Come ricordava il profeta Enzo Jannacci “l’importante è esagerare, sia nel bene che nel male” e “se hai in mano solo mosche, prova a darci anche del tu”. Deve essersene ricordata la ministra della Difesa Elisabetta Trenta – da tempo alle prese con un estenuante, lo diciamo in omaggio al suo campo di interessi, conflitto a bassa intensità a mezzo stampa con Matteo Salvini – quando ha deciso (così ci assicurava venerdì, non smentita, l’Adnkronos) che il tema della parata militare del prossimo 2 giugno, Festa della Repubblica, sarà “l’inclusione”, a dire cioè “la volontà di non lasciare indietro nessuno, di combattere contro le emarginazioni sociali, un segno di attenzione agli ultimi”. Per carità, la lotta politica è fatta anche di simboli, ma confessiamo che la parata militare “inclusiva” ci mette in ambasce. No, mica perché far sfilare le forze armate contro la povertà ci ricorda il vecchio “combattere per la pace è come fottere per la verginità”, ma proprio per mancanza di fantasia: come saranno fatti, per dire, il cannone solidale, il carroarmato antirazzista e la mitragliatrice dialogante? Forse la ministra Trenta ha pensato, dato che già facciamo le “missioni di pace” bombardando a destra e a manca, di fare trentuno e così dare conforto agli “ultimi” e agli “emarginati” facendo sfilare soldati e soldatesse (el purtava i scarp chiodate). Pensiero lodevole, così fosse, ma bisogna sempre ricordarsi – e qui scivoliamo da Jannacci a Gaber – la differenza che passa tra l’avere il senso del comico ed essere ridicoli.
La mia Africa è di popoli liberi
Domenica ho partecipato a Erbusco (Brescia) a un convegno organizzato da una piccola associazione culturale, Sirio B, intitolato “Alle radici dell’ospitalità”, spalmato su quattro giornate. Il tema che mi era stato affidato riguardava l’identità, “il diritto dei popoli a filarsi da sé la propria storia” come io declino il principio all’autodeterminazione sancito a Helsinki nel 1975 da quasi tutti gli Stati del mondo e regolarmente violato negli ultimi decenni.
Ho riassunto nel modo più sintetico possibile la mia posizione, perché la cosa più interessante era la presenza di sette esponenti dell’etnia Dogon, che vive attualmente nel Mali del Nord. Uno sforzo notevole per questa piccola organizzazione farli venire qui, sia per ovvi motivi economici, sia per farli uscire dal Mali dove da cinque anni è in atto una guerra.
I Dogon, sia pur con molti sforzi, sono riusciti a conservare intatte le loro tradizioni che risalgono, si può dire, alla notte dei tempi. In un certo senso è stato come ripercorrere la straordinaria esperienza vissuta negli anni Trenta da Karen Blixen (La mia Africa) e dei suoi rapporti con popoli allora altrettanto tradizionali, i Kikuyu, i Somali, i Masai e della difficoltà per un occidentale di comprendere il senso che danno alla vita queste popolazioni. I Dogon hanno una cosmogonia complicata e raffinatissima che sarebbe impossibile sintetizzare qui se non dicendo l’importanza magica che vi assume il ‘feticcio’ che è il loro modo e mezzo per rapportarsi con il dio creatore, Amma. Ma ancora più interessante è il modo con cui i Dogon sono riusciti a convivere con altre etnie del posto che c’erano prima di loro o che sono arrivate dopo. Nelle loro migrazioni hanno dovuto spostarsi verso le falesie dove viveva un’altra etnia, i Tellem. Per non entrarvi in conflitto si sono spostati ai piedi di queste falesie e fare i conti con una foresta fittissima che hanno dovuto disboscare, con un certo rammarico come ci ha detto il loro portavoce Ihogodolo, guaritore, indovino della Volpe e cacciatore, perché istintivamente, e non per motivi ideologici, hanno un grande rispetto della natura e riluttano a modificarla. Mentre i Dogon tendenzialmente agricoltori si sistemavano ai piedi di queste falesie, un’altra tribù, quella dei Bozo, tendenzialmente pescatori, si attestava sul Niger. In zona c’erano anche i Tuareg, nomadi, e successivamente sono arrivate popolazioni di religione islamica. Insomma un bel pot-pourri. Eppure fra queste genti in parte molto diverse c’era sempre stata, prima della guerra, una convivenza pacifica. Ci si limitava, come ha raccontato Ihogodolo, a qualche ironico sfottò. È una conferma di ciò che già si sapeva e di quanto scrive, con l’autorità dell’antropologo, John Reader (Africa) e cioè che in Africa Nera i conflitti, pur con qualche inevitabile eccezione in una storia bimillenaria, sono stati rari, sostituiti con le integrazioni fra le mille etnie. Scrive Reader parlando proprio della regione del Niger: “Il rischio di conflitti era altissimo: in termini antropologici classici il delta del Niger avrebbe dovuto essere un ‘focolaio di ostilità interetnica’. Eppure ciò che distingue la regione durante i 1600 anni di storia documentata non è la frequenza dei conflitti, quanto la stabilità di pacifiche relazioni reciproche. Con ciò non si vuol dire che non vi siano mai stati contrasti fra i gruppi, ma solo che, quando scontro vi fu, non si concluse con la sottomissione dei vinti… il messaggio che ne discende è di tipo adattivo: prevalenti modelli di accordo interetnico. Nei racconti la vittoria non era il valore supremo e i vincitori assumevano talvolta l’identità dei vinti”. Questa concezione è stata rappresentata nel piccolo teatro di Erbusco da una danza Dogon in cui le armi, bastoni e spade, non erano utilizzate per l’offesa, ma solo a simularla.
Questa pacifica convivenza è stata spezzata nel 2014 quando i francesi, già padroni del Mali del Sud la cui capitale Bamako è guidata da un loro fantoccio, hanno attaccato il Nord del paese per impadronirsi delle sue risorse. Ciò ha scatenato la reazione degli elementi più combattivi della regione, gli islamici collegati all’Isis (che i Dogon chiamano ‘rebelles’) e i Tuareg. I rebelles, foraggiati dall’Arabia Saudita ma in possesso anche e soprattutto delle armi dell’arsenale di Gheddafi che si sono sparse in tutta la regione, combattono prevalentemente i francesi ma non si fanno certo scrupolo di attaccare anche i Dogon che con i loro vecchi fucili da caccia hanno poche possibilità di difendersi, se non con qualche stratagemma come il blocco dei ponti e altre vie di passaggio. Ho chiesto a Ihogodolo come pensano di uscire da questa situazione che rischia di travolgere le loro tradizioni e perché non si sono uniti ai rebelles. “Noi vogliamo solo conservare il nostro territorio”. “E allora?” ho chiesto ancora. “Contiamo sulla difesa da parte del governo di Bamako”. Una risposta molto ingenua perché Bamako è in mano ai francesi che sono proprio quelli che hanno messo sottosopra il Mali del Nord rompendo l’equilibrio che fino ad allora c’era stato fra le diverse etnie e anche con gli islamici fino a quel momento non ancora radicalizzati e legati all’Isis.
Un’annotazione in finale. Non credo che in Italia si abbiano molte occasioni di avere un contatto diretto con una tribù africana, in più non si fa altro che parlare da parte delle nostre Istituzioni e dei nostri giornali del pericolo delle migrazioni che provengono dall’Africa subsahariana e che, per quanto riguarda il Mali, sono state causate dall’attacco francese al pacifico Nord di quel paese. Così come l’attacco franco-americano ha dissestato, con le conseguenze che ben conosciamo, la Libia del colonnello Gheddafi che in quanto presidente dell’Unione Africana proteggeva, come ci ha confermato lo stesso Ihogodolo, anche i Dogon. Eppure in sala c’era pochissima gente e nessun rappresentante delle Istituzioni.
Solo san Ponziano si sta occupando del Sulcis disperato
Giovedì 16 maggio nel Sulcis due piccoli fatti hanno illuminato la deriva sciagurata dell’economia italiana. Alle 7,30 di mattina, davanti alla centrale elettrica Grazia Deledda, un’assemblea di lavoratori del disastrato polo industriale di Portovesme ha discusso dell’imminente chiusura dell’impianto Enel. Dodici ore dopo a Carbonia alcuni di quegli operai disperati, con l’immancabile caschetto identitario, hanno portato a spalla la statua del patrono nella processione per la sua festa. Sulla facciata della chiesa la perfetta sintesi in una scritta luminosa: “San Ponziano proteggici”. Nemmeno lo spirito più laico o l’economista più razionale potrebbero negare che ormai solo san Ponziano è in grado di salvarli.
Breve riassunto dell’infernale casino. L’Eurallumina della russa Rusal ha fermato nel 2009 la produzione di allumina perché il costo del vapore necessario a estrarre l’ossido di alluminio dalla bauxite era diventato insostenibile. L’americana Alcoa ha fermato nel 2012 la sua fabbrica di alluminio che trasformava l’allumina proveniente dalla confinante Eurallumina grazie alla corrente fornita dalla centrale Deledda situata dall’altra parte della strada: il governo non garantiva più le tariffe elettriche agevolate senza le quali in nessuna parte del mondo si lavora l’alluminio. All’inizio del 2018 il ministro dello Sviluppo Carlo Calenda ha chiuso l’accordo con la Sider Alloys, azienda svizzera di proprietà italiana, sponsorizzata dalla Cisl, che ha rilevato lo stabilimento Alcoa e doveva riprendere rapidamente la produzione con la fornitura elettrica Enel a un prezzo finalmente sostenibile. Eurallumina doveva ripartire grazie al vapore fornito dalla stessa centrale Deledda. Sarebbero state riattivate 3-4 mila buste paga in un inferno sociale e ormai anche umano, la provincia di Carbonia-Iglesias, che conta oggi 35 mila disoccupati ufficiali su 125 mila abitanti.
Poi è successo qualcosa che solo san Ponziano potrebbe spiegare, magari con l’aiuto di santa Barbara protettrice dei minatori. Il dialogo nel quadrilatero Enel-governo-Sider Alloys-Eurallumina si è inceppato. Il governo gialloverde ha deciso che le centrali a carbone vanno chiuse entro il 2025. Enel ha annunciato che rifarà a gas quattro delle sue sei centrali a carbone, non la Deledda perché in Sardegna non c’è neppure il gas. Quindi Eurallumina non sa dove prendere il vapore e Sider Alloys non sa dove prendere elettricità e allumina. Forse chiuderanno tutti. Il 9 maggio scorso nell’ennesima riunione al ministero dello Sviluppo economico, assente il titolare Luigi Di Maio nonostante la fidanzata sarda, si è deciso di convocare una nuova riunione dopo le Europee. Non hanno avuto nemmeno la decenza di spiegare ai cento disoccupati dell’Alcoa partiti apposta dalla Sardegna perché da dicembre non gli arriva più il sussidio di mobilità. Qualcuno di loro stava per incazzarsi ma un poliziotto gli ha spiegato che se non si levavano dai piedi all’orario stabilito sarebbero stati tutti denunciati come sempre, con in più, ai sensi del “decreto sicurezza” di Matteo Salvini, una multa di seimila euro a testa che per un disoccupato è peggio di tre anni di galera.
La tragedia del Sulcis, dopo dieci anni di prese in giro, misura la vastità della bancarotta culturale di una classe dirigente: politici nazionali e sardi di ogni colore, imprenditori, dirigenti d’azienda e dello Stato, Confindustria e sindacalisti da dieci anni lasciano marcire la vita di migliaia di persone senza che uno solo di loro abbia mai avuto la decenza di fermare la giostra delle riunioni e dello scaricabarile per assumersi la responsabilità di una decisione.
Twitter@giorgiomeletti
Dare e ricevere amore è il fondamento della comunità cristiana
Quando Giuda fu uscito (dal cenacolo), Gesù disse: “Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito. Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri. Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri” (Giovanni 13,31-33a.34-35).
Il Vangelo odierno offre, alla meditazione domenicale, un brano del discorso tenuto durante l’ultima cena. Dopo la lavanda dei piedi, Gesù delinea quella che dev’essere la caratteristica che fonda la comunità dei discepoli: che vi amiate gli uni gli altri… come io ho amato voi.
Uno solo resta refrattario all’amore gratuito, luminoso e commovente di Gesù, Giuda! Per questo, esce “nella notte” per il suo disegno e concludere il tradimento. Con ciò rompe il legame di coesione, di amicizia, di discepolato costruito dal Maestro che è profondamente turbato perché uno dei Dodici se ne va.
Il progetto è tanto alto che la meta può sembrare irraggiungibile, dato che ci viene proposta la misura di Gesù, cioè la sua stessa capacità di amare. No! Perché quando sarà glorificato, cioè quando avrà donato la sua vita sulla croce, il Signore sa che il suo amore ci renderà capaci di reintegrare ogni tradimento, di guarire ogni malattia, di offrire il perdono a ogni offesa, di fugare ogni paura, d’illuminare ogni incredulità, di essere operatori di pace, di liberare ogni coscienza dal fascino del male.
La primitiva comunità cristiana, secondo gli Atti degli Apostoli, conosce oppressioni, difficoltà e ostilità nell’annunciare e testimoniare la salvezza. Da Paolo e Barnaba, sappiamo che dobbiamo entrare nel Regno di Dio attraverso molte tribolazioni (At 14,22).
Come per Gesù la glorificazione è l’ora della croce, così anche ai discepoli, come ai tanti cristiani di oggi non sono risparmiate persecuzioni e prove che vengono sia dall’interno che dall’esterno.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri. Dal nostro essere dono vicendevole si riconosce chi è veramente Dio. Non abbiamo altro criterio che la reciprocità per comprendere quando una comunità appartiene a Dio, se non rivelandolo e facendolo conoscere con questo autentico stile di vita cristiana: sapranno che siete miei discepoli. La constatazione avverrà con il vedere all’opera, nella storia, lo Spirito Santo che è l’amore appassionato di Cristo affidato ai suoi per evangelizzare i poveri, gli ultimi, i diseredati, i disperati.
Amare sempre e senza ritorno, secondo l’Apocalisse, fa nuove tutte le cose (Ap 21,5). Il comandamento di Gesù è nuovo per la “misura” che esso propone, ma anche perché è nuovo l’Autore stesso di questo nuovo modo di pensare e agire. Non si tratta di imitare Gesù che è inimitabile! Il come (katòs) può significare anche “a causa”, quindi si può intendere: amatevi a causa dell’amore con cui io vi ho amati. La forza dello Spirito Santo, il dono di Gesù Risorto, viene innestata nel cuore del discepolo che cambia vita: la comunità spirituale che nasce da questo Spirito di fraternità non confida sull’affinità, la simpatia, la spontaneità, ma semplicemente e gratuitamente sul dare e ricevere amore.
Questo dono sviluppa una libertà di scelta e di oblatività senza misura, che abbraccia e rimanda all’amore fino alla fine (Gv 13,1) di Gesù Cristo.
Alla fine che cosa resterà dell’Italia
Se il governo-contratto scelto per cambiare l’Italia durerà altri quattro anni (presumibilmente simili al primo) che cosa dirà chi dovrà rispondere alla domanda: che Italia è? Non penso a ciò che diranno i governanti.
La lista di “cose fatte” da Di Maio viene ripetuta in quasi ogni intervento o intervista e forse si sarà un poco allungata, ma il metodo è lo stesso, inventato da Renzi, la perenne congratulazione con se stesso per avere cambiato tutto, in un paesaggio fermo. Il socio di contratto e nemico di vita Salvini continuerà a garantire ai cittadini la sicurezza contro immigrati che non ci sono, e intanto a Napoli, italiani contro italiani (detti camorristi ma radicati nella nostra fede, e nei nostri valori) sparano nelle strade (è ormai accettato anche l’inseguimento della vittima a piedi) davanti alle scuole e dentro il pronto soccorso degli ospedali, senza alcun cenno di intervento o anche solo di preoccupazione o di scusa del ministro dell’Interno, impegnato con i rom. Raccontata da Conte, il presidente del Consiglio part-time, completo blu sempre pronto in caso di apparizione di governo, la storia sarà più ordinata: tutti al loro posto.
Gli italiani fanno di mestiere gli italiani, anche perché gli altri mestieri scarseggiano, nessuna notizia di politica estera con cui disturbare i cittadini, anche se in Libia si combatte una brutta guerra, non si sa di chi, contro chi, per conto di chi, anche se è stata messa in piedi una rete di rapporti dell’Italia con Paesi europei che odiano l’Italia, la diffamano e, da sovranisti, non darebbero un euro in caso di aiuto, né accetterebbero un profugo in caso di emergenza. Dopo tutto sono sovranisti (oltre che suprematisti) e anche un po’ fascisti se la parola si potesse ancora dire senza che venga respinta con fastidio come il tic maniacale degli antifascisti (che sono il vero male del mondo, parola di editore del ministro dell’Interno italiano). E dunque chi sarà interpellato dirà che avevamo fatto alleanze con scrupolo e attenzione, con nuovi amici che, avendo le stesse idee lugubri del governo italiano (frontiere chiuse, porti chiusi, prima se stessi ), non possono e non vogliono esserci di aiuto. Ma nell’ipotesi (aggiungete voi l’aggettivo che esprime un giudizio) che il fitto dialogo Di Maio-Salvini (e quello aspro e incessante tra tutti i sottoposti di uno e dell’altro), provate a dire che cosa si può rispondere, adesso o fra quattro anni, alla domanda: che cosa è accaduto? E che cosa resta dell’Italia?
È accaduto che, mentre si pensava che i due progetti elettorali-chiave fossero l’aiuto ai poveri e il pensionamento liberato da limiti ingiusti, si è scoperto che i due veri obiettivi erano, da una parte, la libertà di stampa e, in generale, di espressione (si va da insulti feroci al mestiere di giornalista, tratti dalla vis comica di Beppe Grillo, fino al completo controllo della Rai e persino di palinsesti e compensi), e, dall’altra, il blocco totale dell’immigrazione equiparata a delitto e regolata da un decreto che ragionevolmente un gruppo di studenti di una buona scuola italiana ha trovato ispirata alle leggi razziali fasciste.
I nostri posteri dovranno inoltre segnalare uno dei fatti più strani, meno dignitosi e meno spiegabili del primo anno del “governo del cambiamento”: lo sradicamento di Radio Radicale. Prima di dire di questa emittente giudizi, che nel mio caso sono di affetto, rispetto e ammirazione (per fortuna non sono solo) e da altri saranno di critica, bisogna per forza tornare al senso dell’evento, che non dipende da una classifica, ma dall’idea, semplice e perentoria che si deve chiudere una radio che non controlli. Come si chiude una radio nel caso escogitato dai nostri “agenti di cambio”? Tagliando a metà la modesta sovvenzione statale (annuale) di 10 milioni, che è finora servita per trasmettere tutta la parte pubblica e ignota della vita italiana (Camera, Senato, commissioni, istituzioni), notiziari che arrivano fino alla stampa africana e turca, aggiornamenti continui sull’Europa di Bruxelles, l’America della Casa Bianca e delle Nazioni Unite, e un mare di documenti e di interviste. Quei pochi milioni rimborsavano le spese e il lavoro (il meno pagato al mondo) di chi fa funzionare Radio Radicale 24 ore al giorno, con un archivio unico e immenso (certo per i casi giudiziari italiani). La trovata di tagliare la sovvenzione a metà chiude tutto. E così avremo il primo governo europeo che potrà vantarsi di avere eliminato deliberatamente una radio libera, a basso costo e notevole lavoro di notariato. Ragioni? Eliminare una voce. Dicono: cercatevi pubblicità. Trovatela se parlate liberamente di ogni prodotto e di ogni impresa e dell’intreccio di interessi fra imprese e governo: la PBS (radio-televisione pubblica americana) non ha mai voluto cercare pubblicità. Per restare libera, dicono, produce tuttora, con il lavoro di grandi professionisti sottopagati, il miglior giornale radio e il migliore telegiornale nazionale e internazionale di quel Paese. La lista parlerà di migranti che sono tuttora in mare. Ma si dirà che si tratta di terroristi.
Mail box
I costanti bisticci tra i ministri e l’arbitro Mattarella
Lo squallido spettacolo delle minacce e insulti reciproci tra Di Maio e Salvini non solo non accenna a diminuire, ma addirittura diventa sempre più virulento. Non si capisce, se non pensando a una sorta di marasma mentale, come un ministro dell’Interno, sino a ieri ritenuto un vero politico, possa insistere sul non-attracco nei porti italiani delle navi dei trafficanti di esseri umani, più che di immigrati, avvertendo per di più il governo e il proprio premier che su questo tema non prenderà ordini da nessuno. Ora, andrebbe spiegato al ministro Salvini che, se la pensa così, avrebbe dovuto dire correttamente: altrimenti mi dimetto e apro la crisi di governo! In tutto ciò meraviglia, infine, che l’arbitro della partita-tenzone, cioè il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, non intervenga con uno dei moniti nei quali è specialista, e cioè quello di invitare le parti-duellanti ad abbassare i toni; e invece si rivolge monitando all’Ue e dicendo che bisogna rispolverare i valori proposti dai padri fondatori e sui quali si è fondata l’Unione europea.
Luigi Ferlazzo Natoli
La soluzione del Giappone per aumentare la forza lavoro
È in controtendenza la linea del governo giapponese che esorta le proprie aziende a mantenere in organico i propri impiegati almeno fino all’età di 70 anni. L’esecutivo del Primo Ministro Shinzo Abe vuol far fronte in questo modo alla carenza di forza lavoro che attanaglia il Paese. Prevista anche assistenza alle imprese che offrono occupazione ai pensionati attraverso formazione di nuove società e lavoro freelance. Questo perché il personale esperto, anche se in età avanzata, merita opportunità e maggiore considerazione. Cercando di contrastare le insostenibili spese dello stato sociale alle prese anche con un problema demografico. Questa potrebbe essere una possibile soluzione adottabile anche in Italia. Che vede le stesse problematiche. E potrebbe così arginare, in parte, una importazione di mano d’opera legata ad una immigrazione spesso non controllata e di culture meno dedite al lavoro della nostra.
Cristian Carbognani
La scuola ha il compito di insegnare a pensare
Salvini pronto a incontrare la prof sospesa dall’insegnamento. Per mostrarsi magnanimo e farsene un spot elettorale? O per scusarsi di aver interferito nell’attività didattica di una classe e chiedere agli alunni se, alla ricerca che evidenziava affinità fra Benito e Salvini ne sarebbe seguita una sulle differenze fra Salvini e Benito, e una terza conclusiva, per tirare le somme, nella logica della normale dialettica dell’insegnamento? La conoscenza è un processo che non si esaurisce in una singola lezione, e i risultati si valutano alla fine del percorso. A scuola, per la Storia, c’è un tempo per parlare di Rivoluzione Francese e dei suoi meriti e misfatti; un tempo per la Rivoluzione Russa e il Comunismo; un tempo per il Fascismo, Mao e Pol Pot; un tempo per l’Imperialismo, la Globalizzazione e il Terrorismo ecc. Il tutto rimanendo sempre aperti al confronto tra passato e presente.
L’insegnamento è un processo lungo che, con professori diversi, libri diversi, contributi culturali diversi, in tempi diversi, nel corso di tutti gli anni scolastici – e integrandosi con tutte le altre fonti del sapere – mette i ragazzi in condizione di capire gradualmente chi sono, dove sono e verso quale futuro sono diretti.
Una lezione che susciti reazioni anche violente è comunque sempre più proficua di una che provochi sonnolenza, per il semplice fatto che è propedeutica a ripensamenti e approfondimenti.
Le menti dei ragazzi non si lasciano condizionare tanto facilmente. La loro posizione rispetto agli adulti, e anche alla scuola, spesso di contrasto, contrapposizione, contestazione, dovrebbe insegnare qualcosa ai vari dittatorelli, o aspiranti tali, che ogni tanto compaiono sulla scena politica. C’è sempre una risata pronta a seppellirli.
Vittorio Civitillo
Giuseppe Conte non deve accettare l’arroganza di Salvini
Il presidente del consiglio, Giuseppe Conte, è sicuramente una persona seria e onesta che è assurta a quel ruolo apicale in seguito ad un insieme di episodi inediti e irripetibili.
Fin dall’inizio si sapeva che il suo era un “ruolo cuscinetto” per smussare le asperità tra i due “dioscuri” Di Maio e Salvini. Senza entrare nel merito di come si sia comportato finora, credo che nessuno possa sopportare di essere trattato come sta facendo ultimamente il “suo” ministro degli interni. Salvini lo ha platealmente insolentito dichiarando che sull’immigrazione e sui porti chiusi non accetta ordini e che si fa come dice lui, punto. Ebbene a questo punto le cose sono due: o Conte pretende e ottiene, dal ministro del governo che lui presiede, le doverose scuse oppure si deve dimettere in quanto pubblicamente “declassato” al ruolo di “cartonato segnaposto”. Se farà finta di niente pur di mantenere l’ambita poltrona darà ragione a tutti i suoi detrattori che fin dall’insediamento a Palazzo Chigi lo etichettarono come “testa di legno” al servizio dei suoi “vice”.
Mauro Chiostri
Multare chi salva le vite in mare è raccapricciante
Multe da 3.500 a 5.500 euro a chi “nello svolgimento di operazioni di soccorso in acque internazionali, non rispetta gli obblighi previsti dalle Convenzioni Internazionali”. Dunque i comportamenti che Salvini attribuisce alle navi umanitarie.
Dal decreto Sicurezza bis che il ministro degli Interni intende fare approvare nel prossimo CdM
Abituato da una vita a maneggiare le frattaglie della politica politicante, l’autore di questa rubrica ammette, negli ultimi tempi, di essersi troppo spesso nascosto dietro lo scudo del facile sarcasmo per evitare di fare i conti con l’insensata (o sensata) ferocia che stringe la gola del nostro Paese. Così, qualche giorno fa, ho letto quanto descritto sopra ma ho fatto finta di non capire. Poi, come estrema difesa, ho pensato trattarsi di qualche indiscrezione giornalistica la cui smentita doveva essermi sfuggita. Infine, quando l’altro ieri Matteo Salvini ha detto che “quel” decreto va approvato lunedì altrimenti “mi arrabbio sul serio”, ogni alibi è caduto. Leggo che il premier Giuseppe Conte e il M5S faranno resistenza invocando l’incostituzionalità del provvedimento. Perché contrario a qualsiasi principio umanitario? No, perché “sconclusionato”. Ma le domande ora sono altre. Come può mente umana soltanto concepire l’idea che la salvezza di una vita possa costare “da 3.500 a 5.500 euro”? Visto però che l’abiezione si è fatta norma, su quale logica si basa il tariffario delle ammende? Quanto per la salvezza di un bimbo? Quanto per una donna? Nel caso essa fosse incinta, si è obbligati a pagare un supplemento? E se si tira fuori dalle acque una persona giovane la contravvenzione si misura sulla maggiore o minore prestanza fisica, nel caso lo si voglia poi rivendere a un prezzo conveniente alla più vicina fiera del caporalato? Vorrei guardare in faccia i funzionari che hanno redatto questa roba qui (tra i quali certamente dei bravi padri di famiglia che la sera danno il bacino della buonanotte ai loro piccini). Chiedere loro se si sono piegati “a un ordine superiore”, magari reprimendo la nausea. O se la cosa li ha lasciati abbastanza indifferenti, trattandosi di un lavoro come un altro. Vorrei domandare a Luigi Di Maio se ha avuto un soprassalto quando ha letto quello schifo. Se, per caso, la crescente avversione che egli sembra nutrire per i comportamenti del suo omologo della Lega vada oltre la propaganda elettorale ma derivi da una ripulsa umana prima che politica: noi e questi qui non abbiamo più nulla da dirci. Infine Salvini. Avevo sempre pensato che tutto sommato non fosse una cattiva persona. Che i suoi eccessi nei confronti di migranti e rom fossero una maschera imposta dalla ricerca ossessiva del consenso. Che se un giorno, per assurdo, si fosse trovato nella condizione di salvare dalle acque uno di quei disperati, non avrebbe esitato un secondo a farlo. Ora non lo credo più.
Ps. Sul “Fatto” di ieri, nell’intervista al ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, Luca De Carolis chiede: “La multa è eticamente raccapricciante oltre che incostituzionale, no?”. Bonafede: “Se chi viola le regole viene sanzionato non ci trovo nulla di male”. Sì, davvero raccapricciante.
“Sono loro che decidono cosa oscurare e cosa no”
Incontriamo Brooke Binkowski nel suo salotto, in California. Noi dell’Investigate Europe siamo in vari paesi Europei. Lei ci guarda attraverso una piattaforma open-source. È furiosa, parla veloce, gira e rigira i capelli tra le mani. Per due anni ha lavorato per Facebook: scovava notizie false e le denunciava. Dal novembre 2016, dopo la vittoria di Trump, ha ricevuto una mail proprio da Facebook: la cercavano per diventare fach-checkers o debuncker, un mestiere ora in voga. Lei ci ha creduto. Lavorava per il gigante di Menlo Park attraverso il sito Snopes, nato contro la disinformazione. Poi ha parlato troppo, ha chiesto spiegazioni. Prima il silenzio, poi è stata cacciata. Ora ha creato un altro sito di fact-checkers: truthorfiction.com.
Che è successo, perchè è finita male con Facebook?
Ho cominciato a chiedere a Facebook gli algoritmi, per capire come mai ricevevamo alcuni contenuti – ma non gli stessi di altri fact-checkers – e come mai alcuni che avevamo segnalato tornavano nei nostri schermi, come se un algoritmo continuasse a spingerli. Ma non ho mai ricevuto risposte. Già all’inizio avevo consigliato al mio capo di non prendere soldi da Facebook, potevamo lavorare con loro, ma non per loro, perché questo crea una dipendenza dei giornalisti, non siamo più completamente liberi. E invece lui sottobanco si faceva pagare 100.000 dollari all’anno, come ho scoperto dopo. Lo stesso importo che Facebook paga alle 43 associazioni con cui lavora nel mondo: sono 4,3 milioni all’anno. Ma è niente per Facebook.
È vero che Facebook ha anche cominciato a pagare i debunker a pezzo, quindi più pagine trovate, più ricevete soldi?
Si, una logica perversa, l’ha accettata anche Snopes. L’ho detto al mio capo di smettere e lui mi ha licenziata.
Cos’altro hai scoperto?
È stata assunta una squadra per diffamare il magnate George Soros che aveva criticato Facebook, diffondendo materiale contro la sua Fondazione, Open Society (il capo operativo di Fb, Sheryl Sandberg ha ammesso di dirigere un gruppo per indagare sugli interessi finanziari di Soros, nda) e contenuti antisemiti. Ma io questo materiale non l’ho mai ricevuto. Avevamo una lista di contenuti da controllare, ogni pagina veniva “flaggata” (segnalata) da noi come falsa, vera o con elementi di disinformazione. Ma erano loro a decidere cosa farci vedere e cosa nasconderci.
Che ne pensi della politica di fact-checking di Facebook?
Non gli interessa finire con la disinformazione su Internet, vogliono solo sembrare migliori. Noi facevamo parte di una strategia comunicativa, ci hanno passato la patata bollente. I giornalisti sono diventati uno strumento di pubbliche relazioni.
Il 13 dicembre scorso, in un’intervista al The Guardian, hai detto: “Sono fermamente convinta che Facebook diffonda notizie false per conto di governi ostili e autoritari perchè fa parte del suo modello economico”. Lo confermi?
Assolutamente.
Cosa proponi perchè la lotta alla disinformazione sia efficace?
Bisogna che gli algoritmi siano “aperti”, trasparenti. Poi giganti come Facebook, Google, Twitter dovrebbero finanziare un fondo indipendente e distaccato per i giornalisti che monitorano le loro piattaforme.
Fake news, così Facebook ha ricattato i commissari Ue
Sembrava troppo bello per essere vero. La Commissione europea sta portando avanti un dialogo costruttivo con le piattaforme Internet – Google, Facebook, Twitter – che in modo volontario si sono impegnate, nel dicembre scorso, a divulgare i dati di chi diffonde pubblicità politiche e a fare pulizia di siti falsi o che inneggiano all’odio. Le piattaforme hanno firmato un codice di buona condotta, volontario (non ci sono sanzioni) e ogni mese vanno a Bruxelles a rendere conto del lavoro fatto: si siedono in un grande tavolo insieme a 4 commissari e si va avanti così, verso le elezioni europee, sperando che nessun grosso “incidente” o campagna di disinformazione possa ostacolare il buon andamento del voto. Tutto vero? No, la Commissione europea si è piegata a un ricatto dei giganti del web che hanno minacciato di non cooperare più con le istituzioni europee e di tagliare i fondi ai media europei, se si fosse cominciato a parlare di nuove leggi e, soprattutto, si fosse messo il naso nei loro dossier antitrust.
“È stato un ricatto”. È quello che viene fuori dall’inchiesta del consorzio europeo Investigate-Europe che ha incontrato cinque membri del “Gruppo di alto livello sulla disinformazione”, creato dalla Commissaria per il digitale, Marija Gabriel. Tutti critici sulle pressioni ricevute dalle piattaforme. Giornalisti, esperti di comunicazione, professori universitari, il gotha del giornalismo e della comunicazione (Sky, Bertelmans, Corriere della sera, Mediaset, Rtl, Bocconi, Sorbonne), si è dato appuntamento al Palazzo Berlyamont a Bruxelles, tra gennaio e marzo 2018, per trovare soluzioni insieme a Facebook, Google, Twitter, Mozilla, contro la piaga della disinformazione online. Quattro incontri e dopo sette settimane è venuto fuori il codice di condotta. “Volevamo anche aver accesso al modello economico delle piattaforme”, ricorda Monique Goyens, presidente dell’Associazione europea per i Consumatori (Beuc). “Abbiamo proposto uno “studio settoriale” per capire se ci potesse essere un abuso della posizione di mercato di questi colossi, se consentissero o facilitassero la diffusione di disinformazione”. Un altro membro del gruppo ricorda: “C’era un braccio di ferro pesante nei corridoi dalle piattaforme per condizionare gli altri esperti”. Goyens racconta inoltre che in una successiva pausa il lobbista capo di Facebook Richard Allan, vicepresidente di Facebook per la Public policy, le disse: “Siamo felici di dare il nostro contributo, ma se andate in quella direzione, saremo controversi”. Allan ha confessato a un altro membro del gruppo: “Ha minacciato che se non avessimo smesso di parlare di strumenti competitivi, Facebook avrebbe interrotto il suo sostegno a progetti giornalistici e accademici”, milioni di euro che vengono dati ogni anno ai media di tutto il mondo, da Google con la sua “Google Digital Initiative” o da Facebook attraverso i progetti di fact-checking. Aprire un’indagine antitrust vorrebbe dire, a termine, chiedere a Facebook di vendere Instagram o Whatsapp e a Google di liberarsi di Youtube, come già negli Stati Uniti alcuni economisti e politici chiedono. “Siamo stati ricattati”, taglia corto la presidente del Beuc, l’unica ad aver votato contro il codice di condotta. Alla fine le parole “concorrenza” o “regolamentazione” sono scomparse dal testo finale. Facebook non ha voluto commentare sul Gruppo di alto livello alla Commissione.
Conflitti d’interesse. Anche la composizione dei membri ha lasciato l’amaro in bocca. Dieci di loro ricevono soldi da Facebook e Google, secondo documenti pubblici, consultati da Investigate-Europe. Come il Reuters Internet Institute, che tra il 2015 e il 2020 ha ricevuto 8,4 milioni di sterline. “Non è stato dichiarato che molti membri del Gruppo di alto livello avevano un grosso conflitto d’interesse”, dice uno dei presenti. Il gabinetto della commissaria Gabriel ha risposto che “i criteri di selezione dei membri del Gruppo di alto livello hanno escluso qualunque conflitto d’interesse”.
Anche la sociologa dei media alla Sorbona, Divina Frau-Meigs, ha partecipato a questi incontri a Bruxelles. “Google e Facebook stanno pagando queste partnership direttamente dalla loro sezione marketing”, dice. “Il fatto che le piattaforme supportino università e giornalisti non è di per sé un problema, ma la mancanza di un’entità di finanziamento separata lo è”.
L’Atlantic Council. Facebook lavora con 52 partner nel mondo per scovare le fake news. Uno di questi è l’Atlantic Council, un’associazione nata nel 1961 con la missione di promuovere la leadership statunitense tra amici e alleati, molto vicina alla Nato e al mondo militare e delle spie. Nel suo board siedono sei ex direttori della Cia, come Michael Hayden, R. James Woolsey, Leon Panetta and Michael Morell e gli ex segretari di Stato Usa Colin Powell, Condoleezza Rice and Henry Kissinger. Il bilancio dell’Atlantic Council è aumentato di dieci volte negli ultimi dieci anni passando da due milioni di dollari nel 2006 a 21 milioni nel 2016, grazie anche ai finanziamenti dell’industria americana e di governi stranieri tra cui, come si legge nel suo sito, gli Emirati Arabi, che usano la sorveglianza su Internet e la limitazione della libertà d’espressione, come strumenti di governo. L’Atlantic Council, attraverso il suo laboratorio di ricerca, il DfrLab, consiglia Facebook sulle pagine da chiudere o oscurare per la modica cifra di 999.000 dollari. Consulenze a tutto tondo, come per il Venezuela, dove il think tank americano è stato molto esplicito per l’indurimento della posizione americana nei confronti di Caracas, proponendo scenari di “sanzioni più efficaci”, sfatando le menzogne di Maduro o semplicemente fornendo sostegno all’opposizione in Venezuela, come in un evento del gennaio 2019, intitolato “Guaidó prende l’elmo: sostenere il nuovo governo provvisorio venezuelano”. Prima, nel 2017, secondo il giornale Miami Herald, il governo statunitense aveva finanziato con un milione di dollari il Consiglio Atlantico per sostenere l’opposizione venezuelana. I risultati sono arrivati pure sul web. Nell’agosto 2018 Facebook chiude la pagina di TeleSur, vicina all’ex presidente Chavez, una televisione locale nata nel 2005 con l’intento di offrire un’alternativa socialista, latina, alla Cnn. La Turchia è anche un donatore dell’Atlantic Council e quando nel 2017 il presidente Ergogan visitò Washington, l’attivissimo Consiglio organizzò un evento privato all’ambasciata turca, mentre gli attivisti anti-Erdogan venivano picchiati dalle sue guardie del corpo fuori dalla residenza. Il più attivo è il direttore dell’Atlantic Council, Ben Nimmo, un ex portavoce della Nato, che inonda le piattaforme americane di consigli sulle “spie” russe. Recentemente ha fatto chiudere due conti Twitter europei, con l’accusa di essere bot (software che si fingono umani) creati da Mosca. Si è scoperto poi che si trattava di un pensionato britannico e di un’attivista anti-Usa, due persone “contro”, ma ben reali.
Facebook ha confermato a Investigate Europe che l’Atlantic Council collabora con il gigante di Menlo Park per le imminenti elezioni europee. Intanto sempre Facebook ha chiuso 23 pagine in Italia che generavano un traffico da 2,4 milioni di utenti, la metà delle quali sostenitrici della Lega di Matteo Salvini e del Movimento 5Stelle.
“Se vado, mi astengo. Chi sta sempre lì, lo fa solo per la diaria”
Èal 6° posto per assenze alla Camera secondo Openparlamento.
Non ha partecipato al 73,5% di votazioni alla Camera. Come mai?
Mi pare più che sufficiente. Non vedo cosa dovrei andare a fare per votare delle leggi sbagliate, preparate da un governo di idioti. Ogni volta voto astenuto. Sa perché la gente è presente? Perché ha la diaria. Altrimenti non ci andrebbe nessuno. Faccio il sindaco di Sutri, faccio il professore a Urbino, non chiedo missioni perché non le ritengo giuste.
Non crede, però, che l’abbiano eletta per essere lì?
No. La funzione parlamentare non prevede che uno sia presente.
I molti incarichi che ricopre, in ultimo la presidenza del Mart, non sono quindi all’origine del suo assenteismo. La sua è una scelta?
Sì, lo sono. Tra il sindaco di Sutri che fa delle cose utili e un parlamentare che va a votare come una scimmia delle leggi proposte dai 5S, preferisco la prima alla seconda, visto che non sono io a scegliere le leggi che passano ma loro.
L’elettore potrebbe dirle, però, che percepisce uno stipendio da parlamentare senza essere presente.
Infatti faccio il parlamentare per l’altro 27%. Queste interviste moralistiche le faccia ad altri. Se sono lì mi astengo, salvo quando intervengo, e i miei interventi se li ricordano. La presenza di un politico è legata alle sue idee. Se guarda le presenze di Salvini e di Di Maio sono come le mie. Non ci vanno perché sono indisciplinati? No, fanno politica in un altro modo. La mia posizione è di totale estraneità a ogni legge proposta. Ogni volta che portano una legge, è una cagata. D’ora in avanti chiederò la missione, così eviterò telefonate che servono a stilare la classifica dei buoni e dei cattivi attraverso una logica idiota. Il voto è un voto meccanico di capre che obbediscono in maniera forzata all’ordine del capogruppo. Questo si chiama traffico di influenze. Le sembra un Parlamento democratico?