Due passi e un selfie, basta non incontrare il collega Di Maio

Una lunga (e piovosa) passeggiata all’ombra del “Dito” di Maurizio Cattelan, qualche selfie, due chiacchiere con i giornalisti prima di entrare. Così Matteo Salvini ha evitato di incontrare l’altro vicepremier, Luigi Di Maio, all’assemblea di Confagricoltura che si è tenuta a Milano a Palazzo Mezzanotte. Entrambi invitati, entrambi presenti, eppure talmente distanti da non volersi nemmeno salutare. Già, perché il leader leghista ha atteso diversi minuti prima di palesarsi nell’edificio, giusto il tempo di permettere al leader M5s di finire il suo intervento sul palco e di andare via da un’altra uscita. A poco sono servite le rassicurazioni, arrivate da entrambe le parti, sulla futura “tenuta del governo” qualunque sia l’esito delle europee. Dal dl famiglia al caso Siri, fino allo scontro sulle morti bianche e sulle inefficienze del Viminale, le botte mediatiche fra M5s e Lega degli ultimi giorni non hanno fatto altro che scavare un solco nell’unità di governo. E l’escamotage di Salvini per non trovarsi faccia a faccia con Di Maio a pochi giorni dal voto ne è la dimostrazione più palese.

Burke nella piazza Pro Life: il cardinale anti-Bergoglio ora ci mette il cappello

“Basta genocidi silenziosi”. Roma, ore 14 e 30, piazza della Repubblica. Tra palloncini, immagini minacciose di feti mai nati, slogan contro l’eutanasia e tamburelli per dare il via alle danze, il corteo dei Pro Life si prepara a partire. Piove, la presenza è ridotta, l’atmosfera piuttosto cupa. Dietro gli striscioni delle varie associazioni che compongono il cartello Pro Vita, gli irriducibili.

A un certo punto, a sorpresa, appare il cardinal Burke, il capofila degli anti-Bergoglio, quello che più si è esposto a livello mondiale contro questo papato, quello che tesse le fila dell’internazionalele sovranista con Steve Bannon e Benjamin Harnwell, il suo fedelissimo che gestisce la Certosa di Trisulti. “Ma anche lei crede che Francesco non è cattolico?”, gli chiedono. Lui non risponde. Silenzio su tutto. Sorride, si guarda intorno, stringe mani. Però, è venuto a metterci il cappello. Al Congresso delle Famiglie di Verona (che era stato l’appuntamento precedente di queste organizzazioni) non s’era fatto vedere: ma a Roma non c’è neanche la pretesa di tenere bassi gli istinti più estremi. La 194 è sul banco degli imputati, il Papa pure. Non a caso, a sfilare per la Lega c’è solo il senatore Simone Pillon. Gli altri sono tutti a Milano, e poi è meglio non farsi vedere troppo. Fratelli d’Italia porta lo striscione “Dio, patria, famiglia”: c’è Isabella Rauti, Giorgia Meloni non si fa vedere.

Alla testa del corteo, insieme a Burke, ci sono monsignor Luigi Negri, arcivescovo emerito di Ferrara-Comacchio, l’arcivescovo di Utrecht, cardinale Willem Jacobus Eijk, la psicologa Silvana De Mari, la venezuelana Christine de Marcellus de Vollmer. E arriva pure Cristiano Ceresani, ex capo di gabinetto di Maria Elena Boschi, ora di Lorenzo Fontana, autore di “Kerygma”, saggio teologico piuttosto oscurantista. La lobby mondiale, nata nel nome della famiglia tradizionale, si affaccia nella Capitale. In fondo al corteo, arriva Forza Nuova. “L’Italia ha bisogno di figli, non di immigrati”, lo striscione. Accanto la bandiera. Gli organizzatori, rappresentati da Virginia Coda Nunziante e Tony Brandi, si avvicinano, chiedono di toglierla. Gli attivisti lì per lì si rifiutano. Tanto che quando a un certo punto proprio nelle vicinanze appare Burke, i due lo prendono sottobraccio e lo allontanano. Palco a Piazza Venezia, tutti contro la 194. Si aspetta il 26 maggio per capire quanto la rete contro l’aborto, contro le comunità Lgbt e per le famiglie peserà a livello europeo.

Vietato “restare umani”. Anche per Zorro

Il “Gran Galà del Futuro” è andato in scena ieri pomeriggio a Milano. Diverse migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro le politiche sovraniste di Salvini e dei suoi alleati europei. Un corteo colorato che ha sfilato sotto la pioggia tra striscioni appesi ai balconi e pupazzetti di Zorro, nuovo simbolo della protesta anti leghista a causa dell’episodio del furto subito dal futuro ministro raccontato nel libro intervista edito da Altoforte, casa editrice vicina a CasaPound: “Dietro quella maschera ci sono i migranti e tutti quelli che subiscono sulla loro pelle le conseguenze del decreto sicurezza e delle politiche di destra” racconta Riccardo che, a nome della rete Milano Antifascista Antirazzista Meticcia e Solidale vestito da Zorro da un balcone in piazza Duomo ha esposto lo striscione “Restiamo Umani” prima di essere portato via dalla polizia.

“I segnali che stiamo vedendo nel Paese sono preoccupanti – racconta la maestra elementare Angela Bozzi, 36 anni – quando iniziano a punire delle insegnanti colpevoli di aver fatto lavorare i propri alunni allora significa che bisogna reagire”. Così insieme alle sue colleghe ha scelto di manifestare indossando delle maschere bianche con su scritto “Le idee non si sospendono, adesso sospendeteci tutte”. Sono tanti gli striscioni che sono stati staccati dai balconi per essere portati in piazza. C’è chi auspica il “rimpatrio forzato per Le Pen e Salvini, fora de Milan” e chi promette di cedere “il pupazzetto di Zorro in cambio di 49 milioni”. L’immagine dei vigili del fuoco che rimuovono lo striscione a Brembate è ancora viva nella mente del pompiere Costantino Saporito: “Non possiamo essere usati come organo di repressione perché sarebbe un passo indietro. Un ministro dovrebbe occuparsi di questioni importanti”.

Mentre il corteo procede proteggendosi sotto la pioggia con i teli dorati simbolo delle tragedie nel Mediterraneo, arriva anche la telefonata di Mimmo Lucano che invita “a ribellarsi e a reagire”. Un appello che viene raccolto dal corteo: “È arrivato il momento di dire da che parte si sta, non possiamo rimanere indifferenti di fronte a quello che sta succedendo – racconta Luca, tranviere iscritto all’Anpi che solidarizza con l’equipaggio di Mediterranea, la nave impegnata nel recupero dei migranti – contro il razzismo, bisogna disobbedire e non far finta di nulla come ha fatto invece per mesi il Movimento 5 Stelle”. Il partito di Luigi Di Maio viene messo sul banco degli imputati dal corteo. L’accusa è quella di aver scoperto un “antifascismo e antirazzismo elettorale dopo mesi di teatrini” racconta Elena della rete Non Una di Meno.

Le fa eco Anna, 73 anni. Lei non ha appeso nessun lenzuolo, ma solo perchè “il mio striscione è dentro la mia testa. Il M5S è complice delle politiche leghiste. Per mesi hanno governato insieme e adesso si indignano. Sembra un copione teatrale con un poliziotto buono e uno cattivo”. Il Galà non può che concludersi con dei fuochi artificiali che vengono sparati in aria da un edificio abbandonato per festeggiare il ritorno di Zorro che è riuscito a “violare” la piazza di Matteo Salvini con lo striscione “Restiamo Umani”.

Il vice di Kurz lascia per il video-scandalo: sarà voto anticipato

È un dramma che si consuma in un pugno di ore quello che si svolge a Vienna tra venerdì e sabato, a pochi giorni dalle elezioni europee. Sul leader del partito di estrema destra austriaco al governo, il vice-cancelliere Heinz Christian Strache, si abbatte uno scandalo che lo costringe alle dimissioni: un video lo ritrae mentre mercanteggia favori con una presunta ereditiera russa in cambio di sostegno politico. Passano alcune ore e il cancelliere Sebastian Kurz sceglie di trarne le conseguenze nella maniera più radicale: si va tutti a nuove elezioni, fine dell’esperienza di coalizione con il partito di estrema destra Fpoe. “Quando è troppo è troppo” dichiara Kurz davanti alle telecamere nell’annunciare la fine del suo governo, “l’Fpoe danneggia il nostro paese” aggiunge. Intanto la piazza davanti alla cancelleria di Vienna, nella Ballhausplatz , rumoreggia e il numero dei manifestanti aumenta, arrivando a più di cinquemila.

Tutto nasce nella serata di venerdì quando viene reso pubblico, in contemporanea dalle testate tedesche Sueddeutsche Zeitung e Der Spiegel, un video dove il leader del Fpoe, in un incontro dell’estate 2017 in una villetta di Ibiza, mercanteggia favori politici in cambio di sostegno economico al suo partito con una sedicente nipote di un oligarca russo. Il video documenta una lunga serata estiva, dalle 17 a mezzanotte, a cui partecipano oltre al leader del Fpoe, anche il suo braccio destro Johann Gudenus con la moglie, e la presunta nipote dell’oligarca, tale Aljona Makarowa.

Nelle riprese girate con telecamera nascosta Strache si mostra interessato alle intenzioni della russa di investire milioni di euro – di dubbia provenienza – in Austria e promette di favorirne gli investimenti in cambio del suo appoggio politico. Tra le opzioni sul tavolo c’è l’acquisizione del 50% del quotidiano austriaco Kronen Zeitung: “Se Lei acquisisce la Kronen Zeitung tre settimane prima delle elezioni e ci mette al primo posto, possiamo parlare di tutto”, dice Strache nel video. Tra le altre opzioni previste c’è anche il finanziamento al suo partito attraverso donazioni ad associazioni e circoli legati al partito, eludendo in questo modo la legge austriaca in materia di finanziamento ai partiti sopra i 50 mila euro di elargizioni. All’epoca del video l’Fpoe – il Freiheitliche Partei Oesterreich reso celebre dallo scomparso Joerg Haider – era in campagna elettorale, e Strache l’uomo forte del partito. La donna russa, rivela Sueddeutsche, era in realtà un’adescatrice e l’incontro sembra avere tutte le caratteristiche di una trappola.

“È stato un errore”, ha commentato oggi Strache nella conferenza stampa in cui si è dimesso. È stata una “storia alcolica in un’atmosfera intima”, si è giustificato. “Mi sono comportato come un teenager”. Per questo si è lasciato andare a considerazioni imbarazzanti, ammette. Molto imbarazzanti.

Come l’auspicio di ridurre la stampa austriaca alle condizioni nelle quali si trova quella ungherese sotto la guida del premier Viktor Orban. Poi però è passato al contrattacco: il video è “un attentato politico mirato” contro di lui e contro il suo partito, e i responsabili sono le “reti criminali”. Strache ha fatto più volte riferimento ad “un’azione guidata dai servizi segreti” e ha accusato la stampa di aver usato metodi “illegali” per acquisire il materiale.

Le due testate tedesche, Der Spiegel e Sueddeutsche Zeitung, ammettono di non poter rendere note le loro fonti e dichiarano di essere venute in possesso del video nel corso dell’ultimo mese. Il materiale è stato sottoposto a un’attenta e scrupolosa verifica, ed è passato sotto le mani di personale qualificato prima della pubblicazione.

Certo, il tempismo è sospetto a quasi due anni dai fatti e a un soffio dalla tornata elettorale. Per questo viene rilanciata dai media tedeschi e austriaci la pista di una guerra dietro le quinte all’interno dei servizi o tra servizi di diversi paesi. Di questa guerra sui media sono emerse tracce frammentarie nel tempo, come la decisione di aprile di Kurz di avocare a sé il controllo dei servizi togliendola dalle mani degli Interni, finora guidati dall’Fpoe, o la perquisizione della sede dei servizi interni circa un anno fa.

Sovranisti e rosario: Salvini a Milano con la “sua” Europa

Matteo Salvini finisce di parlare, viene raggiunto da Marine Le Pen, che lo abbraccia e “chiama” il selfie. Eccola l’immagine emblematica del palco a piazza del Duomo, a Milano: il segretario della Lega e la sua alleata numero 1, leader del Rassemblement National, considerata talmente vicina a Vladimir Putin da essere stata in questi mesi un ostacolo rispetto al progetto della grande internazionale sovranista. La piazza non è piena del tutto. Salvini esibisce il rosario, si appella a una squadra di santi, cita Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e pure papa Francesco, ma quest’ultimo si guadagna i fischi della folla. In buona compagnia: i fischi arrivano pure alle citazioni di Merkel, Macron e Juncker. Il comizio viene punteggiato da Bella Ciao, intonata dai contestatori in un angolo. Clima più nervoso, che festoso. Il governo logora chi ce l’ha.

La convention doveva essere la consacrazione dei padroni dell’Europa del futuro. Ma mancano l’ungherese Viktor Orban e il polacco Jarosław Kaczynski, uno ancora nel Ppe, l’altro nei Conservatori e Riformisti: la Le Pen e la presenza di un drappello di estremisti non hanno aiutato. C’è pure un rappresentante dell’Fpo austriaco, proprio mentre il vice cancelliere Strache si dimette per sospetti legami con il governo russo. Tocca alla Le Pen l’intervento prima di Salvini: “Questa manifestazione è l’atto fondatore della rivoluzione pacifica e democratica del risveglio dei nostri popoli”. Sul palco, prima di lei, salgono i rappresentanti delle 11 delegazioni presenti. Patria, no agli immigrati e “grande Salvini”, le parole più gettonate. “Sosteniamo Salvini e la vostra politica anti-immigratoria”, dice il bulgaro Veselin Mareshki, l’imprenditore farmaceutico che ha fondato Volontà e lo ha portato al governo. “È l’ora di mandare questi politici in una discarica della storia”, si sforza di parlare italiano un altro imprenditore, Boris Kollar di Siamo famiglia, slovacco, che alle elezioni in patria non è andato oltre il 6%. “Juncker e Macron potrebbero islamizzare l’Europa”, declama Tomio Okamura, anche lui uomo d’affari ceco-giapponese, leader dello Spd della Repubblica ceca, che è arrivato al 10% promettendo tolleranza zero sui migranti, in un Paese dove i migranti non ci sono. “Gli Stati devono proteggere i nostri cittadini”, dice Jaak Madison, vicepresidente dell’ Ekre, che ha sfondato alle elezioni estoni, prendendo posizione contro l’unica minoranza che pesa in quel paese, ovvero quella russa.

“I popoli d’Europa riprenderanno pieno controllo dei propri confini”, declama Gerolf Annemans, il leader del partito fiammingo belga Vlaams Belang, che solo due giorni fa all’Huffington ha predetto l’Italexit. Poi tocca a Andres Vistisen del Partito popolare danese (quello che voleva deportare i migranti su un’isola deserta): “È ora di seguire la leadership di Salvini”. “È il momento di restituire l’Europa ai suoi cittadini”, rincara Laura Huhtasaari, dei Veri Finlandesi, arrivati a un soffio dalla vittoria in patria ad aprile, puntando su xenofobia e anti ambientalismo. Parla di “Fortezza europea”, Jorg Meuthem in rappresentanza dei negazionisti tedeschi dell’Afd. “All’Europa servono più Salvini”, declama Geert Wilder del Partito della Libertà olandese, storico alleato della Lega a Bruxelles, che però pareva troppo estremo ai vertici del Carroccio qualche mese fa.

Mentre risuonano le note di Nessun dorma, sul palco c’è tutta la Lega. Salvini rilancia il governo in Italia. E sull’Europa mette le mani avanti: “Dovrà tornare centrale il Parlamento europeo che è l’unica istituzione liberamente eletta”. Pure quella che conta di meno, ma in Consiglio e Commissione, dati i pesi dei singoli governi, l’internazionale sovranista non può incidere troppo. Si vota la prossima settimana, la rivoluzione dei popoli (forse) può attendere.

Le basi del mestiere

“Grande è la confusione sotto il cielo”, come diceva Mao Tse- Tung. E “mancano le basi del mestiere”, come diceva Mario Brega. A una settimana dalle elezioni europee, ecco un breve dizionarietto di quel poco che ci abbiamo capito noi.

Sovranismo. Termine usato per definire i politici che difendono gl’interessi del proprio Paese, fregandosene degli altri. Dunque Trump, Farage, Le Pen, Orbàn e i suoi compari di Visegrad, Salvini, Meloni e ogni tanto Di Maio. Resta da capire in cosa differiscano da Macron, Merkel, Sanchez, May &C.,che difendono gl’interessi dei propri Paesi esattamente come gli altri, con tanto di frontiere chiuse ai migranti e deroghe alle regole Ue. L’impressione è che siano tutti sovranisti in casa propria ed europeisti e solidali in casa d’altri.

Populismo. Termine usato per definire i politici che promettono l’impossibile per prendere più voti e poi, finita la campagna elettorale, fanno quel poco che possono e, se qualcuno protesta, danno la colpa agli altri. Cioè Trump, Le Pen, Orbàn, Di Maio, Salvini e Meloni. Resta da capire in cosa differiscano da Obama, Cameron, Sarkòzy, Renzi, B.&C., che promettevano mari e monti e poi, finita la campagna elettorale, han fatto meno di ciò che potevano per poi dare la colpa agli altri. L’impressione è che siano tutti populisti per prendere voti e poi, se non riescono a prenderli o a conservarli, diano del populista a chi ci riesce.

Fascismo. Termine usato dagli storici per designare un’ideologia autoritaria o totalitaria degli anni 20-40 del secolo scorso, nata in Italia con Mussolini e dilagata in Europa con Hitler, Franco e altri dittatori di estrema destra, con tragedie immani dalla Shoah in giù e scie di imitatori e nostalgici qua e là nel mondo, e poi dagli anni 70 dalla sinistra per scomunicare chiunque non sia di sinistra. Ora in Italia si tende ad affibbiarlo a Salvini per le frequentazioni di estrema destra e il linguaggio truculento contro i migranti. Purtroppo il fascismo durò 21 anni, mentre per fortuna Salvini si sta già sgonfiando. Purtroppo nel governo Mussolini, sedeva il meglio della cultura dell’epoca (Gentile, Rocco, Bottai, De Stefani, Grandi), mentre per fortuna la classe dirigente salvinista è fatta di Siri, Rixi, Centemero (tutti indagati) e Borgonzoni (che non legge libri da tre anni e se ne vanta). Perciò Salvini spera di essere scambiato per il Duce, ma ci cascano in pochi. A parte i presunti nemici.

Diritto di critica. La libertà di espressione, garantita dall’art. 21 della Costituzione, tutela sia chi applaude sia chi critica il potere.

Dunque non basta che un editore sia fascista e pubblichi un libro-intervista a Salvini per escluderlo dal Salone del Libro. L’editore di CasaPound aveva tutto il diritto di esporre i suoi libri (anche se poi l’ha perduto quando s’è messo a fare apologia di fascismo, vietata dalla legge). A maggior ragione, chi critica Salvini con striscioni (“Felpa Pig”, “Siamo una città accogliente, quindi vattene”, “Vai a lavorare”) o lo sbeffeggia con selfie, ha il sacrosanto diritto di farlo e le forze dell’ordine non devono permettersi di entrare in casa sua o nel suo iPhone per farglieli levare, altrimenti il reato lo commettono loro. Altra cosa è istigare alla violenza (dire “Ammazzate Salvini”), ma slogan così non ne risultano (salvo nelle fogne del web). Spetta al ministro dell’Interno diffidare le forze dell’ordine dall’abusare del loro potere in suo favore contro chi esercita un diritto.
Leggi razziali. Norme infami varate dal nazismo e dal fascismo negli anni 30, che produssero le persecuzione, le deportazioni e lo sterminio di oltre 6 milioni di ebrei, zingari e gay. Per fortuna, nessuna legge lontanamente simile, cioè discriminante per etnia o inclinazioni sessuali, è mai stata varata in Italia. E, se qualcuno la tentasse, il Quirinale la respingerebbe e la Corte costituzionale la casserebbe. Il primo dl Sicurezza di Salvini è in parte assurdo e controproducente, moltiplica gli immigrati clandestini ed è ancora sub judice della Consulta. Il secondo, annunciato da Salvini ma stoppato da Conte e M5S per varie incostituzionalità e sgrammaticature, è ancor più demenziale, ma non discrimina alcuno. Giusto, come rivendica la prof di Palermo, lasciar liberi gli studenti di paventare un ritorno agli anni 30 e assurdo sospendere lei: purché, quando torna, insegni loro che cosa furono la Shoah e le leggi razziali, per evitare di banalizzarle con paralleli impropri.

Fake news. Termine à la page per indicare le notizie false, usato da chi le diffonde in tv e sui giornali per criminalizzare chi le diffonde sul web. Non esistendo però alcun tribunale autorizzato a stabilire la Verità, nessuno deve permettersi di chiudere o invocare la chiusura di tv, giornali, siti e pagine web col pretesto delle fake news. Che si combattono non con la censura, ma con l’informazione corretta e il fact checking.

Giustizialismo. Termine nato dalla crasi giustizia-socialismo per definire la politica di Peròn nell’Argentina degli anni 40-50, viene usato in Italia per squalificare chi pretende il rispetto della legge da parte delle classi dirigenti e pene severe per chi la vìola. Viene opposto a “garantismo”, di cui si ammantano abusivamente i tifosi dell’impunità. Sarebbe “giustizialismo” la decisione di Conte e M5S di sfiduciare il sottosegretario Siri che usa le sue funzioni per favorire un amico: ma quella si chiama sanzione politica contro i conflitti d’interessi. Sarebbe invece “garantismo” la decisione della governatrice umbra del Pd Marini, indagata nel mega-scandalo della Sanità, di ritirare le dimissioni e del Pd regionale di confermarle la fiducia: ma quello si chiama tafazzismo. Anzi, pirlismo.

Egerton, un’ugola degna di Elton

Per carità, lo stesso Taron Egerton, il finzionale Elton John, si dice “orgoglioso di venire associato a un fenomeno”, e di fronte ai 903 milioni di dollari incassati e ai quattro Oscar, tra cui miglior film, di Bohemian Rhapsody c’è da capirlo. Eppure, la differenza che passa tra il suo Rocketman, fuori concorso a Cannes 72 e dal 29 maggio nelle nostre sale, e il peana a Freddie Mercury e i Queen è quella sostanziale tra un musical biografico e il biopic di un musicista: sì, meglio il primo. I due titoli hanno in comune il regista, Dexter Fletcher, qui a bordo dall’inizio mentre Bohemian lo completò non accreditato dopo l’uscita di Bryan Singer, ma divergono assai nelle prove dei protagonisti: Rami Malek per cantare Mercury s’è limitato a sincronizzare le labbra, viceversa, a Elton John, già interpretato nell’audizione alla scuola d’arte drammatica e nel cartoon Sing, Egerton ha dato anima e ugola. Lui è da Oscar, anzi, se l’ha avuto Malek dovrebbero darglielo oggi stesso, Rocketman no, troppo convenzionale e benedetto dallo stesso Elton – i santini sui titoli di coda! – per graffiare, ma le canzoni, da Your Song a Goodbye Yellow Brick Road, da I’m Still Standing a Don’t Let the Sun Go Down on Me, hanno piena residenza drammaturgica e gli show, da Crocodile Rock al losangelino Troubadour a Rocketman al Dodger Stadium, meritano applausi.

Egerton ringrazia la popstar per “avermi permesso di entrare nella sua pelle, oltre la pompa e la cerimonia”, e confessa di essere stato “beccato a frugargli nottetempo nel frigo dal capo della sua sicurezza, dopo una serata ad alto tasso alcoolico”.

Sempre splendidi, ma più morigerati sono i costumi – firmati dal couturier di Valentino Pierpaolo Piccioli – di The Staggering Girl di Luca Guadagnino, che sul rapporto madre-figlia e con la diafana Julianne Moore tesse 37 minuti eleganti e fascinosi. In cartellone alla Quinzaine, e prima volta di Guadagnino a Cannes: “Un premio, dato che sono un vecchio nouvellevaguista”.

Per la Palma, c’è Ken Loach – sarebbe la terza – con il rabbioso Sorry We Missed You che mette al muro la gig economy, e ancor più, molto di più, Dolor y gloria di Pedro Almodóvar, peraltro ancora digiuno del massimo riconoscimento. A non convincere è Little Joe di Jessica Hausner (Lourdes), che con Emily Beecham e Ben Whishaw coltiva una pianta sperimentale antidepressiva, ma poi l’annaffia di immagini anodine.

“La mia è sostanza: sogno marito e figli e vado in chiesa”

Fuori dal camerino, nell’attesa di parlare con lei (sta mangiando), arrivano all’ufficio stampa due richieste d’intervista, e da quotidiani nazionali. Desiderata, Elettra Miura Lamborghini (non è un nome d’arte). È il fenomeno televisivo del momento, protagonista di The Voice, con i suoi modi spigliati, agitati, vestita per mettere in risalto le forme naturali e quelle ricercate, ama “dire sempre quello che penso”, ripete spesso. Per conoscerla bastano i numeri di una biografia breve ma di questi tempi già densa: 25 anni ieri, 5 reality, ultra-trash, e sparsi tra le tv straniere. Il primo singolo Pem Pem ha milioni di visualizzazioni, possiede 30 cani e della servitù per accudirli; ha 42 piercing, molti dei quali con diamanti e un numero imprecisato di auto sportive. Ovviamente tutte Lamborghini, il cognome non è casuale. A The Voice è un coach, forse il meno preparato, sicuramente il più chiacchierato.

Nonostante il clamore, i settimanali femminili non le dedicano molto spazio.

Ho avuto una copertina su Maxim, ma cerco di concentrarmi su interviste fighe più che finire su giornali di gossip; non amo strumentalizzare aspetti privati della mia famiglia, non voglio raccontare i cazzi miei ai giornaletti.

Ha partecipato a dei reality dove il confine tra privato e pubblico è molto labile.

C’è differenza tra studiarsi la storia e raccontare chi sei.

Come viene giudicata dalle donne over 40?

Mi guardano tutti bene.

Trasversalmente.

Non ho paura di partecipare a programmi come su Rai2, dove una presenza come la mia è difficile trovarla, per questo ringrazio la Rai e Simona (Ventura).

Salto di qualità.

È saper guardare al futuro, non si può essere sempre legati al passato, ora va la trap (genere musicale).

In questo ultimo periodo quando uno deve spiegare il proprio successo risponde “perché sono me stesso”.

Non ci riescono tutti, in tanti provano a copiarmi, tentano la strada del “simpaticone”, poi uno li guarda e pensa: “Che cavolo stai a fa’?”. Io sono me stessa.

La sua immagine è un po’ studiata.

Per niente, per l’amor di Dio.

Passa da atteggiamenti provocanti, a interviste dove si definisce “figa di legno”.

Sono fidanzata e sono contentissima, lui è tenero e non gli ho mai messo le corna.

Resta la contrapposizione tra forma e sostanza.

No, sono le idee delle persone malate che giudicano l’apparenza (Si innervosisce per la musica di sottofondo, ci sono le prove del programma: “Almeno chiudete la portaaaa!”)

Dicevamo?

Una persona è libera di vestirsi e fare ciò che vuole e se uno pensa male non è colpa mia.

Il “Geordie shore” non è un programma delicato.

Non è spinto, solo ragazzi che si divertono (in realtà accade di tutto, a confronto il Grande Fratello è da educande)

Cosa le scrivono sui social?

Solo cose positive.

Solo positive.

Ovvio, se vado sulla pagina di politica, si parla della Lamborghini come una figa xxx.

Niente politica.

Non c’entro niente.

Ha mai votato?

Certo. Mio padre mi dice “devi assolutamente farlo”.

Non si interessa ma ritiene il voto importante.

Non parlo di certe cose.

Il giudizio di suo padre è fondamentale.

Se non avessi avuto i miei genitori che mi hanno educata, sarei una delle tante che dice “non voto perché tanto non cambia niente”.

La sua generazione spesso non conosce alcuni mostri sacri del cinema o della musica italiana. Ad esempio, sa chi è Ugo Tognazzi?

No, mi spiace.

Mai sentito nominare?

Se volete mettermi alla prova, anche no.

È solo per capire…

Mi sono concentrata sul reggaeton.

È nata a Bologna: Dalla?

Sento altra musica, e non sono meno artista di altri.

Tognazzi era un attore.

E ‘sti cazzi! (Si altera) Non capisco queste domande provocatorie, mi sento attaccata.

Non lo è.

Sono domande scomode.

Sicura?

È entrato su temi politici.

Quali?

Tocca argomenti che non capisco cosa c’entrino.

Tognazzi era una questione generazionale.

E allora sarà meglio dirlo agli insegnanti, ci pensino loro.

Ha dichiarato di leggere molto. Cosa le piace?

L’ultimo libro è di psicologia, amo molto analizzare il linguaggio del corpo.

In questo momento è sulla difensiva.

Perché?

È seduta di traverso, chiusa, con le gambe incrociate.

Se mi fossi messa così non sarebbe stato carino (nel frattempo allarga le gambe con evidente elasticità e indica le parti intime). Non credo a quelle cose.

Cioé?

Se dovessi parlarle con le cosce aperte, sarei una cafona. (Decisamente alterata).

Ha avuto paura di ottenere tutto e subito?

Non è facile. E un po’ ci sono rimasta: in carriera ho saltato dei passi, non ho studiato; il primo concerto è stato a Los Angeles in un’arena piena.

Si riguarda?

Ora sì.

E cosa vede?

Capisco che se i ragazzi di The Voice hanno coraggio, io ne ho avuto tre volte di più; questa cosa mi penalizza.

Non si imbarazza nel giudicarli?

Mi spiace, perché capisco quante sono le persone che desiderano emergere, ma preferisco la sincerità, altrimenti pensano che la vita da famosi è solo soldi e felicità.

E non è così.

I famosi hanno spesso dei problemi, dei disturbi.

Davvero?

Depressione, e basta vederli sui social: soffrono per i pochi commenti e like. A volte vorrei chiudere tutto e restar sola a pregare.

Come mai?

Più ci stai e più non fa bene. Poi grazie a Dio sono cresciuta a Bologna, in mezzo al verde, e i miei genitori e la mia tata mi portavano dai cavalli.

Lei a scuola.

Avevo il caratterino ed ero molto simpatica.

Andava bene.

Molto brava.

Diplomata con?

Chi se lo ricorda.

Parliamo dell’altroieri.

Sono sempre stata la migliore della classe, e a differenza degli altri ero ribelle, poi studiavo tre ore e sapevo tutto.

Super brava.

Apprendo in fretta.

Lei tra dieci anni.

Ho due strade: o faccio una vita più tranquilla, famiglia, figli, fidanzato o marito.

Oppure…

Famiglia, figli, marito e continuare a spaccare.

Famiglia e marito comunque.

Ho una famiglia solida e faccio i complimenti alle donne che crescono i figli da sole, però voglio un uomo accanto.

È cattolica.

Vado spesso in chiesa

È per o contro l’aborto?

Eeeeee, non so rispondere.

Abbiamo finito.

Ah (sospira), bene.

Non siamo più così Allegri: la Juve licenzia Mister Max

Era nell’aria: Massimiliano Allegri lascia la Juventus. L’ha comunicato la società, in attesa della conferenza congiunta che avrà luogo oggi. È un divorzio strano, estetico, visto che l’allenatore, in carica dall’estate del 2014, aveva vinto cinque scudetti, quattro Coppe Italia, due Supercoppe e perso due finali di Champions contro una squadra di marziani (il Barcellona) e una squadra, il Real, con un marziano. È la fine di un ciclo.

Era la notte del 16 aprile, e Madama le aveva appena prese dai ragazzini dell’Ajax. Fuori dalla Champions già nei quarti, nonostante Cristiano Ronaldo e i suoi gol. Andrea Agnelli confermò Allegri più di nervi che di testa. Un mese dopo, la rovesciata. Un esonero, anche se un po’ mascherato e un po’ “mascarato”: come quello che coprì la fuga di Antonio Conte; come l’ultimo atto di Beppe Marotta, liberato dall’incarico a fine settembre ed esule all’Inter, dove dovrebbe raggiungerlo proprio il “martello” salentino, salvo clamorosi colpi di coda.

Allegri non è il primo allenatore che abbandona, abbandonato, da vincitore. Nel 1955, il Milan capolista licenziò Bela Guttmann, che a Lisbona avrebbe poi forgiato il Benfica di Eusebio, e all’alba dei Novanta il Real, primo in classifica, si separò da Radomir Antic. A Roberto Mancini, nel maggio del 2008, non bastarono due titoli “sul campo” per evitare l’irruzione interista di José Mourinho.

Come l’avvento del Cristianesimo fu un’operazione anti-storica, se pensiamo all’età del marziano, ai suoi costi e alle abitudini aziendali, così lo strappo odierno costituisce un pugno nello stomaco della “fabbrica” fondata sul celeberrimo motto che Giampiero Boniperti rubacchiò a Vince Lombardi, guru del football americano: “Vincere non è importante, è l’unica cosa che conta”. Scritto che auguro a tutti di fallire come ha fallito Allegri alla Juventus, e che i sette milioni e mezzo netti di contratto fino al 2020 avranno di sicuro impegnato e stremato parti e controparti, credo che il nocciolo della questione sia rintracciabile in una gestione pragmatica giunta all’eccesso, con il supplemento dell’ossessione Champions. Se ne dicono tante, in merito: che Agnelli fosse favorevole alla conferma, Pavel Nedved contrario (“o me o lui”) e Fabio Paratici incerto. Che il tecnico avesse chiesto più poteri (e dunque un rinnovo almeno biennale); che, ritenendo la rosa “arrivata”, avesse compilato di suo pugno un elenco di illustri epurandi, fra i quali Joao Cancelo, Douglas Costa e addirittura Paulo Dybala, il titolare che più di tutti ha pagato la cristianizzazione degli schemi. Non è da Tiranna cedere al sentimento popolare, o fornire questa impressione. Con il bilancio che piange ha vinto, alla fine, l’idea di dare fiducia all’organico attuale, al netto di alcuni ritocchi, soprattutto a centrocampo (troppo poco, Aaron Ramsey). A ciò si aggiunga la volontà di rivedere l’indirizzo filosofico, specialmente oltre confine.

L’11 agosto Allegri compirà 52 anni. È rimbalzato, il suo esercizio, fra picchi fragorosi: dal 3-0 al Barcellona di Messi-Suarez-Neymar-Iniesta a serate inguardabili come con il Bayern, allo Stadium, o con l’Atletico, poi demolito dalla tripletta di “Cierre”. Paradossalmente, il meglio di sé Allegri l’ha dato proprio in Europa. In campionato, viceversa, la modestia della concorrenza e l’età “alticcia” dell’equipaggio l’hanno spinto a inserire spesso il pilota automatico. Ci sarebbe inoltre da spiegare il crollo primaverile: la benzina è finita a Natale. Anche chi firma, ammesso che interessi, avrebbe ringraziato il mister e battuto altre strade. Cinque anni sono un’eternità, in Italia. Attenzione, però: il cambio sarà radicale o parziale? Pep Guardiola, Maurizio Sarri, Jurgen Klopp o Gian Piero Gasperini segnerebbero un confine rivoluzionario.

Non altrettanto Simone Inzaghi, nome che tira molto, Didier Deschamps, Mauricio Pochettino e Sinisa Mihajlovic, tutte scelte da compromesso storico. E Conte? “Non più minestre, mai più minestre riscaldate”, avrebbe ringhiato Agnelli, quello di “Allegri resta”.

Pranzo col cognato populista? Berlino ti allena

Sono riuniti in cerchio e a turno raccontano a bassa voce le storie che li hanno portati qui, al “Training argomentativo contro gli slogan e il populismo” organizzato dalla città di Berlino per imparare a reagire alle frasi fatte del populismo senza perdere la calma. “Sono stufa di sentire sparate di destra alle riunioni familiari” dice Katrin, sui vent’anni, “voglio imparare a dire la mia”. “Sono qui perché in famiglia e con i vicini ci sono spesso discussioni e vince sempre chi urla di più – gli fa eco Chantal, di 25 anni, in un soffio di voce – vorrei avere gli strumenti per rispondere senza agitarmi”. Henning, barba sale e pepe sui trenta, annuisce e racconta la sua storia: “Al bar dell’aeroporto c’erano due coppie di vecchietti che ne sparavano una dietro l’altra sui migranti, io gli sentivo dire cose tipo: ‘Vengono da noi perché vogliono solo bei vestiti’, oppure ‘cosa vogliono da noi se hanno dei cellulari di marca?’ e avrei voluto intervenire. Avrei voluto dirgli: ‘mica devi essere un morto di fame per scappare dalla guerra’ ma avevo paura di non avere gli argomenti giusti e sono rimasto in silenzio”. “Non si tratta di convincerli con i fatti” ribadisce un’energica pensionata sui sessanta inoltrati, Marianne, “le persone che dicono queste cose non ti vogliono ascoltare, ti gettano addosso le loro sentenze e amen”. “Si tratta di gestire la nostra comunicazione e la nostra emotività” interviene la coordinatrice del seminario, Methuja, origini di Sri Lanka, nata e cresciuta a Berlino. “Da gennaio 2017 abbiamo fatto 34 incontri” racconta la 32 enne al Fatto . Il seminario è pubblico, gratuito ed è organizzato e finanziato dal Senato di Berlino, presso il Centro per la formazione politica. Gestire la comunicazione senza restare intrappolati nella propria emotività, senza cadere nelle provocazione, nell’aggressività: questo è l’obiettivo. I partecipanti sono 14.

Le strategie proposte sono diverse. Per esempio si può replicare con delle contro-domande o girare le affermazioni in forma di interrogativi. Ad esempio, al vicino di bus che si lamenta con frasi tipo – “bisognerebbe mandarli tutti a casa questi stranieri” – si può replicare trasformando l’affermazione in domanda: “Bisognerebbe mandarli a casa gli stranieri? E poi chi assisterebbe gli anziani soli in casa?”. “Bisogna seminare il dubbio, sostiene Methuja, e aprire la comunicazione, non combattere a colpi di fioretto su chi ha la frase migliore. Stabilire uno scambio, portare l’altro ad ascoltare, questo è lo scopo. Bisogna evitare di trasmettere con il linguaggio del corpo la nostra disapprovazione: vietato scuotere la testa mentre l’altro parla, o fare smorfie di disprezzo. Altro consiglio è rimanere sul tema e costringere l’avversario a fare altrettanto. Essenziale è parlare con parole semplici e portare contro-esempi pratici. Allo slogan sulla Ue che aiuta i migranti e non i senza-tetto di casa nostra, si può ribattere con esempi concreti: “Lo sa lei quanti soldi ha messo la Ue nel Fondo sociale europeo per combattere la povertà e la disoccupazione nel nostro Paese?”. I partecipanti alla fine la ringraziano e hanno l’aria più sollevata. In qualche modo non si sentono più soli con le spalle al muro.