Xylella, ok al taglio selvaggio sulla base di analisi contestate

“Il Parlamento condanna a morte 11 milioni di ulivi della Puglia”. Così ieri in Senato Lello Ciampolillo (M5S) ha salutato l’approvazione definitiva del decreto Emergenza, che prevede la distruzione degli ulivi, anche millenari, in deroga a ogni legge. I proprietari potranno espiantarli tutti. “Il premier Conte ha pure invitato il governatore Emiliano al taglio degli ulivi. Un comportamento oltraggioso”, ha aggiunto Ciampolillo. È l’esito della forte accelerazione a favore degli espianti nella zona infetta, dopo il ritrovamento di un ulivo positivo a Xylella lo scorso gennaio a Monopoli, nel barese (zona considerata non contaminata dal batterio). L’ulivo era diventato il simbolo dell’espansione di Xylella a nord. Ma le analisi si sono rivelate sbagliate.
La Procura di Bari ha sequestrato l’ulivo dopo le analisi positive di gennaio, nell’ambito dell’inchiesta tuttora in corso e lo ha dissequestrato il 10 aprile. A quel punto l’Osservatorio Fitosanitario pugliese dispone nuove analisi che, però, danno esito negativo. Niente Xylella, l’ulivo non si taglia più, e nessuna espansione a nord almeno finora.

Il problema è che quattro anni fa la Regione aveva avviato un campionamento anti-Xylella su 350 mila piante per anno. Sulla base dei monitoraggi, sono state abbattute le piante risultate infette nelle zona di contenimento a nord del Salento e, per la zona cuscinetto, anche di quelle nel raggio di 100 metri. Il monitoraggio è gestito da un’unica rete di 6 laboratori di ricerca pubblici pugliesi (la Selge) coordinata dall’Università di Bari. L’ulivo di Monopoli si è salvato grazie al sequestro, ma quante piante potrebbero essere state abbattute sulla base di analisi sbagliate? Nessun altro laboratorio, oltre ai Selge, può infatti effettuare analisi prima di abbattere perché è vietato per legge. L’Osservatorio non ha risposto alle domande del Fatto.

È il secondo colpo alla credibilità scientifica degli istituti baresi che dal 2013 hanno gestito le ricerche su Xylella, i fondi europei (30 milioni) e i campionamenti. La Procura di Lecce ha appena archiviato le accuse di inquinamento ambientale a carico di dieci tra funzionari della Regione e ricercatori dell’Università di Bari, Cnr, del Centro di Ricerca Basile Caramia (i Selge) e Iam, tutti nel barese. Ma nel decreto di archiviazione delinea un quadro scientifico di “irregolarità, pressapochismo e negligenza” anche nelle operazioni di campionamento “ad onta della asserita scientificità dei metodi utilizzati”. Dal 2013 gli istituti hanno gestito l’emergenza “in regime di monopolio”, con “preponderanza dell’interesse economico ovvero la prospettiva di ottenere finanziamenti, rispetto alle finalità della ricerca”.
Intanto ieri l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare Efsa ha emesso una nuova valutazione del rischio Xylella salentina per l’Europa che valuta anche l’approccio alla cura di Marco Scortichini, batteriologo e Dirigente dell’Istituto di ricerca Crea. Dopo 3 anni di sperimentazione e due pubblicazioni, una miscela di rame, zinco e acido citrico spruzzata su 20 piante disseccate le ha fatte tornare verdi. Quelle non trattate sono invece morte. Efsa ammette che il trattamento riduce i sintomi della malattia dell’ulivo, ma che non è una cura perché “non elimina completamente il batterio” e non si conoscono gli effetti del trattamento a lungo termine. Ma come si potrebbero conoscere, se la malattia stessa è stata scoperta pochi anni fa?

Nelle malattie delle piante è raro che gli scienziati si pongano l’obiettivo di eliminare completamente l’agente patogeno in aree molto grandi dove è diffuso da anni. “Non è lo scopo del nostra studio – spiega Scortichini al Fatto. – Ma ridurre la carica batterica così che la pianta torni a produrre. È impossibile eradicare un batterio da un’area vasta e dopo anni in cui è presente. Xylella non si potrà più eliminare in Salento”. Espiantare gli ulivi nella zona infetta è inefficace, “perché la Xylella infetta anche una trentina di erbe che si trovano nei campi e nei fossi in Salento”. Scortichini è anche co-autore di una pubblicazione appena uscita sulla rivista Applied Biosafety proprio sui dati dei campionamenti in Puglia negli ultimi due anni. Rivela che su 3.300 piante con i sintomi del disseccamento campionate nella zone cuscinetto e contenimento nel 2017 e 2018 non è stata trovata Xylella. E circa 1.300 senza sintomi sono invece positive a Xylella. “Non tutte le piante sintomatiche hanno Xylella, quindi non necessariamente vanno eradicate.” Il decreto prevede che i proprietari nella zona infetta possono estirpare ulivi sani o malati, senza analisi, per 7 anni, senza vincoli ambientali.

Luttazzi in Rai, il nodo compenso. Ma l’intesa sembra possibile

Mentre sui contenuti del programma la trattativa procede senza intoppi (il conduttore avrà carta bianca, ma la rete si riserva di visionare la puntata prima della messa in onda), qualche nodo rimane sul fattore economico. Il nuovo programma di Daniele Luttazzi, otto puntate che dovrebbero andare in onda su Rai2 dal prossimo autunno in seconda serata, somiglierà molto a Satyricon. La cifra chiesta dallo showman come compenso, da quanto trapela, è di 100 mila euro a puntata, come anticipato martedì da Repubblica. Il nodo – come emerso la scorsa settimana nell’incontro tra Carlo Freccero e il manager di Luttazzi, Roberto Minutillo – è che la cifra deve tener conto del budget della rete. E per questo dall’azienda viene considerata comunque alta. Rai2 ha chiesto a Luttazzi, tramite la casa di produzione Ballandi, di avanzare un’altra proposta di accordo. Dal manager di Luttazzi, Roberto Minutillo, trapela però un certo fastidio per la fuga di notizie su una cifra ancora oggetto di trattativa. A Rai2, però, sono fiduciosi di superare l’impasse e di riportare in onda Luttazzi a 17 anni dall’editto bulgaro di Silvio Berlusconi.

Cucchi, Trenta dà l’ok: “L’Arma parte civile”

Via libera del ministero della Difesa, guidato da Elisabetta Trenta, alla costituzione di parte civile del Comando generale dell’Arma dei carabinieri se ci sarà il processo a otto, tra ufficiali e carabinieri, per il depistaggio delle indagini sulla morte, nel 2009, di Stefano Cucchi, il giovane arrestato e, secondo la Procura di Roma, pestato da tre carabinieri, ora a processo per omicidio preterintenzionale.

A partire dal 21 maggio, infatti, ci sarà l’udienza preliminare per le indagini bis, quelle su una serie di presunti falsi e depistaggi – secondo il pm Giovanni Musarò – messi in atto quando era stata riaperta l’inchiesta su Cucchi. Otto gli indagati, tra cui un generale, Alessandro Casarsa (ex capo dei corazzieri del Quirinale fino a gennaio), quattro ufficiali e altri carabinieri. Se i militari saranno rinviati a giudizio, l’Arma potrà costituirsi parte civile al processo.

Il comandante Giovanni Nistri, ai primi di maggio, aveva inoltrato una richiesta di autorizzazione di costituzione di parte civile al ministero della Difesa. Che ha dato il proprio consenso.

All’udienza preliminare di martedì prossimo sarà parte offesa anche l’appuntato scelto Riccardo Casamassima che, con la sua testimonianza, ha fatto riaprire le indagini sulla morte del giovane. Casamassima, però, a sua volta ha una grana: il pm Giuseppe Bianco ha chiesto per lui e per la sua compagna, l’appuntato Maria Rosati, anche lei testimone al processo Cucchi, il rinvio a giudizio per detenzione di droga a fini di spaccio. Nel capo di imputazione si legge che i due carabinieri “in concorso tra loro detenevano nella loro casa a Roma quantitativi non determinati di cocaina”. Dura la reazione dell’avvocato di Casamassima, Serena Gasperini: “Non è stata trovata droga, la perquisizione domiciliare del 2014 ebbe esito negativo. Questa richiesta di rinvio a giudizio è un attacco strategico e un’intimidazione per un teste chiave al processo Cucchi”. La perquisizione era stata ordinata a seguito di un’intercettazione.

“Non è la prima volta che vengono fatti tentativi per delegittimarmi – ha detto Casamassima –, ci sono anche altri procedimenti penali a mio carico”. L’inchiesta, nata a Viterbo nel 2014, vede indagate altre tre persone, tra cui una donna, accusate, a vario titolo, di estorsione e possesso d’arma da fuoco. La donna aveva avuto in precedenza contatti con la Rosati. La testimonianza di Casamassima sulla morte di Cucchi è servita all’accusa per riaprire le indagini. A sostegno della tesi della Procura, che punta il dito per la prima volta contro i carabinieri, però, ci sono soprattutto altri testimoni, come Luigi Lainà, che racconta di aver saputo da Stefano, la sera della detenzione, che erano stati i carabinieri a picchiarlo o Anna Carino, ex moglie di Raffaele D’Alessandro, uno dei militari sotto processo. “C’ero pure io, quante gliene abbiamo date”, le avrebbe confidato, secondo Carino, il suo ex marito.

I camalli genovesi pronti a boicottare la nave con gli armamenti per Ryad

La richiesta di Amnesty International e di altre associazioni di impedire l’attracco a Genova della Bahri Yanbu, nave che si sospetta sia carica di armi destinate alla guerra nello Yemen non ha trovato risposta istituzionale. Ad accoglierla, invece, sono stati i portuali e la Filt Cgil. Il sindacato ha infatti sposato la ricostruzione di Amnesty: la nave, proveniente dagli Usa, avrebbe caricato munizioni ad Anversa mentre a Le Havre, a causa del boicottaggio delle associazioni civili, non avrebbe potuto imbarcare i cannoni previsti. Rimediando poi probabilmente, a Santander, dove è stato effettuato un attracco non programmato. Armi dirette in Arabia, ma – riporta la Reuters – non destinate secondo Emmanuel Macron all’utilizzo saudita nello Yemen. La Cgil vuole chiarezza però dalle istituzioni italiane perché “il Trattato internazionale sul commercio delle armi impone ai Paesi coinvolti nel trasferimento di attrezzature militari verso paesi coinvolti in conflitti armati (come l’Arabia nello Yemen) di verificare se le armi possano essere impiegate per commettere crimini di guerra o violazioni dei diritti umani e di conseguenza di sospendere le forniture”. I camalli sono pronti a intervenire. “Una possibilità è il presidio dei varchi portuali e l’invito ai lavoratori a non farsi complici di questi traffici”, spiega un delegato Culmv, la storica compagnia dei facchini portuali, protagonista negli anni 70 del boicottaggio delle navi Usa per il Vietnam. “È anche una questione di sicurezza del lavoro, dato che non sappiamo cosa ci sia in quella stiva. Ma da Genova non devono proprio passare carichi di qualsivoglia natura volti ad alimentare conflitti che coinvolgano i civili. Purtroppo è già successo, faremo di tutto perché non si ripeta”. Su ciò che la nave caricherà nel porto ligure il mistero è fitto. L’agenzia Delta, che rappresenta a Genova l’armatore saudita, nega si tratti di materiale bellico o pericoloso. La Capitaneria di Porto sostiene di non avere ricevuto il manifesto di carico e di non esserne comunque responsabile: “Su di esso devono vigilare Dogana e Prefettura”. Quest’ultima ha spiegato che “sono ancora in corso accertamenti sul carico della Yambu, che non arriverà comunque prima di sabato”.

Bombe per lo Yemen, guerra in Parlamento

Come anticipato dal Fatto, il M5S ha deciso di muovere un altro pedone nella sua partita a scacchi con la Lega. Stavolta si tratta di un tema altamente sensibile, il commercio di armi verso l’Arabia Saudita e che Ryad utilizza contro i civili nello Yemen.

L’iniziativa è stata annunciata ieri dal senatore Gianluca Ferrara, capogruppo del M5S in commissione Esteri in nome dei “diritti umani prima degli affari”. A essere interpellato è il sottosegretario leghista agli Esteri, Gianluca Picchi, a cui è andata la delega sulla legge 185 che regola le autorizzazioni del commercio di armi con l’estero.

Il gesto ha una valenza importante perché riguarda la possibilità o meno di bloccare il flusso di commesse che partono dal nostro Paese verso l’Arabia Saudita in virtù dell’autorizzazione concessa nel 2016 dal governo Renzi, dal valore di 411 milioni. “Oggi ho presentato un’interrogazione parlamentare – dichiara Ferrara – per conoscere le ragioni per cui non si sia ancora provveduto a sospendere le consegne delle bombe aeree della Rwm vendute dal governo Renzi all’Arabia Saudita, che le utilizza in Yemen in violazione del diritto internazionale. Vogliamo capire dalla Farnesina, nello specifico dal sottosegretario Guglielmo Picchi, che ha la delega in materia, se la legge 185 del 1990 non fornisce sufficiente copertura legislativa per procedere subito con la sospensione”, conclude il senatore.

Il punto è tecnico e politico allo stesso tempo. Sul piano tecnico, le bombe aeree prodotte a Domusnovas, in Sardegna, dalla Rwm Italia sono il frutto di accordi pluriennali di vendita autorizzati nel corso del 2016 dal governo Renzi. Nel 2016, però, la risoluzione del Parlamento europeo del 25 febbraio chiedeva all’Unione europea di imporre un embargo sulle armi all’Arabia Saudita “tenuto conto delle gravi accuse di violazione del diritto umanitario internazionale”. Tale determinazione non è però stata ritenuta sufficiente dall’Unità per le autorizzazioni dei materiali d’armamento (Uama), a cui la legge conferisce il potere di concedere le autorizzazioni, e che risponde al ministero degli Esteri, quindi a Picchi che ha la delega, ad accertare le gravi violazioni dei diritti umani che avrebbero potuto costituire un fattore ostativo al rilascio delle autorizzazioni.

Gli interroganti lamentano il fatto che i contratti di fornitura sono secretati e quindi non si possono conoscere le condizioni di una eventuale disdetta, ma ricordano anche che il Trattato internazionale sul commercio di armamenti (Att), ratificato dall’Italia il 2 aprile 2014, stabilisce che, “qualora, a seguito dell’iniziale concessione di un’autorizzazione all’esportazione di materiali d’armamento, uno Stato esportatore venga a conoscenza di nuove informazioni rilevanti, esso può rivalutare la suddetta autorizzazione dopo eventuali consultazioni con lo Stato importatore”.

Da qui la richiesta al governo di sapere se la legge 185 non fornisca già di per sé “sufficiente copertura legislativa per procedere alla sospensione prevista dall’articolo 15”. E quindi si passa alla sottintesa domanda politica: il governo, e in particolare la Lega, ha la volontà o meno di chiudere questa partita che desta ormai uno scandalo insostenibile?

Assegnazioni case popolari: per l’Ue “rom discriminati”

La legge della Regione Lazio del 1999 sulle case popolari, che prevede per l’assegnazione degli alloggi criteri come la residenza ed eventuali sfratti, è “discriminatoria nei confronti delle popolazioni rom”. Per questo la Commissione europea ha in passato avviato, e concluso, una procedura di pre-infrazione, mai tradotta però – almeno finora – in una infrazione vera e propria. L’eventualità di un intervento europeo a favore dei nomadi però esiste, e tanto è bastato ad accendere – a valle dei fatti di Casal Bruciato a Roma e a una decina di giorni dal voto per il rinnovo dell’Europarlamento – la batteria del fuoco “sovranista” verso Bruxelles. A partire dal ministro dell’Interno Matteo Salvini, che oggi ha riferito alla Camera proprio sulle proteste per la concessione di una casa a una famiglia nomade alla periferia della Capitale: ci sono 17 persone deferite per resistenza a pubblico ufficiale e altri reati, ha comunicato al Parlamento. Il leader del Carroccio ha anche detto che l’assegnazione delle case ai rom è “una follia: l’ennesima ragione per votare Lega il 26”.

Migranti, le istruzioni de “Lo Stato Sociale”

Salvare i migranti nel mar Mediterraneo. Istruzioni per l’uso. Ci pensa Lo Stato Sociale, nella declinazione marittima del “carota” – al secolo Enrico Roberto –, a spiegare come si interviene da un gommone di una Ong per aiutare esseri umani su un barcone in balia del mare. Il video, online da oggi su ilfattoquotidiano.it, dura una decina di minuti. Le insegne sono quelle della Mediterranea Saving Humans, mentre “carota” segue le indicazioni per un finto salvataggio.

Gestualità pacata, sorrisi, il corpo che compie movimenti minimi. “Vanno rispettate molte regole ed è paradossale: un barcone pieno di naufraghi in un mare piatto non rappresenta una criticità. È quando arrivano i soccorsi che rischi di sviluppare un pericolo. I migranti si gettano in mare per salvarsi oppure si spostano tutti da una parte e la barca rischia di spaccarsi”, spiega Roberto al Fatto Quotidiano. Mediterranea è una realtà sociale molto vicina alla band bolognese perché l’iniziativa umanitaria nasce proprio del centro sociale felsineo del TPO da dove Lodo&Co. attingono per fonici e tecnici nei loro live. “Sapevo che stava nascendo questa possibilità e ho drizzato le antenne. Questa è la prima nave di soccorsi in mare a bandiera italiana proprio nel momento in cui le ong vengono richiamate nei porti. Proprio quando la politica cerca in tutti i modi di screditarle e dargli fastidio. Mediterranea è un barlume di luce in un momento storico triste. Per questo Lo Stato sociale doveva esserci”, racconta “carota”.

E punta il dito su tanti colleghi disimpegnati rispetto al presente: “Noi facciamo della lotta politica il nostro vanto quando invece molte realtà pur di sopravvivere in un mondo discografico in crisi, non si sbilanciano troppo a livello artistico. Parlo delle nuovissime leve. Più che rappresentare l’umanità in difficoltà s’interessano solo della ricerca di un riscatto personale”.

Nel breve filmato in cui “carota” indossa casco, salvagente e sale sul gommone dell’ong di Luca Casarini appare per qualche secondo anche un fotogramma in cui si intravedono cadaveri di migranti.

Un po’ come accadeva nel documentario di Francesco Rosi, Fuocoammare: “Credo che si cerchi di tenere lontano la verità dagli occhi delle persone. Far vedere la cruda realtà è importante. Probabilmente non è neanche abbastanza crudo ciò che si vede per capire di cosa stiamo parlando. Bisogna essere lì su quei barconi per capire cos’è la morte. A quel punto capirebbe anche Matteo Salvini”. Bebo, Albi e compagnia vogliono come riempire un vuoto politico che vada oltre i gesti di solidarietà da parte di qualche deputato Pd o 5Stelle.

“I volontari di questa ong provano a risolvere quello che teoricamente sarebbe chiamata a fare la politica. Stare dalla parte di chi soffre”.

A quando allora un salvataggio vero dopo le prove del video? “Lo farò alla grande una volta conclusa la cosiddetta formazione. Ricordiamoci però che ciò di cui ha bisogno Mediterranea ora sono i contributi economici. Si può aiutare la sua attività con il due per mille nella dichiarazione dei redditi. Noi offriamo il nostro tesoretto risparmiato durante i concerti”.

OpenArms, caso archiviato. Nessuna prova sugli scafisti

Nessun contatto con gli scafisti, nessun favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. La Procura di Catania ora chiede l’archiviazione contro la ong spagnola ProActiva Open Arms, che nel marzo 2018 aveva tratto in salvo 218 migranti al largo della Libia. È caduta così l’accusa di associazione a delinquere finalizzata a favorire il traffico di migranti contestata inizialmente al comandante Marc Reig Creus e al capo missione Ana Isabel Montes Mier.

L’indagine coordinata dal procuratore capo Carmelo Zuccaro, insieme ai sostituti Fabio Regolo e Andrea Bonomo, sosteneva che la ong si sarebbe rifiutata di “consegnare i profughi salvati a una motovedetta libica”, intervenuta in seguito alle operazioni di salvataggio, e “nonostante la vicinanza con Malta”, la ProActiva aveva deciso di proseguire “la navigazione verso le coste italiane, come era sua prima intenzione”. Per lo stesso motivo, i magistrati avevano chiesto e ottenuto il sequestro dell’imbarcazione, ritenendo che “l’obiettivo primario” della ong “è salvare migranti e portarli in Italia, senza rispettare le norme, anzi violandole scientemente”.

L’equipaggio della ong invece aveva raccontato che, durante le operazioni di soccorso, la motovedetta libica era intervenuta puntando le armi e minacciando di aprire il fuoco contro i volontari, se non avessero consegnato loro le donne e i bambini. Dopo alcuni momenti di tensione, la ProActiva era riuscita a sfuggire alla morsa dei libici, che l’avevano inseguita fino alle acque internazionali.

Ne era nato un caso diplomatico tra il governo italiano e quello spagnolo, durato circa trenta ore, in cui l’imbarcazione è rimasta a largo del Mediterraneo, aspettando di poter ricevere la comunicazione dalla Guardia costiera italiana per un porto sicuro. Il ministro Matteo Salvini aveva permesso solo l’evacuazione di una neonata di tre mesi, che si trovava in gravissime condizioni, scesa a Malta insieme alla madre. La nave ha poi ottenuto il consenso di poter raggiungere Pozzallo. Adesso con la richiesta di archiviazione della procura di Catania, i guai per la ProActiva però non sono finiti. La ong infatti è finita anche nel mirino dei magistrati di Ragusa che indagano per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e violenza privata.

Intanto ieri un nuovo salvataggio è avvenuto a 30 metri dalle coste libiche. A intervenire è stata la Ong tedesca Sea Watch3, battente bandiera olandese, che ha salvato 65 persone a bordo di un gommone. Il copione si ripete: dalla ong fanno sapere di aver ricevuto la segnalazione da un “aereo civile di ricognizione”, e di aver informato “Libia, Malta, Italia e Olanda”, senza però aver ricevuto “nessuna risposta”.

A bordo ci sono “11 donne, 15 minori di cui 8 non accompagnati, 5 bambini, 2 neonati e una persona disabile”, e i migranti “sono esausti e disidratati”. Sul caso è intervenuto subito il vicepremier Matteo Salvini che presiedendo al Viminale il Comitato nazionale dell’ordine e della sicurezza pubblica, ha inserito urgentemente all’ordine del giorno il caso della Sea Watch3 e ha firmato una diffida ad avvicinarsi alle acque territoriali italiane. “I nostri porti – insiste – sono e rimangono chiusi”. Il ministero dell’Interno ha quindi diffuso una direttiva secondo cui il passaggio dell’imbarcazione della nave Sea Watch3, intervenuta in area Sar libica, sarebbe “non inoffensivo”, e ne consegue quindi “un pregiudizio al buon ordine e alla sicurezza dello Stato costiero”. Il testo chiede quindi di “vigilare affinché il comandante e la proprietà della nave si attengano alle vigenti normative nazionali e internazionali in materia di coordinamento delle attività di soccorso in mare”.

Il rischio, qualora la barca ong prenda a navigare verso l’Italia, è di potersi trovare davanti a situazioni viste molte altre volte con le navi bloccate per giorni davanti alle coste italiane. E di conseguenza, i soliti sponsor politici, sulla pelle dei migranti.

Il debito di Luigi e il deficit di Di Maio

Non è ben chiaroperché la nuova classe dirigente politica, maxime i grillini ma neanche Renzi scherzava, sia così ansiosa di pronunciare frasi stentoree che poi le potranno essere rinfacciate dopo qualche tempo. Ieri, ad esempio, Luigi Di Maio era a Porta a Porta e l’ha messa così: “Il motivo per cui lo spread sta salendo è perché si è detto non di sforare il 3%, ma che salirà il debito pubblico”. E qui, petto gonfio: “Noi non voteremo mai una legge di bilancio che aumenta il debito pubblico, perché poi fibrilleranno i mercati. Serve responsabilità, non lanciare soldi e sfidare sulle soglie”. Memore forse di quando festeggiava sul balcone il deficit al 2,4% l’ha messa anche così: “Io credo che possiamo parlare di sforare il 3% ma tutte le misure devono avere un obiettivo: crescita sostenibile per ridurre il debito”. Riassumendo: Luigi vuole aumentare il deficit per far salire la crescita e Di Maio non voterà una manovra che fa salire il debito. Forse s’immagina le manovre espansive non come la razionale programmazione di obiettivi nel medio periodo, ma come il tasto del telecomando: lo spingi e s’accende la crescita che fa diventare il rapporto del debito col Pil così piccolo che manco lo vedi. Deficit buono, debito brutto. E intanto sul balcone non c’è rimasto nessuno: tanto piove pure.

Il “culto del Duce” mai rinnegato del numero uno

Non manca mai, Marco Bonometti, alla ricorrenza del 28 aprile. In molti dicono di averlo visto più di una volta seduto, tra i banchi della chiesetta sotto il colle Cidneo, a Brescia. Qui l’Associazione Nazionale Famiglie Caduti e Dispersi della Repubblica Sociale Italiana organizza ogni anno una messa per ricordare l’anniversario della morte di Benito Mussolini. Tutti in città sanno della messa in suffragio che si tiene nella Chiesa di S. Stefano, anche quest’anno partecipata da “pezzi” della Brescia che conta, imprenditori medi e piccoli, oltreché da ex militanti nostalgici del Msi.

Bonometti non ha mai negato le sue simpatie fasciste. Famosa la polemica per la sua partecipazione ufficiale a Salò all’inaugurazione, qualche anno fa, della mostra “Il culto del Duce”. E chi frequenta il suo ufficio sa quanto ci tenga alle collezioni di busti di Mussolini, in bella mostra.

Giacca, cravatta e fascio littorio per l’ex presidente degli industriali bresciani, ora a capo di quelli lombardi, che sogna da tempo la scalata in Confindustria nazionale, fallita una prima volta nel 2016, e che da ieri è indagato per finanziamento illecito ai partiti.