Il Carroccio vuol dare 6 mesi a Radio Radicale Il M5S ci pensa, ma Crimi resta contrario

La patata bollente,mentre il dem Roberto Giachetti inizia lo sciopero della sete e si aggiunge ai militanti radicali in sciopero della fame, è tutta in mano ai 5Stelle: sono Luigi Di Maio e soci a dover decidere se Radio Radicale vive o muore all’inizio della prossima settimana visto che la convenzione con lo Stato (10 milioni l’anno più 4 garantiti dal dipartimento Editoria di Palazzo Chigi) scade lunedì. La storia è nota. Tanto Lega che M5S non sono favorevoli a prolungare ad libitum la convenzione in essere da 25 anni, grazie alla quale la radio del partito che fu di Marco Pannella prende soldi per trasmettere la gran parte delle sedute parlamentari. A rigore non c’è più ragione di pagare quel servizio a quelle cifre (oltre ai siti internet delle due Camere, esiste da anni anche la radio RaiParlamento). La decisione, d’altra parte, comporta la chiusura della radio, che trasmette anche i congressi di tutti i partiti, molti processi, sedute del Csm, eccetera: il suo solo archivio è oggettivamente un patrimonio inestimabile. E qui arriva la decisione in capo a Di Maio: la Lega ha infatti proposto una proroga della convenzione di sei mesi (come emendamento al decreto Crescita) per poi fare una nuova gara per il servizio; il sottosegretario che ha la delega all’editoria, Vito Crimi, continua a restare contrario (“sono sorpreso dall’emendamento leghista”), ma il capo grillino – dice il corriere.it – avrebbe già deciso di dire sì e rinviare tutto a fine anno.

Foa rischia il posto. La Lega in Rai adesso è minoranza

Sarà un consiglio di amministrazione assai denso quello di oggi pomeriggio in Viale Mazzini. Perché segna un passaggio politico non da poco, imprevedibile fino a qualche tempo fa, con la nascita di una convergenza trasversale tra i consiglieri, che metterà in minoranza la Lega e rischia di isolare il presidente Marcello Foa. Il Cda straordinario, infatti, è stato chiesto da Rita Borioni (Pd), Beatrice Coletti (5Stelle), Giampaolo Rossi (Fdi) e Riccardo Laganà (eletto dai dipendenti). Se all’inizio Igor De Biasio (Lega), Rossi e lo stesso Foa si muovevano sulla stessa lunghezza d’onda, lo schema per il momento è cambiato e le carte si sono mescolate. Con le forze di centrodestra che mollano il presidente: prima il durissimo attacco nei suoi confronti di Daniela Santanchè (Fdi) in Vigilanza, poi alcune dichiarazioni bollenti del forzista Maurizio Gasparri (“Foa inadempiente e inadeguato, voteremo la sua incompatibilità a RaiCom”) e ora anche Rossi a prenderne le distanze, forse per incassare qualcosa sulle nomine.

Ad agitare gli animi, con fibrillazioni continue tra Lega e 5 Stelle dentro e fuori l’azienda, è stata da una parte l’eccessiva ingerenza del presidente sulle scelte, che in teoria spettano solo all’ad, e dall’altra, la vicenda del suo doppio ruolo dopo la nomina alla presidenza di RaiCom, vicenda su cui dopo le Europee si esprimerà la Vigilanza, dove si prevede un voto contro Foa. A meno che lui non si dimetta da RaiCom prima, magari già oggi, come qualcuno ipotizza.

Ma a far saltare il banco è stata l’intervista rilasciata dal leghista De Biasio domenica scorsa, dove il consigliere non solo dà un ultimatum a Salini (“La fiducia nei suoi confronti è al lumicino”), ma pronuncia una parola tabù: esuberi (“ci sono 13 mila dipendenti, ne basterebbero 10 mila”). Che in Rai è un po’ come bestemmiare in chiesa. La vicenda Fazio, con la decurtazione delle puntate decisa da Teresa De Santis, ha fatto il resto. E oggi proprio da qui si partirà, con la possibilità che qualche consigliere chieda a Salini la testa della direttrice di Raiuno. “Una vicenda gestita malissimo, anche da parte di Salini. Se non sapeva, è ancora più grave”, si dice all’interno dell’azienda. Nel braccio di ferro tra i due, intanto, si registra il congelamento da parte dell’ad dei 4 nuovi vicedirettori di Raiuno chiesti da De Santis: per ora non si faranno. E pure la cancellazione, da parte dell’ad, delle ospitate di Massimo Giletti e Maria De Filippi a Domenica in.

Oggi, invece, arriveranno un po’ di nomine di corporate, che però Salini ha voluto rivedere fino all’ultimo, cassando qualche nome vicino alla Lega. Massimo Ferrario, destinato alle produzioni tv, forse non ci sarà. In bilico anche Fabrizio Ferragni (vicino a Foa) alle relazioni istituzionali. Dovrebbero entrare invece Simona Martorelli alle relazioni internazionali, Felice Ventura alle Risorse umane, Piero Gaffuri al trasformation office e l’ex direttore di Raiuno, Andrea Montanari, alla guida del centro studi Rai. Cambierà anche la comunicazione, con l’arrivo di Marcello Giannotti, finora portavoce di Salini, al posto di Giovanni Parapini, il cui ufficio è stato uno dei settori più apprezzati della macro direzione concepita dall’ex dg Antonio Campo Dall’Orto.

Nel frattempo, dato che in Rai non ci si fa mancare nulla, si segnalano nuova grane al Tg2 e al Tg3. Qui Giuseppina Paterniti è finita nel mirino del comitato di redazione, che l’ha invitata a utilizzare “un linguaggio e un comportamento più appropriato” dopo alcune sfuriate coi cronisti. Al Tg2 di Gennaro Sangiuliano, invece, aspre polemiche ha suscitato un servizio sull’arresto dell’uomo che a Napoli ha ferito la piccola Noemi, firmato dal caporedattore Francesco Vitale. “Un uomo da niente, che anche la camorra schiferebbe, perché nemmeno sa sparare… Non si è nemmeno costituito, come invece il codice d’onore dei camorristi vorrebbe…”. Forse voleva fare l’originale, ma il risultato è pessimo: una sorta di paragone con i camorristi che meritano rispetto.

Corruzione di Apicella. Il processo di B. slitta per le elezioni europee

Le conseguenze delle prossime elezioni europee già si vedono. Non in ambito politico, ma giudiziario con i processi in cui sono imputati i politici che slittano. È successo nel processo in cui è imputato a Roma l’ex presidente del consiglio Silvio Berlusconi per corruzione nell’ambito di uno dei filoni giunto nella Capitale per competenza da Milano dell’indagine Ruby Ter. La prossima udienza si terrà il prossimo 12 dicembre. I giudici della seconda sezione penale del tribunale infatti hanno aggiornato il procedimento, che coinvolge anche Mariano Apicella (accusato di corruzione e falsa testimonianza) alla luce della istanza di legittimo impedimento legato alla campagna elettorale per le Europee inviata dal leader di Forza Italia nei giorni scorsi alla cancelleria del tribunale. Secondo l’accusa Berlusconi avrebbe pagato il cantante Apicella per indurlo a falsa testimonianza sul caso “olgettine”. In base all’impianto accusatorio la prima dazione di danaro sarebbe avvenuta a Roma. In totale il cantante napoletano, che avrebbe partecipato a feste organizzate ad Arcore, avrebbe percepito illecitamente complessivamente 157 mila euro.

È imputata, Zingaretti le dà lo Sviluppo

È imputata per falso ideologico e abuso d’ufficio ai danni dell’ente per il quale lavora. Ma nonostante ciò il 22 gennaio scorso il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, l’ha messa a capo della Direzione regionale per lo Sviluppo Economico, le Attività Produttive e Lazio Creativo. Un incarico che scadrà nel 2024 e che le vale 155 mila euro lordi l’anno più indennità di risultato. La nomina di Tiziana Petucci è la pietra dello scandalo che in queste ore imbarazza l’amministrazione guidata dal segretario del Pd.

La dirigente regionale è infatti finita a processo nell’ambito di un’inchiesta della Procura di Velletri sulla presunta truffa da 163 milioni di euro al sistema sanitario regionale, tesa a favorire la casa di cura San Raffaele di Velletri (non più operativa). La struttura ospedaliera convenzionata faceva parte della holding di proprietà della famiglia Angelucci. Il processo è alle battute iniziali: i pm per la Petucci hanno chiesto una condanna pesante, dieci anni di reclusione. La sentenza di primo grado è attesa per il 26 giugno, e con la donna ci sono altre 14 persone imputate. Fra loro il deputato di Forza Italia, Antonio Angelucci, e suo figlio Giampaolo, per i quali il pm Antonia Giammaria ha chiesto 15 anni di carcere. Nella ricostruzione della Procura, oltre alle presunte pressioni sulla Regione Lazio attraverso i giornali di famiglia, gli Angelucci avrebbero creato una rete di “rapporti istituzionali” per ottenere false documentazioni. Oltre a Petucci, all’epoca dei fatti dirigente dell’Area sistemi di finanziamento, sono a processo altri due dipendenti regionali. La Regione Lazio si è costituita parte civile.

“Riteniamo che la Procura non abbia fornito alcuna testimonianza a conferma delle imputazioni – avevano fatto sapere dal gruppo Tosinvest nel febbraio scorso, apprese le richieste della Procura – né abbia prodotto prove documentali a sostegno dell’impianto accusatorio. Inoltre tutti i reati sono prescritti”.

A sollevare dubbi sull’opportunità della nomina della Petucci è stata la Lega. Il capogruppo del Carroccio, Orlando Tripodi, sollecitato dai dirigenti locali, Luisa Regimenti e Fabrizio Santori, ha presentato un’interrogazione a risposta immediata al governatore Zingaretti, pubblicata sul sito del Consiglio regionale, omissata “per motivi di privacy” delle premesse dove si espone la situazione giudiziaria della dirigente. Il curriculum della manager è stato reputato il migliore nell’ambito di 21 candidature interne e altre 25 presentate da soggetti esterni. “La selezione – spiegano a Il Fatto dall’ufficio stampa della Regione Lazio – è avvenuta attraverso la valutazione criteri oggettivi indicati nel bando e la dottoressa Petucci è risultata la più titolata. La dirigente è una dipendente regionale e finché non si conclude il processo esiste la presunzione d’innocenza. Se l’avessimo discriminata per questo, in caso di assoluzione, avrebbe potuto rivalersi sull’Ente aprendo anche scenari di danno erariale. Se la dottoressa Petucci dovesse essere condannata, la Regione prenderà tutti i provvedimenti di legge del caso”.

Umbria, il balletto del Pd: c’è chi vuol salvare la Marini

In Umbria c’è un teatrino politico che va avanti da un mese. Il 17 aprile la presidente Catiuscia Marini ha annunciato le sue dimissioni, travolta dallo scandalo dei concorsi truccati nella sanità locale e dall’indagine per abuso d’ufficio e rivelazione di segreto. La sua decisione però è rimasta sulla carta. Lo scorso 7 maggio la maggioranza del Pd in consiglio regionale ha deciso di non decidere e ha rinviato. Ora siamo all’atto finale: domani l’assemblea si riunisce di nuovo, e stavolta dovrà pronunciarsi. È il giorno della resa dei conti. Ma c’è un problema: il Pd locale è spaccato. Una parte degli eletti sembra pronta a una giravolta clamorosa, confermando la fiducia alla presidente dimissionaria. E allo stesso tempo sconfessando il segretario nazionale Nicola Zingaretti, che aveva chiesto pubblicamente il suo passo indietro. Lo dice apertamente Gianfranco Chiacchieroni, capogruppo Pd in Assemblea legislativa. Martedì scorso ha incontrato al Nazareno i vertici del partito (il vice di Zingaretti, Andrea Orlando, e il commissario regionale, Walter Verini) e con lui c’erano anche il vicepresidente della giunta Fabio Paparelli e la presidente dell’Assemblea Donatella Porzi. “La maggioranza sta ragionando – ha spiegato Chiacchieroni al Fatto dopo la riunione – ma è orientata a manifestare solidarietà attraverso il respingimento delle dimissioni. Il nostro è un giudizio sul suo operato, sul quale il consiglio non si è mai espresso”.

Non tutto il Pd locale è d’accordo. C’è anche chi spinge per un passo indietro. E tra questi – anche se non ha ancora manifestato la propria intenzione di voto – sembra esserci Fabio Paparelli. “Il giustizialismo o il garantismo non c’entrano. Il voto dovrà tenere insieme il giudizio sul lavoro di questi anni e la necessità ineludibile di aprire una nuova fase”, ha detto. Traduzione: concedere alla Marini “l’onore delle armi” per il lavoro svolto, ma pretendere che lasci subito la sua poltrona. A complicare ulteriormente il quadro c’è il regolamento: “La maggioranza – dice Valerio Mancini, vicepresidente del consiglio regionale della Lega – sta valutando di richiedere il voto segreto, quindi puntano chiaramente su qualche voto d’aiuto delle opposizioni. Ho già detto a tutti che bisogna uscire dal consiglio regionale: così sarà evidente chi non vuole mollare la poltrona”. Gli fanno eco i 5Stelle: “In caso segreto non parteciperemmo. Loro (i dem, ndr) finora hanno solo allungato i tempi”, spiega il capogruppo M5S Andrea Liberati.

I tempi, appunto. Dietro al balletto del Pd c’è la paura delle elezioni. L’Umbria rossa non esiste più e la Lega rischia di fare il pieno. Molti degli attuali eletti non sarebbero riconfermati e lavorano per rinviare la resa dei conti.

Domani però la faccenda potrebbe chiudersi. Lasciando la Regione con un vuoto politico che va a braccetto con quello giudiziario, in una procura delicata come quella di Perugia competente ad indagare anche sui magistrati romani. Il procuratore capo Luigi de Ficchy, che ha condotto l’inchiesta sui concorsi truccati, andrà in pensione tra meno di tre settimane. Se il Csm non nominerà presto un suo successore, l’ufficio si ritroverà con 12 sostituti procuratori e neanche un aggiunto (il posto è vacante dalla scorsa estate). Tra politica e toghe, la partita umbra è appena cominciata.

Espulso il candidato sindaco omofobo: M5S senza lista a Cagliari

No all’abortoe alle unioni civili omosessuali: e adesso, no anche alla candidatura come sindaco di Cagliari. Il cardiochirurgo Alessandro Murenu ha infatti pagato il prezzo dei vecchi post pubblicati sui suoi profili social, ricevendo ieri una revoca dell’appoggio alla sua lista da parte del Movimento 5 Stelle, con il quale avrebbe dovuto correre. “Siamo lontani anni luce dalle posizioni espresse al congresso di Verona, quindi prendiamo le distanze”, hanno spiegato i vertici del Movimento, che però adesso si ritroverà sprovvisto di candidati alle prossime elezioni comunali sarde, in calendario per il 16 giugno. Situazione analoga al 2014, quando i pentastellati rinunciarono alla corsa regionale, perché a nessuna lista venne concesso l’uso del simbolo. Se la notizia è stata negativa per Murenu, che ha provato senza successo a giustificarsi rinnegando le posizioni espresse in passato sul web, rappresenta un cambiamento positivo per i suoi due sfidanti, Paolo Truzzu (che corre per il centrodestra supportato da un gran numero di liste) e Francesca Ghirra, candidata del centrosinistra, ex assessore all’Urbanistica della giunta guidata dal sindaco uscente, Massimo Zedda.

Pro Life in piazza: sostengono la destra

“Dobbiamo ripristinare la regalità sociale di Nostro Signore Gesù Cristo”. Così parla Matteo Castagna, presidente dell’Associazione Christus Rex, uno che si definisce “cattolico integrale” e pure “all’estrema destra del Padre”, in un video in cui investe Paolo Borchia, candidato del Carroccio nel Nord Est.

Mentre Matteo Salvini fa fatica a farsi ricevere da Papa Bergoglio, i suoi candidati vanno forte con la Chiesta anti-bergogliana. Per l’endorsement a Borchia, si è mosso non solo Castagna, ma pure Gianfranco Amato, leader di Nova Civilitas e presidente dei Giuristi per la Vita. Spot elettorale dedicato per il veronese, nato come assistente parlamentare di Lorenzo Fontana a Bruxelles e poi diventato coordinatore della Lega nel Mondo. Dalla sua postazione in Europa ha avuto un ruolo centrale nella costruzione dei rapporti con i partiti di estrema destra che oggi fanno parte dell’alleanza di Salvini.

Era lui che prendeva gli appuntamenti per il ministro della Famiglia, lui che faceva tutto il lavoro di background. E d’altra parte anche Castagna è amico personale di Fontana. Verona, ancora una volta, si presenta come l’indicatore e il crocevia delle tendenze più retrograde della Lega. Ad aprile ha ospitato il Congresso delle Famiglie, tra feti di plastica offerti al pubblico ludibrio per condannare l’aborto e una rete di lobbisti internazionali, che fa affari nel nome dei valori della famiglia. Tra gli obiettivi critici, Papa Francesco.

Domani i Pro Life saranno a Roma per la Marcia della vita. L’hanno fatta anticipare da un “Manifesto per la vita e per la famiglia”, che è stato sottoscritto da 32 candidati (14 di Fratelli d’Italia, 12 della Lega, 2 di Forza Italia, 4 di Popolari per l’Italia). Nel Carroccio, a firmarlo, tra gli altri, oltre a Borchia, anche Mauro Zanni, che è il responsabile Esteri voluto da Salvini. Tanto per capire quanto il dogma della “famiglia tradizionale” sia centrale nel disegno dell’Europa che dovrebbe venire (Viktor Orbán insegna). Quattro i punti cardine del manifesto: no all’utero in affitto, priorità ai genitori nella scelta del genere di istruzione per i figli, contrasto alla sessualizzazione precoce di bambini e adolescenti e istituzione di un fondo specifico “salva famiglie” per natalità e nuclei familiari.

Christus Rex, dunque, è una delle realtà che porta voti alla Lega nel nome della Chiesa che non si riconosce in questo papato. Ma le mosse del partito in quella direzione sono state più d’una: Salvini ha incontrato il cardinale Burke varie volte negli ultimi anni. Il cardinale non è soltanto la bandiera degli integralisti cattolici che considerano Francesco un eretico, ma anche il riferimento culturale dell’Internazionale sovranista, di una destra anti-gay, anti-papa, anti-aborto. Quella destra che Steve Bannon, l’ex stratega di Donald Trump, e i suoi accoliti hanno introdotto nella Certosa di Trisulti, dove vive Benjamin Harnwell, il capo dell’istituto Dignitatis Humanae che gestisce l’ex monastero e lavora per renderla l’Accademia per i quadri (sovranisti) del futuro.

Lo stesso Harnwell conosce da anni Federico Arata, il figlio di Paolo (l’imprenditore indagato per corruzione con Armando Siri), che con Bannon è stato il tramite. I puntini che compongono il disegno dell’Europa del Carroccio si fanno sempre più chiari.

Così il Papa respinge Salvini: la Chiesa tifa il suo flop al voto

Il contrappasso. Il Vaticano di papa Francesco respinge Matteo Salvini, chiude le porte. Il ministro dell’Interno, che fa propaganda sui migranti, che ripudia l’accoglienza, che carezza le destre estreme propulsori di discriminazione, è un ospite non gradito. Un forestiero. Il sentimento di Jorge Mario Bergoglio va oltre il rifiuto, ormai ripetuto e ostentato, di ricevere Salvini in udienza privata e investe la Chiesa italiana. I “soliti vescovoni” – così parlano di sé nel clero per citare e irridere il vicepremier – confidano in una reazione dei cattolici con le Europee per sgonfiare il fenomeno leghista e scardinare un governo litigioso.

Il cardinale non ha la porpora, è in abito talare, indossa una croce pettorale d’argento, intarsiata con venature più scure ai bordi, scarta una caramella morbida ai frutti di bosco, l’annuario pontificio di 2.318 pagine ha inclinato la mensola, un quadro con la fotografia ufficiale di Francesco è rivolto verso un lucernario, la vista è monca per il motore del climatizzatore, si scorge piazza San Pietro con le seggioline grigio scure allineate dinanzi all’altare per l’incontro del mercoledì col Papa: “I Cinque Stelle sono di casa, bussano spesso e noi offriamo ascolto, è l’alleato Salvini che ha superato il limite, s’è infilato in una diatriba costante e diretta con Bergoglio, però ha tentato di ricucire”. Era in Sicilia, l’ultima volta.

Salvini ha celebrato il 25 aprile in campagna elettorale con un prologo istituzionale: il taglio del nastro a un commissariato di polizia a Corleone, che la Questura ha chiesto di benedire a monsignor Francesco Pennisi, arcivescovo antimafia di Monreale. Conclusa la cerimonia, prima dei selfie del ministro, Pennisi è rientrato in diocesi. Salvini era di passaggio a Monreale per un comizio, durato una decina di minuti, col candidato a sindaco del Carroccio. Il ministro ha insistito per visitare la cattedrale di Santa Maria Nuova, patrimonio dell’umanità, il duomo costruito nel XII secolo su ordine di Guglielmo II, il sovrano “buono”. Pennisi ha imposto una condizione: nessun codazzo, fuori la politica. Salvini era incuriosito dai mosaici bizantini, dagli affreschi di putti e di donne, da un’opera del pittore Francesco Manno su re Guglielmo II e s’è fermato, nella sala rossa, a colloquio con l’arcivescovo. E c’era pure una scusa: la fabbriceria che amministra la cattedrale dipende dal Viminale. Un approccio un po’ timido per ripristinare un dialogo civile, così l’hanno decriptato a Roma i “soliti vescovoni” che guidano la Conferenza episcopale e che monitorano il barometro della tensione col ministro.

Il cardinale Gualtiero Bassetti, il capo dei vescovi italiani, tra i principali collaboratori di papa Francesco, rintuzza sempre gli assalti verbali di Salvini: “Attacchi noi se vuole, non chi aiuta gli altri”. Eppure Bassetti, durante una frazione di quiete, ha parlato faccia a faccia col ministro dell’Interno e ha raccolto il suo desiderio di conoscere papa Francesco. È accaduto in prossimità del pranzo di metà gennaio in Vaticano tra il “capitano” leghista e il cardinale Angelo Becciu, prefetto per le Cause dei santi, già sostituto agli affari generali in Segreteria di Stato. Il pranzo era organizzato col sottosegretario Giancarlo Giorgetti, un interlocutore affidabile per la Santa Sede, poi il ministro ha ottenuto un posto a tavola. I cardinali Becciu e Bassetti, e altri vescovi italiani agganciati dal ministro, hanno riportato a papa Francesco il messaggio di Salvini: “Io vorrei un confronto”. Bergoglio è inflessibile: “Finché non cambia linguaggio e politiche, io non posso e non voglio stringergli la mano”.

Il Vaticano conferma: l’agenda del Papa non prevede appuntamenti col ministro dell’Interno. E lo scontro di Salvini con la Chiesa s’è acuito: la “sofferenza” di Bergoglio per sinti e rom, le intemerate sul populismo che genera l’odio. Non c’è più un contegno, chissà se c’è un rimedio. I vescovi italiani, da un anno, spronati da Bassetti, lavorano a un ritorno in politica dei cattolici, studiano scuole di formazione e però, in attesa che la classe dirigente riemerga dopo la diaspora democristiana e il trasversalismo di Camillo Ruini adottato per la Seconda Repubblica, s’aggrappano ai partiti tradizionali e ai Cinque Stelle per arginare Salvini.

Il cardinale si alza da una poltrona granata col tessuto un po’ consunto, piazza San Pietro è un brulicare di fedeli e turisti, lì papa Francesco ha salutato la folla con otto bambini sbarcati in Italia tramite un corridoio umanitario in Libia, sono siriani, congolesi, nigeriani, scappano da persecuzioni, fame, guerre e vivono con le famiglie in alloggi di una cooperativa in provincia di Roma: “Francesco non può rinnegare se stesso, non può accettare Salvini. Gli italiani possono sostenere un avversario di un pontefice che di nome fa Francesco?”. Il cardinale sogghigna, e stringe la croce pettorale d’argento.

Il saluto romano è un reato non lieve, niente sconti di pena

Specie se fatto durante un Consiglio comunale dove è in corso una riunione sulla sicurezza per il piano rom, il saluto romano non può essere considerato un fatto di “lieve entità” e chi lo fa non merita sconti di pena. Lo sottolinea la Cassazione. Così i supremi giudici hanno confermato la condanna a un mese e dieci giorni di reclusione con pena sospesa per Gabriele Leccisi, avvocato neo missino milanese, che l’8 maggio 2013 fece il saluto romano a Palazzo Marino, mentre in seduta pubblica l’amministrazione allora guidata da Giuliano Pisapia stava organizzando una sistemazione per i nomadi sgomberati alla fine di aprile dal campo di Viale Ungheria. Senza successo l’avvocato di Leccisi ha chiesto la non punibilità, per la particolare tenuità del fatto facendo presente che quel giorno si discuteva il piano rom in una “importante seduta consiliare”. Ma per la Cassazione “sono proprio le circostanze di tempo e di luogo” nelle quali è avvenuto il saluto fascista “a non consentire di ritenere sussistenti le condizioni” per applicare benefici a Leccisi.

“Appello a Mattarella Non firmi il decreto Sicurezza numero 2”

Un decretoanticostituzionale da respingere: con queste parole il Coordinamento per la democrazia costituzionale – l’insieme dei comitati che si batte per difendere la Carta, protagonista della battaglia per il No al referendum del 2016 e presieduto da Massimo Villone – descrive il decreto sicurezza bis che lunedì la Lega porterà in Consiglio dei ministri. Norme, quelle circolate in una bozza, “gravemente incostituzionali e sovversive”: il testo, sostiene il comitato, imporrebbe de facto il pagamento di un riscatto per ogni naufrago tratto in salvo, favorendo la morte dei profughi nel Mediterraneo. Il ministro Matteo Salvini viene definito un “legislatore fascista”, che starebbe travalicando i confini del Codice della Navigazione, del codice di procedura penale, delle disposizioni a tutela dell’ordine pubblico e del Testo unico di pubblica sicurezza. Oltre che, come spiegato, della Costituzione. Il Comitato, pertanto, dichiara di confidare nel rigetto della proposta da parte del Consiglio e nel controllo del Presidente della Repubblica, che “può rifiutarsi di emanare un provvedimento così oltraggioso per i valori repubblicani, come avvenne in passato per il cosiddetto decreto Englaro”.