L’ultimo coup de théâtre di Patanè, morto mentre dirigeva il “Barbiere”

Metà degli anni Ottanta. Il direttore d’orchestra Giuseppe Patanè provava a Roma l’Eroica di Beethoven con un’orchestra inglese. Non l’avevano mai visto. Ricordo dietro la britannica imperturbabilità professionale un’espressione di disprezzo. Il disprezzo aumentò quando il Maestro, senza partitura né leggio, eseguì l’intera Sinfonia non fermandosi nemmeno una volta. Italiano fannullone, si leggeva nelle loro facce. Dopo l’ultimo accordo, immaginavano di essere messi in libertà. Patanè fece uno di quei sorrisi napoletani che gli erano proprî: “And now, we begin the work!”. Incominciò, a memoria, a richiamare ogni singolo errore o di tutti o di ogni singolo strumento. Citava a memoria il numero di pagina, il numero di battuta, la lettera indicante la sezione. Ma non della partitura del direttore: delle singole parti di ogni strumento: che hanno una numerazione diversa. La prova successiva andò malissimo: erano paralizzati dal terrore. Disse loro: “Adesso basta provare, ci vediamo domani sera al concerto.” Fu un’Eroica come ne ho ascoltate poche.

La morte di Patanè sul podio del Nationaltheater di Monaco di Baviera avvenne trent’anni fa, il 29 maggio 1989. Aveva solo cinquantasette anni. Altri Maestri l’avevano preceduto in questa fine da soldato: Joseph Keilberth, il più grande wagneriano del secolo, sullo stesso podio durante il II atto del Tristan und Isolde; Hermann Scherchen, durante un pezzo di Malipiero – ognuno ha la morte che si merita; e Dimitri Mitropoulos, mentre provava alla Scala la Terza Sinfonia di Mahler, l’Autore del quale è stato il più grande interprete in assoluto. Patanè cadde durante Il barbiere di Siviglia: morte atta a un uomo ironico, instancabile coniatore di battute. Era uno dei miei amici del cuore: il dolore che ne provai è stato fra i grandi della mia vita: la perdita di mia madre, di Dino Ciani, del mio Maestro Vincenzo Vitale, del Maestro Siciliani, di Franco Mannino, del mio bassotto Ochs: e di “Pippo”.

Nella sua carriera era stato fottuto dalla troppa bravura. Conosceva a memoria, e a memoria poteva concertare allo stesso modo che ho descritto, 120 Opere liriche, ossia l’intero repertorio; oltre tutta la letteratura sinfonica. Mozart, Rossini, Donizetti, Wagner, Verdi, Saint-Saëns, Musorgskij, Ciaikovskij, Sciostakovic, Puccini… Al pianoforte, da Beethoven a Liszt a Chopin, eseguiva qualsiasi pezzo: e suonava da padreterno. Lo presero per un facilone. “Dicono che provo poco!”, mi raccontò. “Ma ci sono cose che già so che otterrò col gesto, altre che, con quest’orchestra, non otterrò mai!”.

Il suo gesto. Circolare, sintetico, inimitabile. Era impossibile non esser trascinati dal suo magnetismo. Conosceva ogni dettaglio della tradizione, i cantanti, quando c’era lui, si sentivano sicuri come con alcun altro. Nella villa di Dumenza, l’unico patrimonio restatogli dopo una vita scialacquata dietro troppe donne che lo spennarono, possedeva una delle più belle e ampie biblioteche musicali che abbia viste. Aveva calcato tutti i podî del mondo: ma non era considerato rispetto al suo profondo valore: piuttosto, il più brillante dei direttori di routine.

Negli ultimi due anni le cose incominciarono a cambiare. Siciliani gli spiegò chi era e gli disse che se si fosse impegnato, riducendo l’eccessivo numero delle recite operistiche anche con modesti cantanti, gli avrebbe costruito la figura artistica che gli spettava. Un concerto con Mendelssohn e Brahms a Santa Cecilia suggellò il nuovo corso. Gridarono al miracolo. La sua morte fu pianta da tutto il mondo musicale, tanto era amato. Fu la più grande fortuna per Abbado e Muti, allo stesso modo che quella di Dino Ciani fu la più grande fortuna di Pollini.

 

Anche il rivale Tarantino plaude Yinan: la Cina è vicina alla Palma

Palma d’Oro, abbiamo il primo serio candidato, a tal punto da meritarsi uno spettatore d’eccezione: Quentin Tarantino. Il regista ha forse dimenticato per un attimo di concorrere egli stesso a Cannes 72 con Once Upon a Time in Hollywood, e da insaziabile voyeur qual è ha preso posto tra i comuni mortali al Grand Théâtre Lumière per assistere alla première di The Wild Goose Lake del cinese Diao Yinan. Onore al merito cinefilo.

Passati nove dei ventuno titoli, tra cui Il traditore di Marco Bellocchio, del Concorso, il dire-fare-baciare-lettera-testamento di Pedro Almodóvar Dolor y gloria deve spartirsi i favori della critica con il quinto lungometraggio del cinese classe 1969. Dal penultimo Fuochi d’artificio in pieno giorno (Black Coal, Thin Ice, Orso d’Oro a Berlino nel 2014), vengono gli attori Gwei Lun mei e Liao Fan, cui si affianca Hu Ge, star televisiva e inedito protagonista sul grande schermo: ha una faccia d’angelo, e come tradizione impone Diao l’ha voluto per incarnare un gangster, a capo di una banda di ladri di motociclette. Ferito dalla gang rivale, uccide un poliziotto e attira su di sé una caccia all’uomo imponente: riparato in una zona lacustre, vorrebbe farsi raggiungere dalla moglie, ma sarà una prostituta (Lun-Mei Kwei) a occuparsi di lui. Vendere cara la pelle – letteralmente – e se possibile redimersi, questo l’obiettivo, ma i tradimenti si sprecano, le vendette si incrociano, la giustizia reclama: Diao ha scelto le oche selvagge del titolo quale simbolo di libertà e possibilità, dato che sanno sia volare che nuotare, e sarà anche la peiyongnv (prostituta che esercita sull’acqua) a farsene carico. The Wild Goose Lake, per dare un’idea, è come un film di Jia Zhangke (Still Life, I figli del fiume giallo in sala), ma girato meglio, con più stile, più fascino: nell’alveo del gangster-movie contemporaneo, Diao travasa tanta storia del cinema, da M – Il mostro di Düsseldorf di Fritz Lang a Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, ogni inquadratura sa di antico e nuovo insieme, è colta e personalissima. Ci sono soluzioni magistrali, quali gli animali che fanno da contrappunto a una sparatoria allo zoo, l’incontro sessuale tra questo bullo gentile e la disarmante peiyongnv, l’esecuzione con l’ombrello, e non da meno è il retroterra socio-politico-economico della Cina oggi che senza precetti né preconcetti Diao rivela. Non ne avrebbe alcun bisogno, ma fronte Palma anche strategicamente The Wild Goose Lake è messo bene: le donne vi fanno bella e migliore figura; la Cina è sempre più importante nel cinema globale, e vanta una sola vittoria a Cannes, peraltro dimezzata: Addio mia concubina di Chen Kaige, ex-aequo nel 1993; dovrebbe essere pane fragrante per i denti del presidente di giuria Alejandro González Iñárritu.

Assai meno entusiasmante è La Gomera, prima volta in Concorso di Corneliu Porumboiu: sfruttando con intenti criminali la lingua fischiata (El Silbo) sull’omonima isola delle Canarie, il regista romeno molla l’abituale realismo (Politist, adjectiv) e attorno a un poliziotto ambiguo ordisce una trama di doppigiochi, inganni, femme fatale e materassi imbottiti di soldi. L’intenzione metalinguistica è smaccata, la tensione poetica lasca: al più, un esercizio di stile, la versione europea d’autore del recente, hollywoodiano e tristo 7 sconosciuti a El Royale.

Doppia cittadinanza creativa sventolano Monica Bellucci, nel cast di Les Plus Belles Années d’une vie, il seguito di Un uomo, una donna di Claude Lelouch: “Oggi c’è un tabù sociale sull’amore degli anziani”, nonché Nicolas Winding Refn. Fuori concorso con due dei dieci episodi della sua prima serie, Too Old To Die Young, disponibile su Amazon Prime dal 14 giugno, il regista danese trapiantato a Los Angeles ne fa un vanto: “È un film di 13 ore in streaming, il futuro è lo streaming: fosse vivo, la penserebbe così anche mio suocero Fritz Lang”.

@fpontiggia1

“Con Salvatores e gli altri quando si girava sembrava come una gita scolastica”

Arriva in anticipo e quasi si scusa, poi si siede a un tavolino del foyer del Quirino di Roma, dove è in scena, e dopo appena cinque minuti estrae dal pacchetto una sigaretta. Non l’accende. Ci gioca con le mani per stemperare una nota di disagio (“mi sento sempre in discussione”) e non si appella mai a una pausa per una salvifica boccata di nicotina. Aspetta. Passano tre quarti d’ora, una fan lo riconosce, chiede un autografo vecchio stile, oramai solo selfie, e Gigio Alberti è misurato pure rispetto alla firma: piccola, anzi piccolissima, grafia asciutta, e di lato alla locandina pubblicitaria del suo Regalo di Natale. “La verità è che sono un attore per caso, oggi è la mia vita, il mio mondo, eppure ho iniziato tardi e neanche ci pensavo”.

Capelli bianchi racchiusi in una cipolla, barba lunga, non curata, maglione a pelle, sorriso vero, sembra un ragazzo nel ruolo di un adulto; uno in grado di stupirsi, più di voler stupire.

“Ma davvero l’intervista è su due pagine?”.

Sì.

Non credo di valerle.

È preoccupato?

Quando mi rileggo ogni volta penso: “Ma le ho dette io queste frasi?”.

Frainteso.

No, il problema è che penso una cosa, nel frattempo ne associo una differente, e poi quando ne dici una ne escludi un’altra.

Dubbi.

Sono così, in tutto.

Diego Abatantuono sostiene che nella sua vita non ha mai litigato.

Che stronzo (è immediato, d’istinto, con il mezzo sorriso).

Perché?

È vero. Anche l’altro ieri Filippo Dini (in compagnia con lui) mi ha chiesto stupito, come se guardasse uno zombie: “Non discuti mai con nessuno?”.

Risposta.

Litigare per me è un sacrificio umano, per riuscirci devono portarmi all’esasperazione, e quando sono lì lì per sbottare penso che anche l’altro ha le sue ragioni solo che in quel momento non le vedo.

Atteggiamento innato o dato dall’esperienza?

Eh magari, mica sono contento; non incazzarsi vuol dire non buttare fuori nulla, non alleggerirsi, mentre io mi tengo tutto dentro, e ogni volta sono costretto a digerire il mio fiele. (Ci pensa, alla fine si illumina). Però in alcuni, rari casi, ci sono riuscito.

E…

Grande soddisfazione, e dopo ho pensato: “Lo vedi che scemo scemo non lo sei? Alla fine ci riesci!”

Però “che stronzo”.

Ne soffro, davvero.

Uno schiaffo, mai?

Non credo, ho solo avvertito la forte sensazione, ma niente atto pratico.

Neanche nella sua Milano di fine anni Settanta?

Lì sono capitato in mezzo a risse politiche, e ne prendevo un po’, poi cercavo di darle, il problema è che prima ne riscuotevo comunque una fracassa.

È pure molto alto, la si nota.

La mia arte è sempre stata quella di sgattaiolare, mai stato uno da prima fila. Mi aggregavo.

Politicamente impegnato.

Anche lì, in seconda fila: mi occupavo dei volantini, il ciclostile, andavo a prendere la carta dal magazzino; non l’uomo che si alza in assemblea ed esalta la folla.

Però rimorchiava.

Neanche!

Paolo Rossi racconta spesso del debutto teatrale “con il mio vecchio amico Gigio”.

È più vecchio lui.

Però avete iniziato insieme.

Senza guadagnare nulla; lui era il motore e portavamo in scena poesie di Prévert riscritte da Paolo stesso; intorno a noi un gruppo di persone variopinto: definirci compagnia oggi può sembrare blasfemo.

Addirittura?

Al nostro fianco un amico di Paolo, uno psichiatra, si offrì di risolvere il cruccio della vendita dei biglietti: “Ho uno dei miei ragazzi disponibili, ci pensa lui, li porta tra gli studenti delle superiori”.

Perfetto.

Dopo qualche giorno questo tipo scompare, non era mai entrato in un liceo, non aveva piazzato neanche un biglietto; tempo dopo confessò: “Mi vergognavo troppo”.

Flop.

Ci siamo arrangiati con amici e parenti.

Di cosa viveva?

Ancora a casa con i miei, più alcuni lavoretti, come controllare i prezzi dentro i supermercati.

Dentro di lei un sogno d’attore.

Non me ne fregava niente.

Chi voleva diventare?

Mica lo sapevo, non avevo le idee chiare, e neanche da studente: in tre mesi avevo traslocato dalla facoltà di Agraria a quella di Lettere.

Apatico.

Fino a quando sono passato in Corso Ventidue Marzo a Milano, e ho visto il manifesto di una scuola di mimo: “Bah, proviamoci”, penso. Lì ho incontrato Paolo Rossi.

Paolo Rossi allora.

Divertente, uno che ti coinvolgeva; insieme eravamo l’articolo “Il”, io più alto della media, lui più basso della media.

Fisionomicamente divertenti.

Un paio di spettacoli insieme, ma non ero estroverso, prima di salire sul palco mi riempivo di whisky in quantità industriali, fino a non capire neanche dov’ero.

Ogni volta il whisky?

Sono andato avanti così per diversi anni.

Si è mai preoccupato?

Io no, forse gli altri; lo reggevo bene, il problema era quando andavo in scena tutti i giorni: la sera spettacolo, poi tornavo a casa stordito come pochi; mi riprendevo e alle cinque del pomeriggio arrivava l’altra botta per tornare in scena.

Giusto perché era giovane.

Questa pratica è terminata nel momento in cui mi hanno coinvolto in uno spettacolo molto lungo, dovevo parlare tantissimo e stare in scena altrettanto: il whisky non era più praticabile, dovevo cercare un altro escamotage.

Una canna.

No, quelle le uso solo per studiare.

Ancora oggi?

A volte mi serve, mi aiutano a concentrarmi, vedo meglio i particolari della scena, ci entro più facilmente.

Insomma, quando le è entrato dentro il teatro?

Un giorno Paolo mi dice: “Andiamo alla Paolo Grassi, c’è una scuola di mimo gratis e senza selezione”. E io: “Mi sembra strano, fa parte del Piccolo”. “Tranquillo”. Ovviamente era una delle sue fregature.

Ovviamente.

La selezione c’era, e lui da bravo improvvisatore c’è riuscito. Io zero. Cacciato.

Però…

Quando ho un osso in bocca non lo mollo facilmente, e questo è un bene e un male, perché rischi di buttare via molto tempo e per nulla; l’anno dopo ci ho riprovato.

Ed è andata…

Sì, ma nella mia testa l’obiettivo era diventare un mimo non un attore; volevo evitare il teatro borghese, di parola, mi annoiava, preferivo l’interpretazione fisica.

Il lei di allora come giudicherebbe il lei di oggi?

Me lo domando, e non lo so; a volte ho il dubbio di essere finito dentro ciò che odiavo, ma credo di no, perché non ho mai portato in scena dei classici, mi fanno un po’ paura (dopo un decaffeinato, e con la sigaretta sempre in mano, inizia a sfogare l’ansia sulle patatine fritte).

I suoi cosa le dicevano?

Per fortuna niente, sono dei santi; però non erano felici, sicuro pensavano “ma dove va questo? Non è il tipo, che cazzo si è messo in testa?”. Poi, all’arrivo dei primi risultati, si sono un po’ tranquillizzati, ma quello del teatro resta un lavoro precario.

Meglio il cinema.

Per le mie insicurezze ho bisogno di riscontri immediati, di conferme, e possono arrivare solo dal palco.

Come si giudica da attore?

Uno bravo, utile agli spettacoli. E per fortuna spesso ho lavorato con gli amici.

Secondo Salvatores il film “Marrakech Express” ha creato un gruppo.

Perché è stato girato in sequenza, tutto il tempo insieme, più di un mese vissuto come una gita scolastica, con le classiche dinamiche d’insieme, discussioni, incroci, chi sta con chi, chi evita chi, chi ricompone. Microcosmi. E al momento dei saluti scatta la malinconia, torni a casa e sei solo; la solitudine è una brutta compagna.

Non si è mai sposato.

Se tornassi indietro forse cercherei di vivere certe situazioni con maggiore serietà.

È considerato un sex symbol.

Questa è una sòla che ogni tanto mi tirano: non ci ho mai creduto né mi ci sono mai sentito.

Mai.

Dipende dall’infanzia che hai vissuto: la mia è stata da rospo, e quella mi è rimasta attaccata.

Non le sono saltate addosso.

Ogni tanto sento: “Sei stato l’uomo dei miei sogni!”. E io: “Potevi dirmelo”. Sì, quel ruolo proprio non lo riconosco. Peccato.

“Casa c’è di bello nel crescere?”, lo ha dichiarato dieci anni fa.

Continuo a pensarlo. In realtà, pian pianino, certe ansie si sono smussate, come le inquietudini, quindi qualche aspetto positivo c’è.

Gioca ancora a pallone?

Mi piacerebbe, guardo i campi con l’occhio di chi ha in mano la fotografia di un vecchio amore. Durante le riprese di Mediterraneo la partitella era una costante, ma anche nei primi spettacoli teatrali con Antonio Catania, Claudio Bisio, Silvio Orlando, Gianni Palladino, Bebo Storti, Renato Sarti…

Una formazione.

In giro con un pulmino, attraversavamo i paesi, e quando vedevamo un campo di calcio inchiodavamo e scattava la sfida.

Il più scarso?

Silvio Orlando; almeno in quello non era un granché.

Claudio Bisio.

Non un grande giocatore, però ha una tigna incredibile, arriva a tutto: se gli dai un pezzo di legno, può diventare falegname.

Non molla.

È la sua forza, non si arrende a nulla; all’inizio faceva ridere per esasperazione, e ancora oggi utilizza lo stesso meccanismo.

Lo spieghi.

Dice una cosa, e magari non funziona, e allora va sopra con un’altra più forte, e non funziona ancora, così raddoppia, triplica, fino a quando uno non cede, si arrende, e ride.

Tra Bisio e Abatantuono sarà stata una lotta.

Diego è più secco, ha la battuta tagliente, Claudio è una ruota che gira in continuazione.

Lei e il cabaret…

Ci ho provato e per cinque volte: un disastro. Iniziavo con la gente che rideva, finivo che erano semi afflosciati sulle poltrone.

Cosa non ha funzionato?

In quei momenti il pubblico te lo devi mangiare, e non ho mai avuto una tale aggressività.

Lei è famoso ma non famosissimo.

Sì, non sono una rockstar, ma va bene così, se devo scegliere un ruolo preferisco quello di Richelieu, manovrare da dietro, esserci, senza apparire troppo; per essere un frontman è necessario un grado di sfrontatezza che non mi appartiene; sono troppo ondivago.

Quindi non le interessa un ruolo da protagonista nel cinema?

Quello sì, mi sarebbe piaciuto, ma non so come avrei affrontato la tensione. (Ci ripensa). Non sono maturato completamente, magari ci arrivo.

Quando non lavora, cosa fa?

Me lo domando anche io; ogni volta che riprendo in mano un copione, penso: “Ho passato tre mesi senza fare niente”. Davvero, non lo so, e ci casco sempre.

Un suo mito da ragazzo.

Eh, complicato.

Uno.

Da grande avevo Sonia Braga, era l’epoca da militare.

Militare?

Solo al mattino, sono riuscito a passare per pazzo, e imboscato all’ospedale militare: traducevo articoli sulla droga.

Qualcuno volò sul nido…

Per risultare credibile mi sono rasato i capelli a zero, preso ogni tipo di pasticca per ottenere il tremore giusto e ripetevo: “Non ce la faccio, non ce la faccio, non ce la faccio”.

Credibile.

Ero talmente entrato nella parte da intenerire un ragazzo di Caltanissetta, mi diceva: “Dai Gigggio, vieni a mangiare qualcosa”. Mi sentivo quasi in colpa.

Definizione di Gigio Alberti.

Un osso.

Perché?

È un nucleo, e resistente.

Twitter: @A_Ferrucci

“Abbiamo subito un torto, ma sarò sindaco di Istanbul”

Lungo Istiklal ciaddesi, l’arteria più lunga e frequentata di Istanbul, sulla sponda europea, i sostenitori di Ekrem Imamoglu hanno ripreso a manifestare a favore della sua rielezione a sindaco di Istanbul. La maggior parte di loro spera, ma non crede, che il prossimo 23 giugno il politico cinquantenne – in passato sindaco di una delle circoscrizioni in cui è suddivisa la megalopoli turca – del partito repubblicano laico CHP potrà sedersi nuovamente sulla poltrona di primo cittadino. Lo aveva potuto fare per soli 20 giorni, dal 17 aprile, giorno di inizio del mandato, al 6 maggio. Dopo vari ricorsi dell’Akp, il partito della Giustizia e Sviluppo di ispirazione islamica (fondato e guidato dal presidente della Repubblica Recep Tayyip Erdogan) presso l’authority per le Elezioni, Imamoglu è stato infatti costretto a rimettere il mandato. In questa intervista al Fatto, Imamoglu non nasconde l’amarezza ma è convinto che saranno gli elettori a riparare il torto subito.

“La decisione della Commissione è stata un danno enorme per la democrazia e come tale è stato percepito, e il nostro Paese è stato sminuito agli occhi del mondo. Ora sarà la coscienza sociale degli elettori a determinare il risultato”. Imamoglu è pronto sfidare ancora il suo rivale, il fedelissimo di Erdogan, Binali Yildirim.

“Considerando quello che è successo sono proprio curioso di sentire cosa dirà ai suoi elettori, perché io ne ho molte di cose da dire. Vedremo chi di noi due avrà ragione. Mai era stata annullata un’elezione nella Turchia contemporanea, mai si era assistito a un simile atto di disprezzo contro i cittadini”. Questa mossa senza precedenti ha fatto diventare Imamoglu l’anti Erdogan , considerato anche che l’attuale Capo dello Stato aveva iniziato la propria ascesa al potere 25 anni fa, proprio in veste di sindaco di Istanbul.

“Il mio avversario non è il presidente Erdogan – sorride Imamoglu – cui chiedo di partecipare a quanto sta accadendo onorando il proprio ruolo”. L’interminabile spoglio della notte del 31 marzo aveva sancito la vittoria di Ekrem Imamoglu per 24 mila voti. Differenza poi ridottasi a 13.729 in seguito al controllo delle schede nulle.

“Avrei voluto vincere con un margine più ampio, ma ho pur sempre vinto. Certo che è curioso che addirittura la sera del 31 marzo il candidato Akp Binali Yildirim avesse annunciato di aver vinto di 3.800 voti, una messinscena, un bluff. Pensavano che non avessimo anche noi i conteggi: se davvero non li avessimo avuti l’Akp avrebbe ufficializzato quei dati”. Laico ma proveniente da una famiglia di musulmani osservanti (la madre velata in questi giorni compare spesso accanto al figlio mentre si recano a pregare) ci tiene a ricordare la campagna elettorale del tutto sbilanciata a favore di Yildirim.

“I media turchi hanno effettuato una sorta di embargo nei miei confronti e la campagna elettorale tutto è stata meno che giusta e leale. Tuttavia è stata l’occasione di fare un confronto con gli elettori porta a porta, scendendo in strada, incontrando la gente. Non avevo altra scelta, anche perché il mio rivale è stato invitato sui canali nazionali 10 volte, io appena 2. Una situazione impari”. Imamoglu inoltre sottolinea che “L’Akp ha utilizzato risorse pubbliche e funzionari statali a sostegno del mio rivale in tutto il percorso che ha portato alle elezioni. Un atteggiamento che non si può certamente definire giusto, ma nonostante il quale siamo riusciti a raggiungere comunque la gente e vincere”.

Secondo Imamoglu la gente lo ha eletto “perché ha capito che avrei voltato pagina, agito per la serenità dei cittadini di Istanbul e per far fronte alla crisi economica. Le pressioni politiche hanno fatto sì che le istituzioni e l’Ysk operassero in maniera irresponsabile, fornendo al Paese un pessimo esempio che la Turchia non meritava. Tuttavia siamo aumentati, siamo diventati più convinti e più forti. Vinceremo di nuovo perché abbiamo un’idea chiara di ciò che vogliamo e di cosa sia la democrazia”. Imamoglu è anche un europeista convinto e spera che la Turchia un giorno potrà farne parte. “Il nostro partito fu fondato da Mustafa Kemal Ataturk (fondatore della repubblica, ndr) e siamo legati ai suoi valori, che sono in buona parte gli stessi dell’Ue”.

Un Brasile calibro 9. “L’Ufficio del crimine” imbarazza i Bolsonaro

Tutto faceva pensare che il presidente Jair Bolsonaro fosse riuscito ad arginare le attenzioni della magistratura brasiliana impegnata a scandagliare le attività e i legami non solo della famiglia del capo dello Stato, ma anche del suo governo d’estrema destra. Poi, la Ventisettesima Corte Penale di Rio ha colpito nuovamente il clan dell’ex capitano d’origine italiana, autorizzando indagini bancarie su Flavio Bolsonaro, 37 anni, il primogenito dei tre figli in politica del presidente; sarebbe coinvolto nell’inchiesta sulle milizie paramilitari attive nella capitale carioca. La magistratura ha autorizzato gli accertamenti sui conti di Flavio Bolsonaro dopo che il Coaf, l’organismo che controlla le operazioni finanziarie, ha notato bonifici irregolari sui conti del senatore e di un assessore, Fabricio Queiroz, amico intimo del presidente sin dal 1980. Al setaccio vengono passate le operazioni bancarie avvenute negli ultimi dieci anni, anche sui conti della moglie di Flavio, Fernanda Bolsonaro e della loro impresa, la Bolsotini Chocolates e Café Ltda. Stessa sorte stanno subendo le due figlie di Queiroz, Nathalia ed Evelyn e la sposa dell’ex assessore di Bolsonaro, Marcia. Gli investigatori stanno svolgendo accertamenti anche sulla movimentazione bancaria di 88 ex funzionari di gabinetto del senatore, suoi parenti e imprese a loro legate.

Tra le società indagate, ci sarebbero secondo il portale g1.Globo, anche le nordamericane Realest e Linear Enterprises, i cui proprietari, Glenn Howard Dillard, Paul Daniel Maitino e Charles Anthony Eldering, operano nel ramo immobiliare nel centro di Rio de Janeiro e nel quartiere di Andaraì, dove, secondo il giornale la Folha de São Paulo, domina una frangia miliziana legata a un amico di Queiroz. Tra i bonifici sospetti, ce ne sono alcuni inviati a Michelle Bolsonaro, la moglie del presidente. Le tracce bancarie hanno condotto gli investigatori anche a Danielle Nobrega e Raimunda Magalhães, la sorella e la madre dell’ex capitano del Batalhão de Operações Policiais Especiais, Adriano Magalhães da Nobrega, il boss di una potente milizia. Madre e figlia erano nella busta paga di Bolsonaro figlio, come collaboratrici per il suo lavoro parlamentare. Nobrega è ricercato: ha comandato per oltre un decennio il gruppo paramilitare della favela di Rio das Pedras, la roccaforte dei miliziani che controllano ormai il 65 per cento della città di Rio de Janeiro. Secondo la magistratura, l’ex militare è indicato anche come personaggio di spicco del cosiddetto Escritorio do crime – “L’Ufficio del crimine” – una sanguinaria organizzazione di sicari formata da militari, poliziotti in attiva e in pensione che si sono resi responsabili negli ultimi 17 anni di numerosi omicidi, in particolare levando di mezzo chi cercava di capire le connessioni fra il tenebroso universo dei miliziani e gli uffici pubblici. È da Rio das Pedras che sono partiti Ronnie Lessa e Elcio Queiroz, entrambi arrestati e indicati dagli investigatori come esecutori materiali dell’assassinio dell’attivista dei diritti umani e consigliere comunale del Psol, Marielle Franco, uccisa nel 2018 assieme all’autista Anderson Barbosa. Noto killer di Rio de Janeiro, Lessa, ancora militare, perse una gamba nel 2008, quando la sua auto saltò in aria a causa di un attentato. Durante una perquisizione, nel suo appartamento sono stati trovati 117 fucili. Il suo arresto è avvenuto a pochi metri dalla casa di Jair Bolsonaro: il sicario che è accusato di aver sparato i colpi che hanno ucciso Marielle e il suo autista era in sostanza vicino di casa del presidente, giacché abitava nello stesso condominio di lusso Vivendas da Barra nel quartiere di Barra da Tijuca, non distante da Rio das Pedras. Jair Bolsonaro sostiene di non avere mai conosciuto Lessa, anche se Giniton Lages, uno dei funzionari responsabili delle indagini sull’esecuzione di Marielle, secondo il giornale Valor, ha ammesso che la figlia del killer è stata persino la fidanzata di Renan Bolsonaro, il figlio minore del presidente. Indicato come l’autista dell’auto usata dai killer per assassinare Marielle, Queiroz è stato espulso dalla polizia militare nel 2016 per legami con milizie ed era stato arrestato in un’inchiesta di contrabbando d’armi e mafie che curano il racket delle slot machine.

Subito dopo il suo arresto, una foto, in cui compare con il presidente abbracciato, è stata pubblicata sul web. L’immagine ha imbarazzato e preoccupato non solo il clan Bolsonaro, ma anche i rappresentante delle Forze Armate che formano il governo brasiliano. La relazione tra militari e il presidente Bolsonaro vive oggi un momento non certo felice. Il malcontento politico e sociale si diffonde nella popolazione, insoddisfatta per i tagli all’educazione, la salute e una riforma previdenziale che minaccia di colpire la classe lavoratrice che conta già 14 milioni di disoccupati. Il malessere è palpabile nell’aria a Brasilia, anche tra i fedeli alleati del presidente e incluso nel suo stesso partito: il Psl si associa al disagio della classe produttiva e industriale, estremamente preoccupata per la cronica stagnazione economica del paese.

D’Antona ucciso 20 anni fa “Cerchiamo ancora due br”

Ci sono almeno due neobrigatisti, presumibilmente romani, che la polizia cerca da vent’anni. “O forse – ragiona una fonte dell’Antiterrorismo – erano tra quelli arrestati e poi assolti. Due sigle dell’archivio brigatista, ‘Do’ e ‘Lo’, non sono mai state attribuite con certezza. E la pistola che uccise D’Antona e Biagi non è mai stata ritrovata”.

Era 20 anni fa, il ritorno di un incubo a oltre un decennio dall’assassinio di Roberto Ruffilli, il politologo dc che si occupava delle riforme istituzionali ucciso nel 1988 a Forlì. Il 20 maggio 1999 il professor Massimo D’Antona, 51 anni, una moglie e una figlia, esce di casa a piedi. In via Salaria a Roma un uomo e una donna sbucano da un furgone parcheggiato. Mario Galesi, 32 anni, gli spara nove colpi. L’ultimo al cuore quando D’Antona, giuslavorista di area Cgil e consulente del ministro del Lavoro dell’epoca Antonio Bassolino (allora Pds), quando a Palazzo Chigi c’era Massimo D’Alema, è già a terra. Poco dopo la rivendicazione con la stella a cinque punte delle Brigate rosse-Partito comunista combattente e 28 pagine di faticosa lettura, non più contro il “Sim”, lo “Stato imperialista delle multinazionali”, ma contro la “Bi”, la “borghesia imperialista” di cui Pds e sindacato confederale erano “complici”, il trattato di Maastricht, i tagli alle pensioni del governo Dini, le riforme del mercato del lavoro, le leggi antisciopero e le “politiche dei redditi” che colpivano “la classe” lavoratrice in quegli anni di corsa alla moneta unica. D’Antona peraltro si era occupato soprattutto della privatizzazione del pubblico impiego, nulla di così nefasto. D’Antona come Ruffilli e prima l’economista Ezio Tarantelli: l’idea delirante di uccidere i professori/consulenti per “disarticolare” le politiche a cui volevano opporsi.

Cinque anni dopo li presero. Non prima che uccidessero Marco Biagi, giuslavorista come D’Antona, esperto dei contratti di lavoro “atipici”, lasciato senza scorta dal Viminale di Claudio Scajola e Gianni De Gennaro e freddato a Bologna il 19 marzo 2002. Cadde anche il sovrintendente della Polfer Emanuele Petri, nel marzo 2003 vicino ad Arezzo, sul treno su cui viaggiavano i due capi brigatisti, Galesi e Nadia Desdemona Lioce. Galesi sparò a Petri, Lioce non ci riuscì, un collega di Petri uccise Galesi. La polizia sequestrò due computer palmari con l’archivio maniacale delle nuove Br. La descrizione di attività e “processi” interni con le sigle che indicavano i militanti.

La Digos di Roma, guidata dall’attuale capo della polizia Franco Gabrielli con il quale lavorava l’attuale capo dell’Antiterrorismo Lamberto Giannini, scoprì che le Br comunicavano chiamando dalle cabine cellulari “dedicati”. Usavano le stesse schede per chiamare familiari e amici, così furono individuati. Due nuclei, quello romano attorno a Galesi, ragazzi per lo più cresciuti al centro sociale Blitz e alla Sapienza e quello toscano della Lioce. Li arrestarono il 24 ottobre 2003, la grossetana Cinzia Banelli si pentì e raccontò quel che sapeva. Non abbastanza, forse. Lioce, quasi 60 anni, è ancora al 41 bis a L’Aquila, sta male, fuori c’è chi la sostiene. I condannati solo per banda armata sono liberi. Come i due che mancano all’appello. “È un fenomeno carsico, in questi anni abbiamo scoperto altri gruppi non altrettanto capaci militarmente – dicono ancora all’Antiterrorismo –. Certo non molliamo”.

Favori ai fratelli massoni, sospeso giudice di pace

Avrebbe favorito alcuni imprenditori appartenenti a una loggia massonica alla quale appartiene. Per questo motivo l’avvocato Carlo Crapanzano, giudice di pace a Verbania, è indagato con l’accusa di corruzione in atti giudiziari. Con lui sono stati indagati un altro legale e altre 5 persone. Le indagini sono state coordinate dai magistrati milanesi Ilda Bocassini e Paolo Filippini. L’origine delle attività di indagine risale al maggio 2018, quando fu segnalato alla Procura di Verbania l’anomalo accoglimento da parte di Crapanzano di un ricorso contro una contravvenzione al Codice della Strada. Dalle successive indagini è emerso che diversi ricorrenti, presentati o sponsorizzati da persone influenti sul territorio, contattavano direttamente il giudice di pace per presentare i propri ricorsi. È anche emersa l’appartenenza di Crapanzano alla Gran Loggia degli Alam (Antichi liberi accettati muratori) a Novara. Ciò che è risultato maggiormente significativo – per gli inquirenti – è stata la sua intensa frequentazione con alcuni imprenditori locali ad essa appartenenti che sembrano avere usufruito di favori da parte del giudice di pace o, comunque, della sua attività professionale.

“Mio marito mi fa paura ma il giudice mi ordina di ritornare vicino a lui”

Giulia, la chiameremo così, è terrorizzata. “Se torno a Roma ho paura che mio marito mi uccida”. Il giudice della separazione, prima sezione civile del Tribunale di Roma, le ha ordinato di rientrare nella capitale, dove vive il marito, entro il 30 aprile. L’ha fatto per consentire al padre di vedere il figlio di cinque anni. “Non sono tornata in Sicilia per un capriccio, sono scappata da un violento – racconta –, la giustizia dovrebbe tutelarmi e invece mette in pericolo me e mio figlio”. È una giustizia a due facce, in realtà. A Civitavecchia, dove la coppia si era trasferita a 70 chilometri da Roma, il giudice ha rinviato a giudizio il marito John, anche questo un nome di fantasia per tutelare il minore, per i maltrattamenti che avrebbe commesso sulla donna, con l’aggravante della presenza del bambino. Lui l’ha querelata per calunnia.

Si erano conosciuti nel 2010 in Sicilia. Lui è un ex poliziotto italoamericano, in servizio in una delle basi dell’isola, lei è un’insegnante siciliana. Dopo due anni lei lascia famiglia, amici e lavoro per seguirlo negli Usa. Lì si sposano. Ma qualcosa non convince Giulia: “Mi diceva che i suoi genitori erano separati, parlava male dell’ex moglie e vedeva di rado i tre figli avuti con lei”. Tornano in Italia, a Roma, dove la donna però non conosce nessuno. Lui le regala un cane, poco dopo scoprono di essere in dolce attesa. Però, secondo Giulia, va peggio: “Diceva di essere la mia unica famiglia, faceva terra bruciata intorno a me. Per cinque anni ho interrotto i rapporti con mio fratello, i miei genitori non potevano venire a trovarmi e non potevo scendere in Sicilia – ricorda singhiozzando –. Ho affrontato il post parto da sola, lui mi insultava: stupida, non servi a niente, non sai fare niente. È diventato violento. Quello che ho subito lo ha recepito mio figlio, ha visto porte spaccate, vestiti tagliati, urla e insulti – racconta Giulia –. Crescendo, ripeteva le parolacce sentite dal padre, picchiava il cane. Per lui stava diventando la normalità, cresceva come il padre, quindi odiando le donne”.

Nel 2015 la donna si rivolge a un centro antiviolenza di Roma, poi ci ripensa. Due anni dopo finisce in ospedale, i medici scrivono “ansia” da “stress”. “Avevo paura, lui aveva una pistola in casa, teneva una mazza da baseball vicino alla porta, passavo le notti sul divano vestita senza prendere sonno – racconta Giulia –. Pensavo che prima o poi mi avrebbe preso a colpi di mazza o sparato”. Così torna in Sicilia. “Ho spiegato a mio marito che avevo bisogno di una pausa, lui mi ha implorata di non andare, quasi piangendo, poi si è innervosito – racconta Giulia – ma l’ho convinto che sarebbe stato per poco. Non tornavo in Sicilia da quasi un anno”.

A quel punto contatta la prima moglie americana del marito. “Mi ha raccontato che era stato buttato fuori dalla Marina militare per aver picchiato una sua ex ragazza, poi ha colpito alla testa la prima moglie con una mazza da baseball – continua Giulia –. Le strappava e le bruciava i vestiti, le aveva anche tagliato i fili del pc e del telefono. La teneva isolata, come ha fatto con me. Maltrattava anche i figli, li chiudeva in bagno per punirli”. L’americana, dice Giulia, le racconta che il padre di John aveva ucciso la madre, ormai ex moglie, dopo averla scoperta a letto con un altro.

L’avvocato della donna, Nunzio Condorelli Caff, ha consegnato ai giudici italiani atti della Corte Superiore della California da cui risultano fatti di violenza e la condanna di John a mantenere l’ex moglie. L’uomo avrebbe dovuto seguire un corso di 52 settimane per il “controllo della rabbia”, ma non l’avrebbe completato. E il passaporto Usa gli è stato ritirato perché non pagava gli alimenti. “È un recidivo – osserva l’avvocato –, ma la consulente del giudice vede solo il problema di un padre che vuole vedere il figlio”.

In Sicilia Giulia denuncia. I carabinieri fanno le indagini, a marzo il rinvio a giudizio per maltrattamenti e per averla costretta a “penose condizioni di vita”, a luglio si aprirà il dibattimento a Civitavecchia. E su questa base l’avvocato Condorelli Caff ha chiesto al giudice della separazione di rivedere l’ordinanza in cui dispone che Giulia torni a Roma, sia pure in un appartamento diverso da quello del marito. Richiesta respinta. “Adesso però mio figlio – racconta la donna ­ è un altro bambino, non picchia più il cane, e quando scherzano ad alta voce, lui si tappa le orecchie e dice: non litigate. Ha una vita normale, non come prima”.

“Massacrato dal vigilantes il clochard che dormiva”

“Non c’è cattivo più cattivo di un buono quando diventa cattivo”. Con questa frase Alessio Rizzuti, 40 anni, guardia giurata in servizio presso il Policlinico Umberto I di Roma, si presentava sui social network. “La mia personalissima uniforme” da “uomo nero”, scriveva lui, per l’ironia dei colleghi. Alla fine, “cattivo” potrebbe essere diventato davvero. Almeno la notte del 2 aprile scorso, quando ha preso un estintore e lo ha scagliato sulla testa di Alfonso Russo, un clochard italiano che ogni notte trovava riparo nel sottoscala di Otorinolaringoiatria. L’uomo è stato arrestato ieri dalla polizia, dopo un mese e mezzo di indagini, incastrato dalle telecamere di sorveglianza. Dovrà rispondere dell’accusa di tentato omicidio. La vittima è ancora ricoverata al Policlinico, in prognosi riservata, ma le sue condizioni andrebbero migliorando. Il colpo gli ha causato una frattura plurima del cranio. Da quanto si sa, i due se le promettevano da mesi. Tanto che il dipendente della Union Security, secondo gli investigatori del Commissariato Università, lo aveva già colpito nel gennaio scorso con un manganello telescopico in ferro, uno di quelli di cui di solito sono dotati i militari. Gli screzi fra i due, però, sarebbero andati avanti per i mesi a venire. Secondo le voci raccolte, infatti, il clochard non avrebbe un “carattere facile” e con la guardia giurata era nata una sorta di rivalità. Il vigilante, ogni volta che lo sorprendeva a dormire nel sottoscala o in altri angoli riparati del nosocomio, lo cacciava via in malo modo. Fino alla violenta esplosione del 2 aprile – secondo gli inquirenti – con l’aggressione nel sonno al clochard “indifeso”. Un “raptus inatteso”, secondo fonti del Policlinico Umberto I, che riconoscono in Rizzuti – incensurato – un “elemento piuttosto valido ed esperto”. Nel 2010, come raccontano le cronache locali della Capitale, aveva sventato un’aggressione ai medici del Pronto Soccorso da parte di un cittadino moldavo ubriaco, che pretendeva di essere soccorso subito per una banale ferita al labbro.

Ferma restando la gravità dell’episodio, il problema dell’invasione del Policlinico Umberto I da parte dei senzatetto è reale e più volte denunciato dall’ospedale, che dista poche centinaia di metri dalla stazione Termini, area dove si concentrano centinaia di disperati. Questi, al tramonto, fanno ingresso nella struttura e si posizionano non solo nei sottoscala, ma anche nei cuniculi sotterranei e, a volte, addirittura nelle stanze adibite al riposo dei medici. In molti casi, fingono lievi malori per passare la notte sulle barelle nell’astanteria dell’affollato Pronto Soccorso. A quanto pare, proprio Alfonso Russo figurerebbe fra gli identificati della “operazione decoro” del 30 marzo scorso – tre giorni prima dell’aggressione – durante la quale furono chiesti i documenti a 39 clochard presenti nell’ospedale.