è, ad esempio, la Convenzione Onu sul diritto del mare (che prevede l’obbligo di salvare chiunque sia in difficoltà e di sbarcarlo in un porto sicuro).

Il ministro di Tutto. Un’altra previsione del decreto è che il ministero dell’Interno (cioè Salvini) abbia potestà anche sulle acque territoriali e i porti quando il passaggio di una nave sia considerato pregiudizievole per la sicurezza dello Stato. Il punto è sottrarre potere alle Infrastrutture (Toninelli) e “chiudere i porti” definitivamente: come dimostra il caso della nave Diciotti, però, anche chiudere – o far finta di chiudere – un porto non può avvenire ignorando le leggi e il diritto internazionale. L’invasione di campo del leader leghista coinvolge anche il ministero della Giustizia: una norma prevede che Salvini nomini un commissario straordinario che assuma 800 persone per un anno per smaltire “l’arretrato relativo ai procedimenti di esecuzione delle sentenze definitive”. Il commissario di Salvini, per capirci, interverrà sull’organizzazione della giustizia: una bestemmia. La norma è pomposamente definita “spazza-clan”.

Piazze vuote. In materia di ordine pubblico Salvini compie il miracolo di modificare in senso più restrittivo la legge Reale e persino il codice Rocco. Nel tentativo di reprimere il dissenso di piazza e il conflitto sociale (tentativo già iniziato da Marco Minniti e proseguito col decreto sicurezza del 2018), il testo trasforma una serie di comportamenti finora puniti come contravvenzione in delitti: nel testo salviniano volano fino a 12 mesi di galera pure per i promotori di cortei in cui qualcuno compia i reati di devastazione e danneggiamento o per chi partecipa a un corteo non autorizzato. Di più: si arriva al paradosso che diventa “delitto” usare caschi o altri mezzi per non farsi riconoscere, ma solo durante una manifestazione: se succede altrove resta contravvenzione. Un altro articolo esclude a priori – Dio solo sa perché – il fatto che i reati di violenza, minaccia o oltraggio a pubblico ufficiale possano essere “non punibili per la lieve entità del fatto”: come dicono i tecnici, viola “il principio di eguaglianza-ragionevolezza” e, soprattutto, si rischiano 36 mesi per aver detto “sciocchino” a un poliziotto.

Il paradosso finale riguarda due “nuovi” reati: non solo il lancio di “cose, razzi, bengala (…)” e tutto quel che si può lanciare costerà fino a 3 anni di carcere, ma persino chi “utilizza scudi o altri oggetti protezione passiva” per fermare o ostacolare un pubblico ufficiale. In sostanza, non sarà più possibile fare un sit-in o bloccare uno sgombero tentando di proteggersi dalle manganellate: sempre che qualcuno riesca a spiegare in tribunale il “principio di offensività” di un tentativo di difesa.

Ecco la casta Ue. Solo juncker costa 33 mila euro al mese

Ian Brossat, capolista del Partito comunista francese (Pcf), e la tedesca Annegret Kramp-Karrenbauer, la nuova presidente del Cdu, hanno un punto in comune alle elezioni europee del 26 maggio, una trasformazione della funzione pubblica europea.

Durante un dibattito tra i capilista per lo scrutinio europeo, il 4 aprile scorso su France 2 e France Inter, il comunista ha detto di voler dividere per tre lo stipendio del presidente della Commissione Ue. “Bisogna diminuire lo stipendio di Juncker. Sapete quanto è pagato il presidente della Commissione europea? 32.000 euro al mese. È il doppio di quanto guadagna un lavoratore europeo in media in un anno. È una vergogna”.

Da parte sua, la leader della destra tedesca, rispondendo alla lettera sull’Europa di Emmanuel Macron, ha detto che la sua intenzione è di mettere fine ad alcuni “anacronismi”, tra cui l’esenzione dall’imposta sul reddito dei funzionari europei. Interrogarsi sulle remunerazioni dei politici e dei funzionari europei è legittimo, soprattutto nel contesto attuale, con le disuguaglianze che si accentuano sul continente e il fossato che continua a scavarsi tra cittadini e istituzioni europee.

Numeri da vertigini

Per il 2019, l’Ue ha stabilito di spendere 9,943 miliardi di euro, cioè il 6% del budget europeo totale, fissato a 165,8 miliardi, per pagare tra l’altro gli stipendi di circa 60.000 agenti. Lo stipendio mensile lordo del presidente della Commissione è del 138% più elevato dello stipendio dei direttori generali, i posti amministrativi più importanti della burocrazia europea. Cioè 27.903,32 euro lordi al mese – anche se il 45% di questo stipendio è prelevato alla fonte e ritorna subito nelle casse del budget europeo. Sempre per quanto riguarda Jean-Claude Juncker, a questa cifra bisogna aggiungere altri 4.185,50 euro di “indennità di residenza” (il 15% dello stipendio lordo) e 1.418,07 euro di “spese di rappresentanza”. Si arriva dunque ad un totale mensile lordo di 33.506,89 euro al mese.

Per il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, siamo sulle stesse cifre e gli altri membri della Commissione non sono da meno. Federica Mogherini, l’Alta rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, riceve tra stipendio e indennità 31.731,63 al mese. I vice presidenti della Commissione cumulano tra stipendio lordo e indennità 29.977,34 euro. Poco meno gli altri commissari, tra cui il francese Pierre Moscovici, incaricato degli affari economici e monetari: 27.070,75 euro.

I deputati europei ricevono invece uno stipendio mensile di 8.757,70 euro lordi (6.824,85 euro netti) a cui si aggiunge un’”indennità di spese generali” pari a 4.513 euro, che servirebbe a coprire le spese di mandato: trasporti, bollette del telefono, affitto di un alloggio nella loro circoscrizione. Ma l’uso effettivo di queste indennità è poco sottoposto a controlli. I funzionari europei (soprattutto quelli basati a Bruxelles o nel Lussemburgo) ricevono anch’essi incentivi interessanti. Secondo l’ultima tabella retributiva, gli alti funzionari della Commissione (circa 12.000) percepiscono degli stipendi lordi che vanno da 4.787,36 a 20.219,80 euro al mese. Tra loro, poco meno di cinquemila, hanno stipendi lordi al di sopra dei 10.000 euro.

La carica dei funzionari

Un rapporto del Senato francese del 2013 indicava che il reddito medio di questi alti funzionari era di 6.500 euro netti. Come i commissari, anche i funzionari, se non sono basati nel loro paese di origine, percepiscono un’“indennità di dislocazione” che rappresenta il 16% dello stipendio. Un incentivo che conservano durante tutti gli anni passati nelle istituzioni europee. Senza dimenticare l’indennità di trasferimento, pari a due mesi di stipendio, che ricevono al momento dell’insediamento nelle istituzioni.

Lo statuto europeo prevede anche la copertura sociale e gli assegni familiari. Anche l’antenato dell’Ue, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (Ceca), sin dagli anni 50, aveva instaurato una politica salariale molto generosa per i suoi primi funzionari. Come ricordano Jean-Luc Feugier e Marie-Hélène Pradines nel libro Fonction publique européenne en perspective, questi stipendi erano allineati “ai livelli delle remunerazioni dei dirigenti del settore industriale siderurgico e minerario, settori particolarmente redditizi all’epoca”. Lo scopo? Incoraggiare ingegneri, economisti, interpreti, giuristi a raggiungere l’avventura della costruzione europea, che implicava di trasferirsi in Belgio o in Lussembergo.

Tuttavia non è corretto dire, come sostiene la conservatrice tedesca Annegret Kramp-Karrenbauer, che i funzionari europei non pagano le tasse. Certo, sono esonerati dalle tasse del paese in cui prestano servizio. Ma oltre a dover pagare le tasse locali, sono sottoposti all’imposta europea sul reddito. Un’imposta progressiva di 14 fasce di reddito – con tassi che variano dall’8% al 45% -, prelevata alla fonte. A ciò si aggiunge una “tassa di solidarietà” pari al 6%. Nel 2019 l’imposta sul reddito ha contribuito per 1,6 miliardi di euro al budget europeo.

Ma Bruxelles resta povera

Non pagare la tassa sul reddito nel proprio paese di residenza non è un privilegio esclusivo dei funzionari europei. Esiste un’antica tradizione che risale alla Società delle Nazioni, l’antenato dell’Onu, per la quale i funzionari internazionali sono esenti dall’imposta sul reddito. Se gli alti funzionari dell’Ue pagassero la tassa sul reddito belga, sarebbero tutti sottoposti ad un tasso di imposizione del 50% (il Belgio è uno dei paesi dell’Ue dove la tassazione sui redditi è la più elevata).

Non siamo stati sorpresi dal fatto che la dozzina di ufficiali, assistenti parlamentari e funzionari che hanno risposto alle domande di Mediapart, dietro anonimato, per i fini dell’inchiesta, si sono mostrati piuttosto a disagio a parlare dei loro compensi. Molti ritengono che i discorsi sui loro stipendi nutrono facili critiche contro le istituzioni europee. Fanno notare che i loro stipendi sono stati gelati tra il 2011 e il 2014, durante gli anni della crisi economica, e ricordano che le istituzioni europee hanno dovuto tagliare la massa salariale del 5% nello stesso periodo. Altri sottolineano che le indennità sono fissate dagli Stati e che la tabella retributiva e gli altri vantaggi sono pubblici.

Molti inoltre ritengono che questi livelli di stipendio siano giustificati. Sono loro che lavorano sulle direttive europee, preparano i negoziati commerciali, vigilano sulle fusioni dei grandi gruppi e verificano che le sovvenzioni europee siano distribuite correttamente. Un altro argomento avanzato per giustificare le alte retribuzioni: uno stipendio competitivo permetterebbe di evitare la pratica della porta girevole nel privato, studi legali o agenzie di lobbying.

Ma questo discorso non funziona perché il fenomeno è molto diffuso tra commissari, deputati e funzionari, non appena lasciano il loro posto.

Ma alcuni punti restano comunque poco chiari: se delle indennità di espatrio possono essere giustificate quando il funzionario si trasferisce all’estero con la famiglia, è normale conservare questo bonus del 16% dello stipendio per dieci o vent’anni? “Mi considero sempre un espatriato”, tenta di giustificare un funzionario. “Spero che il vostro articolo parlerà anche dei diplomatici degli Stati membri in servizio a Bruxelles, come il personale della Nato”, ha risposto un portavoce della Commissione, Alexander Winsterstein.

Secondo uno studio dell’Authority alle relazioni con l’Europa e le organizzazioni internazionali della regione di Bruxelles, la presenza delle istituzioni internazionali rappresenterebbe circa 120.000 posti a Bruxelles e una manna finanziaria di 5 miliardi di euro all’anno tramite il pagamento dell’Iva (soprattutto nel settore alberghiero e la ristorazione). Ma impressionante è il contrasto tra l’amministrazione europea pagata molto bene e gli abitanti della regione di Bruxelles, dove le autorità fanno fatica a ridurre la disoccupazione e la povertà. Molti diplomatici, funzionari e lobbyisti non hanno contatti con il resto della popolazione e vivono in quartieri ben precisi. “Andrebbe posata la questione dei contributi finanziari delle istituzioni internazionali alle città dove sono stabilite”, sostiene il belga Marc Botenga, capolista del Ptb, il partito del lavoro belga. “Bruxelles è una capitale europea, ma non vuol dire che gli abitanti di Bruxelles e i belgi vivono meglio”.

 

Europa chi? Candidati alla prova del quiz

Gabriele Padovani

Lega

Il prode Padovani va un po’ in crisi sulle cariche: “Al consiglio europeo ci sta Juncker, al Consiglio d’Europa Moscovici”. Non del tutto. “Allora Dombrovskis”. Tutti e tre, in realtà, continuano invece a stare alla Commissione europea, ognuno col proprio ruolo: Jean-Claude Juncker come presidente, Pierre Moscovici commissario agli Affari economici e Valdis Dombrovskis come vicepresidente). “Noi in Parlamento comunque saremo 751 provenienti dai 28 Paesi membri, poi se vuole le spiego come Monaco, Andorra e San Marino stanno provando a entrare anche loro, con una specie di associazione”. Ci sarà tempo un’altra volta, ma se non altro il numero di parlamentari e di Paesi membri è corretto. Sulla Zona Euro, tutto chiaro: “Sono in 19 Paesi, almeno per ora”.

Voto 5,5

 

Maria Rosa Assunta Porta

Forza Italia

La forzista si indispettisce già alla domanda su quale sia stato l’ultimo Paese ad essere entrato nell’Unione: “Non si gioca su queste cose”. Perchè? “In un momento di crisi politica talmente forte come questo, ricevere questo tipo di domande dai giornalisti mi stupisce e lo ritengo grave”. Dunque non ritiene fondamentale che un candidato conosca l’istituzione alla quale si candida? “Per queste cose al giorno d’oggi basta un computer, non è necessario per forza sapere tutto. Conta ben altro per valutare un candidato”.

Voto 4

 

Amir Atrous

Forza Italia

Atrous promette grandi cose: “Ora non posso risponderle, ma ci sentiamo più tardi: questi argomenti li ho studiati bene”. Poi però, qualche ora dopo, una manina lo conduce a più miti consigli: “Meglio di no per questa volta, grazie lo stesso”. Peccato, poteva fare bella figura.

N.g.

 

Olimpia Troili

Partito democratico

Volto nuovo del Pd, la Troili gioca in casa: “Ho sempre studiato molto le politiche europee, non ho paura, mi chieda pure”. Non cade sulla durata del presidente del Parlamento (dura due anni e mezzo e in una legislatura se ne cambiano due) né sull’ultimo arrivato (“La Croazia”). Preparata pure sulla Banca centrale europea e sulle sue funzioni: è “la responsabile della politica monetaria dell’Eurozona”. Ha tempo pure per commentare gli errori dei colleghi: “Vabbeh, ma andare in crisi su Consiglio d’Europa e Consiglio europeo è un classico”. Unico black out: “Nella Troika ci sono Bce, Commissione europea e….”. E….? Lo sveliamo noi: Fondo monetario internazionale.

Voto 8

 

Pier Luigi
Mottinelli

Partito democratico

Mottinelli ha ambizioni da europarlamentare, ma idee poco chiare sulla presidenza: “Il mandato del presidente del Parlamento? In questo momento il presidente so che è Tajani, se la giocò con il nostro amico e collega Pittella, mi pare che la carica duri un quinquennio”. Sì, ma diviso due: due anni e mezzo. E la Commissione com’è composta? “È espressione della maggioranza del Parlamento”.

Voto 5,5

 

Marco Mesmaeker

Movimento 5 Stelle

È il primo 5 Stelle contattato. Se la cava bene: “L’ultima a entrare è stata la Croazia nel 2013. I Paesi fondatori? Italia, Germania, Francia e quelli del Benelux”. Ci sentiamo pure di azzardare: e la Troika? “L’insieme dei rappresentanti della Commissione, della Banca centrale e del Fondo monetario internazionale”. Si sfiora la commozione. E infatti il Movimento 5 Stelle, appena si sparge la voce, preferisce bloccare tutto e evitare ulteriori rischi allertando tutti i candidati delle possibili domande in arrivo: da quel momento arrivano risposte solo dagli autorizzati.

Voto 9 a lui, 4 al M5s

 

Alessandro
Di Pierro

Movimento 5 Stelle

Prima gli strappiamo un sì, quando ancora è in orario di lavoro. Poi i pensieri hanno il sopravvento: “Sto facendo campagna elettorale mentre lavoro e difficilmente riuscirei a rispondere adeguatamente. Solo stamattina facendo due cose in laboratorio sono riuscito a sbagliarne una! Meglio lasciar perdere”. Anche perché, se non avesse lasciato perdere lui, ci avrebbe pensato il Movimento.

n.g.

 

Emiliano Occhi

Lega

Sui Paesi membri pochi dubbi: “Sono 28, almeno finché c’è il Regno Unito”. Corretto. Si scivola su un grande classico: ma questa Troika, in fondo, chi è? “Sono i ministri dell’economia dei tre Paesi che governano il semestre in corso, quello precedente e quello successivo al Consiglio”. Tra le tante, di certo la risposta più intricata. La turnazione esiste, ma riguarda la presidenza del Consiglio dell’Unione europea, che cambia ogni sei mesi. La Troika, però, è formata sempre da Bce, Commissione e Fmi.

Voto 5

 

Giuseppe
Mastruzzo

Movimento 5 Stelle

Professore universitario, è uno dei pochi a concedersi dopo la stretta grillina. Va liscio su Consiglio europeo (“L’organo che riunisce i capi di Stato e gi governo”), Consiglio d’Europa (“Un’organizzazione internazionale per la cooperazione europea che non c’entra niente con l’Unione”), Consiglio dell’Unione europea (“Le riunioni dei ministri dei vari Paesi membri”). Chi sceglie il presidente della Commissione? “È votato dal parlamento su proposta del Consiglio europeo”. E quanto dura il mandato del presidente del Consiglio dell’Unione europea? “Penso una legislatura”. O forse solo 6 mesi, a turno tra i Paesi membri? “Ah sì, giusto, ruota ogni sei mesi”.

Voto 6,5

 

Matteo Motta

Forza Italia

A Motta piace ben poco l’idea di rispondere: “Se è per ricevere un interrogatorio lascio perdere, vada a far domande ai 5 Stelle che non sanno niente, sono i più incompetenti d’Italia”. Sarebbe inutile, dunque, domandargli della Troika? “Le rispondo solo per dimostrarvi la vostra ignoranza: la Troika è una procedura che avvia la Banca centrale europea per i Paesi che non rispettano i parametri indicati dalla stessa Bce. Si fa un prestito per un piano di rientro e se questa procedura denominata ‘Troika’ viene rispettata bene, altrimenti si fa la fine della Grecia. Adesso che vi ho risposto dite ‘questo è bravo’ o ‘questo è cattivo’?”. Il sito dell’Ue, ad ogni modo, definisce la Troika “un organo”, “un’autorità”, “l’insieme dei creditori”, persino “la paladina dell’austerità”. Ma mai “procedura”, come a lasciare intendere che non sia proprio la stessa cosa.

Voto 5

 

Ivan Stomeo

Partito democratico

Stomeo tentenna già sulla durata del mandato del presidente del Parlamento (“Dovrebbero essere 5 anni”, invece che due anni e mezzo), ma il crollo finale è sulla Commissione: “È inutile prenderci in giro e dire cose che non conosciamo bene. Io sono sindaco di un comune di 2000 abitanti e mi candido per il Parlamento. Poi come funzionano nel dettaglio la Commissione o il Parlamento lo capirò dopo. Ho il mandato di rappresentare il Sud, il resto lo imparerò”. Viva la sincerità.

5

 

Roberta Paparatto

Forza Italia

La forzista è informata sui Paesi fondatori (“Nasce come comunità economica, c’erano l’Italia, la Germania, la Francia, il Belgio, l’Olanda e il Lussemburgo”) e sulla rappresentanza (“Il parlamento è l’unica istituzione eletta direttamente, la Commissione è nominata”). Tutto perfetto? Quasi. L’ultimo Paese ad aderire? “Oddio, questo è un po’ troppo specifico”.

Voto 7

 

Antonello D’Aloisio

Lega

I compiti della Bce, in chiave “sovranista”: “È un ente che non è federale o statale come potrebbe essere la banca di uno Stato, ma privatistico. Gli Stati acquistano il denaro dalla Bce e questo crea disomogeneità, uno Stato dovrebbe coniare la propria moneta”. La Bce è un’istituzione dell’Ue, dunque “privatistico” non può essere inteso come “privato”. Tutto il resto è giudizio politico.

Voto 6

 

Daniela
Rondinelli

Movimento 5 Stelle

L’ultima col via libera del Movimento: “Il Consiglio d’Europa, a differenza del Consiglio europeo, non è un’istituzione dell’Unione, si occupa di promuovere i diritti umani e la cooperazione internazionale”. La Troika? “Banca centrale europea, Fmi e Commissione che intervengono laddove ci sono Paesi con i conti pubblici a rischio ”. E il presidente del Consiglio dell’Unione europea chi è in questo momento? Serve buona memoria per ricordarsi la rotazione dei semestri. “Austria? Finlandia?”. Un po’ più a Est in realtà: Klaus Iohannis, Romania, che resterà in carica fino a giugno.

Voto 6,5

 

Manuel Ghilardelli

Lega

Si arrangia sulla Zona Euro: “Tutti i Paesi membri tranne una decina: il Regno Unito, la Finlandia (primo inciampo), la Slovacchia (secondo inciampo), l’Ungheria, la Polonia…”, poi si abbandona al flusso di coscienza: “Allora, c’è il Parlamento, poi c’è la Commissione europea che è composta dai rappresentanti dei vari Stati, poi c’è il Consiglio d’Europa composto dai presidenti e dai capi di Stato”. E il Consiglio europeo di Donald Tusk dove lo mettiamo? “Eh, il Consiglio Europeo…Effettivamente non è semplicissimo. A scuola queste cose non le insegnano, anche se presi 27 a diritto internazionale”.

Voto 5

 

Marco Affronte

Verdi

Tutto liscio sulla presidenza del Parlamento (“Dura due anni e mezzo”) e sulla Troika (il solito trittico “Bce, Fmi e Commissione che si occupa di situazioni a rischio”). Bene l’ultimo arrivato (“Croazia”), ma sulla storia le cose si complicano: “I Paesi fondatori? Mi pare siano 4. C’era l’Italia, la Francia, il Belgio…la Germania non credo, forse i Paesi Bassi”. Poveri tedeschi, fatti fuori così ingiustamente.

Voto 6

“Partiti, non usate i morti”

“State lontani dai nostri morti. Continuate a fare campagna elettorale, ma lontano dall’Isochimica”. È l’appello lanciato a tutti i partiti e i candidati ad Avellino Antonietta Tomeo, vedova di Luigi Maiello. Il marito era uno dei 27 operai uccisi dalla fabbrica dei veleni, uno stabilimento dove per anni gli operai hanno liberato migliaia di carrozze ferroviarie dall’amianto. A mani nude e senza protezione. La fabbrica era dell’imprenditore Elio Graziano, morto qualche anno fa. Un ingegnere che negli anni Ottanta ha potuto agire indisturbato anche grazie alle complicità degli amministratori e alla disattenzione dei pm. Qualche anno fa è stata aperta una inchiesta dal nuovo procuratore Rosario Cantelmo.

L’Avellino del “mo’ vediamo” dove il nuovo sa di vecchio

È la città dell’incompiuto. Del “mo vediamo”. Volete una immagine? Eccola. E’ un palo. Di metallo. Grigio e lungo che si staglia al cielo con la forza di un monumento allo spreco, all’incapacità, alla rozzezza della classe politica. Siamo ad Avellino e i pali segnano il percorso che un giorno lontano congiungerà la parte est della città al suo nord con una metropolitana leggera. Ma vent’anni dopo quel “tram chiamato desiderio” non c’è. Nonostante i 24 milioni di euro spesi per i lavori, gli undici mezzi acquistati e costati 600mila euro l’uno sono immobili. Da fermi costano almeno 10mila euro l’anno per l’assicurazione e 70mila per la custodia.

Si vota ad Avellino, e i 54mila 561 avellinesi dovranno scegliere il sindaco fra sette candidati, 14 liste e 448 aspiranti consiglieri. Il Comune è in predissesto finanziario, ma questo non è il segno più grave del fallimento della città. Perché se volete un’altra immagine che renda bene l’idea, dobbiamo spostarci a Palazzo di Giustizia. Il Tribunale cade a pezzi, bisognerebbe costruirne uno nuovo, nel frattempo spostare gli uffici altrove. “Mo vediamo”. E gli avellinesi, già ultimi nelle classifiche sulla qualità della vita, perdono anche il diritto alla giustizia. Le mogli e i figli dei 27 operai morti all’Isochimica (un inferno di veleno e amianto per trent’anni tollerato da sindaci, Asl,e magistratura) per assistere al processo che ha messo alla sbarra politici, tecnici e industriali, devono spostarsi a Napoli. Semplicemente perché il Tribunale non dispone di un’aula idonea. Si vota ad Avellino, eppure si era già votato appena undici mesi fa, ed era scoppiata la rivoluzione. Nella città del grande potere democristiano (De Mita, Mancino, Gargani, tutti pezzi da novanta della Prima Repubblica) e del dominio Pd a trazione ex Dc, brillavano le stelle. Nasceva un nuovo notabilato, questa volta 2.0, e portava il nome di Carlo Sibilia, ora sottosegretario all’Interno. Un giovane che a Roma considerano uno statista. Ad Avellino, città che coltiva l’assassina arte dell’ironia, lo chiamano “Carletto l’astronauta” (per la storia del finto sbarco sulla luna), o “Carletto ‘a scia” (per l’annosa vicenda delle scie chimiche). Ironia a parte, lui stupì tutti. Nell’ordine: mise in riga il meet-up locale da sempre in contrasto con le elites pentastellate, scelse il candidato sindaco Vincenzo Ciampi, fece la lista e costrinse il Pd e il suo candidato, Nello Pizza, al ballottaggio. Cinquestelle al 20,2%, Pizza al 42,9. Vinse Ciampi col 59,54%. Come? Con i voti di Luca Cipriano (ex Pd con una sua lista al primo turno), Morano (centrodestra e Lega), Dino Preziosi (lista civica e Fratelli d’Italia). Avellino è città di piccoli machiavelli di provincia e i tre decisero di sostenere Ciampi e i cinquestelle “per il buon governo della città”. Durò poco, cinque mesi. Con soli cinque consiglieri su 32, il buon Ciampi fu costretto a capitolare. Si rivota “e tornano in campo i nuovi-vecchi notabili”. Franco Festa è l’ex preside di uno dei più prestigiosi licei della città. Scrittore e animatore dell’associazione culturale “Controvento”, ci offre una disperante radiografia di Avellino. “I cinquestelle sono stati una speranza per trasformarsi subito in una delusione. Sono stati un misto di arroganza e superficialità. Hanno favorito il ritorno di piccoli notabili”. Il centrosinistra è spaccato. Il Pd frantumato. Luca Cipriano, che alle scorse elezioni si schierò contro il suo partito, è il candidato del Pd “ufficiale” con quattro liste. Giornalista (ha lavorato con Klaus Davi), ha avuto un passato di addetto stampa di sindaci dem e di consigliere comunale del Pd. Si presenta come il nuovo, anche se è sostenuto da Giuseppe Gargani e Nicola Mancino (“Luca è il mio candidato”) e si batte contro favoritismi e clientelismi. Vuole fare piazza pulita, ma è stato nominato due volte presidente del Teatro Carlo Gesualdo da sindaci Pd, e alla guida del conservatorio Domenico Cimarosa da due ministre del centrosinistra. Per il teatro è indagato dalla procura di Avellino insieme al cda per peculato e falso ideologico. Anche Gianluca Festa ha in tasca la tessera Pd, ma di stretta osservanza “decariana”, nel senso del deputato Umberto Del Basso De Caro. E’ biologo ed è stato vicesindaco della città col centrosinistra, ma anche lui si presenta come il nuovo. Spaccati sono anche i pentastellati. Il meet up con Tiziana Guidi ha perso ancora una volta contro Sibilia, che ha un suo candidato, l’avvocato Ferdinando Picariello, ex vicesindaco. Una frattura che peserà sul voto e che ha già pesato sulle candidature. Sei ex candidati nel 2008 con la lista Ciampi sono passati altrove, nel Pd e con la destra. Anche per questo il sottosegretario ha chiesto aiuto a mezzo governo. Bonisoli, Barbara Lezzi, Giulia Grillo. Luigi Di Maio arriverà il 22 maggio, festa di Santa Rita. Parlerà la sera mentre i devoti attraverseranno scalzi le vie della città dietro la statua della santa. Nuovo è anche Dino Preziosi, avvocato, un passato da comunista e poi da demitiano, per 16 anni direttore (con nomina della Regione a trazione centrosinistra) dell’azienda dei trasporti. Alle scorse elezioni portò a casa il 6,4% , ora si candida con due liste, una civica e Forza Italia di Cosimo Sibilia. Centrodestra spaccato, con la Lega che corre da sola. Salvini, tra un bicchiere di aglianico e un tarallo alla sugna, ha benedetto la candidatura dell’avvocato Bianca Maria D’Agostino che in lista ha anche Casapound. La sinistra, invece, è con “Si può” e candida un medico cattolico stimatissimo in città, Amalio Santoro. Lo hanno accusato di essere “un ex demitiano destinato a morire comunista”, una staffilata la sua risposta: “Meglio morire comunisti che zuppisti”. Per Franco Festa, “zuppisti” sta per continuatori del ciclo del cemento. “Solo Santoro ha discusso la proposta avanzata da noi della variante di salvaguardia del territorio. Puntare sui parchi urbani e sull’area dell’ex Isochimica da risanare e salvare dalla speculazione. Tutti gli altri hanno fatto finta di non sentire”. Perché nella città del “mo vediamo” i signori delle bonifiche e del cemento sono i veri padroni.