La trincea del Pd sul voto di scambio: “Legge suicida”

Si fa davvero fatica a intravedere il nuovo corso del Pd di Nicola Zingaretti. Mettiamo in fila due fatti. Il primo: lunedì 13 maggio si scopre che è indagato per voto di scambio politico-mafioso Franco Alfieri, ex sindaco di Agropoli, candidato a Capaccio-Paestum, braccio destro del governatore Vincenzo De Luca, personaggio quasi letterario per la battuta di don Vicienzo sulle “fritture di pesce” e la politica clientelare “fatta come Cristo comanda”. Il secondo: il giorno dopo, martedì 14 maggio, il Senato discute l’approvazione definitiva della legge sul voto di scambio politico mafioso, dopo il primo via libera della Camera. E il Pd vota contro, insieme a Forza Italia.

Alfieri è innocente fino a prova contraria e sulla legge appena approvata in Parlamento ci possono essere riserve anche legittime (Libera, ad esempio, ha chiesto il ritorno del testo in commissione per migliorarlo con un iter meno frettoloso), ma è difficile negare che per i dem sia un’occasione persa e una posizione difficile da spiegare agli elettori: se c’era la possibilità di dare un segnale di discontinuità, è stata sciupata.

La legge passata martedì a Palazzo Madama modifica l’articolo 416 ter del codice penale. La norma ha una formulazione semplice: chiunque accetti, direttamente o tramite intermediari, la promessa di voti da persone appartenenti ad associazioni mafiose, in cambio di denaro o altre utilità, o rendendosi disponibile a soddisfare gli interessi di quella associazione mafiosa, è punito con la pena stabilita dalla legge: da dieci a quindici anni di carcere, oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Con un’aggravante speciale: se il politico che ha ottenuto i voti della mafia viene poi effettivamente eletto, la pena è aumentata della metà (quindi fino a un massimo di 22 anni e mezzo).

Insieme a Cinque Stelle e Lega, hanno votato a favore anche Piero Grasso con i senatori di Liberi e Uguali e Fratelli d’Italia. Contrari solo Pd e Forza Italia, come già alla Camera in occasione della prima lettura a marzo. Stavolta, se non altro, il dibattito in aula è stato un po’ meno sopra le righe. Non c’è stato nessun intervento del tenore di quello del deputato Carlo Fatuzzo (fondatore del Partito pensionati eletto con Forza Italia) che dichiarò testualmente: “Con questa legge rischiamo di trovarci tutti quanti a fare il Parlamento dentro la galera”. O come quello di Giusi Bartolozzi (ancora FI): “Non sono tenuta a sapere se la persona che ho di fronte è o non è appartenente a un’ associazione mafiosa”.

I senatori sono stati più sobri, se così si può dire. Ma le posizioni sono rimaste le stesse: forzisti e dem hanno detto “no” attaccando il dilettantismo della maggioranza e definendo la legge uno “spot elettorale”. Il senatore berlusconiano Massimo Berutti ha paragonato la legge a “una clava, un martello con il quale forgiare l’ennesimo slogan le cui conseguenze saranno dannose per il Paese”. Per Enrico Aimi (pure lui forzista) questa norma “rischia di tramutare questa assemblea in una sorta di dottor Frankenstein del codice penale, operando al di fuori dei principi di civiltà che caratterizzano il nostro ordinamento”. Per Monica Cirinnà del Pd è semplicemente “una nuova formulazione pericolosa” rispetto a quella fatta approvare dai dem la scorsa legislatura e “c’è il rischio che torni la confusione e l’incertezza interpretativa”. Per la collega dem Anna Rossomando “si rischia di avere, seppure involontariamente, l’effetto delle cosiddette sentenze suicide. Norme suicide non ne avevamo ancora viste, ma siamo nel governo del cambiamento”.

Autococcodrilli

Quando defunge qualcuno importante e non lo fa all’improvviso, magari perché anziano o malato, i giornali tengono pronti gli articoli di “coccodrillo”, per evitare che la notizia li colga impreparati. È accaduto anche per Gianluigi Gabetti, custode delle finanze degli Agnelli. Lui però il coccodrillo su La Stampa se l’è scritto praticamente da solo, a parte la firma, affidata a due malcapitati giornalisti. L’ha rivelato tutto giulivo il direttore Maurizio Molinari: “Gli articoli pubblicati in queste pagine su Gabetti sono stati pensati, voluti e realizzati con il suo personale contributo. Se n’è occupato con cura, parola per parola, lavorando con Luigi La Spina e con Nadia Ferrigo, spinto dalla volontà di consegnare alle pagine del nostro giornale un ritratto il più fedele possibile a come lui voleva essere ricordato”. In mancanza di comunicati del Cdr, esprimiamo la massima solidarietà ai due colleghi ridotti ad amanuensi del morituro. Forse, conoscendo quegli scavezzacollo di Molinari, La Spina&C., Gabetti non si fidava e anzi si attendeva un assalto all’arma bianca. Magari sui fiumi di miliardi dell’Avvocato nascosti all’estero (e al fisco) e sulla condanna di Gabetti e Grande Stevens (16 mesi in appello prescritti in Cassazione) per l’aggiotaggio dell’equity swap, cioè del magheggio border line che blindò l’indebitatissima Fiat in mano alla Famiglia. Purtroppo, oltre ai testi, Gabetti s’è scordato di controllare i titoli. Altrimenti non avrebbe autorizzato questa frase a lui attribuita: “Sognavo di fare il diplomatico, capii che la vita è scomoda”. Manco fosse un senzatetto con una vita di stenti. Grande, poi, dev’essere stata la sua sorpresa appena giunto Lassù, nello scoprire che anche gli altri giornali, quelli che hanno scritto di lui senza il suo permesso preventivo, hanno evitato ogni riferimento ai fondi esteri e alla condanna prescritta: Repubblica l’ha spacciata per “assoluzione”, altri hanno sorvolato. Se quei pezzi li avesse scritti lui, non sarebbe stato così benevolo: qualche criticuzza qua e là, per non destare sospetti, l’avrebbe disseminata. Ditemi voi se un uomo di mondo e un tipo spiritoso come lui avrebbe potuto scrivere che “Gabetti finì sotto processo per salvare l’italianità del controllo della Fiat” (in realtà salvò il controllo degli Agnelli su un’azienda poi migrata fra l’Olanda, il Regno Unito e Detroit) ed “era un po’ l’ultimo torinese” (con buona pace dei restanti 900mila e rotti che si ostinano a risiedere a Torino, anziché emigrare altrove in segno di lutto). Infatti l’ha scritto Aldo Cazzullo sul Corriere. Quando c’è di mezzo un potente, certe lingue diventano come gli altiforni.

Non possono fermarsi mai perché, spente una volta, non si riattivano più. Se poi si tratta della famiglia Agnelli & affini, la salivazione sfugge a ogni controllo. Sono ancora freschi d’inchiostro gli epicedi di vedovi e prefiche inconsolabili per la dipartita di “donna” Marella Agnelli Caracciolo di Castagneto, oggetto di litanie da far invidia alla Vergine: “regina madre” (ora pro nobis), “regina degli elfi” (ora pro nobis), “principessa regale” (ora pro nobis) dai “piedi bellissimi”, “ultimo cigno che sorvolava con grandi ali bianche i giardini incantati”. L’afflato bucolico, su Libero, era di Renato Farina, detto non a caso Agente Betulla, che concede il bis su Gabetti e il “genio nascosto nella lampada, sfregando la quale ne usciva un signore che risolveva i problemi” e “ha evitato al Paese una catastrofe economica spaventosa”, a costo di appuntarsi al petto la medaglia delle “grane tribunalizie”, mica come quei pezzenti “che hanno la vocazione innata al reddito di cittadinanza”. Il prudente Gabetti non avrebbe mai osato tanto, con le decine di migliaia di operai Fiat mandati a casa.

Passando dal regno dei morti a quello dei vivi, ma sempre nell’Olimpo dei santi subito, ecco Beppe Sala, sindaco Pd di Milano. L’altro giorno il Pg ha chiesto di condannarlo a 13 mesi per falso documentale: il 31 maggio 2012 firmò due atti datati 17 maggio 2012, per sanare ex post due membri incompatibili della commissione aggiudicatrice del più grande appalto di Expo e la conseguente gara. La notizia non compare su nessuna prima pagina (a parte il Fatto). La Stampa l’ha nascosta in basso a pag. 7, il Corriere in basso a pag. 7, Repubblica a 21, il Giornale a 6 (ma con un fondo di Sallusti che difende l’imputato Sala e, già che c’è, l’indagato Fontana), il Messaggero a 14. Eppure, quando il pm chiese di condannare Virginia Raggi a 10 mesi, i processi ai sindaci imputati per falso piacevano un sacco: prima notizia in prima pagina su Corriere (“Di Maio, l’avviso a Raggi”), Repubblica (“Il pm: condannate Raggi a 10 mesi. M5S: se colpevole si deve dimettere”), Stampa (Raggi in bilico, un guaio per M5S”), Messaggero (“Sentenza Raggi, bivio per Roma”), Giornale (“Raggi nei guai: il pm chiede 10 mesi”), Foglio (“Si scrive Raggi si legge Di Maio”). La domanda alla sindaca imputata era unanime: te ne vai o no? Ieri Repubblica e Corriere hanno provveduto alla rivergination di Sala, intervistandolo non da imputato, ma da statista e futuro premier. I titoli non erano “Te ne vai o no?”, ma “La politica non mi fa più paura. Il Pd non basta” e “Per il Pd servono alleati. Ma no al M5S”. E il processo? Una banale “incognita” per il Corriere, mentre Repubblica azzardava una lacrimevole domandina: “Quanto le pesa la richiesta di condanna a 13 mesi per abuso d’ufficio per quella firma su un verbale Expo?” (il falso diventava abuso e il reato diventa la firma, non la doppia retrodatazione farlocca). Se si fosse intervistato da solo, Sala sarebbe stato più severo, per salvare almeno le apparenze. Dunque, molto meglio il modello Stampa-Gabetti. Gli articoli sui potenti se li scrivano direttamente i potenti: vengono molto meglio.

Ferrara e la S.S. (Stronzata Stratosferica)

Tutta colpa di Giuliano Ferrara. Tempo fa (l’ho letto ieri, e allora? gli editoriali mica scadono come lo yogurt) il Multistrato (alludo alla sovrapposizione di tessere e banconote, non di tessuti adiposi, io non satireggio la fisicità) ha scritto che quei tizi in debito di neuroni autodefinitisi laziali, che a Milano inneggiavano al mascelluto che ridusse l’Italia come manco i Marziani col raggio desertificatore, erano “Indementiti dalla formidabile tradizione razzista e fascista della S.S. Lazio (nomen omen).” La rivelazione mi ha tramortito. Io, da laziale ingenuo, non pensavo che S.S. stesse per Schutz-Staffel.

Per me voleva dire Società Sportiva, sigla nata quando Hitler ancora si cagava nei pannolini (e dava la colpa agli ebrei).

Così mi aveva detto mio padre, assai laziale e assai socialista fin dai tempi di Piola, come i suoi fratelli, laziali e antifascisti pure loro. Papino mi raccontò (in verità un centinaio di volte) di quando a 16 anni rischiava la galera o peggio come fattorino di volantini sovversivi. E della polizia fascista che si presentò a casa a cercarlo, con mia nonna che sviene a foglia morta. E di quando dopo l’8 settembre lui e un gruppo misto Lazio/Roma, età media 17 anni, andarono dai granatieri “a chiedere fucili per combattere l’invasore nazista”, ricevendo una selva di calci in culo che gli misero a rischio l’osso sacro ma gli salvarono la pelle. Però… se ha ragione il Multistrato… se S.S. sta davvero per Schutz-Staffel… allora papà mi ha mentito per rifarsi una verginità! Come Mengele in Argentina!

Non era un fattorino di volantini, era un infiltrato della Gestapo, lui, zio Giancarlo e zio Marcello! Nonna svenne davanti ai partigiani! E i calci in culo dei granatieri, quale altra menzogna nascondono?

Ferrara ha scoperchiato l’incubo, mi sento Jessica Lange in Music-Box quando scopre che babbo era un nazistone! Rivango tutte le parole dettemi da quell’accanito laziale, quindi incallito fascista, di mio padre, che adesso acquistano opposto e doloroso senso. Ferrara ha tolto il velo: sempre, dietro due “S” si celano svastiche! I Separatisti Sipontini! I Sessuomani Stremati! I Segaioli Solidali! Le Six Sisters! Tutti depositari di una “formidabile tradizione razzista e fascista!”.

Multy, perché mi hai fatto questo? Non potevi lasciarmi nella mia ignara serenità? Oddio, e se fossi anch’io indementito? Non sarò nazista? Ma un momento… S.S. può voler dire anche Stronzata Stratosferica! E considerando che si tratta di Ferrara…

Riusciranno i morti viventi a rianimare la moscia Cannes?

Potrebbe esistere film migliore di uno sui morti viventi per aprire Cannes? Non sono forse gli zombie il precipitato di una guerra dei mondi, nello specifico i vivi e i morti, che proprio la 72esima edizione del festival francese sembra declinare a più riprese? Tredicesima volta dietro la macchina da presa e decima sulla Croisette, l’americano Jim Jarmusch porta in Concorso I morti non muoiono (The Dead Don’t Die), che arriverà nelle nostre sale il 13 giugno, ma è già da ieri in quelle francesi: ha torto Ted Sarandos dell’arcinemica Netflix, quando stigmatizza che “Cannes ha scelto di celebrare la distribuzione e l’esercizio più che l’arte del cinema”?

La cerimonia d’inaugurazione, impreziosita da Javier Bardem e Charlotte Gainsbourg, è stata trasmessa in diretta in 600 cinema gallici, perché sarà pure una battaglia di retroguardia, quella contro il colosso dello streaming, ma il festival vuole combatterla sino all’ultimo. Una guerra di mondi che non divampa come l’anno scorso, però non si placa: “Il cinema è nato per essere fruito collettivamente, ma Netflix sta facendo un gran lavoro”, concede il presidente di giuria Alejandro G. Iñárritu.

Già laureato per Broken Flowers (Grand Prix della Giuria, 2005) e Stranger Than Paradise (Camera d’Or, 1984), stavolta Jarmusch serve una commedia horror con “un cast che farà risvegliare i morti”: i sodali Bill Murray, Adam Driver, Chloë Sevigny, Tilda Swinton, Iggy Pop, Steve Buscemi e Tom Waits, e i nuovi arrivati Selena Gomez, Danny Glover, Caleb Landry Jones.

Planato sulla Montée des Marches, The Dead Don’t Die risolve più di qualche problema al direttorissimo Thierry Fremaux: annacqua l’ormai cronica siccità di film americani; rimpolpa il tapis rouge di divi e divine, merce anche qui sempre più rara; si fregia di uno spin politico, scorciando tra gli zombie l’apocalisse ecologica e il deplorevole stato dell’unione sotto Donald J. Trump; tributa onori e oneri dell’inaugurazione a un signor Jarmusch e non, per dire, a una “signora nessuno” quale Emmanuelle Bercot, A testa alta nel 2015. Insomma, meglio morti viventi che morti di fama, e quando escono dalle tombe di Centerville toccherà a tre agenti di polizia, lo sceriffo Murray, il vice Driver e l’ipersensibile Sevigny, rimandarli ai più. Il sangue scorre a fiumi, ed ecco il dubbio: e se fossero questi nostri tempi a minacciare di divorarci vivi? Voltaggio metaforico, come genere vuole, e punteggiatura satirica, l’America è qui e ora. E a tornarci è anche Iñárritu, complice il muro in costruzione al confine con il suo Messico: “Non sono un politico, ma c’è chi sparisce nel deserto e chi affoga nel mare. Il problema è l’ignoranza: quando non si conosce, è facile essere manipolati”.

Belligerante è anche il fronte del #MeToo. Per ora nel mirino delle femministe è finito la Palma d’Onore, Monsieur Alain Delon, bollato manesco, omofobo e reazionario e quindi indegno: premi diversi, Palma e non Nobel, ed epoche diverse, l’ha difeso Fremaux, ma potrebbe non essere l’ultimo. Il gender gap rimane questione incandescente: un conto è la parità – raggiunta – tra selezionatori e selezionatrici del festival, altro tra registi e registe. Alice Rohrwacher, regista e giurata, trova la metafora buona: “Non chiedete a un naufrago di spiegare come è arrivato sulla spiaggia, chiedetelo a chi ha fabbricato la barca, a chi ha venduto i biglietti”.

Mentre il festival dispensa disagi con embarghi e proiezioni stampa in contemporanea all’ufficiale e perpetua un classismo da ancien régime (anteprime per soli 300 giornalisti eletti), l’unico italiano in gara, Il traditore di Marco Bellocchio, inizia a far parlare di sé. Querelle via Instagram, con Giovanni Montinaro, figlio del caposcorta di Giovanni Falcone, Antonio, morto a Capaci, che scrive al protagonista Pierfrancesco Favino: “Sinceramente, l’uscita nelle sale il 23 maggio è solo marketing, da orfano di quella strage mi permetto di scrivere che è decisamente offensivo. Nulla di personale, da ignorante in materia, la considero un attore fenomenale”.

 

L’abbraccio dei compagni e un futuro (forse) all’estero

“Oggi è un giorno triste. Oggi si chiude un altro capitolo importante della storia dell’As Roma, ma soprattutto di Roma… della nostra Roma. In questi anni ne abbiamo passate tante insieme, siamo cresciuti insieme, diventando prima di tutto uomini, poi calciatori, per poi infine diventare genitori. Ma sapevamo che questo momento prima o poi sarebbe arrivato”. Sui profili social di Francesco Totti, alle 17.30 di ieri, è comparsa la foto di un abbraccio in campo e queste frasi, che per i tifosi romanisti sono, davvero, la parola fine. Daniele De Rossi, dopo 18 anni di onorato servizio, ha annunciato di dover lasciare la squadra a fine stagione, il 26 maggio prossimo, quando l’Olimpico – a soli due anni di distanza dall’addio dell’ex capitano – piangerà nuovamente per la chiusura di un’era.

“La società mi ha comunicato lunedì l’intenzione di non rinnovare, io però lo avevo immaginato: ho quasi 36 anni, se nessuno ti chiama per un anno o per 10 mesi per ipotizzare un eventuale contratto la direzione è quella”. Si aspettava una proposta di rinnovo da calciatore, DDR, che invece non è arrivata: “Abbiamo espresso a Daniele la volontà e il desiderio di averlo nell’organico della società per continuare la sua carriera all’interno della Roma nel percorso che lui deciderà”, ha comunicato il ceo Guido Fienga. Un posto nel management, proprio come il dirigente Totti. Risposta, per adesso, respinta al mittente. “Lascio a Francesco il lavoro sporco, spero che prenda più potere possibile – ha proseguito De Rossi –. Mi sento ancora calciatore, mi ci sono sentito tutto quest’anno nonostante i problemi fisici e ho voglia di continuare”.

Il futuro, dunque, senza più quella maglia giallorossa che gli sembrava cucita sul petto. Dove andrà? Di ufficiale ancora non c’è nulla, valuterà caso per caso, finora si era concentrato sulla Champions. Sicuramente prenderà in considerazione offerte in Italia, se ci saranno, ma con attenzione maggiore quelle provenienti dall’estero, magari dagli Stati Uniti.

Innumerevoli le attestazioni di stima e di affetto giunte ieri al capitano. Innumerevoli le dichiarazioni d’amore dei suoi tifosi che, per tutto il giorno, hanno continuato a puntare il dito contro la società, rea di aver trafitto er core giallorosso.

Tolto De Rossi ci resta solo il veleno (e i fake men)

Cosa ha detto Daniele? Da quando è meno presente sul campo la sua voce, la vera voce della Roma, si è fatta più limpida, più autentica, più indispensabile. Ascoltarlo a fine partita mi ha sempre aiutato a stemperare la rabbia, a ragionare quando sragiono, a sorridere insieme a lui quando il sorriso gli spunta sotto la barba, e andiamo a letto contenti. In un mondo di fake men, di patentati avvelenatori di pozzi, di cosiddetti comunicatori che passano il tempo a comunicare i loro cattivi umori e personali fallimenti, ascoltare De Rossi significa sapere che lui c’è. Che c’è la persona di cui ti fidi, capace di esprimere concetti semplici, argomentati, in un italiano corretto perché chi parla bene pensa bene. Bello immaginarlo nello spogliatoio mentre incoraggia i più anziani e cazzia i più giovani, con le parole giuste di un capitano che non si fa chiamare capitano perché capitano lui lo è e basta. Puro godimento guardarlo allo stadio mentre prevede lo sviluppo del gioco, e se le gambe non sono più le stesse eccolo mentre entra col tempo giusto sull’avversario, magari con una stecca sulla caviglia tanto per capirsi. E fa niente se nello slancio esagera e si becca un bel rosso e la vena pulsa. DDR c’è.

Cosa ha detto Daniele? Che il presidente non lo ha chiamato, che il consigliere del presidente non lo ha chiamato, che dopo tanti anni ha capito che era finita perché nessuno glielo ha detto. Fino all’altroieri, quando il chi glielo dice è toccato al manager Guido Fienga, triste e solitario: brutto mestiere congedare un sentimento e farsi odiare da una città. Daniele ha detto che non sarà mai un dirigente se dirigente significa strappare quella maglia e cacciare un capitano che, chissenefrega degli acciacchi, sa ancora lanciarsi da un’area all’altra per spingere il pallone dentro la rete, come a Genova con la Sampdoria, e gridare al cielo con i pugni chiusi e restituire speranza. Cos’altro ha detto, e non ha detto, Daniele? Che nello spogliatoio non ci sarà più nessuno a spronare i vecchi e a cazziare i giovani, con uno sguardo. Che non sarà più lui a darci equilibrio, a tenerci calmi, con la lingua italiana e la trasparenza dei pensieri. Voce la sua, spenta la quale ci sarà tempo e spazio solo per gli avvelenatori di pozzi, per massacrare la Roma e spargere sale sulle ferite. Che se per gli americani nella Roma business is business, questa volta James Pallotta ha sbagliato i conti di brutto perché con De Rossi viene cancellata una voce essenziale per un marchio che vende emozioni. Hai ceduto i pezzi più pregiati, hai sbagliato allenatore e direttore sportivo, solo un miracolo ti può mandare in Champions, ti fai snobbare dallo juventino Antonio Conte, la tifoseria cade in depressione, ti era rimasta una grande bandiera e tu cosa fai, l’ammaini (questo Daniele non lo ha detto, ma forse lo ha pensato).

Cos’altro resta? Che il 26 marzo, due anni dopo Francesco Totti, all’Olimpico ci sarà un altro addio, e saremo di nuovo lì a mangiarci il cuore (destino di chi si affeziona alle persone e non alle figurine). Che forse si tratta solo di aspettare che Daniele, un giorno, ritorni tra noi come allenatore. Il problema è che lui di anni ne ha 36. Io 73.

Sudan, i paramilitari che non vogliono la pace

Almeno sette dimostranti, che partecipavano in piazza a Khartoum al sit-in contro i militari, e un ufficiale dell’esercito, sono stati ammazzati domenica a tarda notte a sangue freddo, poche ore dopo l’annuncio di un accordo per nominare un governo di transizione misto. Diversi militanti sono stati feriti assieme a due soldati. Non è ancora ben chiaro a chi appartenga la mano omicida. I manifestanti accusano le autorità, i soldati hanno addossato la colpa a elementi estranei “infiltrati nella protesta”.

Sembra proprio però che l’attacco al cuore della piazza miri a fare deragliare il processo di pace, il cui obbiettivo è quello di varare un governo di transizione a partecipazione comune, civili-militari, per arrivare a elezioni democratiche e a una nuova leadership. Lo stringer del Fatto Quotidiano, sentito al telefono a Khartoum, non ha avuto dubbi: “Responsabili del massacro sono i paramilitari della Rapid Support Forces, gli ex janjaweed, i diavoli a cavallo che negli anni scorsi terrorizzavano le popolazioni del Darfur. Attaccavano i villaggi indifesi, massacravano gli uomini, violentavano le donne, rapivano i bambini e bruciavano le capanne. Sono paramilitari che sostengono il presidente Omar Al Bashir, cacciato un mese fa dalle proteste di piazza e ricercato dal Tribunale Penale Internazionale, proprio per quei crimini contro l’umanità perpetrati delle province occidentali del Paese”.

Insomma milizie formate da criminali, cui il governo sudanese ha affidato il controllo delle frontiere settentrionali per bloccare il passaggio dei migranti, un compito finanziato – ufficialmente, con forniture logistiche, camionette, fuori strada, carburante e attrezzature diverse, ma non con denaro – dall’Unione Europea, con il concorso dell’Italia, ai tempi dell’amministrazione Gentiloni. Certamente i gravi episodi di ieri avvalorano la tesi che una parte dell’élite militare del Paese non intende lasciare il potere. La piazza ha dato segni in insofferenza quando pochi giorni fa portavoce dell’amministrazione transitoria dei militari è stato nominato il generale Shams al-Din Kabashi. Trent’anni fa, 30 giugno 1989, quando Omar Al Bashir prese il potere e comparve in televisione per annunciare il successo del suo colpo di Stato, alle sue spalle c’era proprio Kabashi. Ovvio il nervosismo della folla che protesta dal 18 dicembre dello scorso anno e in questi mesi ha sempre chiesto la rimozione di tutti gli ufficiali compromessi con il regime di Al Bashir.

Per altro Kabashi, in una conferenza stampa tenuta nella notte, ha tenuto a dichiarare che i soldati hanno l’ordine di non sparare sui civili e “mai spareranno”. L’attacco di ieri segue di qualche ora l’annuncio del procuratore generale secondo cui l’ex presidente è stato incriminato per gli omicidi di manifestanti l’11 aprile scorso. Una notizia accolta con tripudio e giubilo dai dimostranti accampati da mesi davanti al quartier generale delle forze armate a Khartoum.

La Françafrique costa all’Eliseo altri due morti

Sul ponte Alexandre II, a Parigi, la folla ha aspettato l’arrivo delle bare dei due soldati morti in missione il 10 maggio scorso in Burkina Faso. Il convoglio ha poi raggiunto il cortile del palazzo degli Invalides dove si svolgono tutti gli omaggi nazionali ai militari morti per la Francia.

Questa volta l’omaggio riguardava Cédric de Pierrepont, 33 anni, e Alain Bertocello, 28 anni, del Commando Hubert, un’unità d’élite della marina francese, rimasti uccisi durante un blitz per liberare due turisti francesi rapiti il primo maggio mentre si trovavano nel parco nazionale del Pendjari, nel nord del Benin, al confine col Burkina Faso. Una zona pericolosa per il ministero degli Esteri a causa della presenza di gruppi jihadisti legati ad al Qaeda o all’Isis.

Nell’operazione quattro ostaggi, anche una sudcoreana e un’americana, sono stati liberati. Per Macron i due soldati sono “morti da eroi per la Francia”. Dal 2000 a oggi almeno 231 soldati francesi sono morti in operazioni esterne, ricorda il sito di Le Figaro. Ma negli ultimi anni la Francia conta i suoi morti soprattutto nel Sahel, l’ampia regione desertica che si estende tra Mali, Burkina Faso, Niger, Ciad e Mauritania dove Parigi nel 2014 ha lanciato l’operazione Barkhane, con una presenza fino a 3.000 soldati. Per quanto riguarda il Burkina la collaborazione militare con Parigi era stata rinnovata appena lo scorso dicembre, siglata da Macron e dal presidente Kaboré. L’accordo prevedeva anche la consegna da parte di Parigi di 34 pick up armati. È invece in Mali che si trova l’ultimo ostaggio francese, il medico Sophie Pétronin, rapita nel 2016 dai terroristi di al Qaeda nel Maghreb islamico. Se la colonizzazione si è conclusa nel 1960, nei fatti la Francia non ha mai smesso di estendere la sua sfera di influenza nelle sue ex colonie, dove resta presente tanto sul piano economico che militare. La prima tappa del primo tour ufficiale di Macron sul continente africano, nel novembre 2017, era stata proprio a Ouagadougou, la capitale del Burkina Faso. Macron, arrivato all’Eliseo appena sei mesi prima, aveva tenuto un dibattito fiume con gli studenti dell’università di Ouagadougou, denunciando i “crimini incontestabili” della colonizzazione europea e la fine della “politica africana” della Francia.

Una promessa di rottura col passato che era stata già avanzata, senza mai tradursi in fatti, dal suo predecessore, François Hollande. L’accoglienza che Ouagadougou aveva riservato al presidente francese però non era stata calorosa. Contro i veicoli del convoglio presidenziale erano state lanciati sassi e davanti all’ateneo decine di manifestanti avevano montato delle barricate con slogan “Abbasso lo sfruttamento dell’Africa da parte dell’Occidente”.

I giovani, che rappresentano la metà della popolazione in Burkina Faso, vogliono farla finita con quella che comunemente viene chiamata la Françafrique, un termine che indica l’influenza della Francia sulle sue ex colonie grazie ad accordi economici privilegiati, alle presenza dei grandi gruppi francesi sul territorio, come Areva, che sfrutta le miniere di uranio in Niger, e al franco Cfa, la moneta corrente nelle ex colonie francesi stampata dalla Banque de France. Un movimento sociale, il Balai citoyen (“balai” significa “scopa”), nato nel 2013 in opposizione all’ex presidente Compaoré, si batte per la fine del “paternalismo francese”.

Una politica contro cui molte voci critiche si levano anche in Francia.

Cina, la nuova Via della Seta apre la strada ai carri armati

Una rete di basi militari stesa intorno al mondo, per proteggere gli investimenti del programma d’infrastrutture globali One Belt One Road, la cosiddetta “Nuova Via della Seta”: il Pentagono ritiene che Pechino stia progettando l’allestimento di punti d’appoggio militari, di terra, d’aria, di mare e spaziali, secondo quanto contenuto in un rapporto pubblicato ai primi di maggio. L’esplicita percezione d’una crescente minaccia militare cinese coincide con un picco delle tensioni commerciali e tecnologiche tra Washington e Pechino, innescato dalla guerra dei dazi riaccesa, quasi in contemporanea alla pubblicazione del rapporto, dal presidente Donald Trump. È un cane che si morde la coda: così, Pechino vede sempre più ostili gli Usa di Trump, che cercano di frenare l’espansione del potere cinese.

Attualmente, Pechino ha solo una base militare al di fuori del proprio territorio, a Gibuti; ma ne starebbe progettando altre, fra cui una in Pakistan, tradizionale quanto inaffidabile alleato dell’America, cercando di darsi una dimensione da Super-Potenza globale. Altre basi cinesi potrebbero trovare collocazione nell’Asia sud-orientale, nel Pacifico occidentale, in Medio Oriente. E, un conflitto militare a bassa tensione tra Cina e Usa è già in atto nel Mar cinese meridionale. La scelta di Trump di alzare il livello del confronto, invece di smussare le tensioni, rischia d’indurre Pechino a riavvicinarsi ancora di più a Mosca: è notizia recente un ciclo di manovre navali congiunte russo-russo-cinesi, denominate “Joint Sea 2019” e svoltesi nelle acque di Qingdao, provincia dello Shandong, coinvolgendo due sommergibili, 13 navi di superficie, elicotteri, aerei. Unite dalla rivalità con gli Usa, Pechino e Mosca condividono – dicono fonti della Difesa cinese – una “partnership strategica contro un mondo unipolare”, a dominio americano. A settembre 2018, circa 3.200 soldati cinesi presero parte ai “giochi di guerra” in Siberia, le più grandi manovre mai fatte in Russia con la partecipazione di circa 300 mila militari.

Ora il Dipartimento per la Difesa Usa prevede che la Cina punterà “su quei Paesi con cui ha relazioni d’amicizia consolidate e interessi strategici coincidenti, come il Pakistan, in funzione pure anti-indiana, o che hanno l’abitudine d’accogliere installazioni militari di altri Paesi”. Potrebbe però succedere che gli sforzi cinesi siano ostacolati da Paesi preoccupati d’avere sul proprio territorio una presenza a tempo pieno delle forze armate cinesi. Il rapporto del Pentagono è stato pubblicato dopo l’uscita d’una nota d’allarme per l’intensificarsi delle attività cinesi al di là del Circolo polare artico, che potrebbero aprire la via a una rafforzata presenza militare nella Regione, compreso lo spiegamento di sottomarini come arma di deterrenza contro un attacco nucleare. La Danimarca, dal canto suo, ha espresso preoccupazioni per l’interesse cinese per la Groenlandia: Pechino si propone d’installarvi una stazione di ricerca e una stazione a terra per i satelliti, d’espandere la sua presenza nel settore minerario e d’ampliare e rinnovare le strutture aeroportuali. I danesi temono che “le ricerche civili fungano da supporto a una rafforzata presenza militare cinese nell’Artico”. L’anno scorso, fonti di stampa riferirono di trattative per una base cinese nel “corridoio del Vacan”, nel Nord-Ovest dell’Afghanistan, una striscia stretta (tra i 12 e i 60 km) e lunga (circa 260 km), nella provincia del Badakhshan, che rende più agevole il transito tra Cina e Pakistan via Tagikistan. Poco tempo fa, il Washington Post ha individuato un avamposto militare dove sarebbero dislocate numerose truppe cinesi nel Tagikistan orientale.

Il presidente cinese Xi Jinping intende proiettare il potere o almeno l’area d’influenza del suo Paese al di là del tradizionale e immediato “cortile di casa” dell’Asia orientale e sud-orientale. Ciò può comportare un rafforzamento della presenza della Cina nelle Istituzioni internazionali – dall’Onu all’Accordo di Parigi contro il riscaldamento globale –, l’acquisizione di tecnologie d’avanguardia e il consolidamento di una forte presenza economica in tutto il mondo. A ciò s’accompagna, non esplicitata, una proiezione globale della forza militare cinese in terra, mare e cielo e nello spazio. Nel rapporto del Pentagono si legge che “i leader cinesi stanno usando la leva del loro crescente potere economico, diplomatico e militare per consolidare la loro prominenza regionale ed espandere l’influenza internazionale”. Nel Mar cinese meridionale, Pechino ha già stabilito avamposti militari. Qui s’intersecano interessi di vari attori: dalla Cina alla Malaysia, agli Usa.

Precari della ricerca, uno spiraglio nella prossima legge di Stabilità

Dopo la manifestazione di ieri in piazza Montecitorio, i precari degli enti pubblici di ricerca hanno strappato una nuova piccola promessa al governo: con la prossima legge di stabilità saranno stanziati almeno 5 milioni di euro aggiuntivi da destinare alle assunzioni a tempo indeterminato al Cnr. Questo significa che la strada per risolvere il problema è ancora lunga, ma la cifra potrà garantire il posto fisso a un centinaio di persone in più.

A guidare il sit-in alla camera dei Deputati è stato il coordinamento Precari uniti del Cnr, che è il centro di ricerca più grande. Con loro, i colleghi degli istituti di astro-fisica (Inaf), di fisica nucleare (Infn) e geofisica e vulcanologia (Ingv), oltre ai sindacati della conoscenza di Cgil, Cisl e Uil. Tutti insieme per chiedere la piena applicazione della legge Madia, approvata nel 2017, la quale permetterebbe ai centri di ricerca di stabilizzare quei precari con più di tre anni di anzianità negli ultimi otto, definiti quindi “storici”. La stessa ex ministra della Funzione pubblica, che ha dato il nome alla norma, ha raggiunto i ricercatori durante il presidio. Il problema è che nei 22 enti di ricerca posti sotto la vigilanza dei ministeri oggi si aggirano ancora oltre 1.500 studiosi che, pur avendo i requisiti, sono ancora costretti a operare con un contratto a termine. A frenare il completamento delle assunzioni permanenti sono stati finora vari fattori. Inizialmente il problema erano le risorse distribuite con il contagocce. Al Cnr, per esempio, sono arrivati nel 2018 40 milioni – messi a disposizione dal governo Gentiloni – ai quali l’istituto avrebbe dovuto aggiungerne almeno 20 tirandoli fuori dalle casse proprie. Solo mesi dopo, il governo Conte ha vincolato alle stabilizzazioni i fondi premiali, quindi altri 34,5 milioni. In teoria, 94,5 milioni tutti da spendere per superare il precariato. Il Cnr, però, non ha messo sul piatto i 20 milioni di co-finanziamento obbligatorio, considerandoli assorbiti dai 34,5 milioni. Nonostante abbia ancora almeno 700 ricercatori idonei alla stabilizzazione, quest’anno ne farà entrare solo 208.

L’Infn e l’Ingv, invece, non hanno nemmeno avviato i concorsi per trasformare in posti fissi quelli che oggi sono collaboratori o assegnisti di ricerca. Per scelta e non per necessità. Insomma, anche ora che si può contare su una dote più ricca – ancora non del tutto sufficiente – i vertici degli istituti si mettono di traverso. Solo il governo può prendere di petto la situazione, aumentando i fondi alla ricerca e destinando quello che serve alle stabilizzazioni.