“I reati xenofobi aumentano perché si è liberi di odiare”

Per impegni pregressi, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella non potrà partecipare domani pomeriggio al convegno sulla piaga del suprematismo organizzato nella Capitale dalla comunità ebraica di Roma. Mattarella ha però inviato una lettera alla presidente Ruth Dureghello per esprimere il suo pieno sostegno: “Il Capo dello Stato desidera far pervenire il suo apprezzamento per l’iniziativa che costituisce un momento di riflessione sull’insidia di un sentimento razzista e xenofobo che ancora oggi alloggia in molti paesi d’Europa..”. L’evento si intitola infatti “Suprematismi in Europa. Dalla rabbia all’odio”. Nel comitato promotore e relatore vi è anche Roberto De Vita, avvocato penalista che si batte da anni contro le discriminazioni razziali e ha difeso la comunità ebraica, parte civile nel processo contro il sito neonazista antisemita Stormfront Italia. De Vita sottolinea che oggi dobbiamo essere preoccupati oltre che vigili. “Avevamo l’obbligo di essere vigili fino a 10 anni fa. Ora, di fronte all’aumento esponenziale di stragi e attacchi contro le minoranze religiose ed etniche ci si deve preoccupare e agire. I fatti per esempio di Pittsburgh e Christchurch in Nuova Zelanda non sono descrittivi del comportamento di un folle isolato, come si era detto quando ci fu la strage di Utoya, ma maturano all’interno di contesti ideologici organizzati.

Suprematismo fa rima con fascismo e nazismo?

Il suprematismo cammina accanto e spesso si sovrappone e confonde con il fascismo e nazismo, ma non vi è necessariamente un’identità. Anche da ciò deriva il pericolo.

In Italia, dove è nato il fascismo, la classe politica non dovrebbe essere più ferma nel condannare chi a braccio teso inneggia a Mussolini e a Hitler?

La crescita progressiva dei movimenti suprematisti a causa principalmente dell’islamofobia sta facendo perdere del tutto gli anticorpi sviluppatisi nel corpo sociale europeo dopo la mostruosità della Shoah. Non solo la classe politica ma tutte le categorie devono uscire dall’indifferenza e reagire. Non bastano i politici e i magistrati per evitare il ripetersi dei momenti più bui della storia umana. Nel momento in cui, nella percezione collettiva, subentra l’idea di pericolosità associata a una determinata appartenenza religiosa o etnica, in quel momento noi accettiamo come normale la reintroduzione del concetto di discriminazione. Attraverso l’islamofobia la discriminazione ha trovato una nuova legittimazione socialmente e pubblicamente manifestabile. Da qui il suprematismo è ripartito nella discriminazione anche violenta dei bersagli storici: neri, immigrati, ebrei. Oggi il manifestarsi pubblico dell’antisemitismo è la spia più rilevante di ogni discriminazione, essendo basato su un pregiudizio senza alibi nei comportamenti.

Eppure sembra ci sia indifferenza della maggior parte degli occidentali, come in passato. Anche se i dati indicano che l’antisemitismo è in ascesa.

Negli Stati Uniti i reati contro il patrimonio e quelli violenti sono diminuiti sensibilmente, ma al contempo sono aumentati del 55 per cento i reati d’odio contro gli ebrei. Ma sono dati al ribasso come quelli forniti dagli analisti europei.

Perché è venuto meno lo stigma sociale verso chi odia il prossimo per questioni di razza e religione?

La crescita di questi reati è anche dovuta al fatto che si può odiare senza censura. Gli odiatori di professione trovano inoltre, grazie a Internet, una facile disponibilità all’ascolto. In Europa e in Italia il fenomeno va diffondendosi quanto più la situazione politico-economica va peggiorando, pescando consensi nella paura e nel disorientamento.

Perché chi non è ebreo deve comunque preoccuparsi?

Gli ebrei nel mondo sono sentinelle della protezione delle minoranze, il fatto che oggi ricomincino ad avere timore significa che abbiamo superato la soglia di guardia. E non è un caso se a venire minacciati di morte e ad avere le scorte sono anche i giornalisti che scrivono dell’avanzata dei suprematismi e del ritorno di un’ideologia razzista.

Trump va alla guerra su consiglio di Bolton. Ma la colpa è dei media

Questa ci mancava: Donald Trump in versione pacifista, un moderato che getta acqua sul fuoco e che dice di “non volere la guerra” con l’Iran, dopo avere messo sotto pressione in ogni modo la Repubblica islamica: uscendo dall’accordo sul nucleare; reintroducendo e inasprendo le sanzioni economiche e commerciali; discutendo un piano per l’invio nella Regione di 120 mila uomini, roba da Guerra del Golfo 3, dopo quelle del ’91 – vittoriosa, Bush sr – e del 2003 – disastrosa, Bush jr –.

Ma è quasi inevitabile, quando ti sei scelto John Bolton, il falco dei falchi della diplomazia americana, come consigliere per la sicurezza nazionale: c’è Bolton dietro la gestione muscolare, e fin qui infruttuosa, della crisi venezuelana; e c’è Bolton dietro il precipitare delle tensioni in Medio Oriente.

Intendiamoci, il magnate presidente ci mette del suo: i rapporti privilegiati con Arabia Saudita e Israele sono un marchio di fabbrica della famiglia Trump – c’è lo zampino di Jared Kushner, il ‘primo genero’ – fin dalla campagna elettorale, un anello di contenimento della minaccia iraniana percepita come tale a Riad – sciiti contro sunniti e predominio regionale – e a Gerusalemme – Teheran non riconosce lo Stato ebraico e non ha mai rinunciato a una retorica aggressiva –. Ma Bolton è uno che non fa – troppa – differenza tra il dire e il fare, cioè fra il non escludere l’uso della forza e l’avere davvero intenzione di usarla. Neo-cons dell’era Bush, sotto-segretario di Stato con Colin Powell, che lo teneva a freno, finì, nel 2005, a fare il rappresentante degli Usa all’Onu, lui, risolutamente ostile al multilateralismo. ‘Neutralizzato’ nell’era Obama, è tornato a fare danni con Trump: ostile da sempre all’accordo sul nucleare con l’Iran, e favorevole al ‘cambio di regime’ in Corea del Nord e, ora, in Venezuela, è diventato consigliere per la Sicurezza nazionale dopo la cacciata di due generali, Michael Flynn, finito nel tritatutto del Russiagate, e H.R. MacMaster, una persona di troppo buon senso per Trump.

Bolton è uno che lavora un sacco ed è anche uno capace di mediare, se deve farlo. Ma il magnate presidente non gli chiede di mediare, salvo poi lamentarsi di essere stato spinto oltre dove voleva andare. Così, adesso, la Casa Bianca fa sapere che Trump continua a preferire un approccio diplomatico per risolvere le tensioni con Teheran e vorrebbe parlare direttamente con i leader iraniani; e lascia trapelare l’irritazione del presidente con Bolton, che preme per il pugno duro contro Teheran e che avrebbe voluto fargli credere che una prova di forza è possibile. Bolton, che di politica estera ne sa parecchio, ha anche influenza sul segretario di Stato Mike Pompeo, che, invece, ne mastica ancora poco.

In questo clima, il ministro della Difesa ad interim, Patrick Shanahan, che attende ancora di ricevere i galloni che furono del generale James ‘cane pazzo’ Mattis, aveva messo a punto un aggiornamento dei piani militari che prevedono l’invio di un massimo di 120.000 soldati in Medio Oriente nel caso in cui l’Iran dovesse attaccare le forze Usa o accelerare sulle armi nucleari. La mossa americana sarebbe stata collegata a documenti d’intelligence, comprese foto di missili iraniani imbarcati su piccole imbarcazioni dai Guardiani della Rivoluzione e pronti ad essere usati, potenzialmente contro unità navali Usa, navi commerciali o truppe americane di stanza in Iraq. Ma non tutti vi leggono una mossa aggressiva: gli europei, gli iracheni ed esperti bipartisan d’intelligence vi vedono, piuttosto, mosse difensive iraniane innescate dall’atteggiamento provocatorio di Washington. L’affidabilità delle analisi d’intelligence è oggetto di un aspro dibattito tra Casa Bianca, Dipartimento di Stato, Pentagono, Cia e Paesi alleati, “rispecchiando – scrive il New York Times – la profonda sfiducia nei confronti del team di sicurezza nazionale del presidente Trump”.

I resoconti del Washington Post e del New York Times, attribuiti a fonti di prima mano, offrono poi l’occasione all’ ‘untore di fake news in capo’ di prendersela – è ovvio – con i media: “I fake news media stanno danneggiando il nostro Paese con la loro copertura fraudolenta ed estremamente inaccurata sull’Iran. È caotica, con fonti di basso livello e pericolosa”. Ma, in questo bailamme, Trump vede un punto a favore: “A questo punto, l’Iran non sa che cosa pensare e questo potrebbe essere assolutamente positivo”. Forse perché non ci stanno capendo nulla, o forse perché hanno le idee chiare, gli iraniani non ci pensano proprio a negoziare: “L’escalation statunitense è inaccettabile”, dice il ministro degli Esteri Javad Zarif.

Pisano trovato morto a Londra, indagato un italiano

Svolta nel caso del giovane toscano trovato morto a Londra l’11 maggio. Un italiano di 52 anni è stato indagato dalla polizia britannica per il caso che, comunque, rimane ancora coperto da un velo di incertezza. È stata Scotland Yard a rendere noto che l’italiano indagato si chiama Gerardo Rossi: è sospettato, però, di occultamento di cadavere, non di omicidio. Erik Sanfilippo, cameriere 23enne originario del pisano, è stato trovato senza vita in un cassonetto in un’area semi abbandonata del quartiere di Islington, a nord della città, non lontano dall’Emirates Stadium dell’Arsenal.

Gerardo Rossi era stato inizialmente arrestato dalla polizia inglese sulla base di un sospetto di omicidio. Ma poi la pista di una morte violenta non ha trovato conferma e l’uomo è stato scarcerato su cauzione: salvo essere ri-arrestato oggi e condotto di fronte a un giudice della Highbury Magistrates’Court per la convalida del fermo e la contestazione del reato di occultamento di cadavere. Al momento la polizia mantiene comunque il riserbo sulle possibili cause del decesso di Erik. Il Consolato generale d’Italia a Londra continua intanto a seguire la vicenda, in raccordo con l’Ambasciata e col Ministero degli Esteri.

“La Trattativa” in Rai (dopo trattativa)

La Trattativa, il film scritto e diretto da Sabina Guzzanti sugli accordi tra Stato e mafia dei primi Anni 90, arriva finalmente in tv. Presentato al Festival di Venezia fuori concorso nel 2014, verrà trasmesso per la prima volta in tv giovedì 13 giugno in prima serata (21.20) su Raidue. Un bel colpo messo a segno del direttore di rete Carlo Freccero, che è riuscito nell’impresa di portare finalmente l’opera al cospetto del grande pubblico. La Trattativa è da tempo un pallino di Freccero, che aveva già provato nella precedente gestione, da consigliere di amministrazione, a portarla sugli schermi Rai senza successo. Ora il vertice di Viale Mazzini, dopo qualche perplessità iniziale, ha dato il via libera.

Alla sua uscita il film non ha avuto vita facile: ha subìto attacchi e contestazioni da parte di esponenti politici e finora non era mai riuscito ad arrivare in tv. Tra il documentario, il reportage, la fiction e l’inchiesta, l’opera ricostruisce le trame che in quegli anni videro protagonisti mafia, Stato, politici, massoni, imprenditori, faccendieri e forze dell’ordine.

La pellicola, infatti, racconta uno dei momenti più bui e drammatici della storia italiana, una fase delicata con la Prima Repubblica che crollava sotto i colpi di Tangentopoli e la seconda che stava per nascere. Dopo l’omicidio di Salvo Lima, le uccisioni di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino e le bombe a Milano, Roma e Firenze del 1993, un pezzo dello Stato decise di trattare con Cosa Nostra per mettere fine a quella stagione di sangue. Una trattativa, con diversi lati oscuri, che vide protagonisti uomini dello Stato come Antonio Subranni, Giuseppe De Donno e Mario Mori, un esponente della Dc siciliana come Vito Ciancimino, il suo referente mafioso Bernardo Provenzano, e il suo antagonista Totò Riina, in quel momento capo di Cosa Nostra, protagonista di quella strategia stragista. Quella scelta, tuttavia, non fermò le stragi, nonostante una certa “attenzione” di una parte dello Stato alle richieste di Cosa Nostra, tra cui la fine del regime di 41 bis per 334 mafiosi detenuti nelle carceri italiane. In mezzo ci fu la scomparsa dell’agenda rossa di Borsellino sul luogo del suo assassinio, la mancata perquisizione del covo di Riina da parte dei carabinieri del Ros dopo la sua cattura (avvenuta grazie alle dritte di Provenzano) e il rapporto di Silvio Berlusconi con Cosa nostra tramite Marcello Dell’Utri.

Le indagini sulla trattativa Stato-mafia ha avuto un primo risultato con la sentenza di primo grado che il 20 aprile 2018 ha visto le condanne a 12 anni di carcere di Mori, Subranni, Dell’Utri e Antonino Cinà, a 8 anni di De Donno, a 28 anni di Leoluca Bagarella. Prescritte invece le accuse nei confronti di Giovanni Brusca, mentre è stato assolto l’ex presidente del Senato Nicola Mancino.

Ora, dunque, il film arriva su Raidue, addirittura in prima serata. Alla proiezione la Rai ha deciso di far seguire un talk presentato dall’ex direttore del Tg1, Andrea Montanari, per ripercorrere i tratti salienti della vicenda. Protagonisti in studio saranno il direttore del Fatto quotidiano Marco Travaglio, il cronista di giudiziaria del Corriere della Sera Giovanni Bianconi, gli avvocati di Dell’Utri e Mori, e Sabina Guzzanti. Durante la serata verrà trasmessa anche un’intervista a Nino Di Matteo.

Napoli come “Il Padrino”: spari di camorra in ospedale

Scene da film, una cosa così l’avevo vista solo ne Il Padrino”, è il commento del commissario dell’Asl Napoli 1, Ciro Verdoliva, dopo aver visionato le immagini delle telecamere interne. Nel far west di Napoli e due settimane dopo l’agguato di piazza Nazionale che stava per costare la vita alla piccola Noemi, la camorra torna a sparare incurante delle conseguenze ed esplode una gragnuola di colpi nel cortile dell’ospedale Pellegrini.

I Ris dei carabinieri hanno rinvenuto quattro bossoli a terra riconducibili a una calibro 9, sebbene la percezione riferita dai testimoni è che ne siano stati sparati di più. Poco prima alcuni ragazzi avevano portato qui un 22enne dell’Arenella, Vincenzo Rossi, con ferite d’arma da fuoco alle gambe. Un chirurgo del Pronto Soccorso, Giuseppe Fedele, dice che insieme al ragazzo sono stati feriti di striscio altri due minorenni, probabilmente durante la sparatoria in ospedale, “ma prima del ricovero sono scappati”. Fedele ha spiegato che al momento dell’arrivo del primo ferito “è arrivato un folto gruppo di giovani, forse una ventina. Poi sono iniziati i colpi di pistola, c’è stata molta paura”. Rossi stava accedendo al pronto soccorso con l’ausilio del vigilante di guardia al presidio quando nel cortile è arrivato un uomo con il volto coperto dal casco integrale che ha esploso diversi colpi verso la scalinata che introduce ai reparti. Rossi è un pregiudicato con precedenti per reati legati al fenomeno delle bande giovanili – tra cui un’aggressione con coltello del 2017 – ma non risulta legato a organizzazioni criminali. Il ragazzo – si apprende da fonti investigative – è giunto in ospedale a bordo di una Fiat Idea accompagnato da quattro conoscenti, tutti molto giovani, che hanno riferito di averlo raccolto in via Toledo, nei pressi di Vico Sergente Maggiore, arteria dei Quartieri Spagnoli.

Avola: “Così noi siciliani sparammo a Scopelliti”

A uccidere il giudice Scopelliti non sarebbe stato solo il pentito Maurizio Avola ma anche Vincenzo Santapaola, figlio del boss catanese Nitto Santapaola. Sarebbe stato lui a sparare nell’agguato che potrebbe essere stato deciso prima ad Archi e poi a Trapani. “Nel 1991 non mi sono incontrato con nessun calabrese. Per l’omicidio Scopelliti c’erano personaggi importantissimi, ma non abbiamo usufruito di nessun appoggio dai calabresi. Per quello che risulta a me”. Con quest’ultima frase, il pentito catanese Maurizio Avola è riuscito a dire tutto e, allo stesso tempo, a non svelare i dettagli dell’inchiesta che la Dda di Reggio Calabria ha riaperto nei mesi scorsi sull’agguato di Villa San Giovanni in cui perse la vita il magistrato Nino Scopelliti che in Cassazione avrebbe dovuto rappresentare l’accusa al maxiprocesso a Cosa nostra:

“Per quello che risulta a me”. Avola lo dice chiaro mentre è collegato in videoconferenza con l’aula dove ieri si è celebrata l’ennesima udienza del processo contro i boss Giuseppe Graviano e Rocco Filippone, accusati dell’agguato ai carabinieri Fava e Garofalo, nel gennaio 1994, rientrante nelle cosiddette “stragi continentali”. Prima di quell’attentato, però, nel 1991 c’è stato l’omicidio Scopelliti per il quale a marzo sono stati notificati 18 avvisi di garanzia dopo il rinvenimento del fucile fatto trovare ai magistrati da Avola.

Killer siciliani che vanno in Calabria e sparano un giudice senza il supporto logistico della ’ndrangheta che, però, un ruolo lo ha avuto stando a quanto filtra dall’inchiesta coordinata dal procuratore Bombardieri, dagli aggiunti procuratore aggiunto Lombardo e Paci e dal sostituto della Dda Musolino. Nessuno può venire in Calabria a commettere un omicidio eccellente che poteva essere eseguito anche a Roma. E nessuno può farlo senza il beneplacito delle cosche. Così è stato anche quella volta: i siciliani ne avrebbero discusso ad Archi, periferia nord di Reggio teatro della guerra di mafia che, nel 1991, era agli sgoccioli. Rispolverando i verbali dei pentiti calabresi, infatti, spunta una riunione avvenuta a casa del boss Domenico Tegano pochi mesi prima dell’omicidio Scopelliti.

Ne parla con i pm il collaboratore di giustizia Antonino Cuzzola che, riportando quanto gli aveva riferito il boss Domenico Paviglianiti, in un verbale del 2015 indica chi ha partecipato a quell’incontro: “C’erano tre dei Santapaola di Catania, tre di Cosa Nostra di Palermo, gente di Riina, e tutti i Tegano a discutere”. Tra aprile e maggio 1991 Domenico Paviglianiti casualmente va a Reggio per salutare i Tegano e si ritrova nella riunione con i rappresentanti di Cosa Nostra. Domenico Tegano è morto 26 luglio dello stesso anno e, se nell’incontro di Archi siciliani e calabresi avessero deciso l’eliminazione del giudice Scopelliti, l’ordine a quel punto era già partito ed è stato eseguito il 9 agosto.

L’omicidio non sarebbe stato commesso solo da Maurizio Avola. Stando al suo racconto, infatti, a sparare con lui c’era Vincenzo Santapaola, il figlio del boss Nitto Santapaola. Un particolare che il pentito ha raccontato ai magistrati della Dda di Reggio e ripetuto durante un processo a Caltanissetta. Avola, inoltre, avrebbe riferito ai pm di essere stato avvertito dai boss Aldo Ercolano e Marcello D’Agata del delitto Scopelliti. Il killer lo seppe cinque giorni prima di portarlo a termine assieme a Vicenzo Santapaola. L’ok arrivò poche settimane dopo una riunione avvenuta a Trapani a cui partecipò pure Matteo Messina Denaro.

Sabir: il festival che celebra le culture del Mediterraneo

Il festival Sabir nasce con l’obiettivo di condividere e valorizzare le culture diffuse nel Mediterraneo: la sua quinta edizione sta avendo luogo a Lecce, è iniziata giovedì e finirà domani. Promosso da ARCI, Caritas Italiana, ACLI e CGIL, con la collaborazione di ASGI, A Buon Diritto e Carta di Roma, il festival ospita centinaia di militanti di reti e organizzazioni, operatori del diritto e sociali, giornalisti e esponenti delle ONG. Filippo Miraglia, presidente di ARCS (Arci Culture Solidali) e dirigente nazionale Arci, ha spiegato a Repubblica: “Mentre i governi e le istituzioni europee costruiscono muri e finanziano dittature ed eserciti per respingere milioni di persone e condannarle alla fame, alla morte o a subire trattamenti disumani e degradanti, la società civile studia, si organizza e si agita, collettivamente”. Sabir, che deve il suo nome alla lingua franca che con questa parola indicava i marinai dei porti nel mare, nasce a Lampedusa, nell’ottobre del 2014, a un anno dalla strage che vide la morte di 368 persone, “Per un futuro del Mediterraneo più giusto” conclude Miraglia.

Il vecchio Pegaso contro il Giglio, guerra sui cappelli dei vigili urbani

Rottamare il giglio sui cappelli dei vigili fiorentini e tornare al caro vecchio Pegaso che rappresenta la Toscana. La polemica tra il Comune di Firenze e la Regione si gioca tutta sui simboli e, a dieci giorni dalle elezioni amministrative, ha un che di “sovranismo” in salsa toscana. Il giglio fiorentino fu reinserito sui copricapi dei vigili cittadini nel 2011 e otto anni dopo, per accedere ai fondi di potenziamento della polizia locale, la Regione impone di tornare al Pegaso. Che in altre parole significa: se volete assumere nuovi agenti, dovete reinserire il simbolo della Toscana sui cappelli. “Il fregio da utilizzare su ogni capo di vestiario in uso al personale della polizia municipale è il Pegaso argento su campo rosso” ha scritto il comandante Alessandro Casale in una lettera indirizzata a tutti i vigili fiorentini. Dal Comune però fanno sapere al Fatto Quotidiano che non intendono cedere: “I vigili avranno oggi, domani e sempre il giglio – ha detto ieri il sindaco Dario Nardella durante la presentazione di 53 nuovi agenti di polizia –. Ho grande rispetto per la Regione ma se per avere un contributo da parte loro dobbiamo levare il giglio di Firenze, io preferisco rifiutare il contributo”. Adesso il compromesso potrebbe essere quello di affiancarli entrambi sui cappelli dei vigili. L’idea di mettere il simbolo di Firenze sui copricapo delle forze dell’ordine cittadine risale al 2011 quando il sindaco era Matteo Renzi e a capo dei vigili c’era Antonella Manzione, poi portata dal futuro premier a Palazzo Chigi per dirigere l’ufficio legislativo. “Siamo fiorentini e rimettiamo il giglio” esultava Renzi otto anni fa. “Non si tratta solo di una dichiarazione di orgoglio – gli faceva eco Manzione – ma rappresenta l’impegno e la responsabilità che ogni giorno i vigili dimostrano per la città”. Tra poche settimane, con ogni probabilità, non sarà più così.

Il maresciallo Mandolini disse al teste Casamassima: “Ti rendi conto di quello che hai fatto?”

Un’altra relazione di servizio, del 2016, in piene indagini bis sull’operato di carabinieri, è stata depositata ieri dal pm di Roma Giovanni Musarò al processo Cucchi. Il documento sembra confermare la paura di uno dei 5 carabinieri imputati, a vario titolo, di omicidio preterintenzionale, falso in atto pubblico e calunnia per la morte nel 2009 di Stefano Cucchi, avvenuta secondo la Procura in seguito al pestaggio subito dopo l’arresto. La relazione del 26 ottobre 2016, firmata dal maresciallo Roberto Mandolini, accusato di aver falsificato il verbale dell’arresto e di aver scaricato le responsabilità sulla polizia giudiziaria, riguarda un colloquio che avrebbe avuto con Riccardo Casamassima, il carabiniere che ha fatto riaprire le indagini e che – secondo la difesa Mandolini – avrebbe mentito. “Stai tranquillo, ne esci fuori, si legge nella relazione, la Procura sta avanti, non posso dirti di più. Lo so che non hai fatto nulla, fidati di me”. E Mandolini: “Ti rendi conto di quello che hai fatto? Cosa vogliono i Cucchi da me? La Cucchi (la sorella Ilaria, ndr) vuole un confronto con me! Col padre lo deve fare, perché lei dice una cosa e il padre un’altra!”. Una conversazione che per l’accusa confermerebbe la paura di Mandolini per quanto potessero accertare i magistrati sul depistaggio. Ieri, l’appuntato Vincenzo Accinno, chiamato dalla difesa, ha detto di aver visto Mandolini e Casamassima insieme “ma per una frazione di secondo, stavo andando in bagno”. Un anno fa, al processo, Casamassima aveva confermato quanto detto al pm e cioè che Mandolini, dopo l’arresto di Cucchi, gli avrebbe detto: “È successo un casino, i ragazzi hanno menato un arrestato”. Sempre al processo, ha raccontato di un altro incontro con Mandolini del 2016: “Cercai di aiutarlo, gli consigliai di andare dal pm a dire le cose come andarono anche perché la procura stava avanti (aveva già le intercettazioni, ndr) e lui non aveva partecipato al pestaggio”.

Si ribalta lo scuolabus, l’autista, positivo all’alcol test, scappa senza soccorrere i bimbi feriti

Lo scuolabus giallo scende lungo i tornanti del Sassonegro, vicino ad Arquà Petrarca, a velocità sostenuta. Poco prima di una curva il conducente frena, ma il mezzo sbanda, si capovolge, striscia su una fiancata e si ferma occupando tutta la carreggiata. Sono le 13.45, lungo una strada collinare in provincia di Padova. Gridano per la paura e il dolore, chiedono aiuto una ventina di allievi delle scuole elementari e medie rimasti intrappolati. Otto sono feriti, sanguinano. L’unico adulto che potrebbe soccorrerli è l’autista, che secondo i ragazzini era particolarmente allegro, forse ubriaco, e da qualche chilometro procedeva a zig zag. Ma il 51enne Denis Panduru, romeno di Rovigo (con precedenti penali) che da un mese lavorava per la Seaf di Este proprietaria del pulmino, fugge. Abbandona i ragazzi e si allontana a piedi, lasciandosi dietro i giovani passeggeri. Lo ritroveranno dopo due ore a Este, sulla strada regionale 10 e risulterà positivo di qualche decimale al test alcolimetrico. Sono alcuni automobilisti provenienti a dare l’allarme e a prestare i soccorsi. Le ambulanze portano otto bambini al pronto soccorso di Schiavonia e quindi in ospedale a Monselice. Due di loro sono rimasti in osservazione. Le loro condizioni non destano preoccupazione, ma l’incidente poteva avere conseguenze ben più gravi. Sul posto sono intervenuti i carabinieri delle Compagnie di Abano ed Este, oltre alla Polizia Stradale per i rilievi e i vigili del fuoco per la rimozione del mezzo, che è stato sequestrato. L’autista che ha abbandonato i ragazzi è stato portato in caserma e poi arrestato su ordine della Procura di Rovigo. L’alcol test ha dato esito positivo. Per i conducenti di autobus non c’è tolleranza, hanno il divieto assoluto in assumere alcolici e quindi bastano pochi decimali per essere denunciati. Al di là dello stato di ebbrezza c’è anche la violazione dell’articolo 189 del Codice della strada che punisce chi fugge dal luogo di un incidente stradale con feriti con la reclusione da sei mesi a tre anni e la sospensione della patente per lo stesso periodo.