Lo strano caso del copia-incolla della tesi dell’ignaro. Apuzza pagata a peso d’oro

Protagonista a sua insaputa della nuova tangentopoli lombarda. Lui che vive in Campania. La sua tesi, sostengono i pm, come merce di scambio per la più classica delle mazzette. Da ieri sul suo profilo Facebook Antonio Apuzza, postava la foto della sua laurea. Coincidenza o ironia? Matricola 654751, università Luiss.

È l’anno accademico 2014-2015. Antonio va all’esame e presenta il suo elaborato. Argomento interessante. Ci si occupa di made in Italy e più nello specifico di come aumentare la competitività delle piccole aziende di torrefazione di caffè. Argomento attuale all’epoca, visto che l’Italia corre verso l’Expo 2015, il cui tema in via generale è il cibo. Quattro anni dopo, nel gennaio scorso, quel suo documento sarà scaricato dal Web e diventerà, secondo la Procura, il timone per stendere un documento-consulenza. Lavoro facile facile quello della società Premium consulting. Si tratta di una raffinata opera di copia e incolla. Insomma taglia e cuci. Preciso il giusto. Tanto l’accordo pare già esserci. Quel lavoro vale, secondo i pm, 31 mila euro. E pensare che Antonio Apuzza lo aveva fatto gratis e per arrivare alla laurea.

Se glielo avessero detto prima che quelle sue 85 pagine valevano tanto. Scrive Apuzza nella sua introduzione: “Il presente elaborato ha l’obiettivo iniziale di analizzare il Made in Italy e il mercato nazionale ed internazionale del caffè. Il focus di questo lavoro è, in particolare rappresentato da un output di un questionario che è stato somministrato ad un’utenza di 235 persone di nazionalità differenti in occasione dell’Expo Milano 2015. La tesi ha la finalità di comprendere quali delle sei dimensioni del Made in Italy (artigianalità, ricchezze naturali, estetica stile e design italiano, cultura storia e radici italiane, forte senso della comunità, stile di vita italiano) sia maggiormente influente nel processo di acquisto da parte dei consumatori”. Ora chi commissiona tale argomento sono le Officine meccaniche Rezzatesi di Marco Bonometti, una holding che di tutto si occupa tranne che di cibo e in particolare di caffè. Un particolare che la Procura ha rilevato e domandato al presidente di Confindustria Lombardia. Ma ci sta tutto in questa strana storia surreale.

Eppure Lara Comi insiste. E pare convinta: quelle consulenze sono reali. Posizione legittima ci mancherebbe. E probabilmente vera. Allo stato, però, la Procura legge quella consulenza come un accordo illecito teso a incassare un finanziamento per la propria campagna elettorale. Giampiero Biancolella, avvocato della europarlamentare fissa il punto e spiega: “Posso con decisione contestare che sussista l’illecito ipotizzato. Non vi era motivo alcuno che impedisse che un finanziamento del tutto lecito potesse essere effettuato secondo le modalità previste dalla legge. Non vi era quindi motivo per simulare un contributo elettorale con una prestazione di servizi. In ogni caso la prestazione è stata resa dalla società, nell’ambito dell’oggetto sociale della stessa e nell’ambito delle specifiche competenze”. Tutto regolare dunque. Resta però un rammarico: quello di Antonio Apuzza e del guadagno mancato. Chi lo avrebbe detto una tesi che vale oltre 30 mila euro.

Concludeva il giovane studente: “L’aspetto interessante di questo lavoro è la consapevolezza che al giorno d’oggi il mezzo di comunicazione di marketing più importante in termini di costi-opportunità è il passaparola, non a caso definito da molti studiosi come il mezzo di persuasione più efficace, che comporta una serie di vantaggi economici e di immagine per le aziende”.

Il tramonto dell’èra Marcegaglia, tra lotte intestine e scandali

Marco Bonometti rimane per ora uno dei più accreditati candidati alla presidenza della Confindustria quando scadrà, tra un anno, il mandato del salernitano Vincenzo Boccia. E basta questo a immaginare gli effetti dell’inchiesta sul presunto finanziamento illecito all’eurodeputata di Forza Italia Lara Comi sul mondo confindustriale.

L’associazione degli industriali che fu presieduta da Gianni Agnelli e Guido Carli è devastata da anni da una raffica di scandali. Benito Benedini, ex presidente dell’Assolombarda – che a dispetto del nome è l’associazione di Milano, mentre gli industriali della regione sono rappresentati dalla Confindustria Lombardia di Bonometti – è rinviato a giudizio per falso in bilancio con l’ex amministratore delegato Donatella Treu e l’ex direttore del quotidiano della Confindustria Roberto Napoletano. Ancora più male ha fatto alla reputazione degli industriali la condanna a 14 anni dell’ex delegato per la legalità Antonello Montante, accusato di aver tessuto una rete di attività spionistiche e di potere parallelo con la complicità di personaggi eccellenti delle forze dell’ordine.

Montante, amico e pupillo di Emma Marcegaglia (presidente di Confindustria dal 2008 al 2012), è stato per dieci anni l’uomo simbolo del potere parallelo della Confindustria, sempre caratterizzato da un tasso etico quantomeno controverso. C’è un sistema di potere autoreferenziale all’interno della Confindustria, fondato da Marcegaglia e perpetuato dai fedeli successori Giorgio Squinzi (20012-2016) e Boccia (dal 2016). Un sistema incardinato sul mondo romano (e meridionale) che ha respinto ogni assalto nordista ed è riuscito a rinviare verso l’eternità la resa dei conti con il caso Sole 24 Ore e l’ancor più inquietante caso Montante. Nel 2012 ci provò Alberto Bombassei, con oltre un miliardo di fatturato dei freni Brembo di Bergamo, a dare la spallata, ma il “sistema”, grazie ai voti decisivi dell’Eni (presenza pesante, pubblica e romana negli equilibri confindustriali) riuscì a portare alla presidenza Squinzi, bergamasco come Bombassei ma di osservanza berlusconiana e marcegagliana. Nel 2016 ci provò il bolognese Alberto Vacchi, industriale da un miliardo di fatturato, ma ancora una volta i voti dell’Eni (con Marcegaglia presidente) fecero pendere la bilancia dalla parte di Boccia, quaranta milioni di fatturato nella sua piccola tipografia salernitana.

In quella campagna si misurò anche Bonometti, e proprio l’incapacità sua e di Vacchi di trovare un accordo fu decisiva perla sconfitta di entrambi. Ma in quell’occasione l’industriale bresciano manifestò chiari segni di incompatibilità con l’opaco mondo confindustriale di Marcegaglia e Boccia. Quando annunciò la decisione di ritirarsi lo fece con parole memorabili per molti industriali del nord: “I vincoli imposti ai candidati hanno favorito il professionismo confindustriale, che ha potuto lavorare indisturbato, tessendo ragnatele e scambiando consensi, come la peggiore politica da noi sempre vituperata. Questo non è nel mio dna”.

Dopo che Bombassei è tornato a occuparsi della sua Brembo e anche Vacchi ha detto addio alla militanza confindustriale l’industria del nord, o più precisamente quella parte dell’industria del nord che crede ancora che la Confindustria serva a qualcosa oltre che a servire gli interessi privati di chi la controlla, hanno individuato i possibili uomini della svolta proprio in Bonometti e nel presidente di Assolombarda Carlo Bonomi, che però è penalizzato da un fatturato molto inferiore a quello di Boccia e sembra dunque stagliarsi come campione del “professionismo confindustriale” più che dell’industria più produttiva.

Bonometti invece fattura circa un miliardo e la sua Omr è un’eccellenza nella componentistica auto: ha come primo cliente la Ferrari, di cui è anche pesante sponsor in Formula 1, ed esporta sui principali mercati dell’auto, a cominciare dalla Germania. A prima vista, l’attività delle sue aziende sui mercati internazionali non è mai sembrata bisognosa della consulenza di Lara Comi, e neppure di aiuti politici illeciti. L’incidente giudiziario in cui è incappato sembra più che altro destinato a scatenare le inconfessabili e inconfessate vendette dei “professionisti” della Confindustria.

 

Bonometti&Comi: mazzette Confindustria-Forza Italia

Consulenze. Questo il termine per mascherare il finanziamento illecito alla politica. Un cliché che emerge anche nell’inchiesta della Procura di Milano e che, secondo i pm, incastra l’eurodeputata di FI e candidata alle prossime elezioni europee, Lara Comi. La vicenda si fa ancora più curiosa, visto che la consulenza, secondo i pm, in realtà altro non è che un copia e incolla da una tesi di laurea scaricata da Internet. La rappresentante di Forza italia a Strasburgo è da ieri indagata. Con lei anche Marco Bonometti, noto imprenditore bresciano nonché attuale presidente di Confindustria Lombardia. Secondo gli atti dell’accusa è lui ad aver foraggiato la campagna elettorale della Comi con un pacchetto di 31 mila euro. Nino Caianiello, ex coordinatore provinciale di Fi, a proposito di un’altra vicenda diceva: “Lei (Comi, ndr) deve avere per dare”. Mercoledì Bonometti è stato sentito negli uffici della Dda per diverse ore. Ieri, poi, è stata fatta chiarezza sul politico destinatario del denaro.

“Un brand da valorizzare e da internazionalizzare”

I soldi, stando ai pm, sono arrivati in due tranche da 15 mila euro l’una, pagati dalla Omr holding di cui è presidente Bonometti alla Premium consulting srl, società che vede nel suo board Lara Comi. Bonometti ha chiesto una consulenza che riguarda un’analisi su come rilanciare il made in Italy e sulle auto elettriche. Un tema, il primo, sul quale la srl di cui è socia Lara Comi, non pare essersi dilungata molto. La consulenza consegnata, secondo la ricostruzione dei pm, consta di poche pagine e il contenuto è preso dalla tesi dal titolo: “Made in Italy: un brand da valorizzare e da internazionalizzare per aumentare la competitività delle piccole aziende di torrefazione di caffè”. La tesi è dell’anno 2015. Lara Comi non vuole saperne e commenta: “Accusa assurda continuerò la campagna elettorale”. Ogni illecito viene respinto anche da Bonometti. Ma mentre il nome dell’imprenditore bresciano non compare mai nei 30 faldoni dell’inchiesta, quello della Comi viene citato più volte nelle intercettazioni che riguardano Nino Caianiello detto “Jurassic Park” e presunto grande burattinaio del sistema delle tangenti tra Milano e Varese.

L’eurodeputata e “Jurassik Park”

Un sistema che vede 96 indagati, tra i quali il presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, accusato di abuso d’ufficio per un incarico dato a Luca Marsico suo ex socio di studio. E del resto il rapporto tra la Comi e Caianiello è molto stretto. Annotano i carabinieri: “Caianiello continua di fatto a svolgere le funzioni di coordinatore provinciale di Forza Italia, interfacciandosi con l’attuale coordinatrice provinciale di FI di Varese, l’eurodeputata Lara Comi”. La stessa è presente nell’organigramma dell’associazione Agorà che Caianiello voleva trasformare in un’unica centrale delle tangenti. Scrive la Finanza di Busto Arsizio: “L’associazione annovera tra i propri membri l’ex coordinatore regionale di Forza Italia e già assessore regionale Mario Mantovani l’ex consigliere della Regione Lombardia Luca Marsico e il Senatore di Forza Italia Giuseppe Pagnoncelli”. Lara Comi, a quanto emerge dagli atti, risulta presente in diversi incontri organizzati da Caianiello anche fuori dalla Lombardia. A Lugano, si legge in un atto, la Comi, spiega un indagato, viene vista “con un amico di Caianiello”. Si tratta di un personaggio “con il quale” Caianiello gestiva “un fondo di 70 milioni di euro”. Di lei, Jurassic Park parla con Carmine Gorrasi, dirigente della squadra di calcio Busto81. È il marzo del 2018, si legge nel brogliaccio: “Carmine chiede a Nino cosa deve fare con Lara (eurodeputato Lara Comi ndr) se deve prenderla da parte e dirle due parole, Nino dice di dirle che deve muoversi e seguire Nino altrimenti rischia di fare la fine di Luca Marsico che ha tentato di prendere in giro Nino Caianiello e si è vista la fine che ha fatto”.

Del resto si comprende dalle intercettazioni che la Comi fa parte del nuovo cerchio magico di FI diretto da Caianiello. Lo stesso, infatti, spiega che “sono blindati in quanto i rapporti con Lara Comi (eurodeputato), con Adriano Galliani (parlamentare) e con Giusy Versace (parlamentare) li hanno loro e non devono temere nulla”.

“Se non vediamo noi, non vedrà niente lei”

In questa storia c’è un terzo soggetto istituzionale coinvolto. Si tratta di Afol, l’agenzia della Città metropolitana che fornisce servizi su formazione e lavoro. La direzione è in capo a Bebbe Zingale, ex Udc e vicino a Forza italia. È proprio Zingale con Nino Caianiello a discutere dell’ennesima consulenza data a una società della Comi. Qui si tratta di una cifra iniziale di 38 mila euro, che potrebbe arrivare fino ad 80 mila euro. Questo secondo fronte, però, al momento non viene contestato alla Comi. Le intercettazioni ancora una volta sono chiare. “Uno – dice Caianeillo – questa cretina della Lara a che punto stiamo?”. Dice Zingale: “Il 17 già liquidato”. Dice ancora Caianiello: “Se questa non prende non può dare”. L’ipotesi della Procura è che parte delle consulenze dovevano poi essere retrocesse a Caianiello. Conclude Jurrasic Park: “Se non vediamo, non vedrà niente nemmeno lei”.

Gabetti “assolto” solo dai giornali

Gabetti e gli Agnelli  Per l’equity swap che garantì il controllo degli Agnelli sul gruppo, Gianluigi Gabetti venne processato e assolto (La Repubblica)

La smentita
Dei morti, si sa, si parla sempre bene. E se il morto è stato un potente, legato a una famiglia di potenti, si arriva anche a glissare su certi peccati commessi in vita. È l’antica consuetudine in voga sulla grande stampa italiana. Solo che ieri, per i coccodrilli su Gianluigi Gabetti, avvocato, storico servitore di Gianni Agnelli e custode per decenni dei segreti e delle fortune della reale casa torinese si è arrivati anche a inventarsi un’assoluzione finale mai arrivata. È quella che riguarda la vicenda dell’equity swap, l’operazione che nel 2005 permise agli Agnelli di riprendersi la Fiat e che portò a un processo per aggiotaggio informativo a carico di Gabetti e Franzo Grande Stevens, altro storico avvocato della famiglia. Ieri Repubblica e La Stampa hanno scritto che la vicenda si chiuse con un’assoluzione, riportando pure la soddisfazione di Gabetti (“Non accettavo che rimanesse una macchia sulla mia carriera professionale”). In realtà, nel giugno 2012, la Cassazione aveva annullato la sentenza di assoluzione. Nel giudizio d’appello era arrivata la condanna. Nel 2013, sempre la Suprema corte ha annullato le condanne per avvenuta prescrizione del reato, che però fu commesso (la Consob emise anche una sanzione). Nessuna assoluzione nel merito quindi. Se non per i giornali.

Spread e Iva, i guai arrivano dalla crescita non dalle urne

Il nervosismo dei mercati è “ingiustificato ma comprensibile”. In questa uscita del ministro dell’Economia Giovanni Tria si trova la sintesi di quello che sta succedendo allo spread, la differenza di costo tra debito pubblico italiano e tedesco, che ieri ha raggiunto i 290 punti per poi chiudere a 285. Chi segue l’ennesima polemica tra Luigi Di Maio (ora preoccupato dei mercati) e Matteo Salvini (“sforare il tetto del deficit del 3 per cento è un dovere”) ha l’impressione che i due leader stiano discutendo di come trovare risorse per nuovi investimenti o spese elettorali. Non è così.

Se non scatta l’aumento automatico dell’Iva nel 2020, in assenza di coperture alternative il deficit salirà ben oltre il 3 per cento. Senza che ci sia un solo centesimo in più da spendere. Anzi, i mercati chiederanno tassi più alti sul debito, la spesa per interessi mangerà risorse oggi allocate altrove e sarà impossibile evitare una procedura d’infrazione europea. Il premier Giuseppe Conte ieri prima ha avvertito che “evitare l’aumento dell’Iva non sarà impresa facile”. Poi ha precisato che “non ho mai messo in dubbio che eviteremo l’aumento dell’Iva”. Ma l’equilibrio dei conti pubblici è fragile, mancano decine di miliardi tra privatizzazioni annunciate e non fatte, bassa crescita e incertezze sull’economia mondiale che possono minare il nostro unico motore di crescita, l’export (la domanda interna continua ad avere un segno negativo, anche se il governo professa ottimismo). Da mesi il debito italiano ha costi (2,75 per cento) più vicini a quelli della Grecia (3,5) che della Spagna (0,96). Le elezioni europee non c’entrano. La colpa è della crescita da zero virgola e delle incertezze sulle scelte di politica economica. Il nervosismo dei mercati, come dice Tria, è “comprensibile”. Sta a Conte, Di Maio e Salvini dimostrare, tra un insulto e l’altro, se è davvero “ingiustificato”.

Zaia dovrà aspettare, Salvini invece no

Ognuno vuole piazzare la sua bandierina prima del voto di domenica 26 maggio, specie la Lega, messa un po’ all’angolo ultimamente dalla aggressiva comunicazione grillina. È così che persino l’ultimo Consiglio dei ministri prima delle Europee è diventato terreno di scontro tra gli alleati di governo. Cosa arriverà al voto a Palazzo Chigi? L’ordine del giorno, e il comunicato finale della riunione di lunedì (forse), sarà una sorta di bollettino di questa guerra per le menti e i cuori degli elettori.

Il piatto forte per Matteo Salvini sarebbe l’autonomia regionale per Veneto e Lombardia (ed Emilia Romagna), invocata dall’ala nordista del partito. Luca Zaia – in altre faccende affaccendato il lumbard Attilio Fontana – insiste nei penultimatum: “Non esiste un piano B, non ci sono alternative all’autonomia. Qui si tratta semplicemente di dare attuazione a quel che c’è scritto nel contratto di governo”. Non si fa mancare qualche minaccia ai 5 Stelle nemmeno la ministra Erika Stefani, che ieri nell’aula della Camera ha forse fatto il passo più lungo della gamba: “Oggi ho predisposto una bozza e mi appresto – e sottolineo ‘di nuovo’ – a portare il testo in Consiglio dei ministri affinché lo si approvi”. La titolare leghista degli Affari regionali ritiene “completata” l’attività “propedeutica alla redazione di un testo condiviso con i ministeri coinvolti e con le Regioni richiedenti”.

Di questo intenso lavorio diplomatico, va detto, nei ministeri che mancano all’appello (su tutti Sviluppo, Lavoro, Ambiente, Sanità e Scuola) non pare esserci stata traccia. E, infatti, “ragionevolmente si farà un Consiglio dei ministri prima delle Europee – ha detto poco dopo Giuseppe Conte – Non abbiamo ancora l’ordine del giorno ma l’autonomia come altri sono progetti di riforma a cui stiamo lavorando”. Traduzione: l’autonomia non sarà approvata adesso. Tanto più che il premier ha già spiegato alla ministra Stefani e agli altri che prima serve un incontro “politico” – e s’intende un vertice coi capi dei due partiti – che trovi una soluzione sui molti punti di dissenso tra Lega e 5 Stelle.

L’unica buona notizia, per così dire, è che anche la Lega sembra essersi rassegnata al fatto che le intese con le Regioni – prima della firma – dovranno essere sottoposte alle Camere, le quali potranno poi chiedere delle modifiche: “È una decisione che spetta al Parlamento e non può il governo intervenire in lesione delle prerogative dei presidenti di Camera e Senato”, ha spiegato Stefani.

Se però Luca Zaia dovrà aspettare per i suoi superpoteri, non così Matteo Salvini: al prossimo Consiglio dei ministri approderà il suo secondo “decreto sicurezza”, atteso già al pre-consiglio (una riunione tecnica preliminare) di oggi.

Non bastasse il divieto ad avvicinarsi all’Italia inviato ieri alla nave Sea Watch (che ha soccorso 65 migranti in mare), un’altra “bandierina” non da poco per il leader leghista negli ultimi giorni di campagna elettorale, nonostante il testo sollevi più di una perplessità anche al Quirinale. Il dibattito non sarà pacifico: intanto il M5S non vorrà far “espropriare” il suo ministro Toninelli delle competenze sui porti relative all’immigrazione. Anche la bizzarra multa da 3.500-5.500 euro a persona salvata e portata in Italia se irregolare è una cosa che fa accapponare la pelle a parecchi giuristi: convinto l’alleato, Salvini potrebbe trovarsi a dover superare un ostacolo più duro, Sergio Mattarella.

La (finta) guerra gialloverde annoia, meglio Magalli-Volpe

Luigi Di Maio e Matteo Salvini se le suonano di santa ragione, lo spread tocca quota 290, il premier Giuseppe Conte lascia capire che l’aumento dell’Iva sarà inevitabile, giornali e talk televisivi marciano verso il voto europeo pancia a terra (direbbe il ministro Toninelli), ma sapete quali sono gli articoli più letti della settimana secondo il sito del Corriere della Sera?

Come proteggersi dal virus che infetta WhatApp. Abitudini salutari della sera (lavarsi la faccia, collirio, yogurt, deodorante). Conti correnti, quanto conviene cambiare banca. Le attrici più belle di sempre (e Marilyn non è la prima). Magalli e Adriana Volpe, perché lo scontro è finito in tribunale. Riscatto della laurea, boom di domande ma conviene davvero? Fabio Fazio chiude in anticipo Che tempo che fa. Noemi, preso l’uomo che le ha sparato. I 12 trucchi per rimanere sveglio ed efficiente (se dormi meno di 5 ore).

Quanto a Salvini, Di Maio e Conte, nessuna traccia. Detto che prevedibilmente sta per entrare in classifica il Daniele De Rossi cacciato da Pallotta, e in attesa che il direttore del Fatto sostituisca questo mesto “Salvimaio” con l’assai più eccitante diario del “MagaVolpe”, proverò a spiegare l’apparente paradosso della politica italiana per cui più se ne parla e meno appassiona. Per esempio, lo scontro elettorale tra i due alleati di governo è stato paragonato al wrestling, nel quale i lottatori fingono di picchiarsi sul ring con urla disumane per poi dividersi equamente l’incasso negli spogliatoi. Nel caso di Salvini e Di Maio diciamo che i colpi sono autentici, le urla pure ma che forse c’è anche il tacito accordo di non fare troppo male al governo di cui sono partecipi. Infatti mentre i due altercano, ripetono che si andrà avanti con questo esecutivo per quattro anni ancora (mah).

C’è un non detto, tuttavia, che va letto tra le righe dell’ultima intervista di Salvini al Corriere, quando a proposito degli attacchi dei 5Stelle spiega: “Temo che abbiano influito i sondaggi e le Regionali. Noi abbiamo vinto dappertutto ma quelle sono elezioni locali”. Traduzione libera: mi rendo conto che se il 27 maggio la Lega da secondo partito che era un anno fa diventasse il primo mentre il M5S da primo partito si ritrovasse secondo, per il mio amico Di Maio sarebbe un bel problema spiegare ai suoi che si deve andare avanti con un contratto di governo che danneggia loro e avvantaggia noi. Aggiungiamo che se poi il Movimento fosse superato in rimonta perfino dal Pd, sarebbe un casino per lo stesso Salvini chiamato a resistere alle pressioni di chi ne ha le scatole piene dei grillini (Giorgetti) e di chi, soprattutto al nord, pretende il ritorno della Lega nel centrodestra.

Un quadro che può spiegare come mai il ministro degli Interni assista con il freno a mano tirato al progressivo spostamento a sinistra dei 5 Stelle (sull’antifascismo, le case ai rom, la legge sul conflitto d’interessi ad Berlusconem). Sono voti fuori dalla portata del capitano della destra e allora Di Maio se la veda pure con Zingaretti. Dunque, perché mai gli italiani (che non sono scemi) dovrebbero appassionarsi a questo wrestling all’italiana dove ci si mena per restare in piedi? Trucco per trucco, più interessanti quelli per sopravvivere a una notte di bagordi. O no?

Il pacchetto famiglia rischia già lo stop per inammissibilità

Il “pacchetto famiglia” della Lega annunciato dal ministro Lorenzo Fontana rischia di fermarsi già a causa dello stop dei tecnici delle commissioni competenti di Montecitorio (Bilancio e Finanza). Il pacchetto che dovrebbe essere inserito come emendamento al dl crescita è costituito da una serie di misure a sostegno di chi fa figli (dall’aumento del bonus bebè alle detrazioni per latte in polvere e pannolini), che ricalcano per altro le proposte già presentate nelle settimane scorse dal vicepremier Luigi Di Maio. Ma come riferito dall’agenzia di stampa Adnkronos, secondo la valutazione emersa negli uffici competenti, è difficile che le misure possano superare il vaglio di ammissibilità, poiché sarebbero estranee alla materia trattata dal decreto (la crescita economica). La decisione sull’ammissibilità spetta ai due presidenti di commissione, Carla Ruocco (M5S) e Claudio Borghi (Lega) che si pronunceranno martedì. In caso di disaccordo deciderà il presidente della Camera Roberto Fico. Di Maio ha chiuso le polemiche: “Sono disposto a prendere il pacchetto di norme e di soldi (risorse risparmiate sul reddito di cittadinanza, ndr) e darlo a Fontana, se ne può occupare anche lui da solo, non c’è divisione”.

Merkel sbarra la porta alla Lega: “Non potrà mai entrare nel Ppe”

Salvinipotrebbe entrare nel Partito popolare europeo? “No”. La cancelliera Angela Merkel è stata categorica nel rispondere a un giornalista della Suddeutsche Zeitung, in un’intervista sull’Europa e sul suo rapporto con Macron e con il candidato del Ppe Manfred Weber. La Merkel ha spiegato così il suo secco diniego riguardo il vicepremier leghista: “È ovvio che abbiamo vedute differenti su temi come le politiche migratorie. Questa da sola è una ragione per cui il Ppe non permetterà l’adesione di Salvini”. Merkel aggiunge: “Se Manfred Weber sarà eletto presidente della Commissione non dipenderà dai voti di questi partiti. Tuttavia, non possiamo condizionare noi il fatto che decidano di votarlo o meno”. Nonostante la posizione nei confronti di Salvini sia di totale chiusura, però, la cancelliera tedesca auspica una crescita economica per l’Italia, ricordando che gli stati membri dell’Unione hanno “tutti bisogno l’uno dell’altro, come ha dimostrato la crisi dell’euro”. Merkl ha concluso l’intervista senza nascondere le sue preoccupazioni sul futuro del continente.

In Rete “Vinci Salvini” diventa “Sfotti Salvini”: “Il caffè lo offre lui. Gli avanzano 49 milioni”

Un paio di tweet ben calibrati e il gioco è fatto: da “Vinci Salvini” a “Sfotti Salvini”. Già, perché alla faccia dei 12 mila iscritti al concorso leghista – premi: una propria foto da diffondere sui social della Lega, una telefonata con Salvini e, tenersi forte, un caffè con il suddetto ministro – in Rete impazzano le prese in giro alla campagna comunicativa ordita dalla Bestia, che unisce il folklore alla raccolta dei dati personali di migliaia di elettori.

Tra i primi a lanciare la controffensiva è Chef Rubio, non nuovo a iniziative del genere: “Gioca e sfotti Matteo Salvini, – ha scritto su Twitter – vai a suoi incontri pubblici e perculalo. Prova a dargli un bacio gay, oppure a imbarazzarlo in luoghi pubblici. Vinci che prima o poi te lo levi dar c…”. Meno colorito, ma sul pezzo, il tweet di Roberto: “Ultim’ora: i dipendenti del Viminale giocano a Vinci Salvini per vedere il ministro ogni tanto”.

D’altra parte anche Antonio Musco nota che “da ministro a Mastrota è un attimo”, cresciuti come siamo in un Paese “dove l’egemonia culturale è quella di Wanna Marchi” (Paola). Che sarà mai, avvicinarsi un po’ alla gente comune. Anche Matteo Di Nitto, che intanto accumula punti preziosi con un commento sul profilo del ministro, riconosce una certa efficacia della strategia: “Feci una cosa simile alle elezioni per il rappresentante di classe”. Adesso per vincere serve però uno sforzo molto più grande.

Ieri, per esempio, non c’è stata partita: “E il vincitore di oggi, con 289 punti è… lo spread” (Mario). Caterina D’Orazio invece rivisita il Vinci Salvini in memoria di Claudio Cecchetto e del suo Gioca jouer: “Ok ragazzi adesso cerchiamo di farlo meglio, ricordatevi che si parte sempre da ‘dormire’, fate attenzione alla differenza tra ‘camminare’ e ‘nuotare’”. E per i fortunati vincitori, meglio non lasciare a casa il portafogli: “Il caffè col ministro lo paghi tu, ultimamente Salvini ha qualche difficoltà a ricordarsi dove ha messo i soldi” (ZioGnagno).

Tempi moderni. E politica moderna, con tutte le sue vette di informalità: “Pensa se uno si sveglia dal coma dopo dieci anni e vede sta roba” (Rudian). Minimo rimane un po’ turbato, un filo perplesso. Cri si chiede: “Ve lo immaginate ai tempi un ‘Vinci Spadolini?’”. Difficile, in tutta onestà. Ma le generazioni cambiano e oggi siamo abituati a questo e altro: “Mi chiedo quanto la dose di trash possa essere rincarata ancora prima dell’overdose” (Andrea D’Agostino). Dubbi amletici che tengono alla lontana Jean Paul Sartre – nel senso di uno pseudonimo su Twitter – dal concorso: “In questo periodo sono talmente sfigato che se partecipo a Vinci Salvini vinco!”.

Molto meglio allora riversare la propria ironia sui social, come chi ha raffigurato Matteo Salvini nelle vesti di Willy Wonka, il celebre protagonista della Fabbrica di Cioccolato divenuto l’ultimo travestimento del vicepremier, così amante di giacche e cappelli di servizio. Visto il clima in giro per il Paese sorge pure il dubbio che il leader leghista possa prendersela, vedendo tutte queste creste alzate. La risposta, però, arriva da Cesare Di Trocchio: “Salvini dice basta a quelli che lo offendono e lo minacciano. A quelli che lo prendono per il culo non ha detto niente, quindi possiamo continuare”. Se non sugli striscioni, almeno sui social.