Diamanti, la Falbi chiede dimissioni vice dg Perrazzelli

Non è chiusa la vicenda della puntata di Report sui diamanti venduti in banca e della punizione esemplare (un anno senza lavoro né stipendio) che Banca d’Italia ha comminato al suo ispettore, Carlo Bertini, “colpevole” di aver svelato alla trasmissione le pressioni subite dai superiori per sorvolare sui rapporti tra Mps e il broker Dpi. Il sindacato interno Falbi chiede le dimissioni della vicedirettrice generale Alessandra Perrazzelli: “Dalla Commissione disciplina risulta evidente che il valore che si è tutelato sia stata la reputazione della banca. Ma da Report emergono… anche dichiarazioni di Perrazzelli che lasciano sconcertati, una sorta di teorizzazione… sull’atteggiamento che dovrebbe avere un funzionario…: far finta di nulla e girarsi dall’altra parte! Ci saremmo aspettati che Perrazzelli si dimettesse. Ci attendiamo, ora, che il Governatore si pronunci sulla compatibilità di chi è chiamato ad alte funzioni. La Banca ha giudicato con rigore Bertini, non può ignorare affermazioni che ancor più la compromettono”, conclude Falbi.

Russia Il mondo secondo Putin: “Basta missili Nato ai nostri confini”

Nella conferenza di fine anno tenuta come consuetudine dal presidente Putin, il leader del Cremlino ha toccato i temi più attuali a iniziare dalle tensioni al confine ucraino con l’Occidente. Quest’ultimo, per Putin, a 30 anni dal crollo dell’Unione Sovietica continua a pensare che il territorio russo sia ancora troppo grande e cerca di minacciarlo. “Abbiamo fatto capire ulteriori movimenti della Nato verso est sono inaccettabili”. Il riferimento è a un ipotetico ingresso dell’Ucraina nella Nato, che però lo stesso Patto Atlantico ritiene fuori dalle regole, essendo un territorio diviso. “Cosa c’è di incomprensibile? Siamo noi a piazzare i missili vicino ai confini degli Stati Uniti? No! Sono gli Stati Uniti che con i loro missili si trovano già sulla soglia di casa nostra” ha affermato il presidente russo. Il leader ha aggiunto poi che le sue richieste costituiscono la base per proseguire i colloqui con la Casa Bianca. Ieri gli Stati Uniti hanno confermato che da gennaio sono pronti ad impegnarsi in un dialogo diplomatico con la Russia.Toccando la questione Navalny – il dissidente che è stato condannato a 3 anni di carcere dopo essere scampato per un soffio a un tentativo di uccisione con un agente nervino – Putin ha ribadito: “Nessuno ci ha mai fornito prove di questo avvelenamento”.

“Lazarus”, il gruppo di hacker che sostiene il Pil della Nord Corea

L’uomo dei razzi, qualche giorno fa, ha vietato al suo popolo di ridere o svolgere qualsiasi tipo di attività che possa provocare divertimento: bisogna rispettare il cordoglio per undici giorni di fila e omaggiare l’anniversario della morte di suo padre, Kim Jong-il. Chi beve verrà dichiarato dalla polizia “criminale ideologico” e se qualcuno muore, potranno versare lacrime i parenti, a patto che non facciano rumore. Il solo lutto concesso da Kim Jong-un è quello per il genitore morto nel 2011, anno in cui ha agguantato il potere della sua nazione cui ha vietato, a novembre scorso, perfino di indossare giubbotti di pelle. L’unico a poterli sfoggiare, mentre posa per foto di propaganda, è lui: chiunque altro li indossi, tenta di “assomigliare al leader supremo” e questa, dice la polizia di Pyongyang, è una “tendenza impura che sfida l’autorità”. Nel mese in cui festeggia un decennio al vertice del potere, Kim figlio continua a coltivare in segreto quelli che i servizi segreti americani hanno definito “i più grandi scassinatori di banche al mondo”: il suo esercito di hacker, allevati, addestrati e arruolati sin dall’infanzia per compiere crimini da un lato all’altro del mondo.

Se ama far sfoggio di missili dalla potenza distruttiva, Kim ama meno mostrare la sua squadra di pirati nascosta nell’ombra. Per finanziare i suoi esperimenti balistici, e soprattutto il suo programma nucleare, utilizza un esercito di hacker, soldati digitali di Stato, che rimangono obbedienti proprio come tutte le altre divise del suo esercito. Banche, segreti statali, valute reali e criptovalute: secondo la Cybersecurity statunitense e un report delle Nazioni Unite, le truppe virtuali di Pyongyang hanno già rubato oltre 2 miliardi di dollari e avrebbero così salvato almeno l’8% del Pil del Paese che arranca, trafitto dalle sanzioni internazionali. Per la crisi del virus, che ha fatto sigillare i confini, e per le misure restrittive imposte dal resto del mondo, l’economia nordcoreana si è contratta come non faceva da due decadi. Se nel 2014 nel mirino degli hacker nordcoreani finì la Sony, con i suoi dati e segreti di Hollywood, nell’ultimo anno sono aumentati del 9 per cento gli attacchi alla vicina Seul, nemica per eccellenza, cui, nel 2016, gli hacker sono riusciti a sottrarre 200 giga di dati dai server dell’esercito. Per ottenere informazioni sui vaccini è stata colpita, ma senza successo, anche la Pfizer. Una delle ultime vittime è la banca finanziaria Swift. Il malware usato come cavallo di Troia che, solo nel 2019, ha fatto fruttare oltre 316 milioni di dollari al regno di Kim, è AppleJeus, che nel 2018 è riuscito a penetrare nei computer di 30 Paesi diversi.

L’impero dei Kim, sin dalle guerre nel Golfo, aveva percepito la potenza dirompente e competitiva delle capacità elettroniche per decidere l’esito dei conflitti, senza necessariamente ricorrere a blindati e mimetiche. In un libro distribuito ai soldati dell’Esercito popolare nordcoreano, Kim padre avrebbe detto che è così che si vincono le guerre moderne: “Se Internet è come una pistola, i cyber-attacchi sono bombe atomiche”. Quando Kim Jong-un prende il potere nel 2012, continua a foraggiare “guerrieri coraggiosi per la costruzione di una forte e gloriosa nazione”, le divisioni digitali capaci di agire dentro e fuori i confini patrii del suo Stato incantato da propaganda e terrore.

L’élite degli hacker di Stato nordcoreani viene accuratamente selezionata sin dall’infanzia. Chi brilla in matematica o si mostra più dotato nelle materie scientifiche, anche nelle province più affamate del Paese, viene trasferito nella Capitale, per finire qualche anno dopo all’Università tecnologica KimChaek o all’università Kim il Sung. Benefici i futuri hacker ne ottengono subito, insieme alle loro famiglie prima di entrare nel gruppo “Lazarus”, l’esercito digitale di Kim, composto da vari sottogruppi, gestiti dall’Ufficio di ricognizione generale, che contiene al suo interno l’Ufficio 121, nato nel 1998 con il solo scopo di condurre guerre cibernetiche e asimmetriche. L’armata di Kim conta circa 6.000 hacker, secondo Bloomberg che ha vagliato i documenti dei servizi Usa. Alcune delle truppe dei “Lazzari” agiscono in colonne indipendenti. Uno dei sottogruppi più temibili è Blunoroff, nato proprio per fare fronte alle perdite causate dalle sanzioni, un collettivo di cybercriminali capaci di penetrare la Banca centrale del Bangladesh da una stampante. Hanno sottratto all’istituto di Dhaka 81 milioni di dollari, ma le casseforti le hanno violate anche alle banche di Messico, Pakistan, India, Cile, Turchia, Taiwan. Un’altra divisione, Andariel, si occupa invece solo della diffusione di attività maligne contro agenzie governative e si focalizza sul furto delle informazioni di intelligence.

Nel 2022, dicono gli esperti che monitorano le attività dei pirati del web nordcoreani, tutto peggiorerà: Kim, le risorse stanziate per i suoi Lazzari, quest’anno le ha addirittura aumentate.

MailBox

 

La letalità del Covid-19 in calo grazie ai vaccini

Scrivo dalla provincia di Bergamo, dove per primi abbiamo conosciuto la letalità del Covid-19. Erano tempi in cui, se venivi infettato, avevi pochissime probabilità di salvarti. Oggi invece, anche a fronte di migliaia di casi, i decessi sono per fortuna limitati. All’epoca, pensavo che chi diceva che si trattasse di una semplice influenza fosse un matto da legare. Ora, senza essere tacciato per un no-vax, posso dire che i numeri confermano quella che allora era una tesi demenziale. Credo nella scienza, anche se i vari virologi e studiosi ogni giorno fanno di tutto per contraddirsi. Perché, pur mantenendo alti i livelli di allerta e di difesa, non ci danno anche notizie positive, spiegandoci ad esempio che con le varianti il Covid è più contagioso ma meno pericoloso? Se la scienza fosse meno arrogante e un po’ più umile, probabilmente creerebbe meno confusione.

Franco De Pasquale

Caro Franco, all’inizio non c’erano i vaccini. Oggi ci sono: non ci salvano dal contagio, ma dalle forme gravi e mortali quasi sempre sì: le pare poco?

M. Trav.

 

Su J&J, l’Italia si adatti alle regole Ue

Desidererei che l’Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, seguisse le indicazioni dell’Ema (cioè il suo corrispettivo europeo) in modo tale che venga approvata e promossa anche in Italia la terza dose con Johnson&Johnson, anche dopo le prime due fatte con vaccini a mRNA. Un’iniziativa che potrebbe permettere a me, che ho avuto un tremendo effetto avverso e ad altri reticenti con Pfizer o Moderna, di poter accedere alla terza dose con maggiore serenità.

Maurizio Contigiani

 

Lo scorretto utilizzo della parola “triage”

Con la pandemia si è insinuato nel nostro linguaggio un altro termine, triage. Quando si va a fare il vaccino si trova un cartello con questa dicitura che, se non fosse per quel che ci spiegano gli operatori sanitari, sarebbe per noi del tutto incomprensibile. Poi scopriamo che si tratta semplicemente dell’esame di alcuni documenti, ivi compreso il questionario anamnestico, prima di essere vaccinati. Non si comprende perché non si possa usare un termine italiano che consenta di capire di cosa si tratta. Tra l’altro, in questo caso non è neppure appropriato, perché triage significa “cernita”, per stabilire le priorità di cura. Come avviene al Pronto soccorso, dove questa parola non si è mai sentita.

Loris Parpinel

 

Orlando ha offeso tutti i morti sul lavoro

Purtroppo in questo sciagurato Paese siamo pieni di personaggi che non sanno neanche di cosa parlano. Nell’informativa alle Camere, un ministro della Repubblica, appartenente a un partito di sinistra (anche se di sinistra non ha nulla), si permette di dire che la maggior parte degli infortuni si verificano in “attività caratterizzate da contenuti professionali non particolarmente elevati”: una simile affermazione offende la memoria di tutti quei morti che hanno contribuito a pagargli lo stipendio. Detto poi da uno che ha passato metà della sua vita in politica! Gli voglio ricordare che non tutti sono fortunati come lui: quei morti con poca professionalità si sono guadagnati sulla loro pelle il rispetto che meritano, al contrario di molti politici e uomini delle istituzioni “con professionalità elevata e lauti stipendi” che non si guadagnano neanche l’acqua che bevono.

Antonio Di Marco

 

La nascita del Tribunale per i minori e la famiglia

L’approvata legge di riforma del processo costituisce una svolta nella tutela ai titolari dei diritti fondamentali alla vita privata e familiare. Da tempo questo settore del diritto reclamava l’unificazione in una sola autorità delle competenze dei diversi organi. La legge consente di unificare i differenti riti che si trovano applicati nelle aule di giustizia: in presenza di violenze domestiche scatterà un binario d’urgenza, che permetterà l’utilizzo degli ordini di protezione; di fronte a un figlio che rifiuta un genitore, spetterà al giudice verificarne in via d’urgenza le ragioni. Grande attenzione sarà prestata ai minori, sia in sede di ascolto e sia per quanto la tutela dei suoi interessi, attraverso la figura del curatore speciale. Dal punto di vista ordinamentale, il nuovo tribunale unico avrà una duplice composizione: monocratico quello di prossimità, presso ogni tribunale; collegiale quello distrettuale cui competeranno le adozioni, le competenze minorili penali e le impugnazioni. All’accentuata volontà di rendere efficiente la risposta giudiziaria si accompagna poi l’altrettanto fondamentale favore per le procedure alternative. Non è un caso che la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia più volte ricordato all’Italia il dovere dello Stato di mettere in campo una serie di misure, idonee a garantire il diritto di visita e a proteggere al tempo stesso il minore. Staremo a vedere come il legislatore delegato saprà tradurre in norme oculate queste espressioni di volontà di rinnovamento, per la maggior parte condivisibili.

Cesare Fossati

Ada e Diana “Noi facciamo di tutto contro il virus: voi adulti vaccinatevi”

Ciao, siamo Ada e Diana della 2ª D della scuola secondaria di primo grado “Virgilio”.

Vorremmo parlare di quello che stiamo passando tutti in questo brutto periodo.

ADA: “Avevo solo 10 anni quando è iniziato tutto. Mi ricordo che era un mercoledì e io ero andata in bagno: appena tornai in classe sentii tutte le altri classi urlare. Immediatamente mi precipitai nella mia, quando la maestra ci disse: oggi uscite prima, ci vediamo tra due settimane; le due settimane in realtà furono due mesi.

Noi eravamo felicissimi, ma ora ci ritroviamo in seconda media a stare con le mascherine anche per otto ore, ci ritroviamo a discutere con i professori per l’obbligo di tenere le finestre aperte: è come se fossimo altre persone.

Quando sentiamo i professori parlare con la mascherina ci immaginiamo un volto che non esiste e quando se la levano sono diversi”.

DIANA: “Io condivido tutto con Ada. Aggiungo solo una cosa. Vacciniamoci. Se tutti ci vacciniamo piano piano il Covid andrà via.

È molto brutto non poter abbracciare e baciare i nostri amici, ci sentiamo diversi dai ragazzi in seconda media di tre anni fa.

Noi personalmente non ne possiamo più. Abbiamo fatto due dosi di vaccino e siamo disposte a farne altre mille, ma ci tengo a dire che in ogni modo noi ragazzi come anche gli adulti e tutti soffriamo.

Nel nostro piccolo consigliamo e preghiamo di vaccinarsi tutti perché è una cosa importante, è solo un ago: dura due secondi un vaccino e intanto salvi sia te che gli altri e facciamo finire questo inferno. Non voglio andare avanti per altri sei anni così, non ce la faccio, voglio che arrivi la notizia in tv in cui dicono ‘il Covid-19 è finito, possiamo tornare alla normalità’. Spero che questo giorno arrivi presto.

Grazie e collaborate per favore”.

Ada Di Cosimo e Diana Corsi Scuola media “Virgilio”

Talk, una laurea sotto l’albero

Caro Babbo, ex Natale, mi rivolgo a te sperando che tu possa avere gli stessi poteri di Gesù Bambino che, nuove disposizioni dall’Europa “inclusiva”, ci consigliano di non contattare. Sono una virologa, un po’ stanca ma sempre ottimista. Ti scrivo questa letterina perché anche io voglio chiederti dei regali. Innanzitutto vorrei che facessi trovare sotto l’albero di tutti coloro che hanno parlato durante questa pandemia, il loro titolo di studio, perché molti lo hanno dimenticato. Forse avremmo meno virologi promossi sul campo e meno fake news disseminate a volontà. Tanti disoccupati, ma ci penserà il piano di resilienza a ricollocarli. Fai che i nostri politici (spesso improvvisati esperti) non promettano più ciò che un vero esperto non avrebbe fatto mai. Questi vaccini, ottimi salvavita, non ci ridaranno la libertà dal virus. Da soli non sono sufficienti. Siamo ancora (necessariamente) imbavagliati, con le mani spelate dai continui lavaggi e con la paura di abbracciare i nostri cari, persino a Natale. Fai che non sia vero che Pfizer abbia pagato alcuni sanitari per discreditare il vaccino AstraZeneca, perché a questo punto sarebbe difficile avere fiducia nella ricerca. Fai piuttosto che questa azienda, che ha aumentato il prezzo del vaccino del 30%, destini solo una piccola parte dei 41 miliardi di dollari di fatturato ai Paesi poveri, sennò, non ne usciremo. Per favore, Babbo Natale, portaci il vaccino “giusto”, quello che ci copra dal virus attuale, non da suo nonno (virus Wuhan) che è stato soppiantato e che magari ci permetta, anziché andare avanti a cappuccino e vaccino, una sola punturina all’anno. Oso chiederti ancora, anche se non sono sicura che potrai, di entrare nelle case di Draghi e di Speranza. Porta anche a loro un regalo, un Green pass vero che attesti solamente la vaccinazione avvenuta e non quello che stiamo usando che crea confusione tra vaccino e tampone e fa aumentare i contagi. Poi, stando attento a non svegliarli, a un orecchio bisbiglia di non parlare dell’Italia come la prima della classe, perché non è vero. Siamo i tredicesimi nella graduatoria dei Paesi vaccinati. Grazie.

 

Il “trio balocco” del sì sì vax

Come siamo arrivati a tutto ciò? Come è stato possibile che tre stimati medici, tutta una vita in laboratorio o in corsia, abbiano intonato in diretta un’insulsa canzoncina paranatalizia con il ritornello Sì Sì Vax? Come è possibile che Fabrizio Pregliasco, Matteo Bassetti e Crisantemo Crisanti si siano messi a fare concorrenza al signor Balocco? Riavvolgiamo il nastro. Da due anni i talk show televisivi hanno innescato un perpetuo blabla su un tema di cui nessuno sapeva niente (e tuttora si sa poco), la pandemia generata dal Covid. Dal fantacalcio siamo passati al fantavirus; e, pur continuando a brancolare nel buio, si sono create delle nuove popstar mediatiche. Non sappiamo se il virus buchi il vaccino, ma si è visto che i virologi bucano il video, il che basta e avanza. Dice: proprio perché mancano le certezze, bisognerebbe ampliare le opinioni. Ma la tv funziona esattamente al contrario. Bisogna proporre sempre gli stessi ospiti a cui chiedere sempre le stesse cose, a forza di apparire qualcosa resterà (è la regola di Marzullo). Così i nostri Master Virologi, abilmente sollecitati, hanno cominciato a dare opinioni su tutto, anche perché la pandemia ormai confina con tutto. Eccoli dunque debuttare nell’esibizione canora, difendendo a spada tratta questo loro battesimo nell’X Factor (“Bisogna contestualizzare” appunto. Che ci andate a fare in tre, come Marchesini, Lopez e Solenghi, in un programma di varietà?). Il testo e l’esecuzione di Sì sì Vax sarebbero di per sé un oltraggio al comune senso del pudore estetico, se ne esistesse ancora traccia, ma questo è il meno. Veniamo all’unica domanda importante. Cui prodest? Tutto quello che può convincere i recalcitranti a vaccinarsi può essere utile, d’accordo. Ma la trasformazione di tre scienziati in instancabili presenzialisti mediatici, giù giù fino alla pietosa pagliacciata natalizia, le stesse pagliacciate che si richiedono ai vip dello spettacolo, a che serve? Ai Sì Sì Vax? Ai No No Vax? Alla fiducia nella medicina? Mah.

Milano e Sala salvino la Scuola Vivaio, eccellenza della città

Milano non sa proteggere e valorizzare le sue eccellenze. Quelle pubbliche, intendo. Quelle private (dalla moda alla Bocconi, fino alla Fondazione Prada) si valorizzano da sé. Le eccellenze collettive, di tutti, quelle dove c’è più cultura che marketing, più sostanza che storytelling, più uguaglianza che ricchezza, sono invece abbandonate a se stesse, quando non sono lasciate morire, in questa città che è bella ma crudele come certe donne dei romanzi di James Ellroy. Una di queste eccellenze è la scuola media di via Vivaio. È da decenni un’esperienza di scuola pubblica che offre a tutti i suoi ragazzi una formazione scolastica incentrata sull’inclusione: “È inclusiva una scuola che permette a tutti gli alunni, tenendo conto delle loro diverse caratteristiche sociali, biologiche e culturali, non solo di sentirsi parte attiva del gruppo di appartenenza, ma anche di raggiungere il massimo livello possibile in fatto di apprendimento”. Così promette, e mantiene, anche grazie al suo genius loci: è parte dell’Istituto dei Ciechi di via Vivaio, è a tutti gli effetti la “scuola Media Statale per Ciechi di via Vivaio” – questo il suo nome completo. “Attua un progetto di co-educazione e integrazione tra allievi vedenti, non vedenti e con altre disabilità. Attraverso lo studio delle diverse discipline, della musica e dello strumento musicale, la scuola si propone di far acquisire agli alunni non solo un sapere, ma anche un saper fare e un saper essere”. Ai ragazzini e alle ragazzine che frequentano la Vivaio sono offerti il tempo pieno, la piena integrazione con chi ha qualche disabilità, molto lavoro di gruppo e una ottima formazione musicale, che è la specialità della casa.

Ebbene: tutto ciò sta per finire. Il Comune di Milano ha spiegato nei mesi scorsi che l’affitto che deve pagare all’Istituto dei Ciechi per mantenere la scuola in quell’edificio (650 mila euro l’anno) è troppo caro. “La legge di contenimento della spesa pubblica prevede la dismissione di queste affittanze”, aggiunge la vicesindaca Anna Scavuzzo. Il contratto d’affitto scade il 31 dicembre. Ma il sindaco Giuseppe Sala non ha dato segni di preoccupazione, lui di solito così attivo e presente quando c’è da valorizzare le eccellenze private, quando c’è da trattare con i grandi operatori immobiliari, quelli che fanno ricchi affari sulle aree degli scali Fs o attorno allo stadio di San Siro. In questa partita è invece assente, silente, muto, non pervenuto. Lascia parlare i suoi, che tirano in lungo, minimizzano, rassicurano: “L’offerta formativa sarà mantenuta”. Ma intanto propongono il trasloco della scuola in Bovisasca, o al Corvetto, negli spazi liberi di edifici che già ospitano istituti scolastici onnicomprensivi. Più complicato l’eventuale passaggio in via D’Annunzio, sui Navigli, o a Brera, nell’edificio che il Comune vorrebbe liberare dalla Scuola Montessori. Ogni trasloco sarebbe comunque uno sradicamento: sarebbe strappare da un Vivaio già messo a dura prova dagli anni del Covid molte piantine da trapiantare in un ambiente nuovo, poco adatto alle particolarità della scuola.

Chi scrive deve qui confessare un suo piccolo conflitto d’interessi: la Vivaio è la scuola frequentata dalle sue figlie, negli anni scorsi Olga e oggi Nora. Ma proprio per questo conosce quanto valga questa eccellenza della città e quanto importante (e delicato) sia il suo genius loci, quanto cruciale sia il legame con l’Istituto dei Ciechi e con gli spazi che permettono l’integrazione e l’espressione delle diverse abilità. E lo svolgimento delle attività musicali, di quelle sportive, dei concerti di Natale, del 25 aprile, di fine anno. Aspettiamo che il sindaco faccia sentire la sua voce e faccia vedere le sue abilità manageriali e amministrative; che trovi il modo di salvare questo bene collettivo, questa eccellenza di Milano.

 

 

È Natale Dio nasce in una stalla buia, mentre il mondo è un viavai distratto

C’è un grande evento internazionale, globale, voluto dall’Imperatore Cesare Augusto, che coinvolge e mobilita tutto il mondo sotto il dominio di Roma: il censimento di tutta la terra. È la certificazione del potere e della sottomissione perché è a fini fiscali e militari. A causa di questo evento tutti andavano a farsi censire, ciascuno nella propria città. Possiamo immaginare il gran viavai, il movimento di gente, l’andirivieni mosso dall’Autorità suprema. C’è un gran trambusto: ne è coinvolto il mondo.

Da questa visione ampia, larga, globale, l’obiettivo improvvisamente si restringe su Giuseppe e sul suo itinerario. Egli dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme. È un uomo che cammina insieme a Maria, sua sposa, che era incinta, attraversando un’area montagnosa per circa 3 o 4 giornate di cammino. La coppia si sottopone a uno sforzo impegnativo, data la maternità avanzata. L’obiettivo della storia della salvezza non è puntato sulle masse che si muovono come formiche mosse dall’Autorità e dal Potere, ma sui movimenti faticosi di un uomo e di sua moglie. Luca sposta decisamente l’obiettivo sulla donna perché mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. La descrizione è sobria, minimalista. Per parlare dell’Altissimo occorre sobrietà: Dio non si impone. I gesti di Maria sono naturali: dopo averlo dato alla luce, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia. Non si è mai pronti per la nascita di un bambino: è un evento sorprendente che buca il corso delle cose. Il suo vagito ci dice l’inizio di una vita della quale ancora nulla si sa, ma che si fa strada nel mondo e richiama l’attenzione e la tenerezza. Dio ne ha bisogno. Lo vediamo poi deposto in una mangiatoia, che però è luogo per animali, non per esseri umani. Dio nasce in una stalla mentre il mondo è tutto un viavai. E anzi, proprio per questo, non c’era posto nell’alloggio. Per Gesù che nasce ci sono solo le mani calde della mamma e il fiato degli animali che si cibano. Cambio di scena. Si vedono i pastori della regione. Essi, pernottando all’aperto, vegliavano tutta la notte facendo la guardia al loro gregge. Il calore che circonda il bambino contrasta con la veglia notturna e senza riparo di chi deve fare la guardia al gregge. Sono desti, i pastori: sanno che devono tenere gli occhi aperti. E questi occhi vengono improvvisamente colpiti: Un angelo del Signore si presentò a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Il caldo della mangiatoia contrasta con il freddo della notte, il buio del cielo con la luce angelica. I pastori, uomini marginali, abituati a tutto, furono presi da grande timore. Ma l’angelo disse loro: “Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore”. L’annuncio di gioia universale viene dato a un gruppo di pastori sbalorditi. L’angelo offre indicazioni concrete per localizzare il Salvatore: “Troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia”. E i pastori vi andarono in fretta. L’uomo spaesato e infreddolito è il primo destinatario del vangelo. E improvvisamente Luca, come ci ha fatto vedere chi si muove di notte sulla terra, così dispiega una visione in alto, quella di una moltitudine dell’esercito celeste, che lodava Dio e diceva: “Gloria a Dio nel più alto dei cieli e sulla terra pace agli uomini, che egli ama”. Il cielo fa eco alla terra, la gloria celeste degli angeli fa eco allo spaesamento terrestre dei pastori. L’Altissimo si è fatto bassissimo. Gesù è nato.

 

Il governissimo di Draghi è solo incostituzionale

Per i disorientati laudatori dello status quo, secondo i quali non può esistere governo migliore di quello in carica, l’optimum sarebbe revocare la separazione dei poteri prevista dalla Costituzione e consentire a Draghi il cumulo delle cariche: presidente della Repubblica (con annessa sovrintendenza su Forze Armate e Magistratura), presidente del Consiglio dei ministri e in sovrappiù – perché no, visto il suo curriculum? – magari anche Governatore della Banca d’Italia. Un’ipotesi, com’è noto, già accarezzata dai fedelissimi Giorgetti e Brunetta che per primi lo hanno pubblicamente candidato al Quirinale. Peccato che la cura tecnocratica, escogitata per “salvare” l’Italia dal disfacimento della politica parlamentare, debba fare i conti con l’ostacolo rappresentato dalle nostre regole costituzionali.

E poi ci sarebbe il suffragio universale, altro fastidioso intralcio. Si può tenere duro fino al 2023, non oltre. Vero è che la pandemia Covid è già servita un paio di volte come pretesto per rinviare elezioni regionali e comunali. Ma è impensabile che basti la variante Omicron a posticipare la scadenza del mandato di Mattarella. O a congelare i pericolanti assetti emergenziali di unità nazionale che martedì Draghi ha voluto svincolare dalla sua persona.

Neanche i più entusiasti ammiratori di Supermario hanno finto di prenderlo sul serio quando egli ha dichiarato il suo “missione compiuta”. Hanno assistito con disagio all’incepparsi della sua azione di governo, dacché le opposte visioni dei partiti lo hanno costretto a rinviare o annacquare o rimangiarsi buona parte delle riforme pattuite con Bruxelles. Solo sulla giustizia, col M5S recalcitrante, lo hanno incoraggiato a forzare la mano. Da lì in avanti, lo hanno frenato, costringendolo a temporeggiare. Draghi ha capito di non poter più combinare molto a Palazzo Chigi e ha deciso di sfidare anche l’istinto proprietario di Berlusconi – che l’ha fatto accusare di diserzione dai suoi scherani – ritenendosi più adatto al ruolo di garante sul Colle più alto.

Spiace per i fautori della cura tecnocratica, spiazzati dal loro paladino, ma la politica si sta prendendo la rivincita. Per adempiere alla richiesta di Draghi, e cioè far propria la prospettiva di lungo periodo del governissimo con tutti dentro, Letta, Conte, Speranza e Salvini dovrebbero ripudiare la missione che si sono dati di fronte ai loro militanti e all’elettorato. Non un rospo da ingoiare momentaneamente, bensì un vero e proprio annullamento.

Per questo la candidatura di Draghi al Quirinale segna piuttosto la fine di una breve stagione che non l’inaugurazione di un’era nuova. La pretesa di investire Draghi del ruolo simultaneo di esecutore e garante, in una prolungata sospensione della politica, risuona come un periodo ipotetico dell’irrealtà. Velleitaria. Il governissimo che sognano è una creatura di fantasia che piacerebbe, certo, all’establishment nostrano e internazionale, ma richiederebbe il rinvio sine die di ogni campagna elettorale.

Tra le conseguenze nefaste del culto della personalità di Draghi e delle sue decantate virtù salvifiche, c’è anche la falsa illusione propagata nell’opinione pubblica secondo cui per risolvere i problemi dell’Italia ci vuole un “uomo forte”, distaccato dalle piccinerie della politica. Non stupisce che in questo clima i sondaggi registrino un favore crescente per una riforma presidenzialista, cavalcata entusiasticamente dalla Meloni, ma contraria allo spirito della nostra Costituzione. L’esatto opposto della scelta di Mattarella che, escludendo la propria ricandidatura, segnala la necessità di un ricambio fisiologico al vertice delle istituzioni, indice di salute dei sistemi democratici capaci di rispettare nonni e bisnonni (quando meritano rispetto) ma anche di rimpiazzarli con energie nuove quando il tempo è venuto.

La soluzione tecnocratica, nel mentre prefigura modelli illiberali, sospinge un numero crescente di cittadini insoddisfatti a rifiutare la politica. L’astensionismo dilagante troverebbe in un governo di unità nazionale guidato da uno sbiadito vice-Draghi il più forte degli incentivi.

Il messaggio di Draghi è contraddittorio: “La mia missione è compiuta, ma questa formula di governissimo deve continuare”. Lo sconcerto con cui è stato accolto, e la volontà ribadita ieri dal vertice riunito a casa Berlusconi di dare vita prima possibile a un governo di destra, senza Pd e M5S, lasciano presagire che l’unità nazionale stia giungendo al capolinea. Anche i draghisti se ne faranno una ragione: dovrebbero pur sapere che la destra italiana ha una vocazione storica estremista che si lascia malvolentieri imbrigliare da chicchessia. Può darsi che alla fine, saziata la volontà di potenza dell’ex Cavaliere, faccia loro comodo trovare proprio in Draghi il garante più utile a legittimarli all’estero.