“Regalo di Natale” fuori stagione

D’accordo che il clima è impazzito, ma un Regalo di Natale a metà maggio è decisamente fuori stagione e, di più, fuori formato, come tutti (o quasi) gli spettacoli teatrali mutuati dal cinema.

Tratto dall’omonimo film di Pupi Avati del 1986 – Coppa Volpi a Carlo Delle Piane alla Mostra di Venezia numero 43, due David di Donatello e un Nastro d’Argento –, Regalo di Natale è stato riscritto per palcoscenico da Sergio Pierattini e diretto da Marcello Cotugno: interpreti ne sono Gigio Alberti, Filippo Dini, Giovanni Esposito, Valerio Santoro e Gennaro Di Biase, nei ruoli che furono, rispettivamente, di Delle Piane, Diego Abatantuono, Alessandro Haber, Gianni Cavina e George Eastman.

Pur attualizzata, anche in modo triviale (un esempio su tutti: i “blogger teatrali asini”), la trama è la stessa: un gruppo di amici, o sedicenti tali, si ritrova alla vigilia natalizia per spennare uno sconosciuto “pollo” a poker, sebbene a finire spennati siano loro. “Il testo è stato trasposto ai giorni nostri, in cui la crisi economica globale si è abbattuta sull’Europa segnando profondamente la società – spiega il regista nelle note –. In risposta a recessione e precariato, il gioco d’azzardo vive una stagione di fulminante ascesa”. Messa così, sembrerebbe una pièce di denuncia, ma non lo è: il core business dell’allestimento restano i sentimenti, i sommersi e i truffati. Con un limite: mentre al cinema è facile fare psicologia – con la camera che lavora sul piccolo, sul dettaglio, sulle facce –, a teatro è facile fare psicologismo, con gli attori che, però, scalpitano per strappare una risata in più.

La bontà degli interpreti non si discute, tuttavia la recita è sopra le righe, e impallidisce, proprio perché sovreccitata, al confronto col film di Avati: chiacchiere, gag, gigionismi, siparietti e improvvisazioni varie, di cui ridono gli attori stessi (non i personaggi) in una gara a chi la spara più grossa. Loro si divertono, il pubblico si diverte: è un assioma, in palcoscenico, ma è pure un peccato. Il primo tempo scivola via così, in un’ora di cazzeggio non sempre organizzato; il secondo tempo rallenta sul gioco (il poker) viceversa organizzatissimo, ma noioso, fino al finale amaro quanto digestivo.

Sulla carta Cotugno stressa la metafora tra poker e teatro, gioco e rappresentazione, ma sulla scena i “due specchi” non si guardano: la truffa è truffa, non recita, e la storia dell’amicizia tradita è quasi dozzinale, non commovente. Il contorno non aiuta: a parte la drammaturgia ipersemplificata, la scena, firmata da Luigi Ferrigno, è tutta schiacciata a destra, sul tavolo da gioco, e lo spazio mal gestito.

Il pubblico, però, alla fine si lascia andare a un lungo e caloroso applauso: al di là di tutto, è questo il regalo più bello, senza aspettare Babbo Natale o una Dodicesima notte qualunque.

 

Roma, Teatro Quirino, fino a domenica Regalo di Natale Di Pupi Avati Regia di Marcello Cotugno

Almodóvar, un amore di film. Altro che “Dolor”

Un sessantenne regista, Salvador Mallo, di illustre passato, dolente presente e incerto futuro: il fisico non lo assiste, le medicine sono tante, l’eroina diverrà dipendenza. Ancor prima, ancor più gravosa, l’astinenza: non riesce più a scrivere, non riesce più a girare, è il relitto della trascorsa grandezza, costretto a un’impasse tanto creativa quanto esistenziale. A dargli valore, verità e vita agra è Antonio Banderas, alla sua prova migliore: sofferto e dignitoso, prostrato ma non domo, dà a Salvador licenza di toccarci dentro, di muoverci a comprensione e compassione.

È il profeta rinnovato di un Dio del cinema ritrovato: Dolor y gloria ci riconsegna Pedro Almodóvar ai suoi massimi, perfino al vertice della carriera, come se specchiandosi nell’astenia e nella stasi di Salvador traesse finalmente la forza per ripartire, riprovarsi, stupirsi. Invero, in Dolor y gloria, i film sono due. C’è quello almodóvariano classico, ossia l’infanzia anni ’60 del piccolo Salvador, trascorsa in una grotta ritinta a Paterna, nell’entroterra di Valencia, con la madre à la Sophia Loren Penelope Cruz, l’innamoramento fulmineo per un muratore apollineo e quell’effetto diorama che spesso, e a ragione, ci ha fatto deprezzare il regista spagnolo. Queste immagini avranno sintomaticamente scaturigine cinematografica, viceversa, l’altro film, che pure è film sul cinema, prende a braccetto la vita, si fa prendere la macchina da presa – sebbene Almodóvar rifugga esplicitamente l’autofiction – dall’autobiografia. Il vuoto incommensurabile dell’impossibilità artistica, ma anche la gloria precaria, dilaniante e totalizzante dell’amore, complice il primo amante di Salvador nella Madrid anni ’80.

Quando rincontra Federico (Leonardo Sbaraglia), che si materializza dopo aver visto a teatro un monologo sulla loro storia portato in scena da Alberto (Asier Etxeandia), assistiamo a una delle scene più estatiche e sublimi del cinema ultimo scorso: eccitazione e memoria, passione e perdita, gli attori vibrano, la sensualità ha pieno campo. Ma non sarà l’amore carnale, bensì il manufatto artistico che attesta la primigenia pulsione amorosa (El primer deseo) di Salvador il volano della rinascita: tra amor vincit omnia e l’art pour l’art, Almodóvar traccia la propria via mediana, che è amore, arte e tempo (distanza) insieme.

Anelante e distaccato, splendidamente fotografato dal sodale José Luis Alcaine, arricchito dai dipinti, le sculture, i vestiti di proprietà dello stesso Pedro, Dolor y gloria inquadra anche la morte, grazie alla madre di Salvador che anziana è Julieta Serrano, e non si sottrae a nulla, veleggiando tra meta-film e memoir verso i lidi dell’opera mondo. La vie può essere en rose, canta Grace Jones, ma ancor prima dev’essere, per la voce di Mina, Come sinfonia: da oggi in sala e in lizza per la Palma al 72° Festival di Cannes, non perdetelo.

 

Il Giro si veste in completo azzurro

Poi c’è chi non crede a Padre Pio. Ieri il ciclismo italiano è stato miracolato al traguardo di San Giovanni Rotondo, dove si è conclusa la sesta tappa del Giro 2019, partita da Cassino, con un passaggio politicamente significativo a Volturara Appula, il paese dove è nato Giuseppe Conte. Non se ne abbia Salvini, ma in casa del premier la Giovane Italia del Pedale ha fatto l’en plein, dopo cinque tappe a masticare amaro. La maglia rosa, infatti, è scivolata via dalle spalle dello sloveno Primoz Rogric, desideroso di mollarla per riprendersela più avanti, (avversari permettendo), si è infilata su quelle del romano Valerio Conti, 26 anni. L’ultimo italiano a indossarla fu Vincenzo Nibali, nel 2016. In mezzo, illusioni e sconfitte.

Conte a Conti, ed è già un segno del destino lessicale. Primo sul traguardo, il bergamasco Fausto Masnada, che ha regolato facile il compagno di fuga Conti, secondo logica e leale spartizione del bottino: a me la rosa a te la tappa (la più lunga di questo Giro, 238 km). I due sono arrivati soli, dopo una fuga infinita condivisa con altri undici. Masnada, 25 anni, quest’anno ha vinto due tappe del Tour of Alps, ha fatto da locomotiva. Dulcis in fundo, il 23enne Giovanni Carboni ha pigliato la maglia bianca di miglior giovane e il secondo posto in classifica. Conti è figlio d’arte. Nonno Noè ha pedalato come gregario di Coppi (vinse la prestigiosa Coppa Bernocchi del 1959). Papà Franco fece suo un Giro d’Italia dilettanti ed è stato professionista per otto stagioni. Buon pedale non mente.

“Ci sfruttiamo da soli” A colloquio con Ken Loach

Ken Loach si presenta con un braccio rotto perché “stavo combattendo i fascisti!” scherza con la consueta ironia. E con altrettanta consuetudine è invitato col suo nuovo film al Festival di Cannes, dove già vanta due Palme d’oro. “Non penso certo a una terza, già sono stati troppo generosi con me” ma Sorry We Missed You è un’opera che, vincesse un ulteriore premio, nessuno si scandalizzerebbe. Perché ci porta ancora una volta nei territori della verità più vera, quelli che Loach governa con maestria tuttora inarrivabile. Ambientato nella Newcastle dove già aveva situato I, Daniel Blake nel 2016, il film è un’esplorazione del mondo del lavoro, di come è cambiato, laddove i precari non sono più sfruttati dal “padrone” ma arrivano addirittura a sfruttare se stessi, spesso autodistruggendosi. “Una situazione totalmente intollerabile che naturalmente nasce da scelte politiche” chiosa il cineasta da sempre vate dei labour.

“Se c’è da trovare un colpevole contingente quello risponde al nome dei social democratici su base internazionale e non solo britannica: hanno perseverato rompendo ogni promessa, mentre il loro compito era di interrompere il meccanismo perverso della competizione fra corporazioni, sì proprio quello, il capitalismo selvaggio nel peggiore dei termini”. Se è vero il tema non sia nuovo, “nuove sono invece le istanze che l’hanno peggiorato e vedo poca speranza a breve termine” chiosa il quasi 83enne regista inglese. Dunque come se ne esce? “Un passo in avanti, paradossalmente, lo stava facendo il mio Paese quando tre anni fa fu eletto Jeremy Corbyn a guidare i social dem: sotto la sua spinta il partito si è spostato notevolmente a sinistra tentando in ogni modo di ostacolare privatizzazioni e creare nuovi posti di lavoro specie a tutela dell’ambiente. I lefties britannici l’hanno capito e da 100mila iscritti sono arrivati a mezzo milione; poi però sono arrivati i problemi nel momento in cui il partito si è diviso, con Corbyn ostacolato dai parlamentari del suo stesso colore, per non parlare dei media che non l’hanno mai sostenuto”. E gli effetti sono quelli che vediamo negli scenari dei suoi film, fra cui appunto Sorry We Missed You: poveri (lavoratori) sempre più indigenti. La pillola è amara e Loach non intende addolcirla: “Da una statistica recente fatta dall’Onu risulta che nell’ultimo anno le banche del cibo in Regno Unito sono aumentate del 18%: un numero spaventoso. In altre parole – aggiunge il regista – siamo quasi dentro a una catastrofe sociale, economica e ovviamente politica”. Impossibile, parlando di politica Uk, non affrontare il tema Brexit sul quale Ken il Rosso offre una disamina precisa. “È un tema delicato, specie per la sinistra. Se fosse nata da accuse squisitamente economiche, ovvero quale critica ai sistemi capitalistici perpetrati dalla Ue, allora avrebbe avuto un senso, ma non è mai stata intesa così, è sempre stata un dibattito delle due destre contrapposte, una moderata che non vuole cedere alle richieste anche minime dell’Unione e l’altra estrema che vuole lasciare l’Europa per intensificare le pratiche capitalistiche, quelle alla Trump”. E rispondendo a una domanda identitaria Loach non ha dubbi: “Stare nell’Europa degli europei, delle persone, e non dei sistemi di sfruttamento economico: questo sì che è il sogno di chi crede nella ‘vera’ Unione”. In una Cannes che già si presenta ancor più “social-politica” delle edizioni precedenti – anche se è presto fare bilanci – le parole del grande cineasta britannico tuonano quanto le guerriglie dei ragazzini nelle banlieue parigine, i protagonisti di un altro esplosivo film del concorso dall’emblematico titolo Les Misérables. “La gente è furiosa, si sfoga sui più deboli, sui migranti ad esempio. La rabbia non si contiene più: what’s next?”.

Ue, i capilista e l’illusione della scelta democratica

Ogni corsa elettorale che si rispetti ha il suo dibattito finale. Quello tra i candidati al posto di presidente della Commissione Ue si è svolto a sei: il tedesco Manfred Weber per il Partito popolare, l’olandese Frans Timmermans, attuale vicepresidente socialista della Commissione Juncker, la commissaria in carica alla Concorrenza, la danese Marghrete Vestager per i liberali. E poi il ceco Jan Zahradil dei Conservatori e Riformisti, la vede tedesca Ska Keller e infine lo spagnolo-belga Nico Cué in rappresentanza della sinistra europea. Mancavano all’appello sia il sovranista Matteo Salvini, mai candidatosi formalmente, che un esponente del gruppo in cui convivono, non si sa per quanto ancora, Nigel Farage e gli M5S. Mercoledì sera l’emiciclo di Bruxelles è stato trasformato per l’occasione in studio televisivo. Timmermans ha flirtato con Verdi e Sinistra su ambiente e giustizia sociale, mettendo più volte in difficoltà l’avversario-alleato Weber. Un modo per avvertire i popolari che non sarebbe saggio per loro guardare a destra in direzione dei Conservatori e perfino di Le Pen e Salvini, come vorrebbe Viktor Orban, che nel Ppe continua a starci, anche se con un piede già fuori. Ci sono però molti dubbi che il successore di Jean-Claude Juncker alla guida della Commissione europea venga davvero scelto attraverso il sistema dei capilista, che fu inaugurato nel 2014 con l’idea di rendere più diretta e democratica l’elezione della principale carica Ue. Allora il Parlamento riuscì a imporsi sul Consiglio – l’istituzione che riunisce i capi dei governi Ue e che formalmente sceglie il presidente della Commissione – anche grazie ad un accordo di ferro tra lo stesso Juncker, popolare e politico di lungo corso e l’allora presidente dell’Eurocamera, il socialista Martin Schulz. I popolari risultarono i più votati in Europa, e il loro candidato ebbe il posto. Cinque anni dopo, il sistema rischia di saltare. Uno dei più accesi sostenitori della prassi degli Spitzenkandidaten come il liberale Guy Verhofstadt ha cambiato idea, in attesa di accogliere nel suo gruppo a Strasburgo i nuovi eletti del partito di Emmanuel Macron. Ed è proprio il presidente francese il nemico giurato della scelta parlamentare. Parigi vedrebbe molto più volentieri al Berleymont il francese Michel Barnier, capo negoziatore della Brexit. Ma anche gli altri governi europei preferiscono comporre loro il puzzle delle cariche, tenendo in conto gli equilibri tra famiglie politiche e alternanze nazionali. Non c’è in ballo soltanto la presidenza della Commissione e quella del Parlamento, attualmente guidato dal forzista Antonio Tajani. In autunno si rinnova anche il vertice del Consiglio, finora presieduto dal polacco Donald Tusk, e anche il mandato di Mario Draghi alla Bce è in scadenza. I leader dei governi europei ne hanno già parlato insieme al vertice di Sibiu, in Romania, lo scorso 9 maggio e torneranno a discuterne in occasione del Consiglio il prossimo 28 maggio.

Kenya: Silvia doveva sparire

Sono quasi sei mesi che Silvia Romano è stata rapita a Chakama e di lei non si sa più nulla. Notizie provenienti da sciacalli sono state diffuse senza alcuna verifica. Comportamenti sciagurati che hanno fatto traballare le speranze della famiglia – madre, padre e sorella – oscillate tra il desiderio di rivedere Silvia viva e vegeta e terrore di non poterla abbracciare mai più. Ora si apre uno spiraglio, che fa intravedere una soluzione del grave episodio criminale. La ragazza milanese potrebbe essere stata testimone di un episodio di violenza e qualcuno avrebbe potuto farla rapire per evitare le gravi conseguenze provocate da una sua possibile denuncia. Ma Silvia ha scritto tutto in un suo memoriale. È bene che resti in vita perché un eventuale suo omicidio su commissione potrebbe avere effetti ancora più gravi per i mandanti del suo rapimento.

Nei mesi scorsi più volte sono state messe in giro notizie inventate secondo cui Silvia sarebbe stata portata dai suoi rapitori in Somalia. Il contesto somalo è complicato e difficile, ma nell’ex colonia italiana dove tutto è distrutto e Mogadiscio ridotta a un cumulo di macerie, gli attentati sono continui, ci si muove solo con una buona scorta armata facendo attenzione ai banditi e alle gang di tagliagole islamici, dove la vita non vale niente e si può essere ammazzati per una bottiglietta di Coca Cola, una cosa funziona a dovere: le telecomunicazioni. Non è quindi difficile parlare con qualche leader governativo, qualche signore della guerra o addirittura qualche capo islamico (c’è perfino qualcuno che incarna tutte e tre le figura assieme). Bene, un’indagine in proposito porta a una sola conclusione: Silvia Romano non è mai stata portata in Somalia.

Per parlare invece di Chakama, occorre conoscere il contesto del villaggio in cui il 20 novembre dell’anno scorso Silvia è stata portata via da un commando armato. “Si tratta di un territorio completamente a economia rurale lontano dalle vie di comunicazione – spiega qualcuno che conosce molto bene la zona ma che non vuole sia reso pubblico il suo nome – è un grande comprensorio che abbraccia 17 villaggi e sotto villaggi (da noi si parlerebbe di frazioni, ndr), anche in Kenya piuttosto sconosciuto. A Chakama occorre andare apposta, non è un punto di passaggio, dove si capita per caso. È lontano da tutto, non arrivano i giornali, non si riesce a captare neppure la radio. Non ci sono negozi se non piccole botteghe, si vive di agricoltura e si campa ancora con il baratto. Non si vedono facce estranee e i pochi forestieri che arrivano vengono immediatamente notati dai locali. Insomma un modus vivendi senza alcuna relazione con il terrorismo organizzato. Quando è stata rapita, Silvia è stata caricata in spalla e portata verso il fiume, piuttosto che su un mezzo verso la strada più comoda e agibile”.

Uno scenario che apre numerose ipotesi ma che lascia anche spazio a parecchie domande. Per esempio, nessuno conosce le ultime telefonate di Silvia perché non si sa dove sia finito il suo telefono che era rimasto nella sua stanzetta di Chakama al momento del suo rapimento. È rimasto spento e bloccato per 40 giorni, poi qualcuno l’ha acceso e i messaggi whatsapp che le erano stati indirizzati sono stati ricevuti. Quindi il cellulare è rimasto inattivo ed è rimasto così per settimane. Altro mistero: che fine ha fatto la scheda telefonica italiana di Silvia. Non era installata su nessun telefono perché lei in Kenya non la utilizzava. Riposta da qualche parte in camera sua nel villaggio dove soggiornava, è sparita.

Gli inquirenti italiani si sono recati in Kenya e a Nairobi, la capitale dell’ex colonia britannica, hanno avuto colloqui con i loro omologhi locali. Si è discusso delle indagini senza grande soddisfazione. I poliziotti kenioti mostrano una sorta di reticenza a parlare della vicenda di Silvia Romano. Perché? Hanno commesso qualche errore nelle ricerche? Hanno battuto realmente tutte le strade? Oppure è coinvolto qualche pezzo grosso? Il Paese non è certamente un esempio di trasparenza, ma di solito su queste cose, da qualche anno, si mostra assai collaborativo con i nostri investigatori. Proprio qualche mese fa dalle parti di Malindi sono stati arrestati alcuni italiani che dovevano sanare i loro conti con la giustizia del nostro Paese.

Forse qualche forte pressione diplomatica potrebbe portare a una chiara definizione della questione e non è detto che la ragazza non possa tornare finalmente a casa. Perché nessuno ha pensato di stanziare una ricompensa seria (non i risibili 8.000 euro messi a disposizione delle autorità keniote) per chi darà notizie certe sulla sorte di Silvia?

Iannacone, il servizio pubblico a mani nude

Che ci fa Domenico Iannacone alle 20.25 su Rai3? Si ostina a fare servizio pubblico, nonostante tutto, con le sue storie di resistenza umana. Ora lo fa per 20 minuti nell’orario di massimo affollamento, la tangenziale dei palinsesti. Incastrato tra Blob e Un posto al sole, tra l’alfa e l’omega della Tv, Iannacone si trova benissimo, cacciatore solitario in cerca di un volto nella folla, gente nota o meno nota purché non comune. A differenza della quasi totalità dei suoi colleghi, Iannacone non si occupa direttamente di politica o economia; indaga su vite che non sono la sua, e lo fa nell’unico modo possibile. Senza studio, senza pubblico, senza opinionisti. A mani nude. Qualche sera fa si è messo sulle tracce di Marcello Forte, il protagonista di Dogman di Matteo Garrone premiato a Cannes come miglior interprete maschile, un personaggio che sarebbe dovuto diventare popolare anche in video, se il cinema contasse ancora qualcosa. Invece c’è voluto Iannacone per farci conoscere la sua storia di immigrato calabrese chiamato a Roma dal fratello scenografo, da manovale a comparsa, da comparsa a Palma d’Oro senza cambiare sorriso. La vita ha di queste scorciatoie che il marketing ignora. “Nel cinema tutto è finto”, ha detto passeggiando per Cinecittà, “ma se tu sei vero, fai diventare tutto vero”. Già. Ma quante volte la Tv fa il percorso contrario, dal vero alla finzione? Che ci fa Domenico Iannacone nella televisione italiana? Difficile dirlo, ma speriamo che ci rimanga.

Il re dei numeri sbanca Youtube

Si racconta che nei primi decenni dopo l’invenzione della stampa molti lettori comprassero i libri e li facessero ricopiare dagli amanuensi, per poterli ricondurre alle condizioni di lettura dei manoscritti ai quali erano abituati. L’aneddoto suona strano, o addirittura incredibile, soltanto fino a quando ci ricordiamo che molti di noi, dopo l’invenzione del personal computer, hanno continuato a stampare le schermate per lo stesso motivo.

Detto altrimenti, per un utilizzo corretto dei nuovi media bisogna in genere attendere la generazione che è nata dopo di essi, mentre quella che li ha visti nascere stenta ad adattarvisi. Pensiamo a YouTube, ad esempio. Molti dei matematici e degli scienziati agli inizi l’hanno usato soltanto come un mezzo su cui trasferire le proprie conferenze orali, riuscendo comunque a diffonderle ben oltre il ristretto ambito degli uditori ai quali esse erano dirette in origine. Per usare questo nuovo medium in una maniera più innovativa e adeguata si è però dovuto attendere qualche giovane che avesse più dimestichezza con l’aspetto visivo delle conferenze. Uno dei campioni al riguardo è il francese Mickaël Launay, nato nel 1984, e dunque solo trentacinquenne.

Nel 2007, da giovane laureato alla prestigiosa École Normale Supérieure, apre il fortunato sito di matematica ludica Micmaths. Nel 2013 passa su YouTube e nel giro di pochi anni il suo canale raggiunge i 335.000 iscritti e posta più di 150 video di matematica, con ascolti stellari che in genere sono riservati ai divi della musica o del cinema. Ma a differenza dei grandi divulgatori di successo, che spesso allargano il volume d’utenza a scapito della profondità dell’esposizione, Launay è riuscito a trovare la proporzione aurea tra successo e qualità. Il suo video La faccia nascosta delle tabelline, ad esempio, tratta di argomenti ben più elevati di quanto lascerebbe pensare il suo modesto titolo. In particolare, parte in sordina con la tabellina del 2 sui numeri fino a 10, ma subito la rappresenta con un grafo su un cerchio con 10 punti. Estende poi la stessa tabellina a numeri sempre più grandi, mostrando come i grafi tendono quasi miracolosamente alla figura di un petalo a forma di cuore (una cardioide). Passa poi alle tabelline del 3, del 4, del 5, eccetera, che producono fiori con due, tre, quattro petali, eccetera. E mostra infine come le tabelline dei numeri frazionari, invece che interi, producano figure intermedie che fanno passare gradualmente da un fiore all’altro. E come i fiori diventino sempre più complessi e affascinanti man mano che crescono i numeri per cui si moltiplica. Tutto questo, in una decina di minuti!

A quante persone potrebbe interessare un simile giardino fiorito? Basta guardare le visualizzazioni del video, per scoprire che in quattro anni sono state più di 3.200.000 (tre milioni e duecentomila)! A dimostrazione del fatto che se si sanno usare i nuovi media si possono ottenere risultati d’ascolto inimmaginabili su quelli vecchi. Anche perché descrivere a parole ciò che si può mostrare con figure è molto più complicato, e molto meno interessante. Questo significa che le parole scritte sono destinate a cedere il passo alle immagini, almeno nella matematica? Niente affatto, come ha dimostrato poco più di un anno fa lo stesso Launay. Conoscendo, da bravo francese, il motto di Mallarmé tout, au monde, existe pour aboutir à un livre, “tutto, al mondo, esiste per finire in un libro”, il divo matematico di YouTube ha pubblicato Il grande romanzo della matematica, che è immediatamente diventato un best seller in Francia. Il che dimostra che non c’è contraddizione fra media diversi, ma complementarietà: quelli vecchi non sono destinati a soppiantare i nuovi, ma ad affiancarsi a loro. Anche perché ci sono cose che si fanno meglio nei video, e altre che richiedono invece un libro: come raccontare storie, appunto, persino di matematica. Non a caso il libro di Launay è programmaticamente un romanzo, perché, come direbbe l’Ecclesiaste: “C’è un medium per ogni cosa. Un medium per raccontare, e un medium per mostrare. Un medium per leggere, e un medium per guardare”. E i follower di Launay su YouTube scopriranno da lettori in questo libro una faccia diversa di questo divulgatore straordinario e unico, che come un re Mida della matematica trasforma in oro intellettuale tutto ciò che tocca.

Salvini e Di Maio, tra i due litiganti non gode nessuno

Egregi vicepresidenti del Consiglio dei ministri Luigi Di Maio e Matteo Salvini,

questa rubrica desidera comunicarvi che i vostri continui litigi e battibecchi, veri o falsi che siano, ci stanno sfracassando gli zebedei. Nella vita c’è una misura in tutto. Anche nelle campagne elettorali. Per questo oggi il solo pensiero di assistere per altri dieci giorni a questo infinito ping pong di battute, risposte e provocazioni ci fa venire la nausea. Quando avevate sottoscritto il famoso contratto di governo, tutti gli elettori sapevano che le vostre rispettive forze politiche non erano uguali. E che il contratto sarebbe dovuto servire per stabilire prima cosa avreste fatto e cosa no. L’idea, copiata pari pari dalla Germania, lo ribadiamo, era buona. Ma arrivati a questo punto si deve constatare che a quel documento mancava una postilla: l’impegno solenne a non sfidare la pazienza dei vostri concittadini.

Certo, lo sappiamo, in assenza di segnali di vita da parte dell’opposizione è facile cedere alla tentazione di interpretare tutte le parti in commedia. Ma un conto è marcare le differenze tra i due contraenti del patto di governo e un altro è approfittare di ogni accadimento per dar vita a furibonde risse verbali. Perché chi sta pro-tempore al potere deve sempre ricordare che la serietà viene prima di tutto. E che prima delle parole vengono i fatti.

Tutta Italia attende ormai da gennaio la famosa legge sblocca-cantieri. La scelta di rimandarne la discussione in Parlamento a dopo le elezioni è controproducente per i cittadini e per il Paese. Non pensate che sarebbe stato più utile approvarla in anticipo rispetto alla chiamata alle urne? Non solo per noi italiani, che tiriamo tutti i giorni la carretta e che desideriamo vedere la nostra nazione crescere a percentuali un po’ superiori a quelle dei prefissi telefonici. Ma anche per voi che, facendo politica, siete alla disperata caccia di consensi.

Il vostro, allo stato, è un matrimonio obbligato. Altre maggioranze in Parlamento non se ne vedono. E l’idea di andare al voto anticipato durante l’estate o a settembre è il sistema migliore per trascinarci tutti all’inferno. Sì, lo sappiamo, e persino in parte concordiamo, i mercati sono cattivi e antidemocratici. L’establishment finanziario è pessimo. Negli ultimi venti anni si è arricchito a dismisura alle spalle sia dei poveri sia di chi lavora (povertà e lavoro oggi sono anzi spesso sinonimi). Detto questo, nessuno può far finta che per ora non abbia il coltello dalla parte del manico. Se si va al voto prima della manovra finanziaria d’autunno sappiamo tutti che sarà il generale agosto a far schizzare i tassi d’interesse sul nostro nuovo debito a livelli al cui confronto quelli odierni sembreranno acqua fresca. Con tutte le pessime conseguenze del caso. Avete detto urbi et orbi di essere il cambiamento? Be’, è ora di dimostrarlo anche in campagna elettorale.

A questa rubrica, francamente, importa poco chi governi. Interessa invece che chi lo fa, lo faccia con impegno, senso di responsabilità e della misura. Che pensi prima al bene comune e poi a se stesso. Che ottenga per tutti dei buoni risultati. Il destino vi ha portati a Palazzo Chigi? Vi conviene ricordare che avete il dovere di dimostrare di esserne degni. Anche perché, in caso contrario, ve lo ricorderanno a breve gli zebedei ormai frantumati di gran parte degli elettori.

Ministro offeso Maestra punita Italia da brividi

L’immagine delle squadre della Digos (Divisione Investigazioni e Operazioni Speciali) che entrano in una scuola per sgominare il crimine è clamorosa, plumbea, ma non inedita, specie da quando dalle parti del governo si è cominciato a guardare ai ragazzini come a potenziali narcotrafficanti da serie tv.

Ma, pur con tutte le violenze che sono state perpetrate ai danni di studenti e insegnanti con le cosiddette Riforme scolastiche dell’ultimo trentennio, considerando anche le umiliazioni a cui i discenti sono stati sottoposti con la cosiddetta “alternanza scuola-lavoro”, e al netto dei calcinacci che spesso e volentieri crollano sulle teste degli innocenti, l’impiego delle squadre speciali solitamente preposte alla lotta al terrorismo per fini diversi dalla “lotta alla droga” all’interno delle mura scolastiche fa venire i brividi. Quel che è successo è noto: per la giornata della Memoria, alcuni studenti di un Istituto tecnico di Palermo hanno fatto una presentazione con le slide in cui si paragonavano le leggi razziali del 1938 al fiore all’occhiello del leghismo, il decreto Sicurezza (e la logica che lo guida, cioè il respingimento dei migranti). A rendere edotto il ministero dell’Istruzione che a Palermo “una prof obbliga i suoi studenti a dire che Salvini è come Hitler perché stermina i migranti” è stato via Twitter un volenteroso cittadino, attivista di destra, tanto autorevole da guadagnarsi l’attenzione della sottosegretaria ai Beni culturali (tale per merito degli “zero libri letti negli ultimi 3 anni”, dichiarazione resa un anno fa e dunque eventualmente da aggiornare), la leghista Lucia Borgonzoni. La quale, con la sintassi degna del suo ruolo (con echi crociani che non vi sfuggiranno), ha vergato su Facebook: “Auspico non sia vero….ma temo sia una speranza mal riportata! Se è accaduto realmente, andrebbe cacciato con ignominia un prof del genere….e interdetto a vita dall’insegnamento. Già avvisato chi di dovere!” (testo e punteggiatura originale, ndr).

Chi di dovere ha prontamente agito a tutela dell’illustrissimo ministro, sospendendo per 15 giorni la professoressa, dimezzandole lo stipendio, e mandando appunto la Digos a Palermo. Non sappiamo, al momento, se siano state impiegate unità cinofile per subodorare la pur minima traccia di propaganda antisalviniana tra i banchi, se siano stati letti tutti i temi scritti dagli alunni dal 4 marzo in poi, controllati gli esperimenti di laboratorio e setacciati i lavoretti di Natale in cerca di eventuali segnali di un’offensiva reductio ad hitlerum a opera di studenti seviziati da professori nemici del popolo.

Sappiamo che tutta la vicenda segna una specie di epifania al contrario, capace di convogliare nella sua nuvola mefitica spettri inquietanti (più tre o quattro articoli della Costituzione calpestati). Evidentemente gli striscioni da rimuovere dai balconi sono troppi e incontrollabili: meglio chiamare la Digos per punire quei docenti che tralasciano di rieducare i minori al rispetto dell’autorità (alla professoressa è stata imputata una “omessa vigilanza”, e diteci voi che infrazione sarebbe, e se mai a scuola i vostri compiti siano stati vigilati prima di venire esposti).

Insomma, noi si fa tanti sforzi per non paragonare il Salvini al Duce, convinti che gli si farebbe solo un favore (oltre che, per alcuni aspetti, almeno quelli culturali, un complimento). Ma i volenterosi carnefici di Salvini è meglio che pensino a studiare loro, piuttosto che a delegittimare, violare e disturbare lo studio altrui. D’altra parte questo succede quando si fanno assurgere i sedicenti “fascisti del terzo millennio” e loro affini a intellettuali: che si sentono subito Giovanni Gentile.

A corredo dell’edificante parabola, impossibile non notare la tragica circostanza che l’Istituto di Palermo è intitolato a Vittorio Emanuele III, il Savoia traditore del suo popolo che firmò le leggi razziali.