C’è dell’antisemitismo negli Stati Uniti. Difficile spiegare diversamente la fatwa contro Woody Allen, senza editori per la sua autobiografia, ridotto a far uscire il nuovo film A Rainy Day in New York nella sola Europa (per una volta l’Italia ha dato il buon esempio attraverso la Lucky Red). Il #metoo è un evidente pretesto per giustificare il neo maccartismo; più probabile la vendetta di Amazon dopo il flop della serie girata da Allen, dichiaratosi amaramente pentito dell’esperienza. Ma in questa riedizione della lotta all’arte degenerata c’è qualcosa di più profondo. A parte il fatto che l’arte è degenerata o non è, che cos’è l’antisemitismo se non l’odio per il diverso? Se l’intelligenza è l’anima della diversità, Allen è sempre stato un diverso, uno dei rari cineasti statunitensi a perseverare nello stile, un simbolo del cinema d’autore. In un’epoca in cui il regista è diventato un burattino interscambiabile al servizio delle major, è rimasto sempre più fedele a se stesso, fino alla maniera. Come se non bastasse, l’ultimo Allen si è fatto più pessimista, nevrotico, sulfureo fino alla disperazione. L’artista degenerato andava punito, bisognava solo prendere al balzo la palla giusta. Se proprio vogliamo parlare di censura, parliamo di cose serie. Più di quanto è criptofascista l’Italia di Salvini, parliamo di quanto è criptonazista l’America di Donald Trump (naturalmente parliamo di pulsioni inconsce, le più profonde: l’inconscio va al nocciolo della questione).
Consegne. Amazon investe in Deliveroo. Un business, ma non per i lavoratori
Gentile redazione, ho letto la notizia di Amazon che ha deciso di investire 575 milioni di dollari – cifra che a me fa venire il capogiro – in Deliveroo, la società londinese di consegne che arriva anche alle nostre porte. Non ho capito se questo significa un cambio di strategia da parte del colosso Amazon, e quindi ci troveremo i fattorini che ci consegneranno la pizza, oltre alle scarpe comprate on line, oppure se è soltanto un investimento in un settore in forte espansione. E poi mi chiedo e vi chiedo: Amazon, che già non brilla per tipologia di contratti applicati ai lavoratori, sposa una filosofia simile alla sua, visto che i riders sono sottopagati e praticamente non hanno diritti?
Norberto Amati
Gentile Norberto, non credo sia un cambio di strategia bensì, come suggerisce anche lei, una scelta economicamente redditizia per il gigante dell’e-commerce che ha fiutato quale sia il business fiorente del momento – l’ennesimo, data l’estrema diversificazione che porta avanti da anni – e ha deciso di metterci lo zampino. O meglio, una grande zampa visto che con l’acquisto delle quote da parte di Bezos, Deliveroo ha raggiunto una raccolta di 1,53 miliardi di euro e fatto crollare in borsa tutte le piattaforme rivali, come Just Eat. Cresce il business delle consegne di cibo a domicilio (a fine 2017 Deliveroo era cresciuta del 117% a livello globale, pare abbia 60 mila rider e che “serva” circa 80 mila ristoranti) e cresce quindi l’interesse degli investitori nel settore, soprattutto se tematicamente “affini”. Chi meglio di Amazon può investire in logistica e consegne? Chi meglio di Uber poteva dar vita a Uber Eats? Ora, è difficile sapere come la presenza di Amazon influirà sul servizio, visto che i termini dell’accordo non sono noti. Ma da Deliveroo hanno fatto già sapere che non vedono l’ora di lavorare con il gigante, famoso per le sue capacità e la sua attenzione nel trattare con i clienti. Bene. Ma come si traduce, oggi, questa maniacale attenzione ai soli bisogni del cliente h24? In uno sfruttamento, sia nella logistica che nelle consegne a domicilio, ormai conclamato. Come se non bastassero le poche tutele, le piattaforme stanno aggiungendo nuovi servizi: alcune prevedono un vero e proprio servizio di pony express, Amazon ha già Prime Now per consegnare e ora si prepara quasi pure a coltivare patate e carote da recapitare via citofono. Molto presto, gli tornerà utile anche avere una rete di ciclisti sgambettanti, sottopagati, che si muovono agilmente tra i palazzi.
Virginia Della Sala
Da Pina a Zinga la politica è un giochino
Èuna campagna elettorale davvero esaltante. Il merito è anche di due insigni statisti contemporanei, Pina Picierno e Matteo Salvini. Entrambi, con quel loro gusto antico per il neurone allo stato brado, hanno varcato nuove frontiere. La prima si è inventata un crowdfunding per pagarsi la campagna elettorale. E già qui c’è del dramma, non tanto quanto nel fatto che il “nuovo” Zingaretti le abbia trovato un’altra volta il posto. Con 50 euro si riceverà a casa un pratico kit penna e bloc-notes, con 100 euro un caffè con Picierno e con 500 una cena. Prospettive oltremodo allettanti, anche se non tutti hanno gradito (e in tanti hanno insultato con toni vili e sessisti). La Picierno, cui va come sempre il nostro affetto e la nostra stima, ha risposto così: “Non avendo altri argomenti su cui attaccarmi, qualcuno ha pensato di potermi colpire sulla mia iniziativa di crowdfunding”. E anche qui c’è del genio, perché i motivi per attaccare politicamente la Picierno sono infiniti. Coincidendo peraltro ontologicamente con la Picierno stessa.
Il “VinciSalvini” è invece un’idea ricicciata dalla precedente campagna elettorale: segno ulteriore della mancanza atavica di nuove trovate dalle parti del cerchio magico (cioè “la Bestia”) del Capitano, che spera con ciò di far risalire le interazioni. Il VinciSalvini funziona più o meno così: più “like” metti e più hai la possibilità di vincere. Cosa? Salvini in persona. Una telefonata, un caffè, uno striptease sulle note di Pupo. Quel che volete voi: al masochismo non c’è limite, come insegnava secoli fa quella sagoma di Leopold von Sacher-Masoch. Picierno & Salvini hanno fatto proseliti e in questi giorni verranno varati nuovi concorsi. Ne segnaliamo alcuni.
“Una coda di rondine col Dibba”. I fan di Di Battista, novello falegname pronto a tornare in scena, potranno vincere un tête-à-tête eburneo durante il quale l’esponente 5 Stelle insegnerà loro i mitologici innesti a coda di rondine. I più fortunati potranno costruire con lui un comodino in puro legno massello, la cui tenuta strutturale sarà testata sottoponendolo a un irsuto crashtest col cranio di Nardella. (Il cranio di Nardella, sia detto per inciso, è d’accordo).
“Un etto di mortadella con lo Zinga”. Come molti sanno, il cognato della moglie di Montalbano non è il segretario del Pd bensì un innocuo salumaio. Chi riuscirà a premere per primo 666 volte il “like” sotto il post “Zanda è il nuovo Johnny Depp”, vincerà 94 ore a tu per tu con l’ineffabile Zinga nella sua macelleria personale di Vitiano. Sarà un’esperienza indimenticabile. Il primo classificato avrà in regalo anche un etto di mortadella, tre di finocchiona e un pacchetto di brigidini.
“Le zucchine di mare con Giorgia”. La Meloni, tra un presepe e un blocco navale, ha di recente scoperto l’esistenza di una nuova specie ittica: la zucchina di mare. Non si sa bene cosa sia, probabilmente un incrocio tra Gasparri e una cernia (quindi un incesto o quasi). I suoi estimatori più accorati potranno pescare tale specie misterica direttamente con Donna Giorgia, utilizzando come proscenio la spiaggia privata di Crosetto. Come esca verrà usato La Russa.
“Il lago dei cigni con Calenda”. Sei così di sinistra da sognare ogni notte – con cupidigia crescente – Damilano e Gentiloni? Calenda è l’uomo giusto per calmare i tuoi bollenti spiriti bolscevichi. Tuffati subito nella sua pagina e metti “like” su tutto quel che trovi, partendo dalla nota foto in cui l’economista omaccione mostrava il profilo maschio in riva a una pozzanghera. Se lo farai, Calenda ti concederà di recarti con lui alla prima del Lago dei cigni di Cajkovskij. Sempre che, nel frattempo, i cigni non li abbia mangiati tutti lui prima.
Cosa aspetti? Gioca anche tu. E partecipa in prima persona al definitivo sputtanamento di quella cosa sporca, ma un tempo tutto sommato seria, chiamata politica.
Un articolo di legge contro la censura sull’informazione
“La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure”.
(dall’articolo 21 della Costituzione italiana)
C’è una forma subdola e occulta di censura preventiva che incombe tutt’oggi sulla libertà d’informazione, nonostante le garanzie sancite dall’articolo 21 della Costituzione. Subdola perché dissimula sotto false apparenze intenti e obiettivi non sempre lodevoli. Occulta perché in realtà nasconde, dietro motivazioni giuridiche più o meno legittime, un effetto intimidatorio che può valere – per così dire – “erga omnes”.
Parliamo delle richieste di risarcimento civile per danni, reali o presunti, in rapporto a una diffamazione a mezzo stampa. Una tendenza che va diffondendosi sempre di più, a complemento o in alternativa alla denuncia-querela sul piano penale. E viene adottata, spiace rilevarlo, soprattutto da parte di magistrati che si ritengono offesi nel loro onore o nella loro reputazione e perciò si affidano alla benevolenza dei colleghi giudici, godendo generalmente di una “corsia preferenziale” e spesso di generosi risarcimenti.
Si tratta di una forma di censura preventiva che scatta automaticamente non solo nei confronti del soggetto direttamente interessato, bensì di una pluralità di altri potenziali soggetti: cioè di tanti giornalisti, magari più giovani e meno tutelati, che possono sentirsi intimiditi da un’azione intentata contro un professionista più noto e protetto, con un grande editore alle spalle chiamato a rispondere in solido. Secondo una stima di “Ossigeno”, l’associazione che fa capo ad Alberto Spampinato e Giuseppe Federico Mennella, al momento il “monte” complessivo delle richieste ammonta a 45,6 milioni di euro. Una spada di Damocle che pende sulla testa dei giornalisti, delle aziende editoriali e soprattutto dei cittadini che sono i veri titolari del diritto d’informazione.
A questo pericolo incombente, punta ora a porre rimedio il disegno di legge presentato al Senato da Primo Di Nicola, insieme ad altri parlamentari del Movimento 5 Stelle, in materia di “lite temeraria”: quella intentata cioè “con malafede o colpa grave”, ossia con la consapevolezza del proprio torto o con intenti dilatori o defatigatori. Al di là del pregio di essere costituita da un solo articolo, appena 16 righe, la proposta introduce una norma tanto chiara quanto drastica: nel caso in cui il ricorrente abbia torto in giudizio, viene condannato – oltre che al pagamento delle spese processuali – “a una somma, determinata in via equitativa, non inferiore alla metà della somma oggetto della domanda risarcitoria”. Per fare un esempio personale: querelato a suo tempo da Mediaset per diffamazione (archiviato) e poi richiesto di un risarcimento di 50 milioni di euro per un’inchiesta sul mercato della pubblicità televisiva apparsa su Repubblica, con questa legge – dopo aver aspettato undici anni per essere definitivamente prosciolto – magari mi sarei arricchito e avrei potuto elargire anche una lauta beneficenza.
Non basta naturalmente la proposta del senatore Di Nicola per sottrarre la libertà d’informazione a tutti i rischi e i condizionamenti a cui è sottoposta. Ma è un primo passo concreto e può diventare un deterrente nei confronti di tanti faccendieri, speculatori, corrotti e corruttori che brandiscono come una clava querele e richieste di risarcimento nel tentativo di difendere la propria impunità. Non sempre per fortuna vi riescono, se è vero che – in base ai dati di “Ossigeno” – il 92% delle azioni giudiziarie finisce poi in archiviazioni o assoluzioni. A ogni modo, è meglio premunirsi per disinnescare la mina delle “liti temerarie” contro l’esercizio della libertà d’informazione.
A difesa della Carta restano gli studenti
Il caso della professoressa Rosa Maria Dell’Aria, colpita da sanzione disciplinare perché avrebbe omesso di vigilare sul contenuto di un lavoro dei suoi studenti è di inaudita gravità: perché chiama in causa fondamentali principi costituzionali, quali la libertà di insegnamento (art. 33), il diritto all’istruzione (art. 34), la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21). Si tratta di diritti che Norberto Bobbio considera presupposti necessari a rendere realmente tale una democrazia. Vengono, inoltre, in evidenza le disposizioni costituzionali per le quali i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica (art. 54) e i pubblici impiegati quello di porsi all’esclusivo servizio della Nazione (art. 98). “Repubblica” e “Nazione”: non “governo” né, tantomeno, singoli “ministri”.
E quei ragazzi che, in una scuola della Repubblica, imparano a usare gli strumenti della filologia e della storia, e li usano per dimostrare le matrici fasciste di leggi, politiche, atteggiamenti attuali, avverano ciò che, in assemblea Costituente, prospettava Concetto Marchesi: è “nella scuola il presidio della Nazione”.
Una Repubblica – è necessario ribadirlo? – che la Carta fondamentale connota in senso antifascista (XII disp. trans. fin.) e costruisce sull’uguaglianza e la non discriminazione di tutti gli esseri umani (art. 2 e art. 3). E una Nazione definita non certo in base alla purezza del sangue della stirpe che la popola, bensì al paesaggio e al patrimonio storico e artistico forgiato dalle innumerevoli popolazioni che nei secoli hanno calcato, modellandola, la Penisola (art. 9): una Nazione, in altre parole, intesa come costruzione artificiale, aperta, in perenne trasformazione.
La distanza dal fascismo non potrebbe essere più grande. Rendendo gli ebrei una sottocategoria di cittadini, le leggi razziali avevano affermato un’idea di Nazione intesa come dato naturale, chiuso, immodificabile. Per mantenerne la genuinità occorre isolare gli elementi impuri: riservando loro uno status giuridico separato prima ancora che relegandoli fisicamente in luoghi destinati soltanto a loro. Lo scopo dichiarato dell’intera legislazione razziale è esattamente questo: intervenire a difesa della razza italiana, per proteggerla da ogni possibile minaccia di contaminazione.
L’idea di cittadinanza è indissolubilmente legata a quella di uguaglianza. Se l’autorità può di più o di meno nei confronti di qualcuno, allora a rilevare è il privilegio di chi ha meno doveri o più diritti, vale a dire, lo status che differenzia il privilegiato rispetto agli altri. Esattamente com’era prima del 1789. Ed esattamente come ora, in Italia, dispone l’art. 14, co. 1, lett. d), del decreto-legge n. 113 del 2018, convertito nella legge n. 132 del 2018 (decreto sicurezza o decreto Salvini).
Tale disposizione introduce un’inaudita discriminazione all’interno della categoria dei cittadini, basata sulla possibilità, in caso di condanna definitiva per reati di matrice terroristica, di revocare la cittadinanza a coloro che l’hanno acquisita nel corso della loro esistenza e non anche a coloro che cittadini lo sono per nascita da genitori italiani. Come a dire: anche una volta acquisita la cittadinanza, lo straniero non potrà mai essere realmente ritenuto un italiano come gli altri (perché non ha sangue italiano nelle vene). Lo scopo è lo stesso di un tempo: la difesa degli italiani, quelli veri. Quando si tratterà di punire il responsabile di talune condotte criminali, a venire in luce non sarà, dunque, quel che egli ha compiuto, ma chi è. Il punto è decisivo: la stessa azione sarà punita diversamente a seconda di chi ne è l’autore, in clamorosa violazione del principio di uguaglianza formale sancito dall’art. 3, co. 1, Cost. Chi replica che l’ordinamento già prevedeva ipotesi di revoca della cittadinanza non coglie nel segno, perché quelle ipotesi valevano (e valgono) tanto per i cittadini dalla nascita quanto per quelli che lo sono diventati nel tempo: non creano una categoria di cittadini di secondo rango, come invece fa il decreto Salvini. Che è, sostanzialmente, una legge razziale: perché discrimina in base al sangue. Ed è una legge totalitaria, perché può togliere la cittadinanza italiana anche a chi non ne ha più un’altra: creando apolidi privi del “diritto di avere diritti”.
Siamo al cospetto del più grave scostamento dal quadro costituzionale mai verificatosi nella storia repubblicana. La questione è a tal punto delicata che in Francia ben due Presidenti della Repubblica – Sarkozy, prima, Hollande, poi – sono stati costretti a rinunciare all’introduzione di norme analoghe. Da noi, il presidente della Repubblica è rimasto in silenzio. Per fortuna, a levare la voce a garanzia della Costituzione ci hanno pensato gli allievi della professoressa Dell’Aria.
“Facebook va arginato, ora minaccia la democrazia”
“I social media alimentano quella che io chiamo politica dell’identità, ci permettono di interagire solo con chi è d’accordo con noi e silenziare tutti gli altri, alzando barriere tra comunità identitarie”. Francis Fukuyama insegna a Stanford, da quando ha pubblicato il suo libro del 1992 La fine della storia e l’ultimo uomo è forse il politologo più citato al mondo. Da poco è uscito in Italia il suo nuovo libro, Identità (Utet). Oggi Fukuyama lavora a un progetto di ricerca su Internet e democrazia. È in questa veste che interviene alla conferenza “Piattaforme digitali, mercato e democrazia” organizzata dallo Stigler Center dell’Università di Chicago, diretto dal professor Luigi Zingales. È l’occasione per parlare di social media e politica e non, per una volta, di fine della storia.
Professor Fukuyama, pochi giorni fa Facebook ha chiuso varie pagine accusate di diffondere fake news da una ong, Avaatz. È censura privata?
Prima o poi le piattaforme dovevano iniziare ad agire, non come censori ma come media tradizionali: devono essere responsabili di quello che diffondono. Ma con questa evoluzione la dimensione di Facebook diventa un problema.
In che senso?
In un ambiente competitivo, se non mi piace come Facebook modera i contenuti, possono passare a un altro social network. Ma nel mondo reale non ci sono alternative. In alcuni Paesi Facebook e Google agiscono come autorità pubbliche che controllano la sfera del dibattito collettivo. E questo non dovrebbe essere consentito a un’azienda privata.
Il co-fondatore di Facebook, Chris Hughes, propone di smantellare l’azienda in parti più piccole, per ridurne il potere.
Gli strumenti dell’antitrust possono essere utili a ridurre il problema della dimensione eccessiva di Facebook. Quello dei giornali è da sempre un settore poco regolato, mentre la politica ha sempre messo molti paletti da rispettare per le televisioni. Perché i giornali sono molti e le tv poche: un potere troppo concentrato è pericoloso in democrazia. Per Google e Facebook, invece, finora questa attenzione alle implicazioni della loro dimensione non c’è stata.
Ma tutti sono d’accordo che i contenuti falsi o offensivi sono un problema sui social.
Lo stesso gesto in una foto può voler dire “tutto ok” oppure “sono un suprematista bianco”. Dipende dal contesto. E Facebook non ha la competenza e la legittimità per decidere in quali circostanze è lecito fare un gesto o tenere un certo comportamento e quindi quali foto sono da oscurare e quali no.
In Sri Lanka, dopo l’ultimo attentato, il governo ha ordinato la chiusura dei social. Che ne pensa?
Le piattaforme sono capaci di anticipare queste mosse, senza bisogno dell’input dei governi. Non credo che la richiesta del governo di chiudere i social sia stata fondamentale per far sparire dalle piattaforme i contenuti critici. Ma la minaccia di un intervento pubblico può contribuire a rendere più responsabili le piattaforme.
Nei suoi libri lei indica la Danimarca come il punto di arrivo delle democrazie liberali. Nella sua Danimarca ideale, che spazio c’è per i social network?
In Danimarca c’è una tv pubblica che, come la Bbc in Gran Bretagna, è molto autorevole e indipendente dalla politica. Un modello che i Paesi dell’Europa del Sud non sono mai riusciti a replicare. In Italia l’influenza della politica sulla tv pubblica ha creato le condizioni per far emergere le tv private di Silvio Berlusconi. Queste gli hanno permesso di costruirsi una carriera politica che poi gli è servita per difendere gli interessi di quelle stesse aziende. Un modello che purtroppo si sta diffondendo, dalla Repubblica Ceca all’Ungheria: uomini molto ricchi comprano televisioni e giornali non perché redditizi, ma perché hanno peso politico. E peggio vanno i conti dei giornali tradizionali, più diventa conveniente comprarli per chi cerca una leva per aumentare la propria influenza.
Anche Jeff Bezos di Amazon si è comprato il Washington Post per le stesse ragioni?
Esatto. Ci vorrebbero invece dei media pubblici e autorevoli. Ma prima servirebbe un minimo di consenso sociale e politico sulle regole di fondo nei singoli Paesi. Un consenso che c’è in Germania, Scandinavia o Svezia ma non negli Stati Uniti: qui il dibattito è troppo polarizzato, chi sta su posizioni estreme non riconosce alcuna legittimità a quelle più equilibrate e intermedie. E allora l’unica alternativa è avere un mercato molto competitivo in cui si moltiplicano i punti di vista e nessuno può imporsi.
Donald Trump governa a colpi di tweet ed è sempre più divisivo. Può essere rieletto nel 2020?
La maggioranza degli americani non lo ama, non è mai andato oltre un gradimento del 35-40 per cento. Ma il problema è che i democratici rischiano di scegliere il candidato sbagliato e di permettergli così di vincere di nuovo. Se scelgono qualcuno troppo a sinistra o comunque screditato, Trump potrebbe farcela.
Chi è il meno peggio tra i venti candidati democratici alla presidenza?
La scelta più ovvia è Joe Biden, l’ex vice di Barack Obama. Se avesse vent’anni di meno sarebbe sicuramente l’uomo giusto.
Biden è anziano, bianco, molto lontano dai giovani e dalle minoranze che compongono gran parte dell’elettorato democratico.
Non è detto che sia un male: i democratici hanno insistito troppo sulla politica identitaria, con l’ossessione di avere un afroamericano, una donna, un ispanico, un omosessuale… Avere un maschio bianco come candidato non è la cosa peggiore che potrebbe capitare. Con le rivendicazioni identitarie si mobilitano alcune parti dell’elettorato, ma se ne perdono molte altre. Nel 2016 è stato proprio questo approccio identitario che ha spinto molti elettori bianchi verso i repubblicani.
Che aspettative ha sulle elezioni europee di domenica prossima?
Spero che i populisti non abbiano un risultato troppo netto. Ma in ogni caso non potranno mai essere una coalizione stabile perché hanno interessi troppo diversi e quindi la loro influenza sarà limitata. L’importante è che queste elezioni non si trasformino in un rifiuto netto del progetto di Unione europea che continua ad avere un ruolo molto importante.
Le Colpe del Lazio e quelle della Lega
Chi avesse letto giovedì la prima pagina della cronaca di Roma di Repubblica, avrebbe incrociato questo titolo: “La Ue: ‘Rom discriminati’”. E alla seconda riga del medesimo titolo di prima: “Salvini si assolve: tutto ok”. Segue catenaccio: “L’Unione europea avvia la procedura di pre-infrazione. Il ministro al question time su Casal Bruciato: denunciati in 17”. Un lettore poco informato non avrebbe dubbi neanche dal titolo interno: “Rom, Salvini glissa. Ue: discriminati”. Tutta colpa di Salvini, dunque.
Non fosse che la procedura di pre-infrazione avviata dall’Europa non è rivolta al governo, ma alla Regione Lazio governata dal segretario del pd Nicola Zingaretti (il cognome del quale riesce a non essere mai citato nell’articolo) e si riferisce addirittura a una legge (regionale) del 1999 quando al governo dell’ente c’era Piero Badaloni, volto noto della Rai sostenuto in quegli anni sempre dal centrosinistra. La discriminazione dei rom per l’accesso alle case popolari, a detta dell’Ue, consisterebbe nella difficoltà per loro di dimostrare la propria residenza ed eventuali sfratti subiti. La Regione, peraltro, si è detta pronta eventualmente a modificare la norma. Salvini invece, per chi volesse saperlo, parlava delle proteste di Casal Bruciato.
Mattarella contro “aggressività” e “intolleranza”
Il Capo dello Stato Sergio Mattarella scatta una fotografia dell’Italia che si rivela incoraggiante pur non perdendo il realismo: nonostante nel Paese “affiorino, rumorosamente, atteggiamenti di intolleranza, di aggressività, di chiusura alle esigenze altrui”, il Presidente sostiene che si tratti di “fenomeni minoritari, sempre esistiti”, seppure in questo periodo “sembrano attenuate le remore che prima ne frenavano la manifestazione”. Nel corso dell’intervista rilasciata a Osservatore Romano, Radio Vaticana e Vatican News, i mezzi di informazione della Santa Sede, Mattarella sostiene infatti che l’Italia “registra una gran quantità di iniziative e comportamenti di grande solidarietà; e questa realtà è nettamente prevalente”, nonostante l’intolleranza degli italiani sia inevitabilmente cresciuta come “conseguenza del profondo disagio sociale, provocato dalla crisi economico-finanziaria del decennio passato”. Non mancano, nel suo discorso, gli accenni all’Europa (che “deve curarsi di più della sorte delle persone e ritrovare lo spirito degli inizi”), e al Pontefice (che “è subito diventato un punto di riferimento per gli italiani”).
Sea Watch, sbarcano solo i minori. “Porti chiusi” e polemiche Lega-M5S
Per il momento il comandante della Sea Watch 3 non sembra intenzionato a violare la diffida a entrare nelle acque territoriali italiane, notificata alla nave della Ong tedesca dalla Guardia di Finanza su indicazione del Viminale. La nave, che ha soccorso 65 naufraghi a 30 miglia dalla Libia in un’area Sar (Search and rescue, ricerca e soccorso) teoricamente di competenza delle traballanti autorità di Tripoli, resta a quindici miglia da Lampedusa. Ieri il ministero dell’Interno ha consentito solo lo sbarco dei minori con i genitori e di un uomo in condizioni di salute particolarmente critiche. Diciotto persone in tutto sono state imbarcate in alto mare su una motovedetta della Guardia Costiera.
Vedremo per quanto tempo Sea Watch 3 potrà rimanere lì, navigando a zig zag, mentre le condizioni del mare peggiorano e a bordo la situazione si fa sempre più difficile. Senz’altro la nave non andrà verso Malta, né verso la Tunisia come ha suggerito ieri il Viminale. Matteo Salvini ha ordinato “porti chiusi”, ha ricordato che il salvataggio non è avvenuto nell’area Sar italiana (col decreto sicurezza bis scatterebbero le multe da 3.500 a persona), che la Ong è tedesca e la nave batte bandiera olandese. Ha chiamato i volontari “scafisti” e “delinquenti”. Dopo lo sbarco dei primi diciotto alcuni parlamentari M5s hanno ironizzato: “Dal celodurismo al celopiccolo”. Come Maurizio Gasparri: “Porti chiusi ma non troppo…”. Così Salvini ha potuto perfino replicare che non voleva farli morire, volano gli stracci su qualsiasi cosa. La Procura di Agrigento ha aperto il consueto fascicolo per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, al momento contro ignoti. I magistrati peraltro ieri erano a Lampedusa dove hanno sentito alcuni membri dell’equipaggio della Mare Jonio, la nave della Ong Mediterranea sequestrata.
Insomma siamo all’ennesimo braccio di ferro, del resto è successo anche con navi che battono bandiera italiana e perfino con la nave Diciotti della Guardia Costiera. Nessun membro delle Ong è stato rinviato a giudizio per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, Salvini invece è stato incriminato due volte per sequestro di persona: nel primo caso (Diciotti) il Senato ha negato l’autorizzazione a procedere, nel secondo (era ancora Sea Watch) vedremo.
“Noi e gli striscioni. Di barcone ferisci? Di balcone perisci”
L’abbiamo conosciuta a Catanzaro. Con la sua “Rivolta dei Balconi” ha dato il via a una nuova stagione del dissenso, che parte dal basso. Jasmine Corallo ha 38 anni. È una di quelle che ha deciso di restare in Calabria, “perchè ci tenevo che mia figlia crescesse qui, tra coloro che resistono”.
Dal caso della prof di Palermo a quello di Salerno, dove ieri la Procura ha aperto un fascicolo per turbativa elettorale, per lo striscione anti-Salvini esposto su un balcone lo scorso 7 maggio. Che sta succedendo?
Siamo di fronte a un atteggiamento censorio delle istituzioni. È una cosa angosciante. Esiste o no l’articolo 21 della Costituzione? Avete visto la prof Rosa Maria Dell’Aria? Non è certo una sovversiva, una “cattiva maestra”. Quella di Palermo è una storia che dovrebbe indignarci. Non tutti hanno il coraggio delle idee, così si finisce per avere paura del pensiero. È qualcosa di più grande, a cui noi stiamo cercando di opporci.
Ovvero?
Per la Lega la cultura diventa vizio, privilegio castale. Ma è proprio lo sdoganamento dell’ignoranza che ha prodotto certi mostri. Io sono calabrese, figlia della Magna Grecia, terra di ospitalità, nel senso omerico del termine. Siamo il popolo della xenofilia, altro che xenofobia.
Chi sarebbero i mostri?
Il mostro è lui. Ho deciso di non nominarlo: sono altra rispetto a lui. E da meridionale non dimentico chi è questo signore e cos’è il suo partito. Non fa che spostare di volta in volta il suo capro espiatorio: prima i terroni puzzolenti, poi i migranti e i rom.
Non pensa che sia un’esagerazione definirlo “mostro”? E, se il suo obiettivo è contrastare il ministro Salvini, non pensa che così lo si faccia poco efficacemente?
Lui delegittima il suo interlocutore, utilizzando epiteti formulari: “Zanzare e moscerini rossi”, “comunista col rolex”, “buonista radical- chic”… Non c’è pensiero, solo luoghi comuni. Ha costruito il suo consenso sull’algoritmo di Facebook. Ecco perché ho pensato che fosse inutile contrastarlo con categorie complesse. Qui a Catanzaro ho organizzato un evento che avesse, nella sua semplicità, la potenza della creatività e una forza social tale da ribaltare il suo senso comune.
Come è nata la “Rivolta dei Balconi”?
Da una poesia di Erri De Luca, I balconi del millenovecento. Scrive di come l’amore fra i suoi fosse nato con sua madre che si era affacciata da un balcone e suo padre che le aveva chiesto di sposarlo. Ma poi: “Da un altro balcone s’era affacciato pure l’impettito a dichiarare guerra, sporgendosi rapace e pappagallo sulla folla ubriaca di se stessa”. Riprendiamoci i balconi.
Un’iniziativa la sua che ha creato contagio. Oggi tocca alla piazza di Milano.
Chi di barcone ferisce, di balcone perisce. Sono felice che sia partito tutto dalla Calabria. A dispetto degli infiniti scandali politici, questa terra definita silente sta dando una lezione di forza delle idee, a partire da Mimmo Lucano e dal modello Riace.
Lucano, alla Sapienza, è stato accolto da migliaia di persone. C’è un popolo senza rappresentanza politica?
Le forze di sinistra non stanno intercettando ciò che si sta muovendo dal basso, da Milano a Catanzaro. Da attivista, rilevo una certa dormienza, mentre di fronte abbiamo un rabdomante alla perenne ricerca di malcontenti.
I partiti che dovrebbero essere opposizione, Pd in primis, viste le ultime inchieste in Calabria non navigano in buone acque…
Noi qui vediamo cose terrificanti: da vent’anni le stesse persone, gli stessi nomi, le stesse indagini stanno condannando un’intera regione. Bisognerebbe tornare ai fondamentali della sinistra. Se penso alla rivolta dei balconi organizzata qui, io ho potuto contare su Potere al Popolo, Usb e collettivi. Del Pd non ha partecipato nessuno, nonostante avessi invitato i giovani democratici. Dopo il successo dell’iniziativa, una ventina di loro mi hanno chiamato per sostenermi. C’è speranza. Sempre.