Lula: “Da questa cella combatto per il mio Brasile”

Dalle 16 alle 17 del 25 aprile scorso il Dipartimento della Polizia Federale del Paranà ha permesso a me e a mia moglie di visitare il presidente Luiz Inácio Lula da Silva nel carcere di Curitiba, dove è detenuto dal 7 aprile 2018 e dove deve scontare altri sette anni di prigionia. Siamo amici di Lula dal 2003 quando, in sua presenza, Oscar Niemeyer ci consegnò ufficialmente il progetto dell’Auditorium di Ravello. Prima di recarci nella prigione abbiamo pranzato con gli avvocati che lo difendono gratuitamente fin dal primo grado del processo. Ci hanno aggiornato sulla situazione penale del presidente, sullo stato di avanzamento del ricorso al Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, sulla procedura che avremmo dovuto rispettare nel carcere prima, durante e dopo la visita. In effetti non si tratta di un carcere vero e proprio, ma di una caserma della polizia Federale inaugurata – ironia della sorte – proprio da Lula nel 2007, quando era presidente, e ora usata come carcere speciale per i principali condannati nell’ambito dell’operazione Lava Jato, la versione brasiliana di Mani Pulite, condotta dal giudice Moro, poi gratificato dal presidente Jair Bolsonaro con ben due ministeri riuniti in un super-ministero della Giustizia e della Sicurezza pubblica.

Per arrivare alla cella di Lula siamo stati presi in consegna da un militare giovane e gentile che sovrintende a tutta la giornata del prigioniero; siamo stati sottoposti a un’attenta ma cortese perquisizione da parte di due poliziotte; abbiamo salito le scale che portano al piano superiore e siamo passati accanto a un microscopico cortile con alti muri di cinta che lasciano intravedere in alto solo un quadrato di cielo: è il luogo dove Lula, se vuole, può trascorrere l’ora d’aria quotidiana. Un piccolo corridoio porta alla cella del prigioniero. Davanti alla porta due guardie vigilano notte e giorno le telecamere a circuito chiuso .

Lula ci accoglie con visibile affetto. Indossa una tuta, ci fa sedere a un tavolino di plastica con quattro sedie. Insieme a un letto che mi colpisce per la sua piccolezza, a uno scaffale, a un armadio, a un comodino, a un televisore (abilitato solo a tre canali nazionali) e a una cyclette (su cui fa sette chilometri al giorno per tenersi allenato), è tutto ciò che arreda una stanza di circa quattro metri per cinque. Qui Lula è condannato a stare in totale isolamento 24 ore su 24. Il lunedì, se vuole, può ricevere un cappellano; il giovedì, dalle 16 alle 17, può ricevere una o al massimo due persone, dietro permesso della direzione della prigione. L’unico conforto gli viene dalle voci che gli arrivano dall’esterno del carcere, dove un presidio di un centinaio di compagni convenuti da tutto il Brasile è attendato a turno, notte e giorno, e gli augura a gran voce il buon giorno, la buona notte, la libertà.

Lula non è un intellettuale e quindi la lettura gli fa compagnia meno di quanta ne farebbe a me. Lui ha fatto studi sgangherati, anche se è il presidente del Brasile che ha creato il maggior numero di università disseminate in tutto il paese. Mi dice: “Mia madre era analfabeta e io sono ignorante. Ma mi chiedo come fanno tanti politici e tanti magistrati, pure essendo istruiti, a commettere errori e ingiustizie così gravi”. E poi aggiunge: “Sono ignorante, eppure avevo previsto la crisi prima di Tony Blair, prima di Putin, prima di Obama. Soprattutto avevo previsto che il prezzo maggiore l’avrebbero pagato i lavoratori”. La figlia gli ha fatto avere un termos di caffè. Ce ne offre con la fugace felicità di poterci accogliere quasi come se stessimo a casa sua. Parliamo dell’Italia: ricorda i suoi incontri ufficiali con Craxi, Berlinguer e Andreotti; i suoi seminari con i sindacalisti della Cgil e della Cisl. Si rammarica di essere stato solo una volta a Napoli: per assistere a una partita di Maradona. Sogna di tornare a visitare la toscana, ma è consapevole che il sogno non si avvererà. “Il Pci, tramutandosi man mano in Pd, ha dimenticato il popolo”, dice con la sua solita, fulminante lucidità.

Si accorge che io guardo la cella con malcelato sgomento e mi dice: “Non preoccuparti: sono vissuto per anni, insieme a mia madre e ai miei sette fratelli, in una stanza molto peggiore di questa, nel retrobottega di un bar di San Paolo”. Ha fatto il lustrascarpe, il venditore ambulante, l’operaio in una fabbrica metalmeccanica dove, a 19 anni, ha lasciato un dito sotto una pressa.

Mi chiede cosa penso dell’attuale situazione politica nell’Occidente e dello stato di salute della democrazia. Gli dico che sto leggendo Postdemocrazia di Colin Crouch e mi è sempre più chiaro perché il neo-liberismo non poteva non fare piazza pulita di tutte le grandi riforme che lui ha realizzato durante gli otto anni della sua presidenza: Bolsa Família, Fome zero, Programa de Aceleração do Crescimento, difesa dell’Amazzonia, promozione dell’agricoltura familiare, Brasil Sem Miseria, aumento della scolarizzazione, tutti i programmi di welfare grazie ai quali 40 milioni di brasiliani hanno scalato i gradini sociali e il 54% ha raggiunto la classe media.

A ripercorrerlo oggi con la memoria, sembrano miracolosi gli anni in cui tutto questo si potette fare ed è lampante il motivo per cui il capitalismo non poteva tollerarlo. Non a caso Warren Buffet, il quarto uomo più ricco del mondo, ha detto senza ritegno: “La lotta di classe esiste, siamo noi ricchi che la stiamo conducendo, e la stiamo vincendo”.

Lula è in gran forma, lucido e combattivo come non mai, per nulla fiaccato da un anno di isolamento carcerario. È consapevole che, in America e in Europa, la sinistra non uscirà alla svelta dalla situazione in cui si è cacciata e che ora ha davanti a sé una lunga marcia da compiere. Anche i processi, le condanne, l’odio scatenato contro il Partito dei Lavoratori (Pt), le colpe vere che il Pt ha commesso e quelle che gli sono state cucite addosso dai mass media implacabili e concentrici, sono come un grande seminario, una grande auto-analisi alla quale la sinistra è costretta e dalla quale uscirà migliorata.

Parliamo dei social media e del ruolo che essi hanno svolto nelle ultime elezioni brasiliane: Bolsonaro ha 7 milioni di follower su Facebook e 3,5 su Linkedin, oltre ad avere alle spalle la guida e la protezione di Bennon. Mi ricorda che qualche mese fa è morto un suo nipotino e il figlio di Bolsonaro ha esultato twittando che si trattava di una giusta punizione divina. Mi dice pure che quando sua moglie, morta di cancro, andò a farsi la prima tac, il referto apparve su Facebook prima di essere comunicato a lei e a lui. A suo avviso, comunque, il rapporto fisico, diretto, con il popolo, resta assi più umano, caldo, convincente di quello via internet. Insieme ci chiediamo – senza saper dare una risposta – come mai, in tutto il mondo, la destra usa internet con maggiore frequenza e maggiore efficacia della sinistra. Comunque la destra indulge alle fake news con una spregiudicatezza immorale che sarebbe impraticabile da parte di una sinistra coerente con i propri valori.

Gli faccio notare che prima le bugie erano monopolio dei potenti – direttori di giornali, capi di Stato, ecc. – mentre ora, grazie a internet, sono alla portata di tutti: internet ha democratizzato la falsità. Ci fa notare che, nella società postindustriale, le dittature si appropriano del potere con modi e tecniche affatto diverse da quelle cui eravamo abituati nella società rurale e in quella industriale. Oggi, per fare un golpe, non occorrono più i manganelli e i carri armati: basta l’azione combinata di quattro strumenti: i media, la magistratura, i social media e le libere elezioni. Con i media si manipolano le masse demonizzando gli avversari e rendendone ovvia e attesa l’eliminazione; con la magistratura li si mette in galera eliminandoli dalla competizione elettorale; con i social media si vincono le elezioni; con le elezioni si assicura un alibi democratico alla dittatura.

In questo modo il Brasile è passato in soli tre anni da una democrazia compiuta a una post-democrazia in cui il presidente Bolsonaro, il vice-presidente e sette ministri sono militari. E, per colmo del paradosso, i militari, rispetto a Bolsonaro a suoi tre figli energumeni che lo affiancano notte e giorno, appaiono come altrettanti saggi moderati.

Lula ci parla con calore e affetto. Soprattutto con la sottintesa consapevolezza della propria qualità di leader e del proprio ruolo di guida morale. Sa che in carcere sta conducendo la sua ultima battaglia, quella per il riconoscimento della propria innocenza; sa che da questa cella angusta deve riuscire a smascherare il “golpe” realizzato contro di lui, contro il Pt e contro i lavoratori tutti, dalla destra brasiliana in combutta con gli Stati Uniti di Donald Trump. Ma soprattutto è cosciente che in questi pochi metri quadri si compie un piccolo pezzo di storia sua personale e del Brasile.

Un’ora passa presto. Il carceriere ci ricorda che i 60 minuti sono scaduti. Lula ci lascia con tre viatici: sua madre gli ha sempre raccomandato la dignità e lui non la baratterà mai con la libertà. Ora ha 72 anni di età e ha da scontare altri sette anni di pena. Gli piacerebbe vivere in casa con i figli e i nipotini, ma non accetterebbe mai gli arresti domiciliari o il braccialetto elettronico. Si batterà fino alla fine per il riconoscimento della propria innocenza ma, se non riuscirà a dimostrarla, morirà in questa stanza, dignitosamente.

Sulla porta, prima che noi lo lasciamo nella sua solitudine coatta, tiene a dirci ancora due o tre cose: “Se, fuori di qui, parlerete di questo nostro incontro, riferitelo in piena libertà, con le parole che vi suggerisce il cuore. Però intrattenetevi un poco con i compagni che presidiano la prigione per farmi sentire il loro affetto, riferite loro la mia gratitudine e ditegli, per conto mio, che la lotta è di lunga durata e che la dignità non può essere barattata con nulla”.

Strana storia questa del Brasile, paese grande e incomparabile, dove però Bolsonaro vive nel palazzo presidenziale di Brasilia e Lula vive in una cella di pochi metri quadrati.

Le crociate, da Pisa a Firenze: Lega e Pd contro la moschea

Nell’immaginario leghista, governare è uguale a comandare. Via ogni segno di dissenso (dagli striscioni alle insegnanti che fanno il loro lavoro), e via anche i poteri dello Stato che non si possono controllare e che si ostinano a decidere secondo legge e Costituzione e non secondo l’ideologia, nazista, della “sostituzione di popoli”. E mentre Salvini attacca la magistratura siciliana che non convalida i teoremi contro le Ong, più modestamente la giunta a trazione leghista di Pisa copre di insulti il soprintendente.

Da Renzi appunto a Salvini, la tradizione vuole che i soprintendenti si debbano attaccare perché dicono troppi no: da qui i reiterati tentativi di imporre il “silenzio-assenso”, che equivale a dire non disturbate il manovratore (leggi “il cementificatore”). Stavolta, invece, è un sì del soprintendente Andrea Muzzi ad aver mandato (letteralmente) in bestia l’assessore all’urbanistica di Pisa, Massimo Dringoli. Quel sì, infatti, dovrebbe aprire definitivamente la strada alla realizzazione di una moschea, nella zona di Porta a Lucca, non troppo lontano dal Campo dei Miracoli.

Come con ogni altra pratica, la soprintendenza ha valutato l’impatto dell’edificio e i vincoli esistenti: alla fine il verdetto è stato un via libera condizionato ad alcune prescrizioni (una di non poco momento: ruotare l’intero complesso). Un parere tecnico-scientifico: ovviamente. Ma niente, il Dringoli ha convocato la stampa e ha dato fuoco alle polveri: “La soprintendenza è fascista!”. Dato il sostrato culturale della giunta, molti hanno pensato al classico colpo di fulmine, e invece era una critica, non un elogio. Mirabile l’argomentazione storica: “Il vero ente fascista è la soprintendenza. È l’unico creato in quegli anni … È un ente istituito dal fascismo e che ha poteri assoluti” (così sulla Nazione).

Ora, non solo non esiste alcun potere assoluto, visto che gli atti amministrativi delle soprintendenze possono essere impugnati (come tutti gli altri) davanti a un Tar e poi semmai al Consiglio di Stato. Ma soprattutto le soprintendenze non sono un’invenzione fascista: l’idea di una tutela territoriale esiste già negli antichi stati italiani, gli embrioni delle soprintendenze nascono intorno al 1870, nel 1902 appare il nome e nel 1907 ne vengono istituite 47 in tutta Italia. Ora, anche nel più sfrenato entusiasmo neofascista dell’Italia di oggi, il 1907 è un po’ presto per essere considerato un anno fascista.

Ma naturalmente il punto non è l’ignoranza dell’assessore pisano. Il punto è la sua intolleranza. Perché è evidente che dietro l’ipocrisia del “non vogliamo la moschea lì”, c’è un cubitale non vogliamo la moschea a Pisa”. Come è stato detto e ridetto dalle destre ora al governo durante tutta la campagna elettorale: in sommo spregio della libertà religiosa e di culto garantita dalla Costituzione, e della nostra comune umanità.

E non è un problema solo di (questa) destra. Mentre a Palermo già il cardinale Pappalardo donò una chiesa alla comunità islamica per farci la moschea e ora il cardinale Lorefice ne dona un’altra a quella ebraica per farci una sinagoga, nella Firenze che si vorrebbe colta, cosmopolita e aperta al mondo la moschea non c’è: e i tanti musulmani pregano in piazza, davanti al garage di Piazza de’ Ciompi che funge da luogo di culto. Qualche anno fa il progetto di una grande moschea fu fermato da un doppio fuoco di sbarramento. Più subdolo quello del cardinale Betori, assai lontano da Papa Francesco. Più esplicito e sanguigno, al solito, quello dell’allora sindaco Matteo Renzi. “Non vedo spazi nel centro storico di Firenze per farla, in questo momento”, diceva Renzi nel marzo 2011. Nacque allora un ampio dibattito, e quando gli scrissi una mail con la proposta di cercare quello spazio in una chiesa sconsacrata, Renzi mi ripose: “È una bella sfida, Tomaso. Davvero una bella sfida…”. Naturalmente una sfida mai raccolta.

Ancora da senatore di Rignano Renzi ha rimbrottato il suo successore Dario Nardella, che finalmente sembrava dare qualche timido segnale di indipendenza, e che aveva individuato un luogo dove fare la moschea, rimproverandogli di mettere a rischio un confinante affare immobiliare (dell’imprenditore che aveva comprato l’Unità). Nardella è rientrato nei ranghi, e quando la giunta di sinistra di Sesto Fiorentino ha trovato il modo di fare la sua moschea, si è gettato sull’occasione dicendo che sarebbe stata anche la moschea di Firenze. Una proposta irricevibile, visti semplicemente i numeri in gioco.

Nell’attuale campagna elettorale fiorentina, della moschea si è per ora parlato poco: ma dopo l’apertura di pochi giorni fa della candidata della sinistra Antonella Bundu (“continuiamo a trovare vergognoso che ancora oggi Firenze non abbia trovato una vera soluzione per i tanti fedeli islamici ormai da troppo tempo costretti ad esercitare il proprio culto in una situazione degradante per loro e per la zona. Siamo per una moschea in città, dovrebbe essere una priorità della prossima amministrazione”) e dopo l’ovvia chiusura di Ubaldo Bocci (candidato del centrodestra), Nardella dovrà prendere una posizione chiara: o a destra o a sinistra? Nel suo libro Ma quale paradiso? Tra i Jihadisti delle Maldive (Einaudi 2017), Francesca Borri racconta che quando un maldiviano apprende che lei è italiana, reagisce così: “Ho visto quelle foto di … come si chiama, con tutti i musulmani che pregano nei parcheggi dei supermercati!”. E poi quelli laici e moderni saremmo noi.

“Il calo demografico ci condanna a una società fatta di soli vecchi”

Piero Angela ha quasi 91 anni. “Lo dico con un pizzico di civetteria, ho un po’ di ernia del disco ma la macchina funziona ancora. Farò il quarto Quark tra qualche mese!” spiega sorridendo quando lo incontriamo alla Società Geografica Italiana per parlare di demografia e del libro di Antonio Golini e Marco Valerio Lo Prete, Italiani poca gente (Luiss University Press) di cui Angela ha scritto la prefazione.

Piero Angela, oggi presenta un libro sulla denatalità in Italia. Siamo sempre meno. Come mai?

In generale, e nella nostra politica in particolare, non c’è una visione di lungo termine. La crisi demografica è la conseguenza di programmi tarati solo sul consenso immediato. Cambiare politica è facile e veloce, cambiare la demografia no. C’è una bellissima metafora usata da Antonio Golini: in un orologio, le lancette dei secondi rappresentano la politica, quelle dei minuti l’economia, quelle delle ore la demografia. Ma sono quest’ultime a dirti che ora è. Sembrano ferme, ma segnano il tempo.

Perché siamo passati dalla media di 2,7 figli per donna del 1964 a poco più di uno?

Quando è nato mio padre, nel 1874 (era un contemporaneo di Garibaldi!) la società italiana era contadina, al 70% analfabeta, con una vita breve e grama. Poi, dall’analfabetismo di massa si è passati all’università di massa, il reddito è aumentato, la vita delle persone si è trasformata. Certo, non è stato merito della politica, che non è mai servita a nulla: la democrazia è frutto di innovazione, energia, educazione, valori, comunicazione. Se lei fosse nata all’epoca di mio padre, si sarebbe sposata a 16 anni. Invece quanti anni ha e quanti figli ha?

Trenta e niente figli.

Ecco. Sui registri matrimoniali dell’800, l’80% delle spose firmava con la croce. Cosa poteva fare una donna che firmava con la croce se non sposarsi e fare dei figli? A quei tempi, lei avrebbe già avuto cinque figli e starebbe badando alla casa in campagna. E io sarei con le scarpe piene di fango a governare le mucche.

E oggi?

A 25 anni neanche ci si pensa, giustamente. La società moderna è frutto di un processo di liberazione dell’uomo, ancor di più della donna. Le studentesse sono più degli studenti, si laureano prima e con voti migliori. La superiorità del maschio è stata smentita dall’accesso delle donne all’istruzione. Qualunque ragazza che si laurei non vuole subito dedicarsi ai pannolini, sa che con la routine familiare alcune attività le sarebbero precluse. Quindi ritarda l’arrivo di un figlio. Ma più lo si ritarda più diventa difficile farlo e quando arriva, ci si ferma a uno.


Come mai non se ne parla abbastanza?

A nessuno importa del futuro. Nel Rapporto sui limiti dello sviluppo realizzato ormai 50 anni fa c’era una tabella che è ancora valida: tanti quadratini delinevano lo spazio e il tempo e in ognuno bisognava segnare con un punto l’interesse relativo al soggetto indicato. La prima casella era “Io e la mia famiglia oggi” ed era tutta piena di puntini. Man mano che si andava avanti, “il mio paese”, la “cultura”, “l’umanità”, i puntini si diradavano. E ancora “domani”, “fra un anno”, “fra dieci”, sempre meno. La casella “Il futuro dell’umanità” aveva un solo puntino. Ecco. Un figlio è visto sempre più come bene individuale della coppia e della donna, non della società. Ma il venir meno della sua valenza di bene collettivo si riverbera nell’assenza di interventi per sostenere lo sviluppo demografico.

Quanto conta la ricchezza?

Si pensa sempre che siano i paesi poveri a fare più figli ed è vero. I figli sono considerati un investimento: in Africa sono una risorsa. Non serve una stanza in più, portarli a nuoto o a danza. A cinque anni già conducono le pecore al pascolo. Eppure anche in alcuni Paesi ricchi dell’Ue si fanno più figli, questo perché ci sono servizi e attenzione al tema. L’Italia è l’unico Paese che dà più ai pensionati che alle madri. Il sistema è rovesciato. Così, se non hai dove mettere il figlio mentre lavori, è un problema. O se lo hai, costa molto. Se invece hai l’asilo nido, la possibilità di lavorare, due stipendi e aiuti forti, dalla detassazione ai contributi – non un bonus da 80 euro – allora è chiaro che fai più figli. Ci sono sondaggi, per quel che valgono, che dicono che le donne vogliono avere figli. E se si chiede loro quanti, rispondono “due”. In Francia, ad esempio, tutti possono disporre di scuole materne, asili nido, sia nel quartiere che nelle aziende. E la media è di due figli per donna.

Perché non si investe su questo, allora?

I pensionati votano, i neonati no. Investire sulle persone anziane dà un risultato visibile immediato mentre investire sulla natalità significa vedere i risultati a 20 anni di distanza. Nella vita sociale ci sono tre segmenti: lo studio, il lavoro e la pensione. Un tempo lo studio era poco, il tempo di lavoro lungo, la pensione breve perché si moriva subito. Era un sistema sostenibile. Oggi tutto è rovesciato, pochi figli dovranno mantenere molti anziani – oltretutto sempre più costosi – e pagare le loro pensioni. Una volta c’erano due figli per un genitore superstite, oggi due genitori superstiti per un figlio. Queste cose si pagano. La demografia ci presenta un quadro inquietante.

Quale?

Che società può essere una di soli vecchi? Oggi i centenari sono circa 117mila, nel 2050 si stima saranno 150mila. Anche a me piacerebbe arrivare a 200 anni, ma solo se in motocicletta e con una bionda sul sellino posteriore, non inebetito su una sedia a rotelle.

I migranti possono colmare il gap di natalità?

Andiamo verso una società tecnologica in cui occorrono specializzazioni e innovazione ma con gli ascensori sociali già bloccati: riusciremo a non lasciarli indietro e a integrare soprattutto le seconde generazioni? Se sì, bene, altrimenti rischiamo di diventare un paese di braccianti e tornare a una società dell’800.

Italo Calvino dixit: “C’era un Paese fondato sull’illecito… ”

Attenti, perché questa è una delle più grandi storie italiane. Storia collettiva, larga, profonda. Che sto rivivendo e rivedendo in questi giorni, in un misto di passione e di malinconia, per due ragioni. La prima è l’ondata di arresti dalle Alpi al Lilibeo che certifica che in questo Paese continua a dettare legge l’antilegge.

Che la tangente, comunque travestita, regola nomine, rapporti di potere, pubblici servizi, scelte di governo. Rivedo quell’articolo profetico di Italo Calvino, il suo “apologo sull’onestà nel paese dei corrotti”, scritto nel 1980. Iniziava così: “C’era un paese che si reggeva sull’illecito. Non che mancassero le leggi….”. Quel paese, spiegava lo scrittore, aveva fatto dell’illegalità un principio di armonia. E aggiungeva ironicamente: “Avrebbero potuto dunque dirsi unanimemente felici, gli abitanti di quel paese, non fosse stato per una pur sempre numerosa categoria di cittadini cui non si sapeva quale ruolo attribuire: gli onesti. Erano costoro onesti non per qualche speciale ragione (non potevano richiamarsi a grandi principi, né patriottici né sociali né religiosi, che non avevano più corso), erano onesti per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, tic nervoso…”. Un pezzo insuperabile, di quasi quarant’anni fa.

Quante volte l’ho letto in aula, l’ho dato in fotocopia agli studenti. Da allora la scuola italiana ha dato vita alla più grande esperienza di educazione alla legalità conosciuta in Europa. Migliaia e migliaia di insegnanti ci si sono cimentati, molti le hanno regalato la propria vita, senza chiedere una lira o un euro in più. Inventando programmi da autodidatti, sfidando indifferenze e anche sarcasmi (“sempre alla mafia pensi”). Una folla. Irene Ciravegna in Piemonte, Nando Benigno o Cristiana Zanetti a Milano, Armida Filippelli a Napoli, Loredana Japichino o Pia Blandano o Vito Mercadante a Palermo, Raffaella Argentieri a Brindisi. Nomi che sbalzano fuori da questa grande storia collettiva insieme a tanti altri, con barbe color carbone, lunghe trecce o capelli candidi, e che certo ingiustamente qui privilegio per solo impulso di memoria rispetto ai moltissimi possibili. Con generazioni intere di studenti che li hanno seguiti e ascoltati, hanno letto e scritto, fatto gemellaggi con altre scuole, sentito e applaudito testimoni. I primi di loro oggi sono vicino alla sessantina. Ci penso e non mi pare vero. Si diceva “bisogna investire sui giovani, che sono il nostro futuro”.

Lo abbiamo fatto, eppure… Eppure Calvino è vivo e lotta insieme a noi. Eppure gli onesti appaiono ancora tali per abitudine mentale, condizionamento caratteriale, o perfino per “tic nervoso”. Stretti tra professionisti della corruzione, beffati da nomi che – esattamente come quelli degli insegnanti ricordati – ci arrivano addosso da trent’anni fa, ancora lì a brigare e trafficare interessi, influenze e denaro e prebende. Clandestini a noi ma straconosciuti nei sottoboschi del potere. Politica, lavori pubblici, sanità, consulenze professionali, energia eolica, aziende partecipate, concorsi, appalti per la sicurezza, appalti di ogni genere. Siamo partiti dai giovani, come dovevamo.

Ma questi ci sono sempre. Spesso sono stati giovani di recente. Dove si è sbagliato? Dove, in quale punto preciso, tutto finisce e ricomincia? Ecco la vera storia italiana, il confronto–scontro quotidiano tra i due opposti fiumi pedagogici. Quello che giunge dai progetti educativi, dal sacrificio, dalla cultura. E quello che arriva dal potere, dallo spreco tracotante, dalla villania. Due fiumi contrastanti e sovrapposti. Partirò dopodomani. Sulla nave Falcone, da Civitavecchia per Palermo, per ricordare chi fu ucciso il 23 maggio di 27 anni fa. Come si accingono a fare centinaia di scuole di tutta Italia.

Avrò con me quasi 60 studenti dell’università di Milano. Bernardo il più “anziano”, Sofia la più giovane, 19 anni. Francesca, 20, la capocomitiva. E continuerò a raccontare loro la bellezza delle virtù civili. E loro ascolteranno, vedranno e si commuoveranno, come quelli prima di loro. E io penserò al molto che già si è fatto e che occorre continuare a fare. Rivedrò in controluce i visi degli eroi, ma rivedrò di sbieco dietro di loro anche i visi (uno vale l’altro) di ladri e trafficanti di tutto. E mi chiederò dove stiamo sbagliando, e se c’è un punto preciso dove tutto finisce e dove tutto riemerge. Per capire in quale ansa precisa questa grande storia italiana può essere deviata. E diventare storia di una metamorfosi civile. Come nelle favole.

Maschilisti a lavoro: “Trattata da segretaria, dopo i sacrifici”

Ciao Selvaggia, torno a casa oggi col pensiero di questo mondo maschilista. Lavoro in per una delle più importanti case automobilistiche e prima ancora lavoravo per una sua concorrente, quindi mondi maschili e maschilisti nonostante quello che i vari HR professino. In sette anni di duro lavoro, durissimo, mi sono guadagnata la stima di molti colleghi e superiori, ma c’ho rimesso la salute. Una vita in trasferta per almeno tre anni con ore di straordinario tutto il giorno non aiuta. Arrivo al punto. Abbiamo un nuovo collega nel team di quasi 50 anni. Non sa niente delle vetture che dobbiamo seguire, non conosce i flussi dell’azienda e non sa cosa voglia dire destreggiarsi fra i mille dipartimenti. Io sì. Il lavoro che faccio consiste nel gestire le campagne di richiamo di due segmenti molto importanti, è una cosa delicata (il mio capo potrebbe andare davvero in galera in caso di errori). Ecco, l’altro giorno questo collega, che da me avrebbe molto da apprendere, mi presenta a un terzo collega destinato a un ruolo di superiore come “quella che fa la burocrazia”, quella “che prepara liste di veicoli”. Posso dire che mi è preso veramente lo sconforto? Il maschilismo di questa persona è appurato, visto quello che continuamente dice e fa (ti dico solo che sul suo cellulare ha registrato sua moglie al nome “menopausa”), ma davvero ancora dobbiamo trovarci a essere sempre e solo le “segretarie” nel senso che intendono questi soggetti? So che non è esattamente un insulto sessista, ma mi sembra affine. Anzi, peggio. Scusa lo sfogo, ma certi giorni mi cadono le braccia.

Michela

Vai sulla rubrica telefonica e registralo sotto al nome “Stronzo”. O proponigli un nuovo ruolo in azienda: il pupazzo del crash test.

Quando si ama… è giusto dire verità spiacevoli? “Mia moglie si crede scrittrice”

Gentile Selvaggia, ti pongo una questione complessa: un recente accadimento ha rotto l’equilibrio con mia moglie senza il mio volere, ma per mia responsabilità. Lei ha da tempo velleità da scrittrice. Nella vita ha sempre fatto altro (lavora alle poste), ma sono suo marito da 20 anni e da 20 anni la sento dire: “Prima o poi devo scrivere un libro”. Non so bene perché, visto che si è diplomata a fatica e pur essendo brillante non ama leggere, ma ho sempre pensato che fosse una di quelle cose che diciamo tutti. Per esempio io da sempre di iscrivermi a tennis e per ora, a livello di sport, sono fermo alla passeggiata mattutina col cane. Invece succede che circa un anno fa torna dal lavoro, si mette al computer e inizia a scrivere. “Ho una bella storia da raccontare, è ora che mi metta d’impegno a scriverla!”, mi dice. Mi spiega che è un racconto di guerra un po’ fantasy ma non indago troppo; sarà un entusiasmo breve, mi dico, ha lasciato a metà più o meno tutto nella vita, compresa la passione nel nostro matrimonio ma questa è una storia molto meno fantasy. Fatto sta che 4 mesi dopo finisce la sua opera e mi chiede tutta eccitata se ho voglia di leggerla “prima che faccia il giro degli editori!”, dice. Io la leggo tra una pausa di lavoro e l’altra, 280 pagine, e in un mese ma lo finisco. Mentre lo leggo prendo tempo, le dico che voglio arrivare alla fine, ma la verità è che vorrei arrivare alla fine dei miei giorni senza dirle il mio pensiero: quello che ha scritto è una cosa veramente brutta, ma brutta, ma così brutta Selvaggia che non puoi immaginare. Amo mia moglie, se non l’amassi così tanto, dopo quello che ha scritto non l’amerei più, fidati. Come posso spiegarti? É una specie di guerra di mostri che escono dalle viscere della terra e combattono con un gigantesco troll donna che ha per sudditi delle piante carnivore.. vabbè, mi fermo qui. È un messaggio femminista, ma non ho ben capito. Non riesco a dirle che lo scritto è orribile e mento. Oddio, non è che le abbia detto “Sei Elsa Morante”, non ce l’ho fatta. Le ho detto che mi aveva appassionato, che potrebbe piacere molto ai bambini, che potrebbe stamparlo e regalarlo ai nipoti… Ma niente, lei ha contattato varie case editrici che ovviamente non le hanno mai risposto. Alla fine pensa di proporlo a una piccola casa editrice della nostra cittadina, io conosco bene la moglie dell’editore, era una mia compagna del liceo. Vorrei risparmiarle l’umiliazione, così contatto la mia vecchia amica e le chiedo di mettere una buona parola col marito. Le dico che se lui giura a mia moglie che il romanzo è bello e che glielo può pubblicare, penserò io di nascosto a pagare la stampa di qualche decina di copie e a chiedere al libraio di mettere un paio di copie in esposizione. E va così. Lei è al settimo cielo, io mi sento nel giusto, finché un bel giorno, a pochi giorni dalla stampa, succede l’impensabile: la mia amica del liceo dice a un’altra amica che conosce bene mia moglie quello che ho fatto. Lei viene a sapere che dietro a quella pubblicazione ci sono io, che ho pagato. Capisce che il suo libro non lo voleva neppure l’ultima libreria del paese. Lei mi aggredisce, io, offeso, le dico la verità brutale, che il romanzo era orribile, insomma quella verità che forse leggerà anche qui se pubblicherai questo sfogo e lei mi urla che quando si ama si deve dire all’altro quando ha l’insalata tra i denti. Non ci parliamo per due mesi, ora va un po’ meglio. Quindi la domanda è: ha ragione lei? Bisogna dire all’altro “Hai una foglia di insalata tra i denti?”, sempre?

Gianluigi

Caro GIanluigi, hai fatto una cosa bella, per amore, e qui non era una foglia tra i denti, era un cesto di lattuga.

 

Maschilisti a lavoro: “Trattata da segretaria, dopo i sacrifici”

Ciao Selvaggia, torno a casa oggi col pensiero di questo mondo maschilista. Lavoro in per una delle più importanti case automobilistiche e prima ancora lavoravo per una sua concorrente, quindi mondi maschili e maschilisti nonostante quello che i vari HR professino. In sette anni di duro lavoro, durissimo, mi sono guadagnata la stima di molti colleghi e superiori, ma c’ho rimesso la salute. Una vita in trasferta per almeno tre anni con ore di straordinario tutto il giorno non aiuta. Arrivo al punto. Abbiamo un nuovo collega nel team di quasi 50 anni. Non sa niente delle vetture che dobbiamo seguire, non conosce i flussi dell’azienda e non sa cosa voglia dire destreggiarsi fra i mille dipartimenti. Io sì. Il lavoro che faccio consiste nel gestire le campagne di richiamo di due segmenti molto importanti, è una cosa delicata (il mio capo potrebbe andare davvero in galera in caso di errori). Ecco, l’altro giorno questo collega, che da me avrebbe molto da apprendere, mi presenta a un terzo collega destinato a un ruolo di superiore come “quella che fa la burocrazia”, quella “che prepara liste di veicoli”. Posso dire che mi è preso veramente lo sconforto? Il maschilismo di questa persona è appurato, visto quello che continuamente dice e fa (ti dico solo che sul suo cellulare ha registrato sua moglie al nome “menopausa”), ma davvero ancora dobbiamo trovarci a essere sempre e solo le “segretarie” nel senso che intendono questi soggetti? So che non è esattamente un insulto sessista, ma mi sembra affine. Anzi, peggio. Scusa lo sfogo, ma certi giorni mi cadono le braccia.

Michela

 

Vai sulla rubrica telefonica e registralo sotto al nome “Stronzo”. O proponigli un nuovo ruolo in azienda: il pupazzo del crash test.

 

Inviate le vostre lettere a: il Fatto Quotidiano 00184 Roma, via di Sant’Erasmo,2. selvaggialucarelli @gmail.com

Servizi telematici, un mercato da 275 miliardi entro il 2025 Servizi telematici, un mercato da 275 miliardi entro il 2025

Era il 1981 quando Carlo Verdone, nei panni di Furio, nel film Bianco Rosso e Verdone, si dannava con la povera Magda per essersi fatta sostituire la gomma bucata da uno sconosciuto, anziché dare un senso a quella scarpinata sull’autostrada che lui, il marito, aveva dovuto fare per cercare una colonnina d’emergenza da cui chiamare il soccorso stradale Aci.

È vero, ventotto anni fa non c’era neanche l’ombra di un telefono cellulare, figurarsi se la Fiat 131 Giardinetta di Furio potesse avere a bordo la connessione 5G per il contatto immediato con l’assistenza.

Oggi, invece, le auto connesse sono una prospettiva prossima, in alcuni casi già tangibile, destinata a pervadere sempre di più il mercato in futuro.

Secondo quanto riporta l’Osservatorio Autopromotec, il fatturato globale delle auto connesse previsto per il 2019 dovrebbe toccare 90,8 miliardi di euro.

Ma non basta: da qui a sei anni, si potrebbe avere un incremento del 202%, toccando la cifra di 274,7 miliardi di euro.

A questa spinta potrebbe contribuire in modo sostanziale la tecnologia 5G, già tecnicamente pronta entro il 2019, che può consentire ai veicoli di entrare in un ecosistema digitale di cui fanno parte gli altri veicoli così come le infrastrutture stradali come semafori, caselli autostradali e sensori per il meteo o le condizioni di traffico.

Tutto ciò non potrà non impattare in modo sostanziale sul mondo del post vendita automobilistico, spingendo sempre più le officine per la riparazione e l’assistenza a investire su una specializzazione maggiore nella connettività, pur di non essere velocemente smarcate dai sistemi di manutenzione digitale e predittiva.

Automobili connesse. L’Ue preferisce il Wi-Fi al 5G

Un piccione e un Airbus fanno la stessa cosa, ma non lo stesso mestiere. In bilico tra demagogia e protezionismo di interessi realmente solo statunitensi, in queste settimane le istituzioni comunitarie stanno aprendo una voragine tecnologica tra l’auto connessa come il resto del mondo la concepisce e la sua versione azzoppata su cui hanno deciso di puntare. Commissione e Parlamento dell’Unione europea discutono e spingono per imporre una non meglio precisata evoluzione delle attuali connessioni Wi-Fi come canale unico per i nuovi sviluppi dei servizi online destinati agli autoveicoli, chiudendo cioè le porte alle reti cellulari mobili 5G, in nome delle stesse perplessità sulla loro sicurezza paventate dall’amministrazione Trump.

Un errore fatale, che sta passando sotto silenzio e che penalizza i cittadini quanto la competitività dell’industria automobilistica europea, bruciando le ali all’unico network capace di creare le basi per mettere efficacemente in rete i sistemi di bordo delle auto, rendendole capaci di dialogare tra loro e con le infrastrutture stradali. Cioè con un livello di sicurezza di marcia molto più elevato di oggi, irraggiungibile altrimenti, reso possibile da velocità di scambio dati 10 volte superiore all’attuale 4G e da una ridottissima latenza, ovvero tempi di risposta pressoché istantanei.

E invece, tra posizioni ufficiali e pressioni sotterranee, i governi di Germania e Francia si sono schierati per il Wi-Fi, una posizione che ha l’unico merito di fare sponda a una guerra commerciale che neppure ci appartiene. Nell’elenco delle aziende leader mondiali nello sviluppo delle infrastrutture di rete 5G, troviamo infatti nettamente ai primi posti le cinesi Huawei e Zte, già in ottimi rapporti di fornitura con i nostri operatori europei di telefonia, ma messe al bando da Washington, che al tempo stesso non punta certo a favorire Nokia ed Ericsson, difese debolmente da Finlandia e Svezia, quanto piuttosto a tirare la volata alla statunitense Cisco.

Vicende di elettronica e geopolitica che stanno consegnando il futuro europeo dell’auto al “vecchio” Wi-Fi, senza che da Bruxelles arrivino regole per una tutela dei dati sensibili che ci transitano, discutibile almeno quanto quella sul 5G. Senza soluzioni ai suoi limiti tecnici, come la copertura di segnale limitata a 500 metri, che può essere mantenuta da una vettura in movimento a non più di 120 km/h di velocità, per altro teorica. Senza poi nessuno che si occupi di Wi-Max, il Wi-Fi evoluto che arriva fino a fino a 50 km e le cui licenze di trasmissione nazionali sono state accaparrate spesso da gestori di telefonia mobile e mai utilizzate, con l’intento di far sparire l’unico rivale possibile per le reti cellulari. Con una logica mercantile da cui l’Europa finora non ci ha difeso, salvo sostenere che un piccione e un Airbus possono fare lo stesso mestiere.

La nuova guerra fredda economica tra Usa e Cina si combatte in trincea

La nuova offensiva di Trump nella guerra commerciale non sarà una blitzkrieg: sono scontri epici per conquistare fazzoletti di terreno. Grazie ad irritanti tattiche dilatorie, hanno avuto la meglio gli asserragliati difensori cinesi contro i soverchianti assalitori yankee. I dazi sono l’analogo di baionette e mitragliatrici, il filo spinato e i cavalli di Frisia sono controlli doganali sempre più pervasivi ed occhiuti. Ma la carne da cannone (decimata da perdite di 3 miliardi di dollari al mese) sono aziende (nonché i loro dipendenti e clienti) con catene del valore estese su scala mondiale, i cui profitti dipendono dal libero commercio e il cui destino angustia Wall Street. Con i cinesi che potrebbero smettere di accumulare trilioni di debito pubblico americano o venderne una tranche. Ma quest’arma non sarebbe l’analogo del carro armato che sfonda il fronte, bensì l’iprite risospinta verso le proprie linee da impreviste folate di vento. Il prezzo dei Treasury (inclusi quelli rimasti nei portafogli cinesi) andrebbe in picchiata, trascinando il dollaro e rendendo le esportazioni cinesi più care.

Questa Guerra Fredda economica non riguarda poche centinaia di miliardi di deficit commerciale, ma la supremazia nei settori del futuro: l’intelligenza artificiale, il 5G, l’Internet of Things, i droni, le batterie delle auto elettriche, i veicoli a guida autonoma, la space economy, le biotecnologie. Gli Usa considerano la Cina una minaccia esistenziale cresciuta sfruttando subdolamente l’apertura dei mercati globali e le falle giuridiche del Wto. In pratica, in cambio dell’accesso a un mercato emergente più ghiotto e alla manodopera a basso costo, le imprese straniere dovevano investire capitali ingenti, trasferire tecnologia e condividere i profitti in joint venture con un partner cinese. E si è aggiunto l’esproprio proletario di proprietà intellettuale, design e brevetti con la benevola indifferenza (o l’attiva complicità) del vertice comunista. E dove non arrivava la joint venture i cinesi hanno usato lo spionaggio industriale. L’amministrazione Trump intende disarticolare questo sistema e vietare i sussidi statali alle imprese cinesi. Ma le richieste americane implicano uno sconvolgimento della struttura economica e del potere politico in Cina. Inoltre il rispetto di eventuali accordi dovrà essere verificato (e sanzionato) dall’esterno, il che implica qualche cessione di sovranità. Un rospo che Xi Jin Ping e la sua corte rossa non digeriranno facilmente.

Rispetto alle due guerre mondiali salta all’occhio un’anomalia: questa volta è l’America che chiede aiuto all’Europa. Se le imprese occidentali integrassero le loro catene del valore il contenimento dell’ascesa cinese avrebbe maggiori probabilità di successo. Ma ciò implica tempi lunghi: gli europei, pavidi e deboli, temono che durante la transizione le proprie esportazioni verso la Cina diventerebbero come i convogli di navi alleate esposti ai siluri degli U-Boot.

Il Veneto di Basaglia “emargina” i malati

La Regione Veneto, che diede i natali Franco Basaglia, padre della legge 180 che impose la chiusura dei manicomi per evitare l’esclusione sociale delle persone con disturbi psichiatrici, oggi è promotrice del pronto soccorso psichiatrico, varato nelle nuove schede ospedaliere. Ossia un percorso di accoglienza accelerato per l’accesso diretto al reparto di Psichiatria. La malattia mentale diventa quindi un elemento disturbante? A esprimere indignazione è la società italiana di psichiatria (sip), secondo cui il pronto soccorso psichiatrico è un passo indietro della scienza. “Non solo emargina e discrimina chi soffre di disturbi mentali – denuncia Lodovico Cappellari, presidente della sezione veneta della sip -, ma espone anche a rischi clinici. Ogni alterazione del comportamento, per esempio lo stato confusionale durante una crisi di panico, o l’agitazione causata da una colica epatica, un infarto, o di chi è sotto l’effetto della droga, potrebbe essere confusa con una patologia psichiatrica”. Tra l’altro il paziente psichiatrico si rivolge al centro di salute mentale in caso di una crisi. Se ha un attacco di cuore perché non dovrebbe seguire l’iter di visita come gli altri?