Scatenarono il panico in piazza San Carlo: 10 anni di carcere alla “banda dello spray”

C’è una prima sentenza per gli incidenti avvenuti in piazza San Carlo a Torino il 3 giugno 2017 che causarono per la morte di due donne, Erika Pioletti e Marisa Amato, e il ferimento di quasi 1.600 persone, spettatori della finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid su un maxischermo.

È stata condannata la banda di giovani rapinatori che, armati di spray urticante, mettevano a segno rapine in mezzo alla folla e hanno scatenato il panico. Ieri il gup del Tribunale di Torino Maria Francesca Abenavoli ha stabilito nei confronti di quattro giovani di origini maghrebine pene superiori ai dieci anni di carcere. L’accusa, sostenuta dai sostituti procuratori Paolo Scafi e Roberto Sparagna, è omicidio preterintenzionale, una fatale conseguenza di cattive intenzioni. Il presunto capo di questa banda, Sohaib Bouimadaghen detto “Budino”, è stato condannato a dieci anni e quattro mesi di reclusione, così come i suoi complici Hamza Belghazi e Mohammed Machmachi. Lievemente inferiore, dieci anni e tre mesi, la pena per Es Sahibi Aymene, che non aveva partecipato ai furti. Nei confronti dei primi tre i pm avevano chiesto condanne a 14 anni e 20 giorni di reclusione e per la quarta una pena di 14 anni e 8 giorni. Nonostante le pene siano inferiori alle richieste, le difese non sembrano convinte dalla decisione: “Mi aspettavo qualcosa di diverso – commentava dopo l’udienza l’avvocato Basilio Foti, legale difensore di uno dei quattro –. Rimango convinto della nostra ricostruzione dei fatti: non ci fu la rapina all’origine della tragedia”. A questa ricostruzione la Procura e la polizia arrivarono per vie traverse: gli agenti del Commissariato Mirafiori, al lavoro su un gruppetto di giovani che compiva dei furti in un centro commerciale al Lingotto, scoprirono sul telefonino di uno di loro messaggi sospetti. Dagli approfondimenti tecnici, poi, venne a galla la presenza di alcuni di loro in piazza San Carlo. Come facevano di solito, era il loro modus operandi, approfittavano della calca per rubare portafogli, catenine d’oro e altro. Il 13 aprile 2018 la polizia li ha arrestati. Il 5 aprile scorso “Budino” e altri nove ragazzi hanno patteggiato per tredici rapine e 29 furti messi a segno così durante concerti, serate in discoteca e altri eventi: lui, presunto capo della banda, si era beccato altri quattro anni e cinque mesi di carcere.

Ci sarà invece ancora molto da aspettare per conoscere l’esito del processo che riguarda gli aspetti amministrativi, quello sulle carenze organizzative della piazza, diventata una gabbia pericolosa. Il 27 giugno prossimo riprende il procedimento penale contro la sindaca Chiara Appendino, l’ex questore Angelo Sanna e altri tredici colletti bianchi accusati di omicidio colposo, lesioni colpose e disastro. Il gup Abenavoli aveva concesso un rinvio lungo per permettere di trovare un accordo tra imputati, assicurazioni e parti civili. Le assicurazioni hanno proposto un risarcimento di circa trentamila euro a dieci persone che potrebbero ritirare la loro querela e uscire dal processo.

“L’austerity dell’Ue è un errore, serve la finanza sostenibile”

“Serve un nuovo modello finanziario sostenibile, dove l’ambiente e i diritti siano al centro. Per quanto riguarda il futuro, anche dell’Europa, crescita e politiche pubbliche devono andare di pari passo per creare occupazione e, in questo modo, diminuire le disuguaglianze”. Lo ha detto il premio Nobel per l’Economia Amartya Sen durante l’incontro con gli under 35 allo Spazio Scuderie di Bologna. L’economia tra sostenibilità, etica e sviluppo, l’Europa di oggi e di domani: questi i temi al centro dell’evento, organizzato da Banca Etica in occasione dei 20 anni dalla sua fondazione e a pochi giorni dalle elezioni europee. “L’Europa è stato uno degli esperimenti più interessanti d’integrazione e uno dei più grandi successi dopo la seconda Guerra Mondiale – ha aggiunto Sen – Quando si parla di crisi del 2008 la Bce ha dato un esempio di leadership non ottimale. Non c’era bisogno di austerity, quanto di un coordinamento robusto: l’occupazione è peggiorata, il Pil è calato in diversi Paesi e nel tempo si è capito quanto sia stata negativa”.

Mutui e spread, non c’è un effetto automatico

Il fantasma dello spread torna a turbare i sonni del governo gialloverde. Nei giorni scorsi, complici anche le ultime uscite di Salvini sullo sforamento del tetto del 3% sul deficit imposto dall’Ue, è lievitato intorno ai 290 punti (ieri sceso a 277) il differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato italiani decennali (Btp) e i Bund tedeschi. Ed è subito scattato il solito allarme: per colpa dello spread, i mutui sono più cari. Le cose, però, non stanno proprio così.

L’allarme. A certificarlo sarebbe anche la Banca d’Italia nel recente Rapporto sulla stabilità finanziaria: “Il rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato si sta trasmettendo gradualmente al costo dei nuovi finanziamenti. Rispetto allo scorso settembre i mutui a tasso fisso sono cresciuti di quasi 50 punti base, mentre quelli variabile si sono mantenuti stabili”. Ma è vero? L’automatismo aumento dello spread uguale mutui più cari non è né diretto né automatico. Vediamo il perché.

Mutui in essere. Chi ha già sottoscritto un prestito a tasso fisso per la casa non ha nulla da temere, perché il contratto prevede per definizione un tasso bloccato. Mentre sul fronte del variabile, richiesto negli scorsi mesi dal 15,3% degli italiani (Osservatorio di MutuiOnline), ci vorranno ancora un paio di anni prima che torni a crescere e a far lievitare le rate.

I nuovi mutui. La situazione potrebbe cambiare entro i prossimi mesi. Con spread più alti, le banche sono costrette a spendere di più per finanziarsi sui mercati, aumentando anche le spese accessorie e le commissioni che chiedono per erogare nuovi mutui. Ma, soprattutto, influirà anche la fine del massiccio programma di acquisto dei debiti pubblici (e bond privati) della Banca centrale europea attraverso il Quantitative easing (Qe) che ha aiutato a sostenere la domanda dei titoli di Stato. Un aumento che interesserà solo i mutui a tasso fisso, perché non c’è correlazione tra l’Euribor (il tasso a cui sono agganciati i prestiti a tasso variabile) e l’andamento dello spread; il loro andamento non dipende quindi dal mercato obbligazionario, ma dalla politica monetaria della Bce. Tanto che il tasso Euribor è negativo dai primi mesi del 2015.

L’impatto. Questo però non significa che il tasso è bloccato, ma che lentamente sta salendo e che, secondo gli analisti, tornerà sopra la soglia dello zero solo dal 2020. È stato il governatore della Bce Mario Draghi ad annunciare che i tassi di interesse si manterranno sugli attuali livelli “almeno fino alla fine del 2019”. Nel frattempo l’Euribor 3 mesi, dopo essere risalito dal suo minimo storico di -0,33 registrato fino a maggio 2018, è poi rimasto stabile a -0,32 per 7 mesi per raggiungere dallo scorso dicembre quota -0,31, dove attualmente si trova. Valori che dimostrano che nonostante i diversi picchi raggiunti dallo spread negli ultimi mesi, l’automatismo non si è verificato.

L’attuale mercato. I tassi sono ancora bassi. Secondo l’associazione bancaria italiana (Abi), il tasso medio sulle nuove erogazioni per l’acquisto di abitazioni a marzo è sceso all’1,87%, allineandosi ai livelli di marzo 2018, ma in rialzo rispetto a settembre.

Al confine col malloppo. Nei guai l’amica di Mora

Lele Mora è preoccupato: come agente di spettacolo e come petroliere. Sì, anche come petroliere. Il motivo della sua preoccupazione? Un’operazione della Guardia di finanza di Imperia, che ieri ha fermato alla frontiera di Ventimiglia una Rolls Royce e ha sequestrato 2 milioni di euro in contanti. Sull’auto viaggiava Anna Bettozzi, in arte Ana Bettz, bionda, cantante, ballerina, amica di Lele Mora che un tempo l’aveva nella sua scuderia di artisti. Oggi Ana Bettz è più che altro donna d’affari e di petrolio. Perché ha sposato il petroliere Sergio Di Cesare, di cui è diventata vedova, erede e continuatrice d’imprese commerciali e finanziarie.

Le Fiamme gialle sono andate a colpo sicuro: seguivano la sua Rolls Royce e quando l’hanno bloccata al confine tra Italia e Francia hanno trovato nella vettura, senza troppo cercare, 300 mila euro in contanti. Contemporaneamente hanno sequestrato un altro milione e 700 mila euro in un luogo che i magistrati della Procura di Imperia, che indagano per riciclaggio, hanno mantenuto segreto. Ora l’inchiesta dovrà svelare da dove vengono quei soldi, quali erano i meccanismi del riciclaggio e chi ne era coinvolto.

Nata a Porto Rotondo, in Sardegna, 59 anni fa, Anna Bettozzi aveva i capelli nerissimi quando faceva pubblicità per un’agenzia che vendeva “case firmate” in Sardegna. Poi diventa bionda, si trasforma in Ana Bettz e nel 1997 incide in California il suo primo singolo, Ecstasy, con un video realizzato dal produttore dei videoclip di Madonna e Michael Jackson.

Sposa Sergio Di Cesare, discusso petroliere della Europetroli. Nel 1999, Anna e Sergio subiscono nella loro villa di Roma, al Quarto Miglio, un sequestro-lampo che dura una notte e si conclude all’alba con i rapinatori che se ne vanno portando via soldi e oggetti preziosi per circa 100 milioni di lire.

Nel 2011 è ospite a Quelli che… il calcio, dove lancia il suo ultimo brano, Move On, e il suo ultimo album, The One. Una carriera musicale non indimenticabile. Ma negli affari va anche peggio. Nel 2015 suo marito viene arrestato per contrabbando di prodotti petroliferi ed evasione delle accise. Nell’agosto 2018, Di Cesare muore e Anna assume la guida di fatto delle sue società. Due mesi dopo, partecipa alla fiera “Oil&Nonoil”, a Verona, con un grande stand dell’azienda Max Petroli Italia.

Due le presenze nello stand che non passano inosservate: una Ferrari “edizione limitata” e un Lele Mora in versione petroliere. Sì, perché la Max Petroli è controllata dalla figlia di Di Cesare, Virginia, 25 anni, ma a “curarne l’immagine” è l’ex agente delle star, già condannato per bancarotta e per bunga-bunga. Intervistato in quell’occasione, Lele Mora spiega perché si trova in quello stand: “È un modo come un altro per stare vicino a un’amica, Ana Bettz. Del resto, io di petrolio so tutto: da parecchi anni faccio affari con tante società importanti con la Somo”, la società petrolifera dello Stato iracheno. “Affari commerciali. Lavoro con il Kurdistan, col crude oil. Ed ero anche molto amico di Chavez: la Pdvsa venezuelana era una società magnifica. So che la Max Petroli è chiacchierata, ma adesso Sergio è mancato e ha lasciato tutto alla moglie che sta pagando tutti i debiti”.

Ecco dunque l’uomo che è stato condannato per aver portato ad Arcore le ragazze del bunga-bunga risorto nei panni del petroliere di successo. Anche in queste vesti, Lele Mora ora ha da preoccuparsi per il blitz della Rolls Royce.

Tumore mammario: è il più diagnosticato oggi nel nostro Paese

Tra i tumori, quello alla mammella è diventato oggi il più diagnosticato nel nostro Paese: secondo l’ultimo rapporto dell’Associazione italiana degli oncologi (Aiom), si parla di 52.800 nuovi casi. Seguono il cancro del colon-retto (51.300, due anni fa era il più frequente) e del polmone (41.500). In generale, le nuove diagnosi di tumore sono state 373.300: 4.300 in più solo nell’ultimo anno. Si vive più a lungo al Nord, rispetto al Centro e al Sud, se si guarda ai cinque anni dalla diagnosi di tumore: grazie a una maggiore adesione ai programmi di screening (mammografico, cervicale, colonrettale). Tra i fattori di rischio, il principale resta il fumo di sigaretta, c’è poi l’alcol, la sedentarietà e l’obesità. In Italia, il cancro uccide di meno che nel resto d’Europa. In 15 anni (2001-2016), calcola Aiom, i decessi sono diminuiti del 17,6%, più che in Paesi come Francia, Regno Unito e Germania. Anche se da noi gli anziani a cinque anni dalla diagnosi restano meno in vita (37% contro il 40% della media europea). Ecco perché l’Aiom chiede di estendere gli screening anticancro fino ai 74 anni d’età, visto che ogni giorno oltre la metà di nuovi casi di tumore riguarda proprio gli over 70.

Storia di un prof visionario e di una corsa per il tumore

Non ci credeva nemmeno lui, all’inizio. Sul volo di ritorno dagli Stati Uniti, si svegliava, e controllava che in tasca ci fosse davvero l’assegno da 250mila dollari. Quando lo ricorda oggi, al professor Riccardo Masetti si accendono gli occhi. Eppure dalla fine degli anni ‘90 di tempo ne è passato, da quando conosce una donna americana che aveva creato nel 1982 la fondazione Susan G. Komen, in memoria della sorella, morta di cancro al seno a soli 36 anni. L’evento simbolo della fondazione era una mini-maratona per le donne a cui era stato diagnosticato un tumore al seno: la “race for the cure”.

Sono passati 20 anni, a oggi la “Race for the cure” – che in Italia si svolse per prima a Roma – è la più grande manifestazione per la lotta ai tumori del seno: 1 milione di partecipanti nelle diverse edizioni italiane. Si corre nella capitale, ma anche a Bari, Bologna e Brescia, e da quest’anno a Pescara e a Matera. A Roma nel 2018 si è raggiunto il record di iscritti: 72mila, tra cui quasi 6mila “donne in rosa”, ovvero donne che hanno avuto il cancro al seno e che, come piace dire a Masetti, indossando una maglietta o un berretto di colore rosa, diventano “ambasciatrici della prevenzione”.

“Dagli Stati Uniti all’Italia, la Race ha cambiato il modo di guardare a questa malattia: grazie alla condivisione dell’esperienza, le donne non hanno paura di mostrarsi e si danno forza l’un l’altra”, racconta il Prof nel suo studio, al 7° piano del Policlinico Gemelli di Roma, dove ha sede il Centro di senologia che dirige (con oltre 1.400 pazienti operate all’anno, una delle eccellenze in Italia).

Per l’inaugurazione di questa 20° edizione della Race di Roma è stato ricevuto giovedì scorso dal Presidente della Repubblica, ma resta un uomo a cui non piace comparire, anche se per la “Race” – “è come il mio quarto figlio”, dice lui – entra ed esce da dirette tv per promuovere l’evento. “Con i fondi raccolti, abbiamo investito oltre 17 milioni di euro per più di 850 progetti di prevenzione e supporto alle donne operate, 3 carovane della prevenzione che hanno fatto tappa in 13 regioni, 250 premi per giovani ricercatori”.

Masetti racconta come in questi vent’anni la malattia sia cambiata molto, così come le terapie e le tecniche con cui si interviene. “Nonostante sia un tumore altamente curabile, resta avvolto da una grandissima paura, anche perché prima una donna restava profondamente segnata dall’invasività e tossicità dei trattamenti. C’è un problema in parte culturale e in parte di accesso alle cure. In Calabria, per esempio, dove come in ogni regione ci sono gli screening gratuiti per le donne potenzialmente interessate, meno del 20% lo effettua. Ed è proprio una diagnosi tardiva che può comprometterne l’esito”. Che fare, quindi, con un tumore che per Masetti è “democratico”, nel senso che non guarda in faccia nessuno? “È necessario confrontarsi sempre di più sulla ferita, non solo fisica, che un tumore del genere lascia”. Un pensiero in linea con l’importante svolta dell’oncologia integrata, che s’interessa non solo del trattamento medico del cancro, ma anche del “terreno” della malattia, e di conseguenza, della prevenzione, e della qualità della vita dopo il trattamento.

“Si sa, capita a tanta gente, ma non si pensa mai che potrebbe capitare a noi”, scriveva Tiziano Terzani. Poi, a quella parola, “CHEMIOTERAPIA”, d’improvviso diventa tutto, in un solo istante, nero. La paura della morte, di perdere i capelli, il lavoro, gli amici. Il sentire che, da quel momento in poi, ci sarà per sempre un prima e un dopo. Per tante donne, il Professor Masetti è stato, ed è, la mano che ti accarezza mentre ti stai per addormentare in sala operatoria. Ma è anche un riferimento per tutto il viaggio che continua. Il prossimo obiettivo? “Mi piacerebbe dedicarmi all’ospedale che abbiamo costruito in Ghana. Nella mia vita ho avuto la fortuna, tra Stati Uniti e Italia, di lavorare con la medicina “a risorse massime”. Ho voglia ora di dedicarmi a quella “a risorse zero”. Per restituire tutto quello che ho ricevuto”.

Il vice-cancelliere e la trappola sui fondi in nero in Austria

Riprese girate con la telecamera nascosta in una villa di Ibiza nell’estate del 2017 minacciano di danneggiare la reputazione del vice-cancelliere populista austriaco Hans-Christian Strache, scrivono Der Spiegel e Sueddeutsche Zeitung. Le immagini documentano l’incontro nell’isola spagnola con una sedicente nipote di un oligarca russo, Aljona Makarowa, che si offriva di investire circa 250 milioni di euro per acquisire quote della stampa austriaca, in particolare del quotidiano Kronen Zeitung, con soldi in nero di provenienza ignota. “Se lei acquisisce la Kronen Zeitung tre settimane prima delle elezioni e ci mette al primo posto, possiamo parlare di tutto”, dice Strache nel video. La donna era in realtà un’adescatrice. Nelle 7 ore di incontro il vice-cancelliere austriaco e il suo braccio destro Johann Gudens si lasciano andare ad elogi del sistema di Viktor Orban di controllare la stampa. Tra le opzioni di investimento proposte alla russa si parla anche di finanziare il partito l’Fpoe (del vice-cancelliere) passando attraverso circoli e associazioni in modo da aggirare le leggi sui finanziamento ai partiti. Strache e Gudens confermano l’incontro ricordando “un’atmosfera di festa e di bevute”.

“Votiamo subito lo stop alle bombe verso Riad”

Il Pd sulla questione delle armi italiane all’Arabia saudita cambia posizione e lancia l’appello al M5S: “Votiamo insieme la sospensione delle forniture”. E rilancia anche sul porto di Genova: “Il governo ha chiuso i porti ai migranti e invece li lascia aperti alle bombe”.

La posizione è di Lia Quartapelle, giovane deputata della Commissione Esteri della Camera che ha presentato una risoluzione al governo per procedere in tal senso. Il cambio di atteggiamento è secco perché quella fornitura fu autorizzata durante il governo Renzi, nel 2016.

In che consiste la risoluzione presentata alla Camera?

Nel chiedere al governo di sospendere la fornitura di armi. La sua origine è dovuta dalla situazione in Yemen dove il rapporto del panel di esperti indipendenti sulle violazioni del conflitto, dell’agosto 2018, ha rivelato le “grandi violazioni” dei diritti umani. A questo si è aggiunto il caso Kashoggi (il giornalista saudita ucciso per ordine del principe bin Salman, ndr.) e quindi la decisione di alcuni Paesi europei a partire dalla Germania di sospendere la fornitura

Nella maggioranza di governo si obietta però che la sospensione non è tecnicamente possibile.

Il problema non è tecnico, la realtà è che sia la legge 185 del 1990, che regola il commercio internazionale di armi, sia il Trattato internazionale sul commercio di armi, ratificato nel 2013, permettono una discrezionalità della politica. E quindi chiediamo che ci sia un’iniziativa politica in tale senso anche in considerazione del fatto che il M5S, nella passata legislatura, si era addirittura detto favorevole a una moratoria della vendita di armi. Posizione molto più forte della semplice sospensione.

Se accogliessero la vostra proposta, questa sarebbe approvata? E voi quindi auspicate un voto comune con il M5S?

In Parlamento ci sarebbero i numeri, anche perché la risoluzione porta la firma di Laura Boldrini. Aggiungo che noi siamo disposti a votare il testo della risoluzione presentata dal M5S che è più blando del nostro, ma che loro non vogliono mettere in discussione. Il M5S non vuole assumersi la responsabilità politica e non vogliono votare perché aspettano un accordo con la Lega.

Perché la Lega si oppone?

La sua posizione è molto filosaudita e molto determinata in quel senso, ma il problema non è la posizione della Lega ma il M5S.

Ma è stato il Pd, con il governo Renzi, ad aver autorizzato quella. Fate autocritica?

Non è stato semplice far accettare questa posizione al Pd. Abbiamo fatto dei passi avanti e ora è la posizione di tutto il partito. Chiedo invece al ministro Toninelli come fa a parlare di porti chiusi ai migranti e lasciare che attracchi una nave che porta armi? Su questo abbiamo chiesto al governo un chiarimento ma non abbiamo avuto risposta.

Comunque il suo partito ha cambiato posizione?

Abbiamo detto che avremmo considerato una sospensione nel caso altri Paesi l’avessero fatto. E ora siamo coerenti. Come Pd ci eravamo mossi in vari momenti contattando la Spd che è al governo in Germania, per assumere una posizione comune.

Quella fornitura è stata un errore?

Dal punto di vista della legalità internazionale capisco perché la decisione fu presa, non c’erano prove di violazione dei diritti e l’Arabia intervenne perché chiamata dal governo yemenita. La situazione si è poi evoluta e anche se la nostra è stata un’evoluzione sicuramente lenta, non si capisce perché si continui a rinviare una decisione che potrebbe essere presa subito.

“Fermate la nave”. Genova non vuole il cargo delle armi

Fermate la Bahri Yanbu. Genova si schiera contro la nave saudita che trasporta armi. Dopo i camalli e la Cgil arriva l’appello delle associazioni cattoliche. Una scossa della società civile in una città che si riscopre viva dopo il colpo terribile del Ponte Morandi.

Il cargo saudita è atteso in porto lunedì, ma di ora in ora aumenta la mobilitazione. Camalli e Cgil hanno organizzato un presidio, ma cosa succederà se la nave attraccherà non si sa. Erano stati proprio i lavoratori del porto a raccogliere la denuncia di Amnesty International. Ma ieri è arrivato un appello delle associazioni, dalle Acli a Libera. Gruppi che in città raccolgono migliaia di iscritti, giovani soprattutto: “Chiediamo che le Autorità si adoperino per impedire l’attracco della nave. L’anima aperta della nostra città, già ferita da tanta sfortuna, non deve essere costretta a tollerare questa complicità con la morte”.

Ieri, Cgil e Culmv (la Compagnia Unica dei portuali) si sono riunite in assemblea: fermare la nave? La linea, condivisa dalla segreteria, è che “non ci sono i presupposti per un’azione sindacale, date le rassicurazioni della prefettura sull’assenza di armi in imbarco. Ci sono, però, presupposti per un’azione politica. Un presidio dei varchi portuali per sollecitare in futuro un monitoraggio degli imbarchi della Yanbu e della compagnia saudita”. Questa la linea ufficiale. Ma più voci, dal Collettivo Autonomo Lavoratori del Porto a Genova Antifascista, chiedono un intervento più significativo. Come Francesca Bisiani di Amnesty: “Per noi la nave è da fermare. Non imbarcherà armi, ma le porta in un teatro di guerra con civili e la legge 185 impegna l’Italia a impedirlo. Appoggeremo qualsiasi iniziativa, purché pacifica”.

Le autorità si limitano a dichiarare che a Genova la nave imbarcherà materiale civile. La Yanbu doveva attraccare il 10 maggio a Le Havre per caricare cannoni Caesar da 155 mm, mentre ad Anversa aveva imbarcato munizioni. Ma in Francia la mobilitazione di portuali, sindacati e pacifisti ha impedito l’attracco. Non è la prima volta che la Bahri Yanbu attracca in Italia. A Genova è già stata il 6 gennaio e il 15 marzo, mentre tra il 7 e l’11 novembre del 2018 era a Livorno. Impossibile sapere cosa abbia caricato. Il timore è che le armi provenienti anche dall’Europa siano utilizzate nella guerra in Yemen.

L’Arabia è schierata con il presidente Abd Rabbih Mansur Hadi. Sul fronte opposto i ribelli sciiti con Iran ed Hezbollah. Mentre Al Qaeda mette radici. In mezzo c’è la popolazione di un paese meraviglioso, raccontato negli 70 da Pier Paolo Pasolini nel film Le mura di Sana’a, e oggi tra i più poveri del pianeta.

La flotta della compagnia nazionale saudita Bahri Shipping conta 6 navi utilizzate per il trasporto di armi. Oltre alla Yanbu ci sono Jeddah, Tabuk, Abha, Yazan e Hofuf. Il 9 giugno 2016 a Cagliari la Jeddah caricò armi prodotte dalla Rwm Italia, branca nostrana della tedesca Rheinmetall. Le navi della Bahri (che secondo i Lloyd’s nell’ultimo anno hanno spento per settimane i trasponder rendendosi invisibili ai radar) sono state fotografate nel porto yemenita di Aden, controllato dai sauditi. In altre immagini, pubblicate da Repubblica, si riconoscono Lav 700, armi utilizzate dalle milizie alleate di Riad.

Ma ci sono anche viaggi in Libia – dove l’Arabia fiancheggia il generale Khalifa Haftar – evidenziati nei dossier Onu dove si parlava di una violazione dell’embargo. Rischiano così di suonare vuote le parole del presidente francese Emmanuel Macron: “Abbiamo chiesto la garanzia che le armi non siano utilizzate contro i civili. L’abbiamo ottenuta”. Macron è tranchant: “L’Arabia e gli Emirati sono alleati della Francia. Li supportiamo totalmente”.

Mail Box

 

Sottovalutiamo i pericoli della tv spazzatura

La tv spazzatura può uccidere. Il “Jeremy Kyle Show” è un reality inglese modellato su quelli americani, dove le famiglie si scannano in diretta tra tradimenti e problemi personali. Spesso si arriva alle mani ed è sempre presente un servizio di sicurezza pronto a intervenire. In una recente puntata il 62enne Steve Dymond si è sottoposto, in diretta, alla macchina della verità per dimostrare di non aver tradito la sua fidanzata, molto più giovane di lui, che l’aveva trascinato in trasmissione proprio per questo. La prova è fallita nonostante Steve si fosse proclamato fedele. Lei lo ha lasciato e qualche giorno dopo, in preda alla disperazione, Steve è deceduto a seguito di un’overdose di morfina. Recentemente, in Italia, si è assistito all’umiliazione di Fabrizio Corona ai danni di Riccardo Fogli ne “L’Isola dei Famosi”. dove il paparazzo sosteneva che Fogli sarebbe stato tradito dalla moglie.

Il pianto di quest’ultimo, in diretta, ha evidenziato quanto certi programmi siano beceri. Veri e propri teatri della barbarie. E come facciano emergere, spesso con la connivenza dei conduttori che si fingono solidali con la “vittima”, i peggiori istinti umani. Come rabbia, gelosia e avidità.

Cristian Carbognani

 

Il comportamento di alcuni leghisti ricorda il Medioevo

Grazie a Legnano, ecco cos’è la Lega. Non tutta, per carità, ma certo il comportamento di alcuni amministratori e i proclami del grande capo fanno drizzare il capelli in testa. Siamo tornati indietro, sino al Medioevo? Dove abbiamo sbagliato? Perché ci siamo fatti scippare di 49 milioni di euro da un partito che indicava Roma come il centro di ogni male, a partire da quello economico? Che senso ha il viaggio di Salvini da Orbàn, capo di uno stato assai poco civile? Che senso hanno le parole che lui dice a proposito dei migranti, dei respingimenti e dei rimpatri? Cosa c’entra veramente con CasaPound che sembra possedere (seriamente) un’anima nera (o sciocca, volgare, dipinta di nero)? Il nostro Stato si chiama Italia non Burundi, ma per certi individui, evidentemente, è il contrario.

Dario Lodi

 

Attacco a Matteo: attenzione all’effetto boomerang

Certamente giornaloni e televisioni hanno attaccato strategicamente prima Di Maio e i 5S, finendo così per gonfiare Salvini. Ma, non avendo ottenuto il getto della spugna da parte dei 5S, hanno cominciato a sparare a zero sulla Lega e Salvini, il quale non si è reso conto che la sua sovraesposizione mediatica l’avrebbe danneggiato. E così, oggi, Lega e Salvini, alla vigilia delle europee, sono preda di indagini giudiziarie per corruzione, voto di scambio e così via. Ma, a parer mio, anche questa volta lorsignori hanno sbagliato i tempi dell’attacco perché la crisi, se ci sarà, sarà rinviata a dopo le elezioni. Né otterrà alcun risultato l’attacco al governo a colpi di spread, in quanto deve, comunque, ritenersi tardivo. In definitiva, lorsignori dovranno temere che continuare a esagerare, prendendo a mazzate Lega e Salvini, potrebbe provocare l’effetto boomerang sulle prossime europee, favorendone la vittoria.

Luigi Ferlazzo Natoli

 

Radio Radicale ce la farà. La partitocrazia è contenta

Radio Radicale ce la farà. Ed è bene, perchè ogni voce che informa vale la pena che viva. Con lei si è schierata tutta la “partitocrazia” che evidentemente si rifugge a giorni alterni a seconda delle convenienze. Finale lieto che si prepara e che però lascia spazio a qualche considerazione.

È la resa per il fronte radicale, strenuo difensore del liberalismo, in prima linea contro le partecipazioni statali, le ingerenze dello Stato nell’economia, il famigerato statalismo…? Nell’immaginaria vignetta c’è Marco che sporgendo il cappello chiede allo Stato di salvare “l’organo ufficiale della Lista Pannella”. Parlano addirittura di battaglia “per la libertà di stampa”.

Fuuiii! Non solo per il pluralismo dell’informazione! Resta da capire come mai quei maledetti milioni della “convenzione” siano indispensabili per mantenere in piedi l’emittente. Non dovrebbe dipendere da essi l’intera programmazione – e dunque la vita della radio – essendo destinati a coprire solo le dirette dal Parlamento cui sino a oggi erano destinati. E che sono diventate superflue.

In ogni caso niente paura. Se proprio dovesse andar male, rivolgersi alla radicale Bonino. Una telefonata all’amico George Soros e tutto si risolve, senza che tocchi a noi, ancora una volta e come sempre, pagare.

Melquiades

 

I NOSTRI ERRORI

Nell’articolo “Liti temerarie, un risarcimento danni contro chi querela per intimidire” pubblicato ieri, per un eccesso di sintesi, risulta poco chiaro il pensiero dell’avvocato Caterina Malavenda, specialista del diritto dell’informazione, che suggerisce di “inserire la formula di assoluzione ‘perché il fatto non costituisce reato’ tra quelle in presenza delle quali all’imputato possono essere liquidate non solo le spese a favore ma anche il risarcimento del danno, tanto più che questa è la formula più consueta con la quale i giornalisti vengono assolti”. Le nostre scuse all’interessata e ai lettori.

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