Spegniamo la tv: guardiamo l’europa

Lo scarto fra un mondo in impetuosa trasformazione e una politica nazionale divenuta inconcludente avanspettacolo è sotto gli occhi di tutti. […] Oltre lo sterile dibattito fra sovranismo e globalismo, la verità è che tutti gli stati si trovano oramai provincializzati, sperimentando una condizione che già fu dei Paesi coloniali: l’incapacità di determinare il proprio destino. Da qui deriva la politica debole e incattivita di oggi – dagli Stati Uniti alle Filippine, dal Brasile all’Italia. Per quanto possa apparire paradossale, è precisamente dal tramonto degli Stati nazionali che scaturisce la grande insorgenza nazionalista della nostra epoca.

Questo paradosso è qualcosa che già individuava Hannah Arendt nel suo famoso studio sulle origini dei totalitarismi. È proprio in un momento storico di perdita di potere dei grandi Stati europei, negli anni in cui i padroni del mondo uscivano con le ossa rotte dalla Prima guerra mondiale, che il totalitarismo si manifesta come reazione alla perdita di presa e di controllo. Come un cane indebolito e malato, quindi impaurito e pronto a mordere. E così oggi, volendo scavare a fondo nel grande risentimento globale che contraddistingue la nostra età della rabbia, ciò che si trova è questo: impotenza.

Come se ne esce? A pochi giorni dalle elezioni europee, una delle strade possibili è davanti ai nostri occhi. Negli ultimi mesi la Cina è entrata nel dibattito pubblico italiano. […] Il progetto della Nuova Via della Seta è niente di meno che il primo, vero tentativo di trasformazione della globalizzazione neoliberale dai tempi della caduta dell’Unione Sovietica. Ma se, accecati da questo, non ci accorgessimo che proprio la vecchia Europa possiede le chiavi per trasformare il mondo?

L’Europa può divenire un agente di trasformazione di proporzioni inaudite. Capace di cambiare alla radice un modello economico in bancarotta morale e finanziaria e riprendere il controllo sulle grandi sfide del futuro. Pensiamo alla questione dei cambiamenti climatici: l’Europa avrebbe piena capacità di attuare un Green New Deal tale da rimettere a lavoro un continente e salvare un pianeta. Parliamo della trasformazione del più grande mercato mondiale in uno spazio ad energia 100% rinnovabile, con una nuova manifattura eco-compatibile e un piano straordinario di assunzioni per mettere in sicurezza i nostri territori: ambiente e lavoro. Attraverso la propria forza commerciale, poi, l’Europa sarebbe capace di imporre in tutto il mondo standard ecologici al rialzo, a partire da una nuova alleanza transatlantica.

Le risorse? Pensiamo a un tema come la giustizia fiscale. Sappiamo che fino a 1.000 miliardi vengono evasi o elusi al fisco ogni anno in Europa anche grazie al sistema dei paradisi fiscali. […] Cinque di questi paradisi fiscali sono all’interno della stessa Ue. Sarebbe possibile fermare questo scandalo già domani mattina, attraverso una tassazione minima comune capace di risanare i bilanci pubblici e rimettere giustizia nel sistema fiscale. […]

O pensiamo a un tema come quello dell’intelligenza artificiale, la vera macchina a vapore del XXI secolo. È in corso una nuova guerra fredda fra Stati Uniti e Cina. Possiamo solo scegliere se avere i nostri dati monitorati e monetizzati dalle grandi piattaforme della Silicon Valley o dal Partito Comunista Cinese, mentre ci abbandoniamo alla prospettiva di una perdita costante di posti di lavoro. Ma così come già fece con l’energia nucleare, fondando il Cern a Ginevra (dove venne inventato proprio il web!), l’Europa, il mercato più grande del mondo, potrebbe rompere il duopolio digitale e costruire un nuovo ecosistema indipendente dal controllo economico e politico, capace di creare nuova imprenditorialità di qualità, ridistribuire la ricchezza generata dall’automazione e archiviare sorveglianza e disinformazione.

Molti altri temi potrebbero essere aggiunti. Se rimaniamo invece arroccati in uno sterile dibattito inconcludente questo è perché abbiamo rinunciato a immaginare e praticare una politica capace di trasformare il mondo. Mentre è proprio un nuovo slancio internazionalista a restituire radicalità al pensiero e utopia alla politica. “La nostra patria è il mondo intero”, cantava un famoso stornello. E se distogliamo gli occhi per un attimo dalla cacofonia dei talk show ci possiamo accorgere come sia oggi proprio l’Europa a detenere la capacità di trasformare alla radice questa nostra patria comune. Eccola qua la sfida della nostra generazione: archiviare l’impotenza e riportare la politica all’altezza di un mondo che è già molto più avanti della nostra capacità di intenderlo e governarlo.

*filosofo, attivista e giornalista, con Yanis Varoufakis ha lanciato il movimento europeo DiEM25 “La tua patria è il mondo intero” (Editori Laterza) è il suo ultimo libro: sarà presentato a Torino in occasione del “Wake Up Europe! Festival”

Mail box

 

L’orrore del buio: staccare la luce è un gesto crudele

Staccare la luce è un gesto crudele. Chissà quanti, in Italia, non hanno la corrente elettrica perché non hanno pagato le bollette. Ricordo che da bambina avevo una paura tremenda del buio. Volevo dormire con la luce accesa, anche una piccola luce. Ma non era permesso. Dovevo spegnere e dormire. Non si poteva tenerla accesa. Era crudele, ma dovevo ubbidire. E avevo gli incubi da sveglia. Ricordo che aspettavo terrorizzata che un flebile filo di luce entrasse dalle imposte sprangate e riuscivo ad addormentarmi solo quando quella diafana speranza riusciva a penetrare quel nero impenetrabile. Staccare la luce a chi non paga le bollette è un gesto crudele. Incivile, senza pietà. Nessuno dovrebbe mai rimanere al buio. L’elemosiniere del papa ha fatto un bel gesto. Staccare quei sigilli e riportare la speranza in quel palazzo è stata una cosa di grande giustizia e umanità. Nessuno dovrebbe mai rimanere al buio. Facciamo che non succeda più che un intero palazzo rimanga al buio perché gli inquilini non pagano. Si può fare, in mille modi. Si aspetta. Si pazienta. Ci possono essere milioni di motivi per cui qualcuno non paga, non si può staccare la luce o l’acqua perché non si pagano. Dovrebbe esserci un sistema di solidarietà nazionale che interviene e provvede a saldare i conti con chi la eroga. Il comune dovrebbe prevedere un fondo di solidarietà che automaticamente si attiva per impedire che una famiglia, una persona sola, chiunque, rimanga senza corrente o senza acqua. E che nessuno rimanga mai al buio, al freddo e senza speranza. Una civiltà senza speranza non ha futuro.

Mariagrazia Gazzato

 

L’addio di De Rossi è doloroso, ma “certi amori non finiscono”

“Certi amori non finiscono mai. Fanno dei giri strani e poi ritornano”. Come non riascoltare una delle canzoni più belle di Antonello Venditti, per abbracciare De Rossi, due anni dopo il congedo del “Pupone” dalla Curva Sud. Daniele veniva definito, quando Totti guidava in campo la “Magica”, “Capitan futuro”, ma da agosto non indosserà più la sua maglia. Un addio, forse, prematuro e amaro, come quello della Juventus a Del Piero e del Milan a Montolivo. Commoventi le dediche di Totti, dei compagni e di tanti fans all’ex centrocampista della Nazionale, che è stato, con Francesco e il povero Di Bartolomei, il miglior capitano della Roma: indimenticabili il suo impegno e lo stile, che dimostra, lasciando il club e la fascia di capitano al concittadino Alessandro Florenzi.

Pietro Mancini

 

Matteo perde lo smalto e fa schizzare lo spread a 284

In televisione ho intravisto Salvini finalmente senza giubbotti e divise, sembrava un ministro. Però, subito dopo ha ribadito che si deve attuare il Tav e varare le autonomie differenziate. Come dire che perde il pelo, ma non il vizio. Ciò premesso, bisogna riconoscere che lorsignori sono riusciti in extremis, sfruttando le baruffe di Di Maio e Salvini, a fare aumentare lo spread tramite la speculazione prima a oltre 290, poi definitivamente (almeno per il momento) a 284. Non credo che tale aumento possa portare alla crisi di governo prima delle Europee e, quindi, lo spread è destinato a calare se non vuole aumentare ancora, ma inutilmente. Che venga al più presto il 26 maggio!

Luigi Ferlazzo Natoli

 

Gli animali sentono il dolore come gli umani: ricordiamolo

Vorrei condividere alcune considerazioni da veterinario su quel che concerne la valutazione del dolore e della sofferenza degli animali in risposta agli stimoli dolorifici. Purtroppo gli esseri umani quando si parla delle proprie tradizioni non riescono più a ragionare. Ne è un esempio la Spagna con la famigerata corrida, ma anche le stragi canadesi dei cuccioli di foca presi a bastonate sulla testa per non rovinare la loro pelliccia. Neanche in casa nostra mancano gli esempi di tradizioni, ahimè, intoccabili: guai infatti a spiegare a un senese che se solo si utilizzassero cavalli con stinchi più robusti si potrebbero evitare le tante soppressioni a seguito del Palio. E la caccia? Anche quella pare intoccabile perché “è nata con l’uomo”! E a nulla serve spiegare che se qualche decennio fa era anche accettabile cacciare gli animali perché aiutava la famiglia a sfamarsi, oggi non è più così e la caccia è considerata solo il divertimento di uccidere inermi esseri senzienti. Allora da veterinario una cosa la voglio spiegare a chi magari pensa che gli animali non accusino il dolore come noi. Nel corpo degli animali e degli esseri umani è possibile individuare reti neurali analoghe che si attivano nella stessa identica maniera quando arriva lo stimolo dolorifico. I percorsi neurofisiologici, responsabili dell’attivazione del dolore, sono pressoché analoghi sia negli uomini che negli animali. La diversità sta solo nella risposta: l’uomo urla e grida, il cane guaisce e scappa, i bovini muggiscono e così via, ma sia gli uni che gli altri, attraverso le medesime strutture nervose, accusano il dolore nella stessa maniera. E ciò, credo dovrebbe far riflettere.

Giorgio Mezzatesta

“Anche Travaglio è un mariuolo”. “Io non prendo tangenti”

Caro direttore, lei non riesce a parlare o a scrivere senza volgarità e falsità. È il nuovo “aretin tosco che di tutti disse mal fuorché di Cristo scusandosi col dir non l’ho mai visto”. Un solo termine non posso farle passare, quello di mariuolo detto probabilmente in uno spunto onirico. Come è noto amor con amor si paga e allora come mai lei ha fatto scrivere sul suo giornale un mariuolo come me? È fin troppo noto che lei sia un mariuolo di reputazione altrui così come accertato dalla magistratura e se io sono stato condannato per aver finanziato la politica democratica di questo paese lei è stato condannato per diffamazione. Io sono un democratico, lei non lo è tanto è vero che sostiene e predilige e forse vota un partito autoritario come i 5 Stelle in cui esiste un “capo politico” onnipotente e un santone come Grillo che è depositario del bene e del male nel Movimento ed è condizionato da una strana università piena di servizi segreti e di intrighi internazionali. Finite le volgarità, tengo a precisare che tutte le notizie date da lei sono false, ma se fossero vere, a cominciare da una tangente a un villaggio per bambini, lei dovrebbe esultare perché sarebbe un salto di qualità del paese in cui politici, amministratori, giornalisti chiederebbero i soldi non per sé ma per darli in beneficienza. Ho incontrato casualmente Zingaretti e gli ho detto che vista la situazione politica e il fallimento di ogni tentativo di ricomporre i democratici cristiani avrei votato il Pd unico partito non personalizzato e plurale. Se ha qualche problema, sono uno specialista in malattie nervose e mentali e una chiacchierata potrebbe farle bene. Spero che ritrovi eleganza e signorilità e non risponda e colgo l’occasione per ringraziarla per quando mi ha dato l’opportunità di fare una battaglia contro le modifiche costituzionali nel referendum del 2016. Con la simpatia di sempre.

Paolo Cirino Pomicino

 

Pubblico la sua lettera anche se non smentisce una sola sillaba di quanto ho scritto. Ma, se vuole farsi del male, l’accontento. Lei, anche se nel 2016 mi ha alluvionato di lettere, di cui per carità cristiana ho pubblicato un paio, è un pregiudicato per corruzione e finanziamento illecito: non perché “finanziava la politica democratica”, ma perché incassava tangenti da gruppi privati come i Ferruzzi e persino pubblici come Eni. Se per lei le mazzette sono paragonabili alle critiche politiche che mi sono costate qualche causa penale e civile per diffamazione, si accomodi. Io, se fossi segretario di un partito, rifiuterei pubblicamente i suoi voti e quelli dei suoi “amici”, anche perché lei era affiliato alla corrente andreottiana, guidata da un uomo di mafia e popolata di uomini di mafia. Un virus che, temo, nemmeno le sue preclare virtù taumaturgiche riusciranno a curare.

Marco Travaglio

Migranti, Sea Watch 3 fa rotta verso Nord “Ci serve un porto”

Si dirige verso Nord la Sea Watch 3, con a bordo anche due neonati, un disabile e alcuni migranti con ustioni gravi. “I 65 naufraghi hanno bisogno di un porto sicuro ora”, è l’appello della ong tedesca. Finora caduto nel vuoto. Olanda (Stato di bandiera della nave), Italia e Malta non hanno fornito supporto o indicazioni. La nave della ong mercoledì ha raccolto i migranti a 30 miglia dalle coste libiche e, avvicinata da una motovedetta della Libia, gli è stato intimato di allontanarsi dall’area. Per la Sea Watch navigare verso Nord significa entrare in acque italiane o in quelle maltesi. Ma con entrambi i Paesi – contrari ad accogliere i naufraghi – ci sono stati bracci di ferro nei mesi scorsi. Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ieri ha di nuovo minacciato la Sea Watch, diffidandola dall’entrare nelle acque territoriali: “I nostri porti sono chiusi”. E per rafforzare il concetto ha firmato una nuova direttiva invitando le forze di polizia a intimare l’alt alla nave nel caso provi a entrare in area italiana. Oggi, intanto, saranno interrogati dai pm di Agrigento comandante e capomissione della Mare Jonio, ancora sotto sequestro a Lampedusa, dopo aver salvato 30 migranti su un gommone.

Haftar non si ferma: vuole Tripoli, ma dovrà arrendersi alle trattative

Khalifa Haftar è un generale, un uomo d’armi e non ha accettato l’invito del presidente del Consiglio Giuseppe Conte a Palazzo Chigi per annunciare un ritiro del suo esercito che da un paio di mesi avanza verso Tripoli, la Capitale libica che protegge il gabinetto di Fayez al-Serraj, il presidente riconosciuto dalle Nazioni Unite.

Conte chiede diplomazia, un dialogo per ricostruire un Paese sfasciato che ormai spaventa i militari che combattono e i registi internazionali – emiratini, egiziani, sauditi, qatarini – che finanziano e sostengono le due fazioni in guerra; Haftar risponde che l’operazione lanciata da Bengasi, la Capitale dell’altra Libia, la Cirenaica, non s’arresta con le parole, le buone intenzioni, i cortesi bilaterali, ma con una spartizione equilibrata del potere, del denaro, del petrolio. Oltre le felpate dichiarazioni del premier Conte, la battaglia è la stessa dall’indomani della caduta del regime di Gheddafi: a chi va la Libia? Gli Emirati Arabi, più dell’Egitto, spingono Haftar a non interrompere la linea dura contro Serraj, ma lo stallo, senza data e meta e con 500 morti e 60.000 sfollati, è diventato insostenibile: per la gente che s’affama, per il terrorismo dell’Isis che può ribollire, per le risorse petrolifere che sono a rischio, per i miliardi di dollari all’estero che sono paralizzati.

Dopo i contatti tra Trump e Haftar, gli Stati Uniti sono tornati in Libia in maniera ufficiale con il riconoscimento di un interlocutore che col tempo e la forza ha saputo conquistarsi l’ascolto del mondo. Il grande astio, personale e viscerale, che anima i rapporti tra Haftar e Serraj è un insormontabile ostacolo a un processo di riconciliazione nazionale, se non proprio di pace.

Al tavolo di una trattativa a cui l’Italia vuole sedere da protagonista assieme e non subalterna ai francesi, Haftar può partecipare soltanto con solide garanzie per sé e per chi rappresenta. Haftar desidera il sacrificio di Serraj, sempre più barcollante nel suo compito di cerniera tra decine di tribù e milizie: subito non è plausibile, oggi no perché si discute con chi è in campo, domani chissà. Con due mesi di bombe e dimostrazioni militari anche simboliche, Haftar ha convinto l’Europa e gli Stati Uniti a ricevere il trattamento di chi può essere parte della soluzione e non parte del problema. Il generale si sente presidente, accetta soltanto le telefonate del premier e gode di buoni canali con i servizi segreti esteri (Aise) e i funzionari del ministero degli Esteri, canali già avviati col precedente governo italiano.

Con il supporto dell’ambasciatore Pietro Benassi, consigliere diplomatico a Palazzo Chigi e degli apparati di sicurezza, Conte ha cercato di portare Haftar a Roma e l’ha fatto una settimana prima dei francesi.

Chi s’aspettava un generale docile, disposto a pronunciare un “cessate il fuoco” immediato, o non conosce Haftar o non conosce la Libia, dicono fonti qualificate della Farnesina. La pace è dura a venire.

171 milioni di intermediazioni sulle armi, ma non si sa a chi

Le industrie belliche pagano fior di milioni di intermediazione sulle commesse. Solo Leonardo, nel 2017, ha pagato 171 milioni per le forniture di Eurofighter al Kuwait. Ma, pur essendo in regola con la legge 185, questi compensi sono oscuri. Non si riesce a sapere a chi vengano pagate le somme, piuttosto rilevanti, né chi sono i soggetti abilitati né che tipo di attività viene effettivamente svolta. Si prenda il caso Leonardo discusso ieri all’assemblea annuale degli azionisti (in cui è stato approvato un bilancio in utile di 510 milioni). Alla riunione ha preso parte, avendo acquistato una quota simbolica, Finanza Etica, per conto della Rete Disarmo, chiedendo conto proprio di queste somme. “Pur non essendo possibile collegare esplicitamente alle aziende le singole intermediazioni – scrivono le associazioni pacifiste – è molto probabile che una di esse per un controvalore di 171 milioni riguardi Leonardo e il contratto di vendita dei caccia Eurofighter al Kuwait”.

Nel chiedere conferma del dato, Finanza Etica domanda se sia possibile “conoscere che tipo di attività di ‘negoziazione od organizzazione di transazioni’ è stata effettuata dagli intermediari”, di conoscere “i nomi e gli status” di questi soggetti per capire come sia possibile “arrivare a un controvalore così alto di remunerazione”. Inoltre, nella domanda posta ai vertici della società, si chiede anche di ottenere “un dettaglio di tutti gli altri compensi per attività di intermediazione pagati da Leonardo, anche per casi che non sono elencati”. Una richiesta di trasparenza a cui purtroppo non è dato riscontro. Nella risposta scritta della società, che abbiamo potuto leggere, è ovviamente ammessa l’intermediazione “di 171.345.825 euro riferita al velivolo Efa in Kuwait”.

Dopodiché Leonardo rivendica la liceità delle operazioni compiute in nome delle “autorizzazioni all’intermediazione ex lege 185/90” e che “permettono a una azienda italiana regolarmente iscritta al Registro nazionale delle imprese di emettere un ordine nei confronti di un fornitore di materiali di armamento”. Non offre nessuna luce sulle altre intermediazioni perché implicherebbe “la disclosure di dati riservati”, trattandosi “di informazioni estremamente sensibili per l’azienda”.

Insomma, nessuna risposta grazie alla contrattazione secretata e a una legislazione che nonostante la legge 185 è ancora opaca. La relazione annuale – che a norma di legge il governo presenta ogni anno al Parlamento – offre molti dati, ma rende molto difficile andare in profondità. In particolare nel caso delle intermediazioni.

Questa voce tratta “delle forniture di materiali di armamento o di servizi effettuate ‘estero su estero’ da società iscritte al Registro nazionale delle imprese presso il segretariato generale della Difesa, senza che vi sia movimentazione fisica dall’Italia del materiale o dei servizi oggetto della fornitura”. Insomma, i “sensali” tra l’azienda costruttrice e il paese di destinazione. Un mondo oscuro e interessante al tempo stesso.

L’andamento di questa voce è piuttosto anomalo. Nel 2016 ammontava a 37,5 milioni a fronte di 14,6 miliardi di autorizzazioni per esportazioni di armi. Nel 2017 c’è un boom incredibile: a fronte di minori autorizzazioni, il cui importo scende a 9,5 miliardi, il valore delle intermediazioni schizza a 531 milioni, +1315%. Nel 2018 le autorizzazioni scendono di molto, a 4,77 miliardi e le intermediazioni tornano al livello del 2016, 39,8 milioni.

Chi beneficia del pagamento, in che forme, per quali tipi di armamenti, non è dato sapere. Quello che si desume dalla relazione annuale riguarda solo grandi importi per grandi commesse.

Così nel documento si può leggere che “sul valore complessivo del 2018 incide un’autorizzazione di circa 1,6 miliardi di euro per 12 elicotteri NH-90” prodotti da Leonardo, la ex Finmeccanica. Sul valore del 2017 influiva un pacchetto contrattuale di 4,2 miliardi per la fornitura di navi e batterie costiere al Qatar costruite da Fincantieri. Sul valore complessivo del 2016, invece, “influiva una commessa di 7,3 miliardi per la cessione di 28 aerei Eurofighter Typhoon al Kuwait, ancora di produzione Leonardo.

Per capire meglio la situazione occorrerebbe scorrere l’elenco dei soggetti abilitati iscritti al Registro nazionale delle imprese tenuto dal ministero della Difesa che, però, non divulga i dati.

“Non capiamo a chi si paghino queste intermediazioni – dice Francesco Vignarca della Rete disarmo – visto che le trattative per la vendita di armi le fanno i governi. E comunque crediamo che su una materia come questa i segreti non dovrebbero mai essere posti”.

Cartello sui cambi, Ue multa 5 banche per 1 miliardo di euro

La Commissione Ue ha inflitto multe per un totale di 1,07 miliardi di euro a Barclays, Jp Morgan, Royal Bank of Scotland, Citigroup e Mitsubishi financial group per aver partecipato a due cartelli sul mercato delle transazioni in valuta straniera (euro, sterline, yen, franchi svizzeri, dollari Usa, canadesi, australiani e neozelandesi, e corone danesi, svedesi e norvegesi). Nel 2015 Barclays, Jp Morgan, Citigroup e Rbs sono state già multate dagli Usa per manipolazione dei tassi di cambio e del Libor (il tasso dei mercati finanziari). L’indagine della Commissione ha rivelato che alcuni trader, su ordine delle banche coinvolte, si scambiavano informazioni sensibili e piani di trading e occasionalmente coordinavano le strategie di scambio attraverso delle chat . In questo modo erano in grado di fare scelte di mercato informate su quando vendere o comprare le valute che avevano nel portafoglio, creando le occasioni migliori. Due gli schemi di violazione scoperti: il primo è stato battezzato “Banana split a tre vie“, il secondo “Essex express“, dai nomi delle chat su cui i trader comunicavano tutto il giorno sui loro terminali Bloomberg. Le infrazioni accertate vanno dal dicembre 2007 al gennaio 2013.

La Bce: “Esistenza a rischio” così partì il soccorso di Stato

“Mps è esposta a rischi dovuti al suo portafoglio crediti di dimensioni tali da pregiudicarne l’esistenza”, “la portata dei rilievi e la limitata sostenibilità dell’attività di credito gravano pesantemente su qualsiasi piano di ristrutturazione”. Sono durissime le 85 pagine del verbale di ispezione datato 2 giugno 2017 con cui la Bce comunicava a Rocca Salimbeni gli esiti dei controlli sul rischio di credito e sugli accantonamenti iniziati il 17 maggio 2016 e finiti il 17 febbraio 2017. Il verbale emerge solo oggi dal fascicolo del Gip nel procedimento di opposizione alla richiesta di archiviazione del processo di Milano contro l’ex presidente Alessandro Profumo e l’ex ad Viola.

Per Francoforte erano “necessari ulteriori accantonamenti per 7,55 miliardi, rispetto agli accantonamenti di 22,7 miliardi” a fine 2015. Per cui “il Cet 1 ratio (indice del patrimonio vigilato dalla Bce con livelli minimi obbligatori, ndr), dopo l’appostazione del risultato dell’ispezione, sarebbe stato pari allo 0,58% a fine 2015, secondo la stima della banca fornita il 13 dicembre 2016”, dal 12,01% del bilancio 2015, e il margine di interesse netto passava dai 962 milioni positivi del bilancio 2015 a “meno 6,6 miliardi con gli accantonamenti emersi dall’ispezione”.

Da quel verbale si capisce perché a fine 2016 la banca chiese agli azionisti un nuovo aumento di capitale dopo quelli da 4 miliardi del 2014 e da 3 del 2015: nei conti era emersa una nuova discarica di crediti marci. Dal fallimento di quell’aumento scattò la sospensione in Borsa dell’azione Mps, durata 10 mesi, e la “ricapitalizzazione prudenziale” completata nell’estate del 2017 dal Tesoro con la ri-nazionalizzazione di Mps. All’epoca molti commentatori stigmatizzarono “l’opacità della vigilanza Bce” che prima indicò la scadenza del 31 dicembre 2016 per risolvere tutti i problemi di Mps, poi negò qualunque proroga, infine decise di obbligare Mps a un aumento di capitale da 5 miliardi poi innalzato a 8,8 miliardi. La vigilanza europea aveva scandagliato il portafoglio crediti e convocato decine di riunioni con i massimi dirigenti della banca, compreso l’ad Fabrizio Viola che si dimise l’8 settembre 2016 dopo una telefonata del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan.

Secondo la Bce “i principali motivi degli aggiustamenti degli accantonamenti” sui crediti si riferivano “ai tagli su garanzie e tempi di recupero, entrambi significativamente sottostimati nella prassi della banca”: l’87% delle riclassificazioni fatte dall’ispezione riguardò prestiti concessi sino al 2010. Il caos regnava nei crediti assistiti da garanzie immobiliari: si poteva trovare lo stesso immobile a garanzia con numeri identificativi diversi in diverse società del gruppo Mps o nella stessa società ma riferito a debitori differenti; c’erano immobili dati in garanzia a due diverse società del gruppo Mps per valori differenti e registrati con codici differenti. L’ispezione scoprì “la mancanza dei dati catastali di un numero significativo di garanzie immobiliari” nei database di Mps e di Mps Capital Services che causava “una sottostima dei fabbisogni di capitale che non possono essere quantificati”. C’erano poi debitori con rate scadute da anni che, grazie alle moratorie sui crediti, venivano registrati come “in bonis”. La Bce scriveva poi che “varie riunioni che si sono tenute con rappresentanti dell’ufficio prestiti, dell’ufficio gestione rischi e con l’amministratore delegato… hanno esaminato e confermato che la watchlist (la lista dei crediti a rischio, ndr) non veniva riportata al consiglio” di amministrazione, così che “il cda non è sufficientemente informato sul deterioramento della qualità del rischio di credito”.

Resta una domanda. Se, come scrive la Bce, il Cet 1 di Mps dopo la contabilizzazione dei risultati dell’ispezione era attestato “allo 0,58%” a fine 2015 “sulla base di stime fornite dalla banca il 13 dicembre 2016”, perché la banca non comunicò queste stesse “stime” al mercato al quale in quello stesso dicembre 2016 chiedeva 5 miliardi nel fallito aumento di capitale?

“Mps, 8 anni per Mussari e Vigni”

Meglio tardi che mai. A 12 anni dalla disastrosa acquisizione di Antonveneta, arriva a chiusura il processo milanese agli ex vertici del Montepaschi e a una serie i banchieri coinvolti nelle operazioni finanziarie messe in piedi per mascherare gli effetti negativi dell’acquisto che ha scassato la banca senese.

I pm Giordano Baggio, Stefano Civardi e Mauro Clerici hanno chiesto ieri otto anni di carcere e 4 milioni di multa per l’ex presidente di Mps Giuseppe Mussari e l’ex dg Antonio Vigni e sei anni e 1,5 milioni per Gian Luca Baldassarri, ex capo dell’area finanza e Daniele Pirondini, ex direttore finanziario. Sono imputati insieme ad ex manager di Deutsche Bank e Nomura. La procura, che vuole confiscare 444 milioni alla banca giapponese e 440 a quella tedesca e multarle per 1,8 milioni ciascuna, ha chiesto condanne anche gli ex manager: 5 anni e 8 mesi e 1,4 milioni di multa per Michele Faissola, Michele Foresti e Dario Schiraldi e 2 anni e mezzo e 800 mila euro per Marco Veroni di Deutsche Bank. Quanto agli ex dirigenti di Nomura, Sadeq Sayeed e Raffaele Ricci, la richiesta è stata di 6 anni e 1 milione e mezzo di multa. È stata chiesta l’assoluzione solo per due ex funzionari di Deutsche, Ivor Scott Dumbar e Matteo Vaghi. I reati a vario titolo contestati sono manipolazione del mercato, falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo all’attività degli organi di vigilanza, quest’ultimo in parte prescritto con la conseguente proposta di assoluzione relativa a tre capi di imputazione per Mussari, Vigni e Pirondini.

Al centro del processo ci sono i derivati Santorini (con Deutsche Bank) e Alexandria (Nomura), il prestito ibrido Fresh e la cartolarizzazione Chianti Classico. Operazioni, secondo l’accusa, strutturate per occultare perdite miliardarie con dati di bilancio truccati, che avrebbero creato “una voragine” nelle casse di Mps, ai tempi la terza banca italiana.

I fatti. Nel 2007 Mussari trascina Mps nell’acquisto della scassata Antonveneta per 9 miliardi (17 considerati i debiti), contro un valore di mercato di 3. Bankitalia acconsente. Per finanziare l’acquisto viene emesso il prestito Fresh, un aumento di capitale di 1 miliardo in teoria riservato a Jp Morgan quando in realtà, secondo i Pm (e pure Consob) è Mps ad accollarsi i rischi. Per evitare guai peggiori la banca deve chiudere in utile ed è a quel punto che arrivano le operazioni Santorini e Alexandria, create per occultare perdite su operazioni pregresse e rinviarle ad anni successivi. Due derivati, mascherati però a bilancio come operazioni scomposte. Solo nel bilancio 2012, dopo l’esplosione dello scandalo e l’uscita dei vertici, emergeranno perdite per 700 milioni. E solo tre anni dopo i derivati sono stati contabilizzati come tali, un ritardo avallato dalle authority di vigilanza. Dal 2008 Mps ha varato sei aumenti di capitale, l’ultimo dei quali, nel 2017, ha visto l’ingresso dello Stato e la sostanziale nazionalizzazione della banca. In 11 anni sono stati distrutti 36 miliardi di valore, in mano a 190 mila grandi e piccoli investitori.

Liti temerarie, un risarcimento danni contro chi querela per intimidire

Si fa presto a dire libertà di stampa. Perché il fenomeno delle liti temerarie ossia le richieste di risarcimento danni pretestuose nei confronti dei giornalisti è ormai a livelli di emergenza. Eppure da vent’anni a questa parte sono andati tutti a vuoto i tentativi di limitare il rischio bavaglio. Ora ci si riprova al Senato dove entro giugno potrebbe essere approvato un disegno di legge semplice semplice: chi si sente diffamato ben potrà continuare a chiedere giustizia . Ma chi invece essendo in malafede attivi un giudizio a fini risarcitori per diffamazione a mezzo stampa, sarà costretto a pagare almeno la metà della somma che ha richiesto. “Si ha come l’impressione che chi faccia ingenti richieste di risarcimento danni sia più interessato a dissuadere i giornalisti dal fare il loro mestiere che a tutelare il proprio onore. Mi pare corretto dunque che quando quelle pretese si dimostrino infondate, chi se ne fa promotore se ne assuma il rischio” spiega il senatore M5S Primo di Nicola primo firmatario del disegno di legge, che ha già il nulla osta degli altri gruppi politici e il consenso degli organi di rappresentanza di giornalisti ed editori. “Le richieste arbitrarie di risarcimento dei danni hanno un impatto enorme sulla vita dei giornalisti e delle testate con cui collaborano: tali minacce inficiano la libertà di stampa attraverso un’arma impropria brandita a rischio zero” spiega ancora il senatore M5S a cui fa eco Giuseppe Mennella di Ossigeno per l’informazione. Che si sofferma anche sui processi penali: “Ogni anno circa 6000 giornalisti finiscono su questa graticola: in oltre il 90% dei casi queste iniziative finiscono nel cestino a riprova del fatto che si trattava di iniziative infondate, anche perché in un numero straordinario di casi è la stessa accusa a chiedere l’archiviazione. Proprio per questo riteniamo sia urgente intervenire anche sul codice di procedura penale. Inserendo, come suggeriscono giuristi del calibro di Caterina Malavenda, la formula di assoluzione ‘perché il fatto non costituisce reato’: in quel caso il giornalista potrà chiedere oltre il pagamento delle spese pure il risarcimento del danno”.