“Un parlamentare ha anche altro da fare: ci sono quando serve”

Si piazza al 9° posto per assenze al Senato secondo Openparlamento, con il 32,4% di votazioni a cui non ha partecipato.

È tra i senatori più assenti.

Ma se ho quasi il 70% di presenze…

In questa legislatura è al 9° posto.

Sono anche il coordinatore regionale in Lombardia del mio partito. Un parlamentare ha anche altre cose da fare. È molto importante esserci quando ci sono le cose importanti. Poi c’è il territorio, che è pure una cosa importante.

La situazione in Senato è un po’ più delicata di quella della Camera, il margine di presenza alle votazioni ha un peso.

Bisogna esserci in tutte le votazioni che contano. Tra l’impegno sul territorio con i cittadini e una ratifica in Senato preferisco l’impegno sul territorio. È diverso se c’è il decreto Sicurezza o il Reddito di cittadinanza: un conto sono le ratifiche, un conto i disegni di legge. In Senato, i numeri sono quelli ed è importante esserci.

Recentemente ha dichiarato a La7 che “la politica in questi anni ha seminato disperazione”.

Certo, perché non è stata vicina ai cittadini. Non si è occupata dell’ascolto, di stare in mezzo alla gente, di avere spazio per poterli ricevere. Disperazione perché non c’è cosa più brutta di quando nessuno ti ascolta.

Ma non crede che l’assenteismo dei parlamentari incrementi la disperazione?

No. Credo che incontrare un cittadino, andare a un’assemblea, parlare con loro piuttosto che essere lì per votare una ratifica, sia più importante. La mia scelta sarà sempre questa. In questo periodo chi è impegnato con le elezioni, come fa a conciliare tutto? Le consiglio di chiamare Di Maio, perché anche lui è in campagna elettorale e fa il ministro del Lavoro con tutti i problemi che ci sono e lo vedo sempre molto in giro. Questa intervista la dovrebbe fare a lui che ha più responsabilità di governo. Cominciamo da lui a capirlo. O vuole parlare con me che sono un semplice senatore? Penso che bisogna cominciare dall’alto, no?

“Se prendi un impegno, devi esserci: ma conta anche la qualità”

È tra i primi senatori con il 100% di presenze alle votazioni a palazzo Madama.

Per alcuni suoi colleghi non è necessario essere sempre presenti.

Non do troppo rilievo a questo dato. È importante impegnarsi fino in fondo. Non è detto che uno che non c’è o che ha una percentuale più bassa, non si sia impegnato. Se avessi passato un anno con la febbre oppure se fossi impegnato su un altro tipo di fronte comunque utile avrei la percentuale più bassa. Percentuali troppo inferiori fanno male alla politica, ma non darei troppo ed esclusivo risalto solo al dato numerico. Diamo anche un risultato e una valutazione di qualità. Magari uno qualitativamente è bravo, ma non è stato presente al 100%. Noi della squadra parlamentare di maggioranza cerchiamo di mantenere i numeri. Questo è necessario.

C’è chi sostiene che molti vadano in Senato a tutte le votazioni per percepire la diaria.

Questa è una boutade che non ha né capo né coda. Una maggioranza è tale se si impegna a essere presente sempre. Adesso tra l’altro se manchi a un certo numero di votazioni c’è una specie di penalità. Se ti prendi l’impegno di stare in maggioranza, devi esserci. Se sei in minoranza, devi esserci ugualmente, anzi a maggior ragione perché così hai modo di dire la tua e di fare le osservazioni. Se c’è qualcuno della minoranza, dell’opposizione, che non è presente, chiedetelo a loro.

Quali sono le proposte di legge di cui va più fiero?

Ragioniamo per cose fatte, quindi diciamo che i provvedimenti che sono passati o che sono nati nella nostra commissione e in quelli dove abbiamo potuto dare il nostro contributo, siamo tutti comunque soddisfatti del lavoro svolto. Ci sono stati provvedimenti che ci hanno impegnato di più, come quello sulla legittima difesa. Io mi occupo di giustizia. Poi in una grande squadra come siamo noi, sia Lega che 5S, ognuno ha il proprio ambito di competenza. Rimango sul mio e non vado a interessarmi di altre questioni più tecniche. Ho piena fiducia nei miei colleghi.

“Serve responsabilità. Tra di noi ci sono tanti secchioni”

Al 1° posto con il 100% di votazioni alla Camera.

Questo rigore viene dalle sue esperienze all’estero o da che altro?

Senso di responsabilità italiano. In tutte le università in cui ho lavorato all’estero, i nostri connazionali erano apprezzati perché i nostri atenei sono tra quelli al mondo che formano meglio. Sono stato negli Stati Uniti e poi in Danimarca. Dal 2005 sono alla Sapienza. Al momento della candidatura ero già in Italia da molti anni.

Qualcuno le ha dato del secchione?

I colleghi sono stati fantastici. Nonostante quello che appare sui mezzi d’informazione, siamo una squadra molto unita. Alcuni deputati sono assenti per ragioni di salute, che non sono rilevate dal sistema di registrazione delle presenze della Camera. È il caso del mio caro amico Penna, che non ha potuto sempre partecipare assiduamente, ma per la sua condizione è da considerarsi tra i più presenti. Nel Movimento 5 Stelle ci sono tanti parlamentari “secchioni”, per fortuna, la maggioranza con presenze ben oltre il 90%!

Quali sono i risultati più importanti di cui va fiero?

Quelli che riguardano più da vicino la vita delle persone. Penso alla stabilizzazione dei precari degli enti di ricerca o all’assunzione di 1.511 ricercatori a tempo determinato di tipo B. L’istruzione superiore rappresenta uno dei migliori investimenti di denaro pubblico, con un moltiplicatore quantificabile secondo l’Ocse tra 3 e 4: se si investe un euro di soldi pubblici, il ritorno per il Paese sfiora i 4 euro. Cittadini più istruiti hanno minor tasso di disoccupazione e stipendi più alti, quindi possono contribuire di più alla fiscalità generale. Sono anche orgoglioso che il Movimento 5 Stelle abbia assolto alla priorità di aiutare le persone maggiormente in difficoltà con misure come il reddito di cittadinanza, anche in questo caso innescando un meccanismo virtuoso di redistribuzione della ricchezza, di riattivazione delle persone e della loro capacità di spesa.

Giulia, l’avvocato che si fece ministro (e ancora avvocato)

Non lo sa quasi nessuno, ma l’avvocato Giulia Bongiorno fa anche il ministro, sebbene nel Consiglio dei ministri, spesso faccia anche l’avvocato. Precisamente l’avvocato difensore della Lega, cioè di Matteo Salvini.

Il suo dicastero è quello per la Pubblica Amministrazione, con più o meno gli stessi titoli del suo autorevole predecessore, Marianna Madia, che un giorno sorrise ai microfoni, dicendo: “Porto in politica la mia straordinaria inesperienza”. Ma Giulia è molto più sveglia, non ha usato le morbidezze preraffaellite per scalare il potere, semmai i nervi, la velocità, il tempismo. È stata pupilla di Gianfranco Fini quando era Fini. Poi pupilla di Mario Monti, ai tempi d’oro del loden. E ha infine folgorato Salvini con un solo slogan: “La difesa è sempre legittima!” al punto da farlo rotolare da cavallo e convincerlo, alle ultime elezioni, a donarle il cuoio rosso dei senatori, e lo scettro ministeriale.

Tutti si aspettavano quello della Giustizia. Ma siccome la politica funziona come nei sequestri di persona, attraverso lunghe trattative con le armi e il telefono sul tavolo, il riscatto alla fine toccherà pagarlo ai travet del pubblico impiego che lei vuole sottoporre a controlli biometrici – iride o impronte digitali per entrare e uscire dall’ufficio – cinque giorni alla settimana, dall’assunzione alla pensione, senza condizionale.

Per farsi concava con ogni leader temporaneamente prescelto, ha semplificato il suo codice di procedura politica a un paio di articoli convessi: guai a voi colpevoli è il primo. E: guai a voi colpevoli è il secondo.

Il resto lo ha affidato alla più encomiabile delle battaglie, quella contro la violenza alle donne, alla quale ha dedicato tutte le sue energie politiche oltre che novantanove delle sue cento interviste. Dal 2007, in compagnia di Michelle Hunziker, ha fondato l’associazione Doppia difesa, per tutelare le donne maltrattate, elaborando un pacchetto di provvedimenti legislativi appena approvato alla Camera, intitolato Codice rosso, a dire l’urgenza con cui polizia e magistrati dovranno sempre reagire alle denunce di maltrattamenti, “non oltre le 72 ore”. È un “tempo perentorio”, visto che è proprio il tempo il complice più crudele dell’uomo che picchia, minaccia, assale e tante volte uccide.

Come talvolta fa il destino, fu proprio una donna minacciata la sua prima cliente di giovane avvocatessa, anno 1990. E quella donna venne uccisa prima di essere ascoltata dai giudici, prima di essere protetta da chi doveva. Un crimine mai dimenticato, con l’aggravante del “tradimento dello Stato”, come ancora oggi Giulia Bongiorno ricorda, con lacrime e furore in tv, per una ferita che non passa.

Quella violenza è il punto di raccordo delle sue due vite, con una curiosa intersezione che transita nel nero della Repubblica, dentro la clamorosa leggenda – anche giudiziaria – dell’uomo che più a lungo incarnò lo Stato e la sua ombra, Giulio Andreotti. Ma andiamo con ordine.

Giulia Bongiorno nasce alto borghese a Palermo tra i libri di Giurisprudenza, anno 1966. Il padre, Girolamo, è professore emerito di Diritto processuale alla Sapienza. Lei studia da prima della classe e non scende mai dal podio. Non è alta, ma gioca a basket e punta dritto a canestro. D’estate nuota nel mare di Mondello che con una granita al gelso resterà per sempre la sua vacanza ideale. A 23 anni si laurea con lode e toga d’oro. La indossa nel più prestigioso degli studi, quello di Gioacchino Sbacchi, palermitano anche lui, re dei penalisti e poi con Franco Coppi, l’inarrivabile decano.

Dopo un po’ di riscaldamento a bordo ring, entra nel quadrato della Storia, sedendosi accanto a Giulio Andreotti inquisito a Palermo e a Perugia per mafia e per l’omicidio di Mino Pecorelli, due accuse da ergastolo, una dozzina di magistrati schierati contro, cento pentiti, tutti i riflettori puntati, compresi quelli della tv giapponese. Lei ha 27 anni. E invece di fare un passo indietro e darsela a gambe, ne fa due in avanti: non è un retore, ma una spugna, anche se fatta con la limatura di ferro. Per cinque volte legge l’intero malloppo del processo, 1,2 milioni di pagine, stesa sul pavimento, usando ogni volta un evidenziatore di colore diverso. Quando ha imparato, punta il dito sinistro, carica il destro e attacca. Va al tappeto due volte, vince alla terza. E siccome le piace stravincere, grida tre volte in aula la mezza bugia del verdetto (“Assolto! Assolto! Assolto!”) facendola diventare una rotonda verità per i distratti posteri.

Passa dieci anni in quel labirinto. Ne esce pronta per la gloria. Andreotti è il suo mentore. Maria Angiolillo il suo divano da sera. Ci si siede due volte la settimana e si gode lo spettacolo di tutti i burattini ammalati di potere che le passano davanti genuflessi. Vincendo nelle aule giudiziarie, brilla di luce propria. Difende Pacini Battaglia, il banchiere “un gradino sotto dio”. Difende Sergio Cragnotti, quello del crack. Difende Raffaele Sollecito, intrappolato nel delitto di Perugia. E persino il grande Francesco Totti, colpevole di sputo in campo, ma anche assolto. Tutti la vogliono, tutti la cercano. A lei piace il sangue e l’inchiostro della battaglia. Quando esce “il Divo” di Paolo Sorrentino, si rimbocca le maniche, pronta a chiedere il sequestro del film per lesa maestà. Ma sua maestà Andreotti la dissuade.

Credendo di avere imparato il necessario, entra fatalmente in politica, dopo averlo escluso per tanti anni. Al primo giro, siamo nel 2006, punta sulla destra di Fini. Che dopo un po’ va a sbattere sugli scogli di Futuro e libertà e dei Tulliani. Lei si salva dal naufragio. La scialuppa gliela offre Monti, ma anche la nuova rotta si inzuppa e si ammoscia. Prova a candidarsi governatore del Lazio, respinta. Piange al funerale di Andreotti: “Era una persona unica. Non rara: unica”. Salta una legislatura. E quando agguanta Salvini, anno 2018, è la festa che aspettava. Il ministero che governa la bellezza di 3 milioni di impiegati pubblici suggella la nuova sintonia col Capitano che semplificando significa: pugno di ferro con gli immigrati, castrazione chimica per gli stupratori (“un atto di civiltà giuridica”), armi ai disarmati. Più una raffica di consigli legali gratis. Per esempio quello di “non rinunciare all’immunità per il caso Diciotti” che sventatamente Matteo aveva annunciato in tv (“processatemi pure”) offrendo il petto ai magistrati. E quello al sottosegretario Armando Siri, altro campione della Lega inquisito per corruzione: “Deve restare al suo posto!”; parola chiave “deve!”, purtroppo ignorata dal premier Giuseppe Conte.

La sua vita privata resta privatissima. Guadagna una fortuna, 2,8 milioni di euro lo scorso anno, ma senza indossare diademi, solo giacche, pantaloni, camicette bianche. Un tempo giocava a calcetto, ora preferisce sedersi nel consiglio di amministrazione della Juventus. Va in chiesa tutti i giorni e siccome è celiaca il prete ha una scorta di ostie senza glutine per lei. Non le piace mangiare, esibirsi, raccontarsi. Ha qualche amica, molte ammiratrici. Nessun fidanzato: “Gli uomini mi annoiano”. Dopo anni che desiderava un figlio, l’ha fatto da sola. Il bimbo ha sette anni e lei lo guarda continuamente “grazie alle telecamere che ho installato in tutta la casa e che controllo con il telefonino. Guardarlo mi fa star bene”. Se faccia star bene anche il pupo non sappiamo, glielo dirà lui tra qualche anno. Per il momento è la sua perentoria volontà che conta: “Lui è il mio angolo di paradiso”. Intendendo per paradiso proprio quello che vede, la casa, e la sua ricercata solitudine. La stessa che frequenta ogni mattina all’alba nell’ora di jogging intorno a via del Corso, prima del caffè in San Lorenzo in Lucina, proprio dove Andreotti aveva lo studio e il potere. È in quella piazza che il suo passato e il suo presente si toccano. Per il suo futuro da ministro restiamo in attesa.

Toh, s’è svegliato Bussetti

In teoria tutto è nato da un tweet che un attivista aveva rivolto proprio a lui: “Una prof ha obbligato dei 14enni a dire che Salvini è come Hitler. Al Miur hanno qualcosa da dire?”. Ma lui, il ministro Marco Bussetti, si era fatto scavalcare dalla sottosegretaria Borgonzoni che aveva replicato al posto suo. Riavutosi nel tardo pomeriggio, a 48 ore dalla notizia della sospensione della prof palermitana, l’altro ieri prendeva in mano le redini così: “Mi sono fatto mandare le carte per valutare anch’io la cosa”. Nell’attesa che il titolare dell’Istruzione capisse di cosa stesse parlando il mondo, il vicepremier Salvini aveva già chiesto un incontro riparatore con la docente. “Spero di essere con lui, voglio incontrarla anch’io”, ha detto ieri su Raitre. Speriamo lo facciano entrare. Un consiglio (glielo chiedeva già l’attivista nel tweet): stavolta, si porti qualcosa da dire.

“Mi dimetto, ma non oggi”. La resistenza di Catiuscia

Da quando gli italiani si sono accorti che esiste l’Umbria, a Perugia non c’è più pace. Perché tutti ne parlano, tutti vogliono ora sapere se sono corrotti come gli altri e, nel caso, se Catiuscia Marini, la governatrice, si dimette. Lo chiede anche il suo segretario, Zingaretti.

Catiuscia, da quando era in fasce, è stata arruolata. A Todi le hanno chiesto di fare ogni cosa, naturalmente il sindaco. Poi, pur di sbolognarla, l’hanno mandata in Europa. Sembrava fatta, e invece l’hanno dovuta richiamare in patria, e da nove anni presiede la Regione.

Governatrice: “Punto primo: non mi dimetto a comando. Decido io. Punto secondo: ho sempre rispettato le leggi”.

Fernanda Cecchini (assessore all’Urbanistica): “Che strano però, solo su di noi tanta attenzione. E mi pare che un avviso di garanzia per turbativa d’asta anche Zingaretti ce l’abbia. Ma giustamente non è stato causa di pregiudizio alla carriera. O vogliamo parlare dei calabresi? Quel che non va giù è questa differente percezione degli atti giudiziari. Come se avessero un peso variabile, e per gli umbri qualcosa di enorme”.

Governatrice: “Vado a memoria, ma mi pare che almeno sette, otto miei colleghi, sindaci e presidenti di Regione, siano stati toccati dalle inchieste. E tutti zitti, giustamente garantisti. L’avviso di garanzia è appunto una garanzia, c’è la presunzione di innocenza. Ma io sono stata trasformata in una colpevole ante litteram”.

Assessora: “E vogliamo parlare di De Luca?”.

Governatrice: “Mi hanno detto che c’è un sito web a lui dedicato. Che fornisce una specie di anamnesi giudiziaria, tiene il conto delle varie inchieste, di ogni singolo fascicolo, dello stato dei diversi processi. Andiamo su….”

Assessora: “Per me non c’è problema, torno a fare l’insegnante di sostegno nella mia comunità (in verità sono stata anche sindaco di Città di Castello).

Walter Verini, commissario del Pd: “Io sono di Città di Castello!”

Governatrice: “A me frega tenere distinte le posizioni, e spiegare a Roma che non si può trattare così un governo regionale e una comunità assai rispettabile”.

Commissario Pd: “Se si dimettono è molto meglio. Sgombriamo il campo da un equivoco, ci lasciano fare in santa pace l’ultima settimana di campagna elettorale e soprattutto dimostriamo che non siamo come gli altri”.

Governatrice: “A me dà noia che un deputato eletto nell’uninominale mi venga a dire cosa debba fare. Io ho preso i voti, uno per uno”.

Assessora: “Io non mi spavento di niente”.

Andrea Liberati, consigliere M5S: “Non siamo noi la talpa. Siamo stati chiamati a fare i consiglieri, cioè a consigliare. Voi avete le vostre responsabilità, l’Umbria sta vivendo l’ora più buia. La notte è alta, dimettetevi e facciamola finita”.

Roberto Morroni, Forza Italia: “Dimissioni”.

Commissario Pd: “Il partito risente del peso di quarant’anni di governo. È divenuto il partito delle preferenze. Tu quanti voti hai, mi chiedevano? Io rispondevo: voi state parlando di preferenze, non di voti. I pacchetti clientelari sclerotizzano e riducono a una struttura chiusa il partito che per definizione dovrebbe essere aperto a tutti”.

Governatrice: “Abbiamo fatto il sesto piano sanitario, quando altre regioni neanche hanno completato il primo. Ma mi facciano il piacere!”.

Assessora: “Ma per favore!”

Capogruppo Pd: “Respingiamo le dimissioni!”

Governatrice: “L’assemblea è sovrana. L’Istituzione non è di un partito, e chi la rappresenta ha l’obbligo di non subire pressioni da un partito, neanche nell’ipotesi che sia il suo”.

Assessora: “È successo un casino quando Calenda ha tirato fuori il caso della Calabria. Come? Marini si deve dimettere e Oliverio no?”.

Governatrice: “La chat dei deputati era intasatissima”.

Presidente dell’assemblea regionale:“Comunico i risultati: undici voti contro otto (compreso quello della presidente, ndr), si approva il documento che respinge le dimissioni”.

Governatrice: “Io non ho voluto dimettermi oggi, ma lo farò presto”

Assessora: “Bellissimo discorso”

Governatrice: “E mi viene il dubbio che queste pressioni esercitate sulla mia persona siano anche frutto del fatto che sono una donna. Colleghe, dovreste riflettere. Per una donna fare politica è più impegnativo”.

Commissario Pd: “Dobbiamo rigenerarci, ripartire, abbiamo tanti bravi dirigenti”.

Governatrice: “Mi dimetterò certo. Ma lo devo fare con un atto personale, staccato, distinto da questo groviglio di questioni. Devo salvaguardare la mia autonomia. Tempo qualche giorno, anche meno”.

Assessora: “Come detto ritorno a fare l’insegnante di sostegno”.

Governatrice: “Tra l’altro ai consiglieri regionali le mie dimissioni toccano fino a un certo punto. Le indennità corrono sempre. Avranno tre mesi per indire le elezioni: ora è maggio, le faranno ad agosto? A settembre magari il governo nazionale decide di accorparle al turno elettorale amministrativo e scavallano anche l’autunno. Vanno avanti col vice presidente. La verità è che solo io me ne esco, l’unica a rimetterci poltrona e stipendio. Se proprio vogliamo dirlo. Ma non ho problemi, basta che non mi senta il fiato addosso, questa pressione mostruosa. Le indagini, l’avviso di garanzia, i giornali. Tutto un concentrato”.

Presidente dell’assemblea: “La seduta è tolta”.

Governatrice: “Hanno detto di no alla crisi politica. Io rispetto il voto. Per adesso”.

La Sea Watch davanti al porto di Lampedusa nonostante il leghista

La nave Sea Watch con a bordo 47 migranti ha oltrepassato ieri il limite delle acque territoriali italiane nonostante il divieto del ministro dell’Interno. La nave ha attraccato davanti al porto di Lampedusa, dopo l’autorizzazione della capitaneria di porto. La comunicazione della diffida del Viminale era stata formalmente notificata dalla Guardia di finanza. Da Lampedusa sono partite due motovedette, nel tentativo di convincere l’equipaggio a non avvicinarsi all’isola: “Abbiamo fatto sbarcare malati e bambini – ha detto Matteo Salvini – ma resta il divieto assoluto alla Sea Watch3 di entrare nelle nostre acque territoriali. Non cambiamo idea: porti chiusi per chi non rispetta le leggi, mette in pericolo delle vite, minaccia. Una Ong, peraltro straniera, non può decidere chi entra in Italia”. Ma la nave è ugualmente entrata in acque territoriali: “Lo abbiamo fatto – spiegano dalla nave – per l’aggravamento delle condizioni a bordo, dove alcuni migranti hanno manifestato anche l’intenzione di suicidarsi”. La nave Mare Jonio, intanto, ha lasciato Lampedusa per raggiungere il porto di Licata dove farà rifornimento e cambio equipaggio. La nave è stata autorizzata a salpare dalla procura di Agrigento.

La nave saudita prova a caricare armi in Italia

Prima una sosta a Genova per imbarcare generatori elettrici di una società che produce anche tecnologie militari. Poi, però, la Bahri Yanbu potrebbe compiere una deviazione imprevista su La Spezia per imbarcare gli otto cannoni Caesar da 155 mm che non è riuscita a caricare a Le Havre perché i portuali l’hanno respinta.

Diventano sempre più oscuri i dettagli del viaggio del cargo saudita che carica armi. Che cosa imbarcherà in Italia? E quale sarà la sua rotta?

Indiscrezioni qualificate raccolte dal Fatto riferiscono che l’armatore saudita starebbe studiando – dopo la sosta a Genova – di deviare sul porto di La Spezia. Sono circa 100 chilometri, poche ore di navigazione. Nella città ligure l’intenzione sarebbe quella di far giungere gli otto cannoni rimasti a terra in Francia. Inizialmente si era pensato anche a Livorno, ma è stata scartata perché i portuali della città toscana con la loro storia ‘rossa’ rischiano di essere un ostacolo. Meglio La Spezia anche perché qui il carico e lo scarico di armi avviene d’abitudine: qui ha sede la Oto Melara, un colosso del settore della produzione di armamenti. Non solo: a La Spezia c’è una base della Marina e il trasporto di armi passa più inosservato. Infine un dettaglio logistico: La Spezia è servita da due linee diverse, una che arriva da Genova e l’altra proveniente dalla Pianura Padana e passa per la Val di Magra. Insomma, è più difficile per eventuali contestatori bloccare il carico.

Ma intanto la Bahri Yanbu dovrà superare lo scoglio della sosta genovese. Ieri sera i portuali del Calp (Collettivo autonomo lavoratori portuali) hanno postato su Facebook le fotografie del materiale che la Yanbu imbarcherà nel porto ligure. “Non sono armi”, giurano e spergiurano le autorità italiane. I portuali sollevano un dubbio: sui colli infatti è riportato il nome di una ditta italiana, la Teknel di Roma. Nel sito della società si parla di prodotti per il settore ‘Difesa’. E si dice: “Teknel offre una linea completa di prodotti che include stazioni di controllo a terra, sistemi di comando e controllo, ripari logistici, rimorchi e sistemi di generazione di energia, sistemi di climatizzazione e attrezzature associate”.

Filippo Arcangeli, proprietario della Teknel, racconta: “Noi forniamo all’Arabia apparecchi per il controllo dell’inquinamento elettromagnetico e generatori elettrici realizzati con una tecnologia che consente di lavorare nelle condizioni particolari del deserto”. Materiale civile, sostengono alla Teknel. Ma il destinatario è civile o militare? “È la Guardia Nazionale saudita, che però non è l’esercito, ma piuttosto l’equivalente della nostra polizia”. Arcangeli aggiunge: “Noi non abbiamo venduto armamenti ai sauditi. Ma dobbiamo renderci conto che l’Italia è uno dei maggiori produttori mondiali di armi. Un settore che dà lavoro a centinaia di migliaia di persone. Chi combatte contro questa realtà secondo me è idiota, vuole la rovina dell’Italia”.

Non la pensano così, ovviamente, i portuali e le associazioni genovesi che lunedì hanno deciso di organizzare un presidio all’arrivo del cargo. Il dubbio per loro resta: “Se il materiale inviato dall’Italia viene utilizzato dalle forze armate, può contribuire alla guerra nello Yemen dove sono morti migliaia di civili”.

Dai documenti ufficiali la Yanbu dopo Genova dovrebbe andare ad Alessandria d’Egitto e infine a Jeddah. Ma niente impedirebbe una diversione verso La Spezia. E, ipotizzano i pacifisti sardi, anche una toccata a Cagliari dove già in passato i sauditi hanno caricato armi prodotte dalla Rwm Italia, branca nostrana della tedesca Rheinmetall.

Il dl Sicurezza-2 imbarazza il Colle e irrita anche l’Onu

Sul decreto sicurezza bis il braccio di ferro continuerà fino a lunedì e oltre: d’altra parte Matteo Salvini è, come dice chi ha uso di mondo, in una situazione win-win. Se il testo passa in Consiglio dei ministri, anche col solito “salvo intese”, ha vinto; se non passa farà il martire col suo elettorato. Ieri infatti, a margine della manifestazione di Milano, era serafico: “Siamo pronti, abbiamo preparato tutto. Il Cdm non lo convoco io, ma siamo pronti anche a recepire miglioramenti, suggerimenti, emendamenti”. E se invece bloccano il decreto? Gli chiedono. Sorriso: “Perché? Spero di no”.

In realtà bloccarlo e rinviarlo a tempi migliori è proprio quello che tentano di fare Giuseppe Conte e i 5 Stelle. Siccome quel decreto flirta con l’incostituzionalità in almeno la metà dei suoi 12 articoli (dalla multa sui salvataggi alle norme sull’ordine pubblico), discuterlo come se fosse un normale testo legislativo è impossibile: si vuole evitare, insomma, una rottura pubblica prima delle Europee (anche per non fornire altri argomenti a Salvini). Per questa soluzione spinge pure il Quirinale: i suoi giuristi, come sempre accade, hanno informalmente dato un’occhiata alle bozze e sperano che un testo del genere non arrivi a mettere in imbarazzo Sergio Mattarella prima del voto.

Ovviamente, però, nessuno deciderà nulla fino all’ultimo momento nel governo in cui nessuno parla più con nessuno: un Cdm andrà convocato comunque perché da lunedì è vacante la poltrona di Ragioniere generale dello Stato (lasciata libera da Daniele Franco) e da venerdì quella di capo della Guardia di Finanza (va via Giorgio Toschi). Il Colle sollecita una riunione per le nomine e che tutto il resto sia rimandato a dopo il voto, compreso il decreto Famiglia che doveva essere l’ultimo spot elettorale di Luigi Di Maio. Conte dovrà convincere entrambi i contendenti a rinunciare alla loro bandierina: in sostanza, uno scambio di ostaggi.

A rendere ancor meno sereno Mattarella, finito in mezzo ai dispetti incrociati gialloverdi, è arrivata la letteraccia dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani, consegnata mercoledì all’ambasciatore italiano al Palazzo di Vetro e resa pubblica ieri. Si tratta di una critica durissima ai recenti provvedimenti di Salvini, a partire dalla due direttive, una delle quali mira a bloccare le navi che abbiano soccorso migranti fuori dalle acque territoriali italiane.

Non manca, però, una citazione anche per il decreto Sicurezza bis: “Siamo molto preoccupati”, in particolare per le multe da 3.500 a 5.500 euro a naufrago salvato. L’insieme di queste norme, dice l’organismo Onu, non è altro che “l’ennesimo tentativo politico di criminalizzazione delle organizzazioni della società civile impegnate nelle attività di salvataggio in mare”, tentativo realizzato con la scusa di rischi per la sicurezza o accuse alle Ong “che non sono basate su nessuna decisione dell’autorità giudiziarie”. Così si rischia solo di intensificare “il clima di ostilità e xenofobia contro i migranti”.

Più in generale, l’Alto commissariato attacca anche la politica di contenimento dell’immigrazione in Libia iniziata col governo Gentiloni: “La Libia non può essere considerata un porto sicuro, specie dopo l’inizio del conflitto in corso. In molti rapporti Onu e di Ong è ampiamente documentata la violazione dei diritti umani per i migranti, dove sono soggetti a traffico di esseri umani, detenzione arbitraria, tortura e maltrattamenti, violenze sessuali, esecuzioni extragiudiziarie, lavoro forzato ed estorsioni”.

Insomma, sbarcare i migranti in Libia “viola il principio di non respingimento”, né può essere considerata un partner affidabile la Guardia costiera libica, che “è stata più volte accusata di collusione coi trafficanti”. Alla fine, l’Onu chiede di sapere “quali passi intenda compiere il governo per allineare le politiche migratorie con gli obblighi di rispetto dei diritti umani”.

Le Nazioni Unite: l’Ue non ferma le armi destinate alla Libia

Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha chiesto a tutti i Paesi di mettere in atto un embargo sulle armi nei confronti della Libia, sottolineando come prevenire la proliferazione delle armi sia importante per ridimensionare il conflitto e per ristabilire la stabilità nel Paese.

Guterres ha espresso “profonda preoccupazione” per l’arrivo di armi anche dal mare, rimarcando che l’Ue ha esteso il mandato della missione navale ma ha ridotto la sua presenza nell’area. In un rapporto circolato ieri al Consiglio di sicurezza, Gueterres osserva che “le operazioni militari in atto in Libia sono rafforzate dal trasferimento di armi nel Paese, anche dal mare”.

Guterres ha fatto specifico riferimento all’applicazione di una risoluzione dello scorso giugno che autorizzava le autorità marittime dell’Unione europea a imporre un embargo sulle armi al largo delle coste libiche. “In marzo i Paesi dell’Unione europea hanno esteso il mandato della missione navale ma hanno preso la singolare iniziativa di limitare le operazioni rifiutando di consentire il dispiegamento di unità navali”.