Riscatto della laurea low cost: a chi conviene e quanto costa

“Hanno superato quota 7 mila le domande arrivate all’Inps ad aprile per il riscatto della laurea normale e quello low cost, in aumento rispetto alle 5.920 di marzo. Un notevole balzo in avanti quello realizzato da una procedura costosissima che non ha mai riscosso successo. Tanto che nel 2018 la media mensile delle richieste è stata di 2.320. A fare la differenza è il Decretone che, oltre a comprendere il reddito di cittadinanza e Quota 100, prevede anche la possibilità, in via sperimentale fino al 2021, di riscattare gli anni di studio all’università pagando un costo agevolato, senza alcun limite di età.

Il meccanismo è chiaro. Per ogni anno di università frequentato dal 1996 (l’anno in cui è entrato in vigore il sistema previdenziale contributivo), fino a un massimo di 6 anni ed escluso il periodo di fuori corso, il contribuente paga circa 5.240 euro, che si possono portare in detrazione al 100%. Il costo del riscatto agevolato si calcola, infatti, moltiplicando l’aliquota vigente (33%) per il reddito minimo soggetto a imposizione della gestione Inps di artigiani e commercianti (nel 2019 è pari a 15.878), il cui risultato è quindi una spesa di poco superiore ai 5 mila euro. Un versamento che può anche essere rateizzato: i richiedenti possono spalmare il costo su 10 anni, pagando una quota ogni mese (12 pagamenti annuali). Il nuovo regime prevede la possibilità di riscattare tutti gli anni di studio ed è fondamentale che questo arco temporale di tempo non sia coperto da versamenti contributivi. Non può, invece, presentare domanda, chi non ha mai versato contributi all’Inps.

Varia, invece, notevolmente, il costo – molto più alto – del riscatto della laurea nella sua forma tradizionale, perché dipende dall’età del richiedente (più si è “vecchi” più si paga), dal periodo da riscattare, dal numero delle settimane accreditate al momento della domanda di riscatto e dallo stipendio (maggiore è la retribuzione, più elevata è la contribuzione, quindi maggiore sarà la pensione che sarà poi liquidata).

La nuova formula light del riscatto è, in sostanza, un piccolo vantaggio riservato a chi avrà una pensione più magra rispetto alle generazioni precedenti e che, ovviamente, sta avendo più successo tra i dipendenti privati che hanno meno certezze sul proprio futuro lavorativo. Ma va anche sottolineato il colpo di coda registrato negli ultimi mesi dal riscatto normale: ad aprile le domande sono state 3.200, mentre la media mensile dell’anno scorso era stata 1.740. Un incremento spinto dalla necessità di qualche contribuente di raggiungere magari i 38 anni di contributi necessari per sfruttare quota 100, lasciando così il lavoro in anticipo rispetto ai 67 anni necessari. Insomma, grazie alle novità, e ammesso che sussistano tutti i requisiti, sarà possibile andare in pensione prima dei limiti di età anagrafica attualmente previsti. Ma, fatto salvo chi ha bisogno degli anni contributivi per arrivare a quelli richiesti dalla legge per accedere alla pensione di vecchiaia, non sempre conviene riscattare la laurea in modalità low cost. Andiamo a vedere.

Nella versione della misura entrata in vigore a inizio anno, era stato previsto un tetto di 45 anni d’età per poter accedere all’agevolazione, mentre con il Decretone di conversione in legge di fine marzo è stata introdotta la modifica che lo ha eliminato. L’agevolazione quindi è fruibile da parte di richiedenti che non siano già pensionati (in qualsiasi cassa) e solo per i periodi universitari che ricadono sotto il sistema di calcolo pensionistico contributivo (che indicativamente sono gli anni di corso dal 1996, salvo singole casistiche su cui si attende una interpretazione dall’Inps). Ma il punto più controverso è il costo da sostenere. Se con il riscatto agevolato normale si paga di più con il vantaggio che quanto sborsato sarà riconosciuto sulla pensione futura, con quello agevolato si risparmia ma il riscatto è utile solo per aumentare gli anni di contributi. E anche se l’uscita dal mondo del lavoro potrà essere anticipata fino a 5 anni, c’è da scegliere se è meglio utilizzare il tesoretto necessario per il riscatto della laurea da “giovani” o se ipotecarlo per il futuro. Insomma, la scelta è sicuramente soggettiva, ma il dato di fatto rimane: nella maggior parte dei casi, riscattando la laurea si avrà un assegno pensionistico più basso.

Non tutti, però, sembrano essere interessati alla misura. Secondo un’indagine di Facile.it, emerge che quasi il 40% degli aventi diritto intervistati, pari a circa 1,4 milioni di italiani, ha dichiarato di non voler riscattare gli anni di studio per il costo dell’operazione ritenuto elevato (57%), il 21% ritiene che non sia conveniente, mentre l’11% pensa che sia inutile per una pensione che potrebbe non arrivare mai.

Tiziano Terzani, meditazioni di un viaggiatore instancabile

Eravamo insieme da giovani, Tiziano Terzani e io, nella strana azienda di Adriano Olivetti, un po’ realtà e un po’ (sembra oggi) leggenda. E accade adesso, in questi stessi giorni del Salone del libro di Torino, che appaiano insieme il suo libro (“Il pensiero irriducibile”, Edizioni di Comunità) e il mio, sulla fabbrica che (ormai) non c’è. Eravamo insieme anche a New York, entrambi all’inizio di qualcosa. In quel periodo Terzani, tenacemente legato alla voglia di raccontare il mondo, era alla Columbia University (Master in Political Affairs) e studiava il cinese.

Con lui, e la sua giovane moglie Angela, giravamo nelle notti di New York come esploratori di un mondo che ci appariva nuovo e sconosciuto. Ci sono frammenti importanti e preziosi delle avventure e delle scoperte di Tiziano Terzani allora, e di quelle, vastissime, che avrebbe compiuto dopo, nella sua instancabile camminata, fino al suo ultimo “giro di giostra” (cito dal titolo di un suo libro celebre e finale). In questo nuovo piccolo libro, composto da carte attentamente accostate da Angela, Tiziano Terzani si pone il problema della pace, della guerra, della vendetta, della rivolta, del nemico, nei giorni (nei mesi e negli anni) che seguono la tragedia delle Torri gemelle a Manhattan.

Il sentimento forte e condiviso era la rabbia. Una voce alta e implacabile era quella di Oriana Fallaci, amica personale di Terzani, fiorentina orgogliosa e legata alla radice come lui. Da quel momento i due scrittori già noti nel mondo, sono state le voci opposte e molto ascoltate su pace, guerra, vendetta e conflitto di civiltà fra due mondi. Ma in quel momento Terzani aveva già traversato la Cina povera e laica di Mao in cerca di tregua alla rivoluzione, l’India povera e sconvolta nella continua, accanita ricerca di Dio. Aveva visto il fiume di morte in Vietnam e l’arrivo dei Khmer Rossi (lui da solo dopo la fuga dei giornalisti occidentali) in Cambogia. Nella meditazione di Terzani il progetto politico, tecnico, religioso di ricevere morte e di restituire la morte, era già confutato da troppa vita (vita perduta e vita salvata) incontrata nel mondo, per poter partecipare al gioco; come se la morte, nonostante la crudeltà del “nemico” fosse un optional.

Non lo era per Terzani, e per questo la prima parte di questo piccolo libro va al di là del senso e della qualità letteraria. È un punto d’appoggio per cultura e politica. La seconda parte è un dibattito (più con sé stesso che con il collega giornalista che lo intervistava) sulla cittadella dell’industria e degli affari che sorge di quà e di là dallo spazio di morte dove si combattono, quando qualcuno dice con fermezza che è “necessario”, gli scontri fra civiltà di volta in volta incompatibili. Terzani cerca e non trova il riferimento alle persone e alla loro felicità, come se la formazione e la tutela della ricchezza fossero un antidoto alla felicità degli esseri umani e alla loro protezione.

E qui le due meditazioni dell’uomo che aveva viaggiato a lungo senza smettere di osservare e di ricordare, apparentemente finisce. Ma ritornate all’inizio. Viviamo in un tempo e in un luogo che ha bisogno di un respiro profondo.

Cosmopolitismo contro strapaese: “L’uomo metropolitano sta bene?”

Quell’insieme di giornalismo, grande finanza, banche e la politica stessa – insomma, tutto ciò che fa il potere – non sa che l’Italia è fatta di paesi e di spazi ormai vuoti dove vi dilaga la morte. “E i nostri governanti di oggi e di sempre”, dice Franco Arminio, “non l’hanno mai capito”. Non produce emergenza, infatti, “la civiltà della geografia”. E c’è un profondità – ciò che si dilegua dall’intima cittadinanza degli italiani – che va a destinarsi all’estinzione. Ma “l’uomo metropolitano cosmopolita e ben connesso”, si domanda Giovanni Lindo Ferretti, “è proprio così ben messo?”.

Attenzione ché può cambiarvi la vita questo approssimarsi a due voci di questi due magnifici lupi remoti – Arminio, il paesologo di Bisaccia, e Ferretti lo scrivano di Cerreto Alpi – il loro pascolo di parole è infatti pastura aperta all’impensato: è il dialogo dagli Appennini. E attenzione dunque perché il breve libro che è derivato dal loro incontro, L’Italia profonda (Gog edizioni, euro 9), può condurvi alla verità impensata di voi stessi: diventare migliori di certo, e tornare a vivere nella casa dove si è nati.

A due voci – come in una preghiera che s’innesta nel canto per farsi poesia – Arminio, l’uomo del festival “La Luna e i Calanchi” e Ferretti, l’ex rockstar de CCCP Fedeli alla linea si ritrovano stampati fianco a fianco. Impaginati, entrambi – ma è carta che non s’incarta – nel loro ragionare che arriva diritto al senso del sé. A due voci come due aedi compenetrati nella serenata all’Eterno, Arminio e Ferretti celebrano il sentimento del vero: “I bambini che possono guardare il porno e l’horror non possono guardare la nonna morta” ma è proprio quell’accarezzare il freddo della carne a scaldare la vita che procede, e cioè la propria vita, rigenerando la vita degli altri. Un canovaccio – è il racconto di un’esistenza antica, l’Appennino – risolto al modo di una cantata dolcissima tra i pietrischi e le salite ripide dove non si può avere fretta. Frutto di un appuntamento costruito apposta – “un conversare pubblico, un tardo pomeriggio dello scorso inverno a Palazzo dei Piceni in Roma” – il libricino, proprio un breviario di meditazione, è uno scavo tolstojano che nulla concede alla stucchevole retorica sentimentalista del Mulino Bianco.

Un manifesto politico piuttosto, questo è: insegna a tornare, a vivere dove si è nati, in paese. Il paese non è una città mancata – così come il Sud non è un Nord mancato – ma il Genius Loci. E il lì restare e permanervi infine affinché quelle pietre dove ognuno dice della propria solitudine – che è sempre la stessa degli altri – non sia più la terra disabitata, tutta di porte chiuse e spazi vuoti è il benedetto ritrovare le cose prime e quelle ultime: il rifugio di “veglie, doglie, famiglie, fuochi, pertinenze”. Si legge, questo calepino, mordendosi le labbra, tanto commuove: il risuonare di ogni parola sale come un fiotto di sangue in petto. Fa venire in mente la parola Dio, questo libro: l’Inviolato che s’incontra più facilmente sui monti che in pianura. È intriso di sacro in ogni rigo, ed è una guida per viandanti: “La trama dello spazio è fatta di fregi e sfregi, dietro ogni curva può spuntare qualcosa che accende il cuore”. Attenzione, allora, può capitarvi di comprare l’olio e il vino senza guardare il prezzo per dare onore a chi, vivendo nei paesi, fa una grande vita. E attenzione, infine, ché questo libro è stato pubblicato da un editore che difficilmente, il prossimo anno, potrà superare il vaglio del codice etico al Salone del Libro di Torino.

Facce di casta

Bocciati

#JESUISSALVINI’.
È comparsa in rete la prima pagina di “Io sono Matteo Salvini”, il libro di Chiara Giannini, edito da Altaforte, la cui esclusione dal Salone del Libro di Torino tanto ha diviso l’opinione pubblica. Eccone un breve estratto: “I suoi alleati maggiori, spesso e volentieri, sono stati i suoi difetti, quel non avere peli sulla lingua che non sempre paga, ma che avvicina alle persone; quel suo prevaricare, a volte, il pensiero altrui per far emergere la giustizia. Perché d’ingiustizie, nella vita, ne ha subite anche lui, sin da piccolo quando racconta ironicamente che all’asilo gli rubarono il suo pupazzetto di Zorro”. Sono bastate poche righe per dare ai sostenitori della censura nuovi poderosi argomenti che essi stessi non si sarebbero azzardati a sperare. Dopo il drammatico aneddoto del pupazzetto si chiarisce anche la scelta del titolo: #iosonomatteosalvini: di fronte a una simile ingiustizia siamo tutti il Capitano.

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Promossi

I mille usi di Greta.Tutto può essere strumentalizzato: basta essere dotati di molta fantasia ed ecco che qualsiasi idea, persona, concetto possono essere presi in prestito e utilizzati a loro insaputa come soldati di una crociata che con essi non ha nulla a che fare. È quello che è accaduto a Greta Thunberg, la giovanissima paladina dei diritti dell’ambiente, chiamata in causa nientepopodimenoché dal movimento Pro life: l’associazione antiabortista ha affisso a Roma, in via Tiburtina, un manifesto di 250 metri quadri che raffigura un feto di 11 settimane, accompagnato dallo slogan: “Cara Greta se vuoi salvare il pianeta, salviamo i cuccioli d’uomo. #Scelgolavita”. Come dire i cavoli a merenda insomma. Sentendosi indirettamente chiamata in causa, Annalisa Corrado, candidata capolista il 26 Maggio, con Europa Verde, ha sottolineato l’inopportunità della scelta: “Invece di ascoltare fino in fondo il messaggio dirompente di @GretaThunberg (x tutte e tutti), c’è chi lo strumentalizza per violentissime campagne anti-abortiste che giocano a limitare, manco a dirlo, i diritti e le conquiste delle donne. Giù le mani dalla legge #194 e da #Greta”. Chi li vuole i cavoli se li mangi per cena.

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LEGITTIMO CONSIGLIO Paradosso vuole che il miglior testimonial contro la nuova legge sulla legittima difesa sia diventato Fredy Pacini, ovvero il gommista che a Novembre sparò alcuni colpi di fucile uccidendo un uomo che aveva fatto irruzione assieme ad un complice nella sua rivendita di gomme e biciclette. Nel venire a conoscenza della richiesta di archiviazione nei suoi confronti da parte della Procura di Arezzo, Pacini c’ha tenuto comunque a far passare un concetto: “Non riprenderei in mano una pistola anzi, se dovessi dare un consiglio dopo la mia esperienza, direi a tutti di non prendere le armi perché è un vivere nel terrore”. Ecco, mentre viene approvata una legge che si fonda attorno al grave turbamento prima dello sparo, è fondamentale che qualcuno, e in questo caso la persona più titolata a farlo, metta il fuoco sul grave turbamento dopo lo sparo.

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La settimana incom

Bocciati

#meToo#anchebasta. Attacco ad alzo zero contro Alain Delon da parte dell’associazione femminista Women and Hollywood: razzista, omofobo e misogino non deve ricevere la Palma d’Oro alla carriera a Cannes. “Delon è conosciuto per aver affermato pubblicamente che le coppie gay non dovrebbero avere il diritto di avere o adottare bambini e che le donne devono essere trattate con atteggiamento da “macho” e vanno “schiaffeggiate” come fece del resto lui – è scritto nella petizione – suo figlio lo ha persino accusato di violenza domestica. Inoltre, ha dichiarato le sue simpatie verso i movimenti di estrema destra in Francia e il suo interesse a fermare l’immigrazione nel suo paese”. Bene, ma tutto questo che c’entra con le sue doti da attore?

Caffè amaro.
Nell’episodio “The last of the Starks” della serie Game of si è visto in una scena un bicchiere di caffe di Starbucks. Dopo poche ore la svista della produzione è diventata un caso. “Siamo sorpresi che Daenerys non abbia ordinato un Drink del Drago”, ha scritto l’account di Starbucks su Twitter. Ma gli anacoluti storici non si contano nella storia del cinema. In Braveheart sullo sfondo della battaglia finale fa capolino un furgone bianco e William Wallace indossa un kilt, che però è diventato una tradizione scozzese qualche secolo dopo. E che dire della bombola del gas che s’intravede dietro a una delle bighe in una scena del Gladiatore? Starksbuck!

Che dolore la tv.

Il sessantatreenne Steve Dymond si è tolto la vita per non aver potuto convincere la fidanzata che non l’aveva tradita durante il Jeremy Kyle Show , programma della tv britannica. Dopo che la macchina della verità non aveva suffragato la tesi dell’uomo, la coppia si è separata e poi l’uomo disperato si è tolto la vita. La produzione ha deciso di sospendere la messa in onda a tempo indeterminato e anche di rimuovere tutte le puntate precedenti dai canali on demand. Scrive Gianluca Nicoletti sulla Stampa: “Vogliamo dire che è una tv sadica che si crogiola sul voyerismo delle meschinità altrui? Se ci fa sentire migliori diciamolo pure, facciamo crociate moralizzatrici e invochiamo le regole della buona televisione, non dimentichiamo però che una grande parte dell’umanità rischia volentieri di affogare in questa pozza di liquame, pur di essere traghettata oltre la propria invisibile inesistenza”. Tutto vero, ma ci dovrà pur essere un limite, no?

 

Promossi

Ciao Doris.
Se n’è andata a 97 anni Doris Day, fidanzatina d’America e star della commedia romantica degli anni 50 e 60. “Amami o lasciami’”, “Il letto racconta”, “Il visone sulla pelle”, “Amore ritorna!”: una nuvola bionda, piena di grazia.

Giro d’Italia più duro tra chiodi, sabotaggi, botte. E auto killer

“Il Giro d’Italia del 1914 dovrà essere per gli uomini forti”, scrisse la Gazzetta dello Sport, già imbevuta di retorica bellica. La Grande Guerra era alle porte. Il Paese viveva momenti di profonda crisi. Moti di protesta, scioperi, fame. La Gazzetta rischiava di chiudere. Così puntò le sue chances su un Giro inumano, durissimo: solo 8 tappe, ma in media lunghe 400 chilometri. Lungo strade disastrose: polvere, fango, pioggia.
L’idea piacque ai costruttori delle bici. Potevano dimostrare che le loro “macchine a pedali” erano efficienti e robuste, anche in condizioni estreme. La concorrenza fu spietata, non mancarono corridori senza scrupoli pronti a danneggiare i rivali. Ceffoni, chiodi, sabotaggi, tentativi di corruzione. La corsa fu un susseguirsi di intimidazioni e scorrettezze. Qualcuno addirittura volle far fuori il primo della classifica.

Partirono in 81, arrivarono in 8. Una decimazione. Un record significativo. Dominò l’irriducibile Alfonso Calzolari, detto “Fonso la Mort”: “Capace di resistere alle più aspre fatiche”. L’unico bolognese a vincere un Giro. Relegò a quasi due ore (1h 57’26”) il legnanese Pierino Albino. Un abisso. Pure questo record imbattuto. Una vittoria sofferta. Non solo per l’immonda fatica. Ma perché Fonso, la morte la vide in faccia. Accadde il 3 giugno, durante la sesta tappa, da Bari all’Aquila; 428 km, lungo la Salita delle Svolte e nei vortici paurosi della discesa verso Sulmona. Calzolari ricordò così il fattaccio: “Sono in fuga con altri quattro quando arriva un’auto rossa da corsa.

Attaccatevi, grida uno che era sopra. I quattro che erano con me si attaccano, e io grido: vi denuncio! Intanto arriva la macchina della giuria e quelli si staccano. Vado avanti e poco dopo mi vedo venire addosso la macchina rossa che mi stringe contro un muro e mi fa cadere. Mi metto a piangere come un bambino” (cito Paolo Facchinetti, autore di Giro 1914, il più duro di tutti Bradipolibri, 2009). Altri aggiunsero dettagli da complotto: nell’auto rossa gli occupanti avevano barbe e baffi finti.

La giuria escluse Calzolari dal Giro, perché visto al traino dell’auto rossa. Col passare delle ore, però, gli organizzatori si convinsero che c’era del losco. E che l’incidente fosse stato provocato per far fuori il capoclassifica. Chi era stato il mandante? Una squadra rivale? La Stucchi di Calzolari era una outsider, mentre l’Atala e la Bianchi erano le più quotate, con grandi campioni. L’Atala aveva vinto il primo Giro del 1909 con Luigi Ganna, quello del 1910 con Carlo Galetti. La Bianchi con Galetti conquistò il Giro del 1911. L’anno in cui la Bianchi fornì al ministero della Guerra le bici per i reparti dei bersaglieri ciclisti: ben 63 mila pezzi.

Con i venti di guerra, si aspettava un nuovo appalto. Emilio Colombo, su Sport Illustrato, confermò l’agguato. Ripreso dalla famosa vettura, e “replicatamente incitato dagli occupanti con grida di ‘attaccati, attaccati, siamo degli amici, non fare lo sciocco tanto nessuno ti scorge’”, Calzolari prima protestò, poi supplicò “lasciatemi in pace”, indi pianse. A quel punto, “l’auto credeva opportuno insistere e serrarlo contro il parapetto della via montagnosa”. Calzolari cadde. Si rialzò a fatica, imprecò, afferrò il parafango posteriore di sinistra dell’auto per sostenersi e “fece così barcollante una 70 metri circa”. Fu penalizzato per traino, e retrocesso nell’ordine d’arrivo dietro l’ultimo, più un minuto. Perse tre ore. Ne conservò ancora due su Albini. L’attacco fallì. E Fonso la Mort vinse il Giro.

Dal paese con solo nove elettori al candidato che sfida se stesso

La “grande abbuffata” premierà o il sindaco uscente, Bruno Perotto (“Montagna che vive”) o lo sfidante Mauro Carena (“Moncenisio insieme”), già sindaco negli anni ‘90, negli ultimi due mandati primo cittadino a Villa Dora, comune limitrofo, ai cui abitanti ha spedito una lettera dove annunciava la sua rinuncia ad un terzo (possibile, con deroga) mandato. Spirava il vento dell’antipolitica e sai com’è. Incassati gli applausi, dopo l’inchino, si è ricandidato… a Moncenisio.

È corsa a tre a Mendicino (Cosenza), con sguardi e visioni – come dire – opposti. Franco Gervasi guida “Avanti Mendicino”, il sindaco uscente Antonio Palermo punta al bis con “Indietro non si torna”. Poi c’è “Progetto Mendicino”, con Gennaro Carmelo Canonaco candidato, che punta sul populismo (riduzione del 50% delle indennità per sindaco e assessori, pochi spiccioli già ora) e sul nome “civetta” di una candidata: Franca Sinatra (nemmeno parente). Il comune più piccolo che va alle urne è Pedesina (Sondrio), appena 30 abitanti. C’è un solo candidato, Fabio Ruffoni e un avversario ostico: il quorum. Con una sola lista in ballo, infatti, devono votare la metà più uno degli elettori aventi diritto – in questo caso, 16 – altrimenti ci pensa il commissario prefettizio.

Tra sindaco, giunta e consiglieri in lista sono già in 11, deve “portarne” alle urne cinque. Astenersi è dura, quanto camuffarsi. Anche a Torre Pelice (Torino), detta “la Ginevra italiana”, si ripresenta, in splendida solitudine, il sindaco uscente Marco Cogno, con una lista che sembra un suono di flauto: “Spighe tra i monti”. Per lui doppia sfida, convincere i residenti ad andare alle urne, soprattutto chi vive fuori, visto che del 20% degli elettori che vivono all’estero pochissimi, in passato, hanno votato per le comunali.

A Marzabotto, non avendo argomenti su cui divedersi, fa discutere un’iniziativa della lista di destra. Il sindaco del Pd si chiama Romano Franchi e non si ricandida, ma c’è un fac-simile di scheda elettorale che gira per il paese teatro della strage nazifascista: i simboli sono quelli delle liste di destra (Lega, Forza e Fratelli d’Italia) e il nome sulle preferenze è quello: “Romano Franchi”.

Come se, agli occhi di chi abbocca facile, il sindaco si fosse convertito in extremis. In realtà sono solo i cognomi di due candidati consiglieri di destra, Simona Franchi e Filippo Romano. Seguirà, forse, querela. A Cavour uno dei temi dello scontro politico, riguarda la costruzione della piscina, scoperta. A sei anni dal progetto, sono iniziati i lavori. Serve, a Cavour, una piscina scoperta (siamo pur sempre in provincia di Torino)? Secondo l’opposizione no, potendo rimanere aperta al massimo due mesi, e non solo: “Realizzare questo luogo di svago vicino al cimitero, è quantomeno irrispettoso”. Perché?

Cerca una riconferma, Donato Di Salvo, mite impiegato a capo di una lista che richiama scenari iracheni o afghani: “Bomba protagonista”. Dovrà comunque battere l’ex sindaco Raffaele Nasuti, a capo della lista “Bomba prospettiva Comune”. Ovviamente si vota – anche – a Bomba (Chieti). Boom.

Con Fellini la verità è una bugia

“Come nasce un mio film? Beh, per quanto mi riguarda succede che firmo un contratto, prendo un anticipo, poi siccome non lo voglio restituire sono costretto a fare il film”. Federico Fellini è consapevole che l’ironia è un solido rifugio che neutralizza anche i più severi critici. Eppure è sincero, sempre, come può esserlo un bugiardo di genio. È sincero nella sua arte, non mente quando ricrea un mondo tutto di legno e carta nello spazio sacro di uno studio, il suo studio 5 a Cinecittà. Ha appena preso l’Oscar alla carriera, lui che colleziona infiniti premi dalla fine degli anni ‘40, quando scrive per i santoni del neorealismo. Lui che accetta i riconoscimenti con sospetto, e quella scaramanzia che gli fa vedere dietro ogni premio un’intenzione perfida: “Tie’… prendi sta coppa e togliti dalle palle!”. Mi colpisce che l’Oscar coincida con i 50 anni di matrimonio con Giulietta Masina, alla quale dal palco sorride e dice: “… Dear Giulietta, please stop cry!”. Notoriamente parlava meglio romagnolo che inglese. Li rivedo tutti i suoi film e mi sembra che non finiscano mai, si irradiano nel tempo e ogni storia porta a un’altra storia. Come nel finale dei Clown, quando l’Augusto suona la tromba e cammina verso l’uscita. Come il finale di Amarcord: “Viva gli sposi! La nostra Gradisca ci lascia, se ne va perché ha trovato il suo Gary Cooper…”. Come nei Vitelloni, Interlenghi sale sul treno e scappa dalla provincia. In realtà va a vivere un’altra vita, magari quella dello Sceicco bianco di Alberto Sordi, sospeso su un’altalena nella pineta di Fregene con la scimitarra in mano, e la catenina d’oro della comunione al collo. È una serie di vite collegate fra loro, è una storia che non finisce mai perché è la sua storia. Un sipario che si chiude e si riapre all’infinito.

(Ha collaborato Massimiliano Giovanetti)

Parole e lacrime di Alain Delon: “La Palma non è mia, è dei registi”

“Se non avessi incontrato le donne che ho incontrato, sarei morto. Mi hanno amato, hanno voluto che facessi questo mestiere, si sono battute”. Parole e lacrime di Alain Delon, mai premiato a Cannes e finalmente celebrato per sessant’anni di carriera con una Palma d’onore. L’ottantatreenne attore non la considera sua: “Avrei voluto la dessero ai miei registi, io sono stato il primo violino o il pianoforte e ho avuto dei direttori d’orchestra eccezionali. Sono tutti morti, allora la prendo io per loro”. Delon ricorda Brigitte Auber che lo introdusse al cinema, l’esordio nel ’57 con Godot, il trionfo con Delitto in pieno sole di René Clément, Rocco e i suoi fratelli di Visconti – e ripensando alla compagna di set Annie Girardot si commuove – il venerato Jean-Pierre Melville e lo snobismo patito dalla Nouvelle Vague. Tenute lontane le polemiche della vigilia, allorché alcune associazioni femministe avevano chiesto la revoca della Palma al Delon “razzista, omofobo e misogino”. In Concorso, delude A Hidden Life, sul contadino austriaco Franz Jägerstätter che si rifiutò di giurare fedeltà a Hitler e venne giustiziato il 9 agosto del 1943 a Berlino: piatto e bucolico, Terrence Malick non ne onora la scandalosa obiezione di coscienza. Da Palma, al contrario, Portrait de la jeune fille en feu della francese Céline Sciamma, che su un’isoletta della Bretagna alla fine del Settecento circoscrive con stile e ideologia l’amore proibito tra una pittrice e la promessa sposa che deve ritrarre.