“Knopfler sciolse i Dire Straits per non rimanerne schiacciato”

Da Romeo e Giulietta al Triangolo, o quasi. “Un giorno Renato Zero si è presentato nello studio di Frascati dove con Phil Palmer e la Dire Straits Legacy band stavamo registrando dei pezzi, e ci ha detto: è il suono che voglio!”. Ride, Alan Clark: da martedì a Londra vestirà i panni del coproduttore (insieme a Palmer e Trevor Horn) del prossimo album di Renato, Zero il folle. “Sei settimane di lavoro, ma c’è un singolo già pronto e poi faremo un tour italiano a fine 2019. Non so molto delle vecchie canzoni, ma ne ho scritte di nuove per lui a casa sua, a Roma. Aspetta che ne fischietto una…”. Clark ne ha viste di tutti i colori, i sorcini non lo metteranno in ansia. “Da tastierista dei Dire Straits ero nella band numero uno al mondo. Ogni sera avevo quarantamila spettatori davanti: mi concentravo sullo show e dopo un po’ tutto mi sembrava normale, come stare nella cucina di casa. In quella scala globale devi ricordare che la priorità è la musica. Anche quando suoni per due miliardi di telespettatori, come ci accadde al Live Aid con ospite Sting. Quel giorno uscimmo dallo stadio di Wembley e ci fermammo pochi metri dopo: la sera stessa eravamo in cartellone alla Wembley Arena”. Ok, sarà un lavoro per metodici, ma la mitologia rock pretende folli notti sex & drugs. “Beh, eravamo più morigerati dei Led Zeppelin, ma ci siamo divertiti anche noi”.

Ora è pronto, Clark, a reinventare i classici dei suoi Dire Straits per un concerto solista, sabato alla Galleria d’Arte Moderna di Milano, in uno degli appuntamenti di Piano City, la tre giorni che da domani a domenica vedrà oltre 400 show gratuiti in diverse location della città, con esibizioni tra gli altri di Boosta dei Subsonica, Danilo Rea, Dardust. “È la prima volta che affronto da solo i nostri successi, ma con la Legacy abbiamo mantenuto vivo il repertorio dei Dire Straits”. Knopfler si mantiene distante. “Non ne abbiamo mai parlato, ma lui sa che la sua musica è in buone mani. Non salirà mai sul palco insieme a noi: la gente la vivrebbe come una reunion dei Dire Straits, la cosa ci sfuggirebbe di mano. Mark sciolse il gruppo per sentirsi libero di fare il solista, sapendo che quella della superband è una dimensione dieci volte più grande. Che ha rischiato di schiacciare anche lui”. Clark, invece, la vive con la serenità del comprimario di lusso. Il suo curriculum è impressionante. “Io e Mark registrammo Infidels e Empire Burlesque per Dylan. Con Bob in studio non c’era agenda. Dylan arrivava, improvvisava sulla chitarra, bofonchiava al microfono. Noi musicisti eravamo di fronte all’incognita. Due bobine giravano sempre, lui creava lì per lì. Una volta aveva già attaccato un pezzo, ma io dovevo andare a pisciare. Al mio ritorno non sapevo neanche la tonalità. Girai la maniglia della porta, misi le mani sui tasti e via. Quei suoni sono rimasti sui nastri”. E Clapton? “Il periodo con Eric è stato il più luminoso della mia carriera. Feci con lui il capolavoro Journeyman, e tour americani in una band di fenomeni. E che viaggi… La prima volta che volai sul Concorde con Clapton fu a New York per registrare lo spot di una birra. Un’altra, persi un volo a Heathrow per tornare nella Grande Mela. Al banco della British Airways dissi che avevo un concerto oltreoceano poche ore dopo. Mi imbarcarono sul Concorde”. Il pedigree di Alan è una lista senza fine: Billy Joel, Bo Diddley, Lou Reed. O George Harrison: “Lo conobbi nel ’78, era patron dell’etichetta Dark Horse. E lo ritrovai anni dopo sul palco ospite di Clapton. Era di una gentilezza disarmante”. O Tina Turner: “Lavorai con lei su Private Dancer: bellissima, positiva, generosa”. O Van Morrison: “Eccentrico e irascibile. Ma la magia della sua musica valeva le bizze”. Ora tocca a Renato: “Dovrò documentarmi sul Triangolo!”.

“Io, Cenerentola, ho preso il posto di una grande étoile”

Mors tua, vita mea. La fortuna di Virna Toppi è poter approfittare della sfortuna di un’altra ballerina. E che ballerina: Lucia Lacarra, étoile spagnola che rimarrà nella storia della danza per le sue linee perfette (oltre l’umana elasticità), la sua determinazione e la sua sinuosità. Lacarra era attesa a Roma per la Cenerentola in programma da stasera a domenica al Brancaccio, ma si è fatta male: un infortunio piuttosto serio le impedirà di esserci e quindi, al suo posto, il coreografo Luciano Cannito ha chiamato proprio lei, Virna, da febbraio 2018 Principal Dancer del Teatro alla Scala. Nata a Lentate sul Seveso, nel milanese, 26 anni fa, Toppi è entrata nelle case degli italiani lo scorso Capodanno, quando si è esibita con Roberto Bolle e Cesare Cremonini nello show “Danza con me”.

Ha preso il posto di Lucia Lacarra. Dica la verità, se la sta godendo?

Mi dispiace tantissimo, Lucia è una strepitosa artista e una persona meravigliosa. Purtroppo, nel nostro lavoro, gli infortuni possono capitare. È successo anche a me, tre mesi fa mi sono rotta i legamenti di un piede. Per i danzatori non è sufficiente guarire, dobbiamo guarire bene, ricominciare a pompare con i muscoli. Detto questo, certo: nella sua sfortuna, mi sento fortunata.

Cos’ha pensato quando l’hanno chiamata?

Il maestro Cannito mi ha mandato il trailer di una Cenerentola che aveva realizzato in passato. Appena l’ho visto, me ne sono innamorata. È una delle fiabe per eccellenza, la protagonista fa tenerezza e simpatia. Matrigna e sorellastre immettono nella storia un che di divertente. E adoro le musiche di Prokoviev.

Nel mondo della danza c’è un grande dibattito sulla validità dei “classici”. In fondo, siamo nel 2019: perché dovremmo riproporre balletti del 1945?

Sono a favore dell’innovazione, del provare cose nuove: i tempi cambiano e anche noi danzatori dobbiamo cambiare. Oggi sono richiesti virtuosismi che in passato erano inimmaginabili. Però il passato non si rinnega né si dimentica. Le fiabe – Cenerentola, Giselle, La Bella Addormentata – fanno parte della nostra arte e i loro messaggi sono ancora attuali.

Anche la sua sembra una storia principesca: la bambina che ama la danza e che a 10 anni realizza il suo sogno, l’Accademia della Scala.

Ho avuto la fortuna di vivere vicino Milano, quindi ogni giorno facevo su e giù con il treno. Un sogno? Certo. Ma immagina cosa significhi, a quell’età, svegliarsi alle 5.40 ogni mattina, sabato compreso, per tornare a casa alle otto di sera? Rinunciare alla famiglia, agli amici, alla discoteca, alle uscite in motorino? Provare l’ansia da prestazione, ancora bambina? Eppure non le ho mai considerate rinunce, non mi sono mai pentita e, se tornassi indietro, rifarei esattamente tutto.

Dopo il diploma, ha lavorato per un anno a Dresda, per poi tornare a Milano. Perché?

Sono partita per imparare a vivere da sola, mettermi alla prova con una cultura e una lingua diverse. Ma l’Italia è l’Italia e la Scala è stato un punto d’arrivo, non di partenza. Ballare per il nostro pubblico è quello che ho voluto fin da piccola.

Il suo amico Roberto Bolle ha avuto il grande merito di rendere la danza classica un’arte pop. È d’accordo?

Non solo ha avvicinato le persone al teatro, ma ha fatto capire che il balletto non è noioso, tutt’altro, è un mondo da scoprire. Roberto è un artista immenso e una persona generosa: se vede che proviamo, si ferma a darci consigli.

Eppure in Italia la danza è considerata un’arte minore. Centinaia di scuole, e poi chiudono i corpi di ballo.

È scandaloso. Abbiamo la fortuna di avere un patrimonio della bellezza e lasciamo che chiuda. Mi auguro che qualcuno si ravveda.

“Basta merda. Ora Antonio recita me: un nevrotico”

Sui numeri Antonio Banderas e Pedro Almodóvar non vanno d’accordo. Per l’attore, il protagonista di Dolor y gloria “è al 90% Pedro”, mentre il regista offre due varianti: “Nella realtà, mi corrisponde al 40%; in una realtà più profonda, al 100%. Diciamo così, tutto quel che c’è nel film che non ho vissuto in prima persona potrei comunque averlo vissuto”. Le differenze però non tengono: all’ottavo film insieme, Pedro lo ribattezza il “mio Mastroianni”, Antonio – letterale – gli dà il proprio cuore.

In Concorso al 72° Festival di Cannes e da domani nelle nostre sale, Dolor y gloria inquadra un sessantenne regista, Salvador Mallo, che associa a un celebrato passato un presente inappetente: prostrato nel fisico, dipendente dai farmaci e poi dall’eroina, non riesce più a fare cinema e, dunque, a vivere.

Almodóvar, vi ha proiettato le sue paure?

Mancanza di ispirazione e incapacità fisica, da sempre convivo con questi due fantasmi: sono la più grande paura della mia vita. Ma Dolor y gloria è anche altro, è una dichiarazione d’amore per il cinema e per il grande schermo.

Banderas, il suo primo film è “Labirinto di passioni”. Trentasette anni dopo, come ha trovato Pedro?

Ha depurato il suo stile, non è più l’enfant terrible di Pepi, Luci, Bom e le altre ragazze del mucchio, ma non ha perso la sua personalità, e non parlo solo di colori, vestiti e modo di raccontare. Ha sempre tenuto fede a se stesso, non si è mai inchinato al denaro, nonostante dall’America gli piovessero offerte economicamente succulente.

A: Be’, veramente un’offerta che non potessi rifiutare non mi è mai arrivata, ma non ho rimpianti, sono affezionato al mio modello produttivo. Mi sarebbe piaciuto fare Brokeback Mountain, questo sì, ma nel racconto di Annie Proulx i due cowboy scopano come animali: c’è un elemento fisico che Hollywood non avrebbe tollerato, e infatti.

Come avete plasmato Salvador Mallo?A: La dipendenza di Salvador non è dall’eroina, ma dal cinema, è quello il suo primer deseo, primo desiderio, e lo confessa: “Il cinema mi ha salvato”. E così è per me, sin da quando avevo dieci anni: non so perché, non è genetico, ma misterioso, vidi un melodramma su delle orfanelle e mi innamorai.

B: Il suo dolore è anche il mio: ho avuto un infarto, potevo nasconderlo, Pedro mi ha esortato a mostrarlo, a non essere reticente. Salvador è bollito, drogato, ma Pedro mi ha detto: “Non voglio sentirlo”. E ha aggiunto: “Tu sei me, ma non voglio sentirlo”.

Facile trovare un’intesa?B: A 22 anni di distanza da Légami!, mi richiamò nel 2011 per La pelle che abito: buttai sul tavolo tutto quel che avevo fatto nel frattempo, le medaglie, gli onori. “È merda”, mi disse Pedro, “non mi interessa”, e fu come essere preso a schiaffi. Girammo l’intero film uno contro l’altro, muso a muso. Quando mi ha contattato per Dolor y gloria, me lo son detto subito: “Non farò lo stesso errore, sono qui per sapere cosa vuoi da me”. E me l’ha detto, sarebbe stato un ruolo doloroso, senza equilibrio, senza difese: “Sei nudo”, questo.

A: Non volevo la sua bravura, quell’intensità barocca che l’ha reso famoso. Credo che questo sia il lavoro di Antonio più squisito.

La querelle tra il Festival di Cannes e Netflix non s’è sopita.B: Il cinema oggi è più internazionale, le piattaforme streaming garantiscono una mole di lavoro a noi attori. Ma c’è grande confusione di contenuti, e sono d’accordo con il festival: un titolo proiettato qui deve finire sul grande schermo. Non ci sono mai stati tanti film come oggi, eppure le sale sono sempre più vuote: peccato, il cinema è un fatto sociale.

A: Senza Cannes la mia vita non sarebbe la stessa, qui c’è il pubblico più generoso, i film d’autore trovano l’aiuto e l’appoggio che meritano. Ultimamente non ho visto molti film che mi siano piaciuti, salvo Roma di Alfonso Cuarón: non l’ho visto su Netflix, ma in sala.

La Spagna ha votato, tra poco ci sono le Europee: che dobbiamo aspettarci?A: Il risultato delle elezioni è stato una sorpresa positiva: di fronte a un’opzione di estrema destra, e una campagna elettorale di menzogne, la Spagna è andata a sinistra, e i quattro anni che ci aspettano saranno meglio dei precedenti. Sulle Europee non si possono fare previsioni, speriamo.

 

Dumoulin si ritira, Ackermann vince (anche) la quinta tappa

Giro finito per Tom Dumoulin, che martedì è stato tra le vittime di una brutta caduta nel tratto finale, concludendo la tappa – la quarta – con un ginocchio sanguinante e dolorante, scortato dalla sua squadra e con oltre quattro minuti di ritardo. Ieri ha provato a ripartire, ma si è ritirato dopo pochi chilometri dall’inizio della quinta tappa, la Frascati-Terracina (140 chilometri), per le conseguenze dell’infortunio.

L’olandese del Team Sunweb, 28 anni e già maglia rosa nel 2017, era tra i grandi favoriti di questa 102esima edizione del Giro d’Italia, ma in maglia rosa – per il quinto giorno consecutivo – si è confermato lo sloveno (ex saltatore con gli sci) Primoz Roglic.

A Terracina – dopo 140 chilometri di faticoso maltempo – la vittoria è andata al tedesco Pascal Ackermann (Bora Hansgrohe), che già si era aggiudicato la volata a Fucecchio e che ieri ha beffato all’ultimo il colombiano Fernando Gaviria; terzo posto per il francese Arnaud Démare. Oggi si riparte da Cassino con destinazione San Giovanni Rotondo: 238 chilometri.

Internazionali. Il tennis a Roma non è mai stato così italiano

Gli Internazionali d’Italia cadono in un momento particolarmente significativo della storia del tennis. Da un lato c’è lo scontro generazionale tra i campioni di ieri/oggi e quelli di oggi/domani; dall’altro la sensazione che, forse e finalmente, l’Italtennis maschile possa tornare ai livelli dei tempi non vicinissimi di Adriano Panatta, Corrado Barazzutti e Paolo Bertolucci.

La grandezza di Djokovic, Nadal e Federer è semplicemente spaventosa, come lo è la loro longevità. Più volte – anche dal sottoscritto, e di ciò chiedo scusa – sono stati dati al capolinea quando non addirittura finiti, per poi rialzarsi con quel colpo di reni che è tipico unicamente dei campioni adusi all’epica. Moschettieri ormai orfani del più brutto (ma fortissimo) dei quattro, ovvero quel Murray fermato dalla mitraglia vile degli infortuni, i tre dominano da decenni questo sport definito non per nulla “del Diavolo”.

Il pubblico romano li conosce benissimo e quest’anno ha potuto riabbracciare anche Federer. Ognuno di loro incarna un archetipo tennistico: se Roger è la Bellezza quasi eccessiva nella sua propensione al Divino “didascalico”, Nole è la Meccanica Razionalistica e Rafa l’Abnegazione Agonistica elevata a Sacrificio continuo. Le loro sfide si sono più volte consegnate all’immortalità, grazie a tutto quel talento e tutta quella diversità. È mancata la rivalità feroce che dona il surplus d’epica, quella per intendersi che portava Lauda a detestare (epperò stimare) Hunt e viceversa, ma solo perché il trio ha sempre smussato gli spigoli caratteriali. Da qui una generalizzata inclinazione al politicamente corretto e un’assenza – unica lacuna rilevante del tennis odierno – del bad boy. Del ragazzo incline a rovesciare con gusto irriverente il bicchiere di vino nella tovaglia buona: anche solo per vedere l’effetto che fa.

 

Non c’è il bad boy

Nessuno di questi campionissimi è McEnroe, né del resto anela a esserlo. Lo era forse il primissimo Federer, quello che sfoggiava capelli ossigenati tremebondi e spaccava racchette con nervosismo comico, ma lo svizzero ha presto barattato quella sghemba iconoclastia per una maturità a tratti robotica che gli ha fatto vincere tutto. Anzi di più.

È uno dei più grandi di sempre, e anche per questo perfino gli anni che passano sembrano avere un particolare rispetto per lui. Nadal pare invece ben più logorato, anche perché il suo tennis è assai più usurante. Forse per la prima volta non è imbattibile sulla terra rossa, almeno due set su tre. Nelle scorse settimane ha perso da Fognini, Thiem e Tsitsipas. Al Roland Garros sarà ancora favorito, perché tre set su cinque è un altro sport, ma il Djokovic visto trionfare a Madrid può eccome insidiarlo. Ed è una sfida che si potrebbe riproporre in finale a Roma, sempre che lo spagnolo non inciampi ancora e il serbo non si mostri appagato (o stanco) dopo la vittoria in terra iberica.

Se i più forti restano ancora loro, e a sancirlo è la classifica oltre che il campo, le nuove – o nuovissime – leve sono pronte per la grande vittoria. Al Foro Italico, magari. Per poi decollare in uno Slam.

C’è anzitutto Sasha Zverev, lungagnone diversamente esaltante: vincerà tanto, ma a Roma è già uscito (battuto da Matteo Berrettini) e non sta certo vivendo la sua fase migliore. Ci sono Coric, Khachanov, Medvedev, De Minaur, Auger-Aliassime (un classe 2000 palesemente predestinato), Edmund, Djere, Garin, Hurkacz, Tiafoe, Norrie, Fritz, Munar (forse lo spagnolo più futuribile), Opelka (il nuovo Isner), Humbert, Ruud, Nishioka, Jarry, Rublev. Alcuni sono fortissimi, altri forti. Quasi tutti nati dal 1995 in giù.

 

Quelli belli da vedere

Più grande, e più prossimo a vincere uno Slam, ecco Dominic Thiem. Austriaco, classe 1993, numero 4 al mondo: sul rosso, al suo meglio, è superiore a Federer, se la gioca con Djokovic e non parte troppo indietro rispetto a Nadal. A Roma ci proverà e a Parigi tenterà l’acuto.

Ho volutamente lasciato fuori i tre giovani più belli da vedere: Stefanos Tsitsipas, Denis Shapovalov e Nick Kyrgios. Se nel tennis bastasse il talento, sarebbero loro i nuovi dittatori. Ma il tennis è anche, e anzi soprattutto, testa. Fatica. Tigna. Non di rado gogna e calvario. Per questo Kyrgios, dotato di un genio totale e osceno, pare – deliberatamente – destinato a una carriera dissipatrice e nichilista. Se volesse vincerebbe tutto, ma si accontenta dell’orpello fine a se stesso: il servizio da sotto “alla Chang”, il tweener. L’eterno colpo circense. Artista catulliano, l’australiano è tennista da odi et amo: più la prima che la seconda, ahinoi, ma quando vuole egli sa incarnare la Meraviglia. E a quel punto ogni cosa è illuminata.

Tsitsipas è un fenomeno greco sontuosamente anacronistico, nel fisico e nei movimenti. Una scheggia bella del passato. Sembra il tennista dei Tenenbaum e sarebbe stato perfetto come rivale di Edberg (ma pure di Nastase e Gerulaitis). Il suo rovescio a una mano incanta, il suo dritto incendia. È già top ten, dei tre campioncini in erba è il più solido mentalmente e se vincerà uno Slam mi vedrete far cortei sulle note di Shine On You Crazy Diamond: siete invitati anche voi.

Infine, Shapovalov. Canadese. Mancino. Appena meno folle e circense di Kyrgios, ma ci vuol poco. Pecca in agonismo, brilla in estetica: il suo rovescio a una mano non ha nulla di terreno, provenendo palesemente da un vezzo di Zeus che ha scagliato sulla Terra una saetta per mero ghiribizzo. E quella saetta, chissà perché, è divenuta a suo modo bagaglio edonistico del biondo canadesino volante. Vi è davvero grande lode.

 

Il movimento italico

Se questa non è che una piccola ricognizione del tennis di oggi, che a Roma sta dando mostra di sé con un vernissage seguito come sempre ottimamente da Sky (lodi a tutti, dal mitico Paolo Bertolucci alla dolce Elena Pero), resta da dire dell’altro punto che immagino più prema da queste parti: lo stato dell’arte del “movimento”. Cioè dell’Italtennis maschile. Da quarant’anni attendiamo non poco ansimanti un top ten. Un lasso di tempo infinito, reso ogni tanto meno amaro – mentre le ragazze volavano: Schiavone, Pennetta, Vinci, Errani – dai Canè, Camporese, Caratti, Pistolesi, Pescosolido, Ocleppo, Furlan, Guadenzi, Pozzi, Sanguinetti, Luzzi, Bracciali, Starace, Seppi, Volandri, Bolelli. Non molti altri. Ebbene, e senza dirlo troppo in giro, il tennis maschile italiano non stava così bene dalla fine dei Settanta. Nessuno come noi è bravo a perdere da solo, ma un Fognini così solido e centrato non si era mai visto. Sulla terra (e non solo) è sempre stato da primi dieci, ma era il primo a fingere di non saperlo. A Montecarlo ha giganteggiato con sicumera, Nadal non era forse mai stato così vilipeso sul rosso e la top ten è a un passo. Ma non c’è solo Fabio: la semifinale di Marco Cecchinato un anno fa al Roland Garros resta una delle sorprese più inspiegabili nella storia dello sport e il ragazzo, benché umorale come pochi, ha ancora molte cartucce. C’è poi Matteo Berrettini: uno con quel servizio lì, in Italia, non si era mai visto. I miopi lo paragonano a Roddick: gli auguro di vincere quanto lo yankee, ma Matteo ha un tennis molto più vario – e dunque bello – di quello bassamente primitivo di Andy. Berrettini è piuttosto un “Camporesino”, che forse quest’anno ha trovato la sua piena maturità. Lorenzo Sonego non è un campionissimo ma ha fame e grinta, dalle retrovie spingono Musetti (campione juniores agli ultimi Australian Open), Zeppieri, Moroni e Mager.

Appare poi fortissimo Jannik Sinner, altoatesino che di peccaminoso ha giusto il cognome. Per dirla in breve, Sinner è il classe 2001 più forte del mondo. Un predestinato vero, così sicuro di sé da avere bypassato il percorso juniores (niente parabole balbettanti alla Nargiso o Quinzi) per buttarsi subito nella mischia del professionismo. Non ha neanche 18 anni e sembra un veterano. Vince challenger con leggerezza aliena e al debutto in un Masters 1000, proprio domenica al Foro Italico, ha rimontato un set e annullato financo match point al navigato Johnson. Se non si perderà per strada, pratica di cui siam maestri ma che in Val Pusteria e Val Fiscalina non è mai stata di moda, potrà divertirsi molto. E magari la Tsitsipas-Sinner Tsitsipas-Sinner che andrà in scena oggi a Roma diventerà uno dei grandi classici del bel tennis che verrà.

La “catastrofe” che tiene in vita Hamas

Pietre, palloncini incendiari, tentativi di sfondamento delle barriere, slogan, bandiere e lacrime. La Nakba palestinese è andata in scena con il copione previsto. Manifestazioni in Cisgiordania, a Ramallah e nelle altre grandi città palestinesi. Ma tutti gli occhi erano puntati verso la Striscia di Gaza. Almeno 20.000 palestinesi, si sono radunati nei pressi della Barriera che divide la Striscia dai campi agricoli e le fattorie israeliane del sud. Trasportati dai pullman minuziosamente organizzati da Hamas, i gazawi hanno protestato ma a distanza di sicurezza dalla Barriera. Martedì il movimento islamico aveva invitato tutti a manifestare, ma con moderazione. Ieri infatti la folla è stata tenuta a distanza dalla polizia di Hamas. In alcuni punti il cordone è stato sfondato e non appena è stato superato un limite di sicurezza, l’Idf, schierato in forze lungo tutto il perimetro della Striscia, ha usato lacrimogeni e il tiro dei cecchini. Una settantina i palestinesi feriti secondo fonti mediche di Gaza, 16 da pallottole vere, 14 da quelle di gomma. La Nakba (catastrofe), è il termine palestinese usato per descrivere la fondazione di Israele e la fuga di centinaia di migliaia di arabi durante la guerra del 1948. È sempre caratterizzato da momenti di grave tensione. L’anno scorso ci furono 61 morti e oltre 400 feriti.

Hamas quest’anno ha volutamente silenziato la protesta nella Striscia, perchè questi erano gli accordi che hanno portato al cessate il fuoco della scorsa settimana e che ha messo fine al più grave scontro da cinque anni. Martedì, stipati in quattro valigie gonfie fino all’inverosimile, sono arrivati a Gaza i 30 milioni di dollari donati dal Qatar: servono mensilmente per pagare gli stipendi ai dipendenti pubblici e non. Il transito del denaro era stato bloccato da Israele qualche settimana fa. Il passaggio dei dollari come è avvenuto in passato è stato autorizzato dal primo ministro Benjamin Netanyahu. “Money for calm” è il principio su cui si basa l’intesa raggiunta grazie alla mediazione di Egitto e Qatar. Come parte dell’accordo, Israele ha aperto il valico merci all’inizio di questa settimana e ha allargato la zona di pesca a 12 miglia nautiche.

Da Gaza City l’inviato del Qatar, Mohammed al-Emadi, ha voluto ribadire che se l’ultima escalation tra Gaza e Israele “fosse andata avanti per altre ore, il mondo avrebbe assistito a una catastrofe umanitaria”. E ha detto la sua sulle responsabilità dell’accaduto. “Nell’ultimo scontro c’è stato un problema con una fazione lungo il confine – ha detto al-Emadi senza però indicare nessun gruppo – e questo ha creato problemi”. Tutti a Gaza sanno che è stata la Jihad islamica – di orientamento filo-iraniano – a provocare quest’ultima escalation. Il suo leader Ziad al-Nakhla ha replicato: “Ringraziamo il Qatar per gli aiuti umanitari a Gaza, ma questo non significa che accetteremo le loro dichiarazioni, che non hanno nulla a che vedere con la missione umanitaria”.

Martedì, il comitato organizzatore della Grande Marcia di Ritorno a Gaza ha invitato i palestinesi a partecipare alle manifestazioni del Nakba Day, ma ha chiesto moderazione. I membri del comitato hanno detto che i monitor saranno schierati per impedire qualsiasi movimento di massa verso la barriera di confine con Israele.

Il ministero delle finanze di Hamas ha detto che pagherà gli stipendi del giovedì ai dipendenti del settore pubblico che ricevono 2.000 shekel ($ 560) o meno.

Bianchi e repubblicani: la carica degli anti abortisti

L’America bigotta e ipocrita di Donald Trump fa un altro passo indietro verso lo smantellamento dei diritti civili conquistati negli ultimi cinquant’anni. Dopo la Camera, il Senato dell’Alabama ha approvato con una netta maggioranza – 25 voti contro sei – la legge più restrittiva dell’Unione sull’aborto, che lo vieta in tutte le circostanze, anche in caso di incesto o stupro. Unica eccezione, quando è in gioco la vita della mamma. Prima dell’Alabama, altri quattro Stati – da ultimo, recentemente, la Georgia – hanno approvato leggi dette “del battito di cuore”, che proibiscono l’aborto da quando si percepisce il battito del cuore del feto, cioè ancora prima che una donna s’accorga di essere incinta.

Il voto nel Senato di Montgomery, la capitale dello Stato, era stato rinviato la settimana scorsa, quando la seduta del Senato venne interrotta in un contesto caotico. Il provvedimento deve ora essere firmato dalla governatrice repubblicana Kay Ivey, che non s’è ancora pronunciata, ma che s’è sempre dichiarata contro l’aborto. Se la legge entrerà in vigore, praticare l’interruzione di gravidanza nello Stato sarà un reato punito fino a 99 anni di carcere; solo tentarlo costerà una condanna a dieci anni. C’è il rischio, osservano i critici del provvedimento, che misure così drastiche incoraggino procedure clandestine e penalizzino i poveri e le minoranze, mentre per i ricchi sarebbe più facile aggirare la norma trasferendosi in un altro Stato. Unanime la protesta dei democratici: diversi aspiranti alla nomination democratica per Usa 2020 si sono pronunciati, da Biden a Sanders, alle donne in lizza. Il provvedimento, però, spiegano analisti del New York Times, non è stato concepito per essere attuato, perché le riserve sulla costituzionalità sono numerose, ma proprio perché i giudici sollevino la questione e facciano finire il caso alla Corte Suprema. Su una cui sentenza del 1973, nel caso ‘Roe vs Wade’, si fonda il riconoscimento dei diritto costituzionale di porre termine a una gravidanza, diritto non avallato da nessuna legge federale: fino ad allora, spettava agli Stati decidere in merito. L’Alabama è uno degli Stati più conservatori: il suo politico più in vista è stato George Corley Wallace, governatore per quattro mandati, sempre in corsa per la presidenza dal ’64 al ’76 – e sempre sconfitto -, costretto su una sedia a rotelle per le conseguenze d’un attentato, definito dai suoi biografi “il perdente più influente del XX secolo”, ostinatamente favorevole alla segregazione razziale nel periodo delle lotte degli afro-americani per i diritti civili.

Lo Stato partecipa a un largo movimento conservatore che vuole riportare la questione dell’aborto davanti alla Corte Suprema, sfruttando il fatto che le recenti nomini di giudici conservatori da parte del presidente Trump hanno creato i presupposti per un giudizio che rimetta in forse l’affermazione del diritto costituzionale all’aborto. La partita alla Corte Suprema è forse più aperta di quanto i conservatori non sperino: Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh, i due giudici designati da Trump e che dovevano dare alla Corte un’impronta decisamente conservatrice, hanno finora assunto posizioni discordanti in casi che avevano a che fare con la pena di morte, la genitorialità responsabile, i diritti degli imputati

Venezuela, l’embargo di Trump impedisce le cure ai bimbi in Italia

Nella storia, le misure dirette e indirette di embargo adottate per ritorsione politica hanno sempre finito per colpire le fasce più deboli delle popolazioni anziché gli esponenti dei governi accusati, a torto o a ragione, di tirannia e corruzione. Le conseguenze degli embarghi inoltre hanno spesso risvolti nefasti anche sulla vita dei cittadini di paesi terzi. Ne è un esempio la vicenda di 20 tra bambini e giovani venezuelani malati di leucemia attualmente in cura presso alcuni ospedali italiani grazie all’accordo stipulato nel 2006 tra Atmo – associazione italiana per il Trapianto di Midollo Osseo – e Pdvsa, la compagnia petrolifera statale del Paese latinoamericano, sottoposta di recente a sanzioni economiche da parte dell’Amministrazione Trump.

Nonostante l’accordo sia ancora in vigore, a partire dal novembre del 2018 la compagnia petrolifera si è vista bloccare gli ingenti bonifici in euro effettuati fino ad allora sul conto corrente del- l’Onlus toscana per pagare le attività sanitarie fornite dagli ospedali italiani e per sostenere le spese di vitto e alloggio dei pazienti e dei loro familiari nel nostro paese. Ad impedire le transazioni in valuta europea è stato il Novo Banco S.A., l’istituto bancario portoghese presso cui la società Petróleos de Venezuela S.A (Pdvsa) da anni ha un conto corrente dedicato a queste operazioni con Atmo. L’Onlus, in seguito al blocco, si è trovata costretta a cessare le proprie attività e licenziare nel marzo scorso gli undici operatori assunti a tempo indeterminato per aiutare i pazienti a trovare la sistemazione migliore e svolgere le pratiche burocratiche richieste.

“I nostri ultimi tre stipendi, prima di chiudere ufficialmente le attività, li abbiamo usati per pagare le spese dei pazienti, compresi gli affitti degli alloggi e il cibo, perché non possiamo lasciare che questi bambini e i loro genitori già così provati dalla vita debbano rinunciare alle cure. Per fortuna anche gli ospedali finora hanno continuato a fornire le prestazioni, ma non sarà più possibile far arrivare altri malati se la banca portoghese manterrà il blocco”, spiega Enrica Giavatto, direttrice di Atmo che, assieme agli altri ex colleghi, continua a offrire in forma volontaria i propri servizi.

Il programma di cooperazione sanitaria a oggi ha permesso a 488 pazienti venezuelani e italo-venezuelani (80% in età pediatrica) di trovare cure adeguate. Il programma ha mosso i suoi primi passi nel 1999 e, grazie alle tante vite che ha contribuito a salvare, ha ricevuto a partire dal 2006 il sostegno dello Stato venezuelano attraverso la Petróleos de Venezuela S.A. e nel 2010 ne è stata riconosciuta la rilevanza a livello istituzionale grazie a una dichiarazione d’intenti siglata a Caracas dagli allora ministri degli Affari esteri Franco Frattini e Nicolás Maduro.

A causa della crisi politica che sta attraversando il Venezuela e le conseguenti sanzioni internazionali che determinano il blocco delle transazioni da/verso l’estero, il programma non può più beneficare del sostegno economico da parte di Pdvsa, che provvedeva a pagare oltre alle cure, i biglietti aerei, vitto e alloggio, più 600 euro mensili per le spese correnti di ogni paziente con familiari al seguito.

“Secondo quanto riferito dall’azienda e ribadito a voce da una delegazione della stessa durante una visita avvenuta in Italia tra la fine di marzo e l’inizio di aprile 2019, Pdvsa ha dato ordine al Novo Banco S.A. di effettuare tre erogazioni a favore di Atmo tra l’ottobre del 2018 e il febbraio, del 2019 ma questi tentativi sono stati respinti dal Novo Banco per evitare ritorsioni dell’Amministrazione Trump che prevedono penalizzazioni per le aziende e gli istituti di credito che collaborano e mantengono relazioni di tipo commerciale con enti e compagnie facenti capo al governo venezuelano”, sottolinea la direttrice. Il debito complessivo accumulato nei confronti degli ospedali coinvolti è di 8.626.427 euro e nei confronti di Atmo di 2.117.859.

Per rispondere al rischio concreto che i pazienti si trovassero privi di qualsiasi sostegno, Atmo ha attivato i principali Enti di natura caritatevole presenti nei territori dove risiedono i pazienti assistiti. In aggiunta a queste misure, ha promosso alcune iniziative di raccolta fondi rivolte ai propri sostenitori in Italia.

Il Novo Banco portoghese ha deciso di non permettere i bonifici molto probabilmente per evitare anche la ritorsione della nuova amministrazione di destra brasiliana presieduta da Bolsonaro, oggi uno dei più stretti alleati di Trump. Molte banche portoghesi sono esposte nei confronti dell’ex colonia.

Allievi e maestri, scienza e fede: A&G e il bel tempo antico

Come scrisse Daniel Defoe del reverendo Annesley, “amavamo la dottrina per l’insegnante”. Noi invece, nonostante il prestigio non disgiunto da coolness degli economisti dei due mondi Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, non riusciamo a risolverci ad amarne la dottrina. Ieri l’hanno riassunta in modo, diremmo, confuso e felice sulla prima del CorSera, la loro casa italiana: taglia oggi che crescerai domani, all’ingrosso. Dice: avete visto come crescono “Paesi che avevano problemi di debito, come Spagna, Irlanda e Portogallo, e che hanno dovuto attuare programmi di austerità ben più drastici del nostro”? Ecco, il debito privato sì, ma corre l’obbligo di ricordare che quello pubblico di Spagna e Irlanda nel 2008 era al 40 e 20% del Pil. Quanto all’austerità, spiace, ma no: quei tre Paesi – con storie e debolezze così diverse – hanno di certo dovuto approvare dure riforme imposte dai creditori, ma non hanno fatto più austerità dell’Italia. L’Irlanda non fa testo: il suo Pil è “drogato” dalle multinazionali che nell’isola hanno la sede fiscale (e nient’altro). Spagna e Portogallo in questo decennio hanno fatto, e giustamente, oltre il doppio del deficit in rapporto al Pil dell’Italia. Se non i numeri, però, prestigio e coolness sono dalla parte di G&A: e allora attribuiremo senz’altro le performance debolucce della nostra domanda interna al freddo fuori stagione e di certo al paziente ammalato prescriveremo – come si faceva quando il prestigio contava più dei fatti e si amava la dottrina per l’insegnante – un bel salasso. Buona morte a tutti.

Passata la retata, Milano è tornata all’apericena

Passata la tempesta, Milano torna a far festa. Ha dimenticato in fretta lo choc della grande retata del 7 maggio, oltre 90 indagati, 43 arresti, gare truccate, un fiume di mazzette, uomini politici a libro paga di imprenditori disposti a pagare, funzionari pubblici pronti a vendersi per un piatto di lenticchie. E non ha proprio preso atto che, rispetto alla Tangentopoli di 27 anni fa, oggi c’è una novità, nerissima: dietro all’imprenditore che si compra il politico, ora c’è anche il boss della ’ndrangheta. Politico, imprenditore, mafioso: insieme a Milano come nella Sicilia del “tavolinu”. Nessuno si agita. Il sindaco Giuseppe Sala minimizza l’impatto della corruzione e rilascia serene interviste dagli Stati Uniti in cui recita il ruolo di chi è pronto a fare il grande salto come candidato del centrosinistra a Palazzo Chigi (E non si mostra preoccupato per la condanna a 13 mesi, per falso in atti Expo, richiesta dal pm al processo in cui è imputato). Ha fortuna, Giuseppe Sala. Fortuna e buona stampa: ha fatto passare, aiutato dai giornali amici (quasi tutti), la convinzione che il centro della rete di corruzione svelata dall’inchiesta “Mensa dei poveri” sia il Pirellone della Regione Lombardia. In effetti, a raggiungere questo risultato lo ha aiutato il suo amico Attilio Fontana, il presidente leghista scivolato in comportamenti di certo discutibili (se siano anche reati lo stabiliranno i giudici) come affidare incarichi, pagati con soldi pubblici, al suo socio di studio, l’avvocato Luca Marsico: lo ha piazzato in una commissione regionale, gli ha fatto assegnare una consulenza delle Ferrovie Nord e finanche un mandato a difendere l’ospedale Fatebenefratelli contro un gruppo di medici.

Il centro della rete di corruzione svelato dall’inchiesta “Mensa dei poveri”, però, non è il Pirellone, ma Palazzo Marino. È attorno agli appalti del Comune e delle sue società partecipate (Amsa, A2a…) che ronzava il ras delle tangenti Daniele D’Alfonso (arrestato), imprenditore socio e prestanome del boss calabrese Giuseppe Molluso, collegato con i Barbaro-Papalia di Buccinasco (Milano) e di Platì (Reggio Calabria). Siede a Palazzo Marino come consigliere comunale Pietro Tatarella (arrestato), candidato di Forza Italia alle Europee. Sono dipendenti del Comune il dirigente dell’Urbanistica Franco Zinna e la geometra Maria Rosaria Coccia (indagati), pronti a concedere licenze per compiacere il forzista Fabio Altitonante (arrestato). È un uomo della galassia del Comune Mauro De Cillis (arrestato), responsabile operativo dell’Amsa, l’azienda milanese dei rifiuti, che secondo l’accusa trucca le gare d’appalto per lo sgombero neve, per la raccolta dei rifiuti pericolosi, perfino per la pulizia delle aree per cani e bambini, in accordo con un altro imprenditore vicino alle cosche, Renato Napoli. Ha ragione il consigliere comunale Basilio Rizzo: “Mi sembra che non si sia colta la portata di quello che è accaduto nella nostra città. Noi abbiamo il dovere di fare tutto quello che è utile per impedire che episodi come questi si ripetano. Sono emerse cose che non sono giudicabili dalla magistratura, ma sono fatti: spartizione di nomine e di incarichi, bandi costruiti su misura, appalti assegnati per spartizione predeterminata, decisa dagli operatori e non da chi deve decidere. Tre o quattro anni fa, in occasione di altre indagini, avevo richiesto più volte in Consiglio i famosi audit di cui non ho saputo nulla. Se niente cambia, come possiamo non pensare che tra due anni le cose si ripeteranno? Che cosa ci facevano gli uomini della Mm ai pranzi insieme agli arrestati? E le aziende citate nelle carte dell’inchiesta stanno lavorando ancora per la nostra amministrazione?”. Aspettiamo risposte da Sala, possibilmente prima che parta per Palazzo Chigi.