Gli argomenti fallaci del prof. Cassese

Il professor Cassese, quale Giove tonitruante, scaglia dalle colonne del Corriere della Sera moniti e anatemi ai governanti gialloverdi. Gli ultimi strali (pubblicati il 13 maggio) si dirigono sugli ultimi atti legislativi in virtù dei quali si procederà a migliaia di assunzioni nel pubblico impiego. Di queste, una quota importante servirà a stabilizzare precari e a mantenere in servizio dipendenti a tempo determinato, personale cioè inserito nella Pubblica amministrazione da governi che il noto docente continua a elogiare. Come dire: il ricorso al precariato come pratica elusiva del principio costituzionale del concorso pubblico va bene se usato da un governo di centrosinistra, mentre una misura organica e di rispetto della dignità dei lavoratori, anche in aderenza a regole europee, va criticata se proviene dal governo in carica.

Gli argomenti del noto giurista non sono proprio convincenti. Il primo evoca due dubbi: serviranno sul serio queste assunzioni e così non si aumenterà la spesa? In realtà la risposta è nel corpo dell’articolo, dove si ammette che l’età media dei dipendenti pubblici supera non di poco i 50 anni (il che impone un celere ricambio) e che la spesa pubblica aumenterà solo quando i nuovi assunti avranno acquisito una certa anzianità. Cioè più o meno tra una decina d’anni.

Il secondo quesito manifesta perplessità sul metodo dei rimpiazzi lineari nella logica del turn over, senza cioè calcolare prima i carichi di lavoro e le esigenze degli utenti. L’approccio del professore non è nuovo. Un tentativo di calcolo, implicito alla corretta applicazione della legge n. 241 del 1990, richiese sei anni buoni per una sua prima sistemazione. Ripetendolo, anche se modificato secondo i dettami del Giudice costituzionale emerito, potremmo arrivare intorno al 2025, giusto in tempo per assistere allo svuotamento totale, con relativa chiusura, degli uffici pubblici. Con il ricorso alla mobilità, poi, sono possibili notevoli assestamenti, così che la tematica può ritenersi tranquillamente superata.

Il terzo difetto del sistema sarebbe costituito dallo scorrimento delle graduatorie anche agli idonei, meno preparati e capaci dei vincitori di concorso. Qui il professore, dispiace constatarlo, non ha letto bene. Mentre i precedenti governi, alcuni da lui tanto lodati, consentivano il recupero di idonei di graduatorie vecchie anche di 18 anni, il governo Conte ha, con il comma 362 dell’articolo 1 della legge di Bilancio, introdotto una disciplina transitoria stringente e con un esame per saggiare la permanenza dell’idoneità per le graduatorie, risalenti al massimo a nove anni fa, e ridotto progressivamente fino al triennio la validità delle graduatorie successive al 2014. Una metodica corretta che contempera aspettative consolidate, l’esigenza di acquisire tempestivamente professionalità adeguate e di favorire in prospettiva solo l’ingresso dei migliori.

Il quarto difetto riguarda la scelta di far svolgere i concorsi secondo le ordinarie procedure, cioè quelle tuttora vigenti, senza prescrivere alcun miglioramento delle stesse. Il testo del quale il professor Cassese rimprovera al governo gialloverde la mancata modifica è quello che il medesimo, nelle vesti di ministro (del governo Ciampi), ha sottoscritto 25 anni fa (Dpr 9 maggio 1994, n. 487)! La critica contro la procedura concorsuale come prova (citiamo le parole dell’illustre accademico) “di capacità mnemonica e non come prova di qualità, di equilibrio, di esperienza, di capacità di discernimento” si rivela in realtà profonda e desolata autocritica. Il che, come concludeva spesso Giovannino Guareschi, è bello e istruttivo.

La galassia nera dei “demoni” di Salvini

In America, un libro come questo avrebbe la forza del Watergate. E in un qualunque Paese europeo, un libro che dimostrasse come il vicepremier e ministro dell’Interno è circondato da postnazisti che ne conducono la politica estera (e forse i flussi di finanziamento) e ne modellano l’ideologia e la retorica porterebbe a una crisi di governo. Temo che questo non succederà con I demoni di Salvini. I postnazisti e la Lega, di Claudio Gatti (oggi in libreria per Chiarelettere): ma mi domando cosa penseranno, dopo averlo letto, Sergio Mattarella (che fermò, a costo di lacerare la Costituzione, Paolo Savona ma non mosse ciglio contro la nomina di Salvini) o Luigi Di Maio e Matteo Renzi, che condividono la responsabilità (seppur in misura diversa) di aver inquinato, dandola in mano a un uomo di queste frequentazioni, la nostra sicurezza nazionale.

Non si tratta di un libro politico: è, nello stile asciutto e fattuale del suo autore, una classica inchiesta giornalistica. Aiutato dal fatto di vivere a New York, fuori dall’involuzione del giornalismo italico, Gatti allinea fatti, date, testi e lunghe interviste che confermano il canovaccio offertogli da una gola profonda: l’ingegner Alberto Sciandra, nazista pentito che è stato il primo infiltrato nella Lega (organizzatore, tra l’altro, della sceneggiata celtica con Bossi alle fonti del Po, nel 1996).

Ne scaturisce la ricostruzione agghiacciante della (riuscitissima) infiltrazione politica che spiega come sia possibile che un partito autonomista abbia abbracciato i più sanguinari centralisti, da Milosevic a Putin, attuale idolo di questa galassia nera.

Il libro dimostra come un nutrito gruppo di post-nazisti, formatisi nell’entourage eversivo di Franco Freda e del suo discepolo Maurizio Murelli (undici anni di galera alle spalle), sia entrato a livelli apicali nella Lega, fin dalla fondazione. Matteo Salvini nasce e cresce, politicamente, in questo ambiente. Si smonta la leggenda (abilmente costruita) del “comunista padano” e l’attuale uomo forte del governo è restituito alla sua identità reale: quella di un uomo di estrema destra nutrito di retorica, idee e soprattutto frequentazioni esplicitamente postnaziste. Non mancano i nessi col nazismo storico, quello di Hitler: nel lontano 1976 al futuro senatore Borghezio viene trovata in casa una divisa da ufficiale nazista (ah, la mania delle divise!), e Gianluca Savoini (per un lungo periodo portavoce di Salvini, e l’anno scorso tra gli organizzatori del suo viaggio in Russia da ministro dell’Interno) aveva nel suo ufficio della redazione della Padania una cornucopia di simboli hitleriani.

Ma non si tratta affatto di un manipolo di nostalgici, siamo lontani dai patetici sfigati di Forza Nuova o dai picchiatori di CasaPound: si tratta di politici lucidi, scrittori, editori che hanno abbandonato “la via del guerriero” e scelto quella “del sacerdote”. Una categoria pericolosa perché dissimulata, questa dei postnazisti. “Ma la più pericolosa di tutti – scrive Gatti – è quella dei cinici calcolatori che pensano di poter usare i postnazisti intelligenti. È la categoria di Matteo Salvini”, che “ha reso presentabile il pensiero postnazista”. Il cardine di questo pensiero è la teoria della “sostituzione del popolo”: per cui l’etnia europea bianca e cristiana sarebbe minacciata da un complotto giudaico-massonico che la vuole sostituire con neri musulmani. Una teoria espressa in termini quasi identici nel Mein Kampf di Hitler, nelle rivendicazioni di Brenton Tarrant (lo stragista delle moschee neozelandesi) e nei discorsi di Salvini: e questa affermazione non è un’illazione, o una calunnia, ma il semplice frutto di un banale confronto testuale, dalla forza dirompente.

Ciò che Gatti dimostra è che Salvini non è semplicemente saltato, all’ultimo momento, su una retorica “di destra”: la sua integrale sottoscrizione dell’essenza ideologica del postnazismo mondiale è invece il frutto di un lungo e accurato lavoro di un gruppo politico che ora viene per la prima volta messo a nudo.

Non si tratta di discutere come e quanto Salvini sia fascista: il punto non è quanto filologico sia il suo recupero del passato, ma quanto devastante sia il suo progetto per il futuro. Il consenso alle sue tesi è vasto, ed è stato alimentato da un’ingiustizia sociale devastante e da un disinvestimento in scuola e cultura che portano le firme di governi di centrosinistra almeno quanto quelle dei governi di centrodestra. Dunque, il punto non è costituire un fronte antifascista con chi ci ha condotto a questo punto, ma invertire la rotta finché siamo in tempo: capire quali demoni siano stati liberati da trent’anni di liberismo selvaggio è vitale, e questo libro sconvolgente è un passo nella direzione giusta. Visto che uno dei protagonisti è Marcello Foa, è verosimile che la Rai non gli dedicherà molto spazio: invece leggerlo e discuterlo è davvero fondamentale. Per il futuro della democrazia italiana.

Mail box

 

I valori della Costituzione sono il fondamento della democrazia

Secondo Massimo Fini (nel numero dell’11 maggio), la decadenza del mondo occidentale è imputabile alla crisi dei valori che sta lacerando il tessuto sociale delle democrazie. Il problema – aggiunge il giornalista – è stato ulteriormente aggravato dalla globalizzazione che ha alimentato nelle persone la sfiducia e l’insicurezza. Ha ragione quando dice che i valori condivisi favoriscono la coesione sociale e danno un significato alla nostra vita, ma non posso accettare nè il suo parere sulla democrazia, definita un contenitore vuoto che non propone valori, nè i suoi struggenti rimpianti delle teocrazie e delle monarchie assolute, che avendo proposto valori forti, hanno rafforzato il senso di appartenenza degli individui ad una comunità. Anche per una tribù di cannibali, mangiare carne umana è un valore, e pertanto tale abitudine alimentare condivisa rende più solidi i legami sociali. Ovviamente, la coesione sociale ottenuta a quel prezzo non è affatto auspicabile. Tornando al discorso sulla democrazia, ritengo che tale sistema politico si ispira ai valori della Suprema Carta che poggiano su solide e nobili basi razionali. Non credo, pertanto, che siano in crisi i valori espressi dalla Costituzione, che costituiscono sia il fondamento della nostra democrazia sia le mete ideali verso cui tendere, penso piuttosto che la “crisi” di cui parla Fini sia imputabile al fatto che esistono profonde divergenze sulle vie da percorrere per raggiungere tali mete.

Maurizio Burattini

 

Viene quasi da rimpiangere i tempi della Prima Repubblica

Prendendo spunto dalla scomparsa del politico socialista, il “lungimirante” Gianni De Michelis, un grande protagonista della Prima Repubblica, non si può non ricordare la tormentata stagione di Tangentopoli, quando con un “normale” avviso di garanzia, il politico di turno indagato rassegnava immediatamente le dimissioni dall’incarico istituzionale che ricopriva, cosa che non succede in questa cosiddetta “terza repubblica”. Dal 1992, quando scoppiò Mani Pulite, ad oggi, mi sembra stando ai fatti recenti che Tangentopoli non sia finita, anzi continua a un ritmo vertiginoso (vedi il caso del sottosegretario Siri). È meglio adesso o ieri? Come mai all’indomani dello scandalo di Tangentopoli, l’opinione pubblica si mobilità tutta scendendo nelle piazze, sorretta dalla stampa e dai telegiornali, mettendo in risalto le vicende di corruzione di molti esponenti autorevoli della classe politica di quel buio tempo istituzionale, non si è fatta lo stesso con i 49 milioni fatti sparire dalla Lega e “rubati” al popolo italiano? Forse non è da meravigliarsi se a differenza di allora, davanti all’hotel Rafhael di Roma, molti tirarono addosso a Bettino Craxi (ex primo ministro della Repubblica!) le monetine, additandolo a “ladro”, cosa non successa davanti alla sede della Lega in via Bellerio a Salvini, perché l’esponente leghista, attualmente vicepremier e ministro, disse: “Il popolo è con noi!”. Sarà comunque la magistratura italiana, “sentinella” della nostra democrazia, che ci tutela dalla cattiva politica, a fare il suo corso e a colpire dove esiste il marcio. Comunque, la Lega dovrebbe rimborsare a rate i 49 milioni sottratti allo Stato italiano, in non so quanti lustri: una farsa legalizzata!

Rolando Marchi, Socialista attivista Prima Repubblica

 

DIRITTO DI REPLICA

Con riferimento all’articolo “L’ultima di Autostrade: riciclare vecchie barriere”, è opportuno precisare che il giornale riporta in chiave critica stralci di un parere del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici che, invece, non contengono alcuna contestazione tecnica alle scelte effettuate da ASPI in tema di barriere. Tale parere, citato dal giornalista, non è ancora noto alla società che dunque ha formulato un’istanza di accesso per avere evidenza del documento integrale, rispetto al quale si riserva di esprimere le proprie valutazioni. Gli interventi eseguiti sulle barriere, con la sostituzione degli ancoranti alla base, rientrano nelle attività manutentive che le Direzioni di Tronco svolgono regolarmente su tali dispositivi, garantendone la piena efficienza funzionale. La specifica attività è stata eseguita e collaudata sulla base di un progetto sviluppato da autorevoli esperti del mondo accademico. Nonostante l’assenza di qualsiasi obbligo normativo, la società ha scelto di sottoporre le stesse barriere a prove di crash secondo gli standard vigenti, ottenendo la certificazione di conformità CE per i massimi livelli di contenimento. Sulla questione Autostrade per l’Italia ha sempre assicurato al MIT, al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e alla Procura la massima disponibilità per qualsiasi informazione, approfondimento o verifica. È dunque fuorviante e del tutto priva di fondamento la tesi, espressa nell’articolo, secondo cui le barriere in questione non sarebbero più sicure e idonee a svolgere la propria funzione.

Ufficio Stampa Autostrade per l’Italia

 

L’ufficio stampa della società Autostrade confessa di non conoscere il parere del Consiglio superiore dei lavori pubblici sulle barriere New Jersey piazzate sulla rete autostradale di cui il Fatto Quotidiano ha dato notizia. Forse è opportuno che almeno lo leggano prima di parlarne dando pure giudizi.

Daniele Martini

Sport e sport. Il ciclismo convive sempre con la sofferenza, il calcio con la recita

Gentile redazione, ieri mi ha molto impressionato l’incidente al Giro di Tom Dumoulin, ma mi ha ancora di più impressionato lo stoicismo e la pervicacia con cui il ciclista ha portato a termine la tappa, nonostante il ginocchio dolorante e sanguinante. Per paradosso, mi sono venuti subito in mente i tanti calciatori leccati, imbellettati, truccati, che spesso e volentieri simulano cadute o frignano per niente. Perdonate lo sfogo, ma col calcio ho il dente avvelenato (causa marito dipendente).

Gentile Mariella, lei sfonda una porta aperta: il ciclismo convive sempre con la sofferenza, il calcio spesso con la recita. Con questo non voglio negare che durante una partita non capitino infortuni piuttosto gravi, alcuni tali da distruggere la carriera. Non è una gara a chi si fa male di più: pensiamo allora al pugilato… No, la plateale differenza tra i due sport sta nell’abnegazione, nell’impegno, nella fatica: nel ciclismo spesso estremi. Il calcio è un’altra storia. Concede ai giocatori pause, il campione realizza i gol, ma senza una squadra forte non vince il campionato. Se rallenti, nel ciclismo, finisci lontano. Il campione non ha sconti, nei momenti decisivi deve andare all’attacco. E poi, altra differenza sostanziale, il campo di calcio è piatto, mentre il ciclismo affronta strade che s’impiccano in cielo, con discese a tomba aperta. Lì il corridore non ha alibi. O spingi sui pedali, o soccombi. O sfiori i muretti delle discese, schiacciato sul telaio per acquistare velocità, o perdi terreno.
Mariella Rizzi

 

Albert Londres, scrittore, poeta e grande giornalista, scrisse nel 1924 un reportage sul ciclismo divenuto leggendario: “Tour de France, tour de souffrance”. Tom Dumoulin si è ritirato ieri, dopo aver tentato di continuare il Giro. Due piccoli chilometri di dolore e rabbia. Poi è sceso dalla bici. Aveva le lacrime agli occhi. Il ritiro viene vissuto da ogni campione come una fatalità ingiusta. Tom è stato vittima della distrazione di un corridore che gli stava davanti. Il sangue eruttava dalla ferita ma lui si è rimesso in sella, senza far scenette come certi calciatori che esagerano l’impatto con l’avversario o simulano colpi che non hanno ricevuto. Non ha urlato, né ha preso a cazzotti il colpevole dello schianto. Ha rispettato il ciclismo: che significa tenacia, resistenza, orgoglio.
Leonardo Coen

I furbetti dell’Asl: al mare durante l’orario di lavoro

C’era chi andava al mare, a spasso o chi si vantava di fare la “solita pausa caffè” anziché andare al lavoro. Nell’ambito di un’operazione condotta dalla Guardia di finanza di Foggia, otto dipendenti pubblici in servizio nell’Azienda sanitaria locale, a San Severo sono finiti agli arresti domiciliari. L’accusa è di truffa a danno di un ente pubblico, quantificata in oltre 80 mila euro. Oltre 5.300 ore di presenze false, stando a quanto emerso dalle indagini, a partire dal 2014. Le fiamme gialle di San Severo, coordinate dalla Procura foggiana ha scoperto che numerosi dipendenti dell’ospedale di San Severo attestavano la propria presenza in ufficio ma, di fatto, erano impegnati a fare tutt’altro. C’è chi è stato sorpreso mentre passeggiava, sorseggiava un caffè o era in un lido balneare. Gli indagati, secondo gli inquirenti, oltre a non usare il badge quando si allontanavano dall’ufficio, provvedevano ad alterare le informazioni contenute nel sistema informatico di registrazione delle presenze, direttamente o grazie a due colleghi addetti all’inserimento dei dati nel database delle attività di servizio prestate, accusati di essere complici nella truffa.

Senza stipendio, ora sono i docenti a occupare l’istituto musicale

Gli squilli di tromba alle sette di mattina sono il segnale che è ora di alzarsi. Qualcuno apre gli occhi senza ricordarsi subito dove si trova. Succede anche questo all’interno dell’istituto musicale di Terni “Giulio Briccialdi”, occupata dai docenti dalla notte di lunedì 13 maggio. “Ci sono due brandine che lasciamo ai professori ‘di turno’ per l’occupazione. Io non ho nemmeno dormito” spiega un insegnante che chiede di restare anonimo. Nell’assemblea di lunedì sera che si è protratta fino alle 5 del mattino i docenti avevano deciso che per ogni notte due di loro sarebbero rimasti nel “Briccialdi”, poi per solidarietà si sono ritrovati numerosi, circa 13.

“C’è chi suona, chi guarda un film e chi discute anche in modo acceso. Facciamo comunità al di fuori degli orari di lezione” racconta un altro professore. I motivi della contestazione sono gli stipendi arretrati, la domanda di maggior chiarezza sui tempi e sui modi della procedura di statizzazione del “Briccialdi” e sul piano di rientro del debito di 3,1 milioni di euro. “Siamo qui da così tanti anni che siamo un po’ soci-azionisti dell’istituto” aggiunge un altro professore “e più che sentirci dire i numeri vorremmo vedere le carte delle convenzione col Comune di Terni” (che versa 700mila euro in due anni) “di quella con la Regione” (450mila in un triennio) “e il bilancio”. L’occupazione prosegue nonostante la contrarietà del presidente dell’istituto Letizia Pellegrini: “Patisco il disagio dei lavoratori ma non avallo la forma della protesta e vi invito a rivederla. È un atto illegale”. La presidente lunedì aveva risposto ai docenti: “Ad oggi la stabilizzazione è a un passo e i ritardi sugli stipendi dipendono dal Ministero dell’istruzione”. Gli occupanti un risultato lo hanno già ottenuto: il vicepresidente della Regione Umbria Fabio Paparelli è disposto ad aprire un tavolo di lavoro al Miur, coinvolgendo l’istituto e il sindaco di Terni Leonardo Latini.

Dopo le scritte sui muri e lettere, nuova minaccia alla Appendino: una busta con un proiettile

Un’altra lettera minatoria. Martedì la sindaca di Torino Chiara Appendino ha ricevuto un proiettile all’interno di una busta. “Non è la prima volta – ha minimizzato lei ieri –. Continuerò a fare il mio lavoro con la massima determinazione”. La frequenza inquieta. Già il 3 novembre a casa sua aveva ricevuto una lettera: “Tu e la tua setta di falliti 5 Stelle avete ucciso Torino – si leggeva –. Adesso devi morire. Sappiamo dove vivi tu e la tua famiglia. Dormi molto preoccupata”. Poi dopo lo sgombero dello squat di anarchici, l’Asilo, avvenuto il 9 febbraio, in città erano comparse alcune scritte contro di lei, tra cui “Appendi Appendino”. E ancora: il 5 marzo, durante un corteo degli anarchici, compare un manichino senza testa davanti al negozio di famiglia. A questo punto le viene assegnata una scorta, ma le minacce proseguono. Il 30 marzo, giorno di una manifestazione anarchica, su un muro si leggeva “La scorta non ti basta” e il primo aprile le arriva un plico esplosivo con un mittente fasullo: “Scuola A. Diaz – Via C. Battisti – 16145 Genova”, in riferimento al luogo in cui la polizia picchiò alcuni militanti contro il G8 del 2001. A distanza di poco più di un mese, una nuova busta, senza messaggio e mittente, ma con un proiettile calibro nove e l’indirizzo scritto col normografo su un’etichetta. Le indagini sono incorso e stavolta, a differenza di altri casi, la Digos non privilegia la pista anarchica. Nel frattempo alla sindaca M5s sono arrivati messaggi di solidarietà da ogni parte politica. “Da uomo e da ministro totale sostegno e solidarietà al sindaco e alla mamma Chiara Appendino”, afferma Matteo Salvini. L’ex sindaco Piero Fassino sottolinea “la viltà umana e lo squallore morale” dell’autore del gesto. “Fare il sindaco è una scelta che richiede coraggio e Chiara Appendino ne ha sicuramente molto”, ha scritto il sindaco di Milano Beppe Sala su Twitter.

Uccise un ladro in azienda, i pm: “Archiviare le accuse per Pacini sulla base della vecchia legge”

Non c’è stato nemmeno bisogno della nuova legge sulla legittima difesa: per la Procura di Arezzo, lo scorso 28 novembre, il gommista Fredy Pacini sparò e uccise il ladro di 29 anni Vitalie Marcea perché quest’ultimo aveva minacciato la sua incolumità. Quindi va archiviato. La richiesta, firmata dal pubblico ministero Andrea Claudiani, è stata depositata ieri mattina e adesso sarà il gip di Arezzo a dover decidere. Dopo cinque mesi di indagini i pm sono arrivati alla conclusione che si sarebbe trattata di una “legittima difesa putativa”, il vecchio articolo del codice penale secondo cui, pur in assenza di una reale aggressione fisica, non è perseguibile penalmente colui che si sente minacciato e in effettivo pericolo di vita. Nella notte tra il 27 e il 28 novembre scorso, dopo aver rotto una finestra, due ladri di origine moldava erano entrati nell’officina di Pacini a Monte San Savino (Arezzo) armati di piccone. Il gommista, che dormiva lì dopo aver subito diversi tentativi di furto, aveva reagito sparando cinque colpi di pistola (regolarmente detenuta) alle gambe di Marcea che era morto sul colpo. Decisiva sulla decisione dei pm è stata la perizia balistica con l’uso di un manichino: ai carabinieri, infatti, il gommista aveva raccontato di aver sparato dall’alto verso il basso (dal soppalco del suo capannone al piano terra) mentre l’autopsia aveva stabilito che il proiettile aveva perforato la gamba del ladro dal basso verso l’alto. La perizia svolta nelle scorse settimane ha dato ragione a Pacini e per questo, sostengono i pm, ci sono gli estremi per la legittima difesa putativa. “Non riprenderei in mano una pistola – ha detto ieri il gommista di Arezzo che è tornato a dormire a casa –. Se dovessi dare un consiglio dopo la mia esperienza, direi a tutti di non prendere le armi perché è un vivere nel terrore”. Ieri anche il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha chiamato il gommista per felicitarsi con lui.

Gioielli e una cappella funeraria: sequestro da un milione e mezzo al clan Casamonica

Conti correnti, auto, contanti, gioielli, una polizza assicurativa da 500 mila euro e una cappella funeraria gentilizia, costruita nel cimitero di Ciampino, costata circa 80 mila euro. Il tesoro della famiglia Casamonica è finito sotto sequestro preventivo, pari a un milione e mezzo di euro, eseguito dal Nucleo operativo dei carabinieri di Frascati su richiesta della Direzione Distrettuale Antimafia. Da oltre un anno, la Procura ha sferrato duri colpi al “clan degli zingari”, la famiglia rom e sinti originaria dell’Abruzzo e spostatasi nella Capitale a ridosso degli anni 70, diventata con il tempo i “padroni incontrastati” dell’area Appia-Tuscolana.

Tutto ha inizio lo scorso luglio 2018, con l’operazione “Gramigna” istruita dal procuratore aggiunto Michele Prestipino e dal sostituto procuratore Giovanni Musarò. In 37 finiscono in carcere con l’accusa di usura, estorsione, intestazione fittizia di beni, spaccio di stupefacenti, detenzione di armi. Per la prima volta i magistrati romani contestano l’associazione di stampo mafioso ai Casamonica, capaci di aver messo in piedi un giro di usura con “tassi di interesse che arrivano al 1000%”. Tra le vittime dell’usura, anche personaggi della spettacolo, come una ex velina o il conduttore radiofonico Marco Baldini. Gli investigatori delineano anche lo schema organizzativo, con la cellula centrale nel fortino di Porta Furba formata da Giuseppe Casamonica, detto “Bitalo”. La costola del clan, più spostata sulla Romanina, è gestita dai fratello Luciano e Consiglio Casamonica. Il secondo colpo è invece inflitto ad aprile scorso. Questa volta sono 23 le persone finite in manette con l’accusa di usura, estorsione, intestazione fittizia di beni, cessione di sostanze stupefacenti, e in questo caso è contesta l’aggravante mafiosa. Un clan in cui hanno un importante ruolo anche le donne, sette di loro coinvolte nell’inchiesta, che dopo l’arresto dei mariti avrebbero preso le redini della famiglia. Tra loro c’è Asia Sara Casamonica, che per mandare un “messaggio allo Stato e ai cittadini romani”, si legge negli atti, era tornata a occupare nell’ottobre scorso la “casa simbolo” della famiglia, appartenuta un tempo al boss Giuseppe Casamonica, e poi confiscata nel 2014.

Negli atti, il gip spiega che “il popolo deve avere paura quando sente il cognome dei Casamonica”, che utilizza i social “network e l’ostentazione della ricchezza illecita” come una vera e propria “strategia criminale”. Gli esponenti del clan fanno un uso “smodato di Facebook e Instagram” per pubblicare fotografie di Rolex e auto di lusso “con fare smargiasso”. Si mostrano spavaldi e potenti, ma soprattutto minacciosi e violenti contro le vittime, che per paura non denunciano mai.

Gli ultimi sviluppi investigativi, oltre al sequestro di ieri, hanno permesso di arrestare Giorgio Vitale e Michele Panza, accusati di intestazione fittizia di beni, perché si sarebbero attribuiti la titolarità di due auto che in realtà erano di proprietà dei Casamonica, consentendo al clan di eludere le leggi sulle misure di prevenzione patrimoniale.

“Atto arbitrario delle forze di polizia”. No Tav assolti a Torino

Il tribunale di Torino ha assolto quattro attivisti No Tav della Valle di Susa processati per un parapiglia con le forze dell’ordine e, come si ricava dal dispositivo, ha applicato anche la speciale causa di non punibilità prevista per chi reagisce a un “atto arbitrario di un pubblico ufficiale”. L’episodio contestato risaliva al 2015 e si era verificato nei pressi del cantiere del Tav a Chiomonte. I quattro, a seconda delle singole condotte, rispondevano di resistenza a pubblico ufficiale, oltraggio, lesioni, danneggiamento, inosservanza dei provvedimenti dell’autorità. La ‘non punibilità’ è stata riconosciuta a uno di loro; per gli altri è arrivata l’assoluzione. Il 3 ottobre 2015 cinque europarlamentari si presentarono nei pressi del cantiere insieme a una cinquantina di attivisti No Tav della Valle di Susa. Le forze dell’ordine si posizionarono in modo da impedire alla comitiva di varcare un ponte su un corso d’acqua. Fu permesso il passaggio a uno dei parlamentari (con un piccolo gruppo di No Tav). In seguitò però si verificarono degli scontri. Le difese hanno sostenuto che gli agenti hanno travalicato i limiti. “È la prima volta in tanti anni – dicono – che vediamo riconosciuta la causa di non punibilità per atto arbitrario”.