Si fa davvero fatica a intravedere il nuovo corso del Pd di Nicola Zingaretti. Mettiamo in fila due fatti. Il primo: lunedì 13 maggio si scopre che è indagato per voto di scambio politico-mafioso Franco Alfieri, ex sindaco di Agropoli, candidato a Capaccio-Paestum, braccio destro del governatore Vincenzo De Luca, personaggio quasi letterario per la battuta di don Vicienzo sulle “fritture di pesce” e la politica clientelare “fatta come Cristo comanda”. Il secondo: il giorno dopo, martedì 14 maggio, il Senato discute l’approvazione definitiva della legge sul voto di scambio politico mafioso, dopo il primo via libera della Camera. E il Pd vota contro, insieme a Forza Italia.
Alfieri è innocente fino a prova contraria e sulla legge appena approvata in Parlamento ci possono essere riserve anche legittime (Libera, ad esempio, ha chiesto il ritorno del testo in commissione per migliorarlo con un iter meno frettoloso), ma è difficile negare che per i dem sia un’occasione persa e una posizione difficile da spiegare agli elettori: se c’era la possibilità di dare un segnale di discontinuità, è stata sciupata.
La legge passata martedì a Palazzo Madama modifica l’articolo 416 ter del codice penale. La norma ha una formulazione semplice: chiunque accetti, direttamente o tramite intermediari, la promessa di voti da persone appartenenti ad associazioni mafiose, in cambio di denaro o altre utilità, o rendendosi disponibile a soddisfare gli interessi di quella associazione mafiosa, è punito con la pena stabilita dalla legge: da dieci a quindici anni di carcere, oltre all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Con un’aggravante speciale: se il politico che ha ottenuto i voti della mafia viene poi effettivamente eletto, la pena è aumentata della metà (quindi fino a un massimo di 22 anni e mezzo).
Insieme a Cinque Stelle e Lega, hanno votato a favore anche Piero Grasso con i senatori di Liberi e Uguali e Fratelli d’Italia. Contrari solo Pd e Forza Italia, come già alla Camera in occasione della prima lettura a marzo. Stavolta, se non altro, il dibattito in aula è stato un po’ meno sopra le righe. Non c’è stato nessun intervento del tenore di quello del deputato Carlo Fatuzzo (fondatore del Partito pensionati eletto con Forza Italia) che dichiarò testualmente: “Con questa legge rischiamo di trovarci tutti quanti a fare il Parlamento dentro la galera”. O come quello di Giusi Bartolozzi (ancora FI): “Non sono tenuta a sapere se la persona che ho di fronte è o non è appartenente a un’ associazione mafiosa”.
I senatori sono stati più sobri, se così si può dire. Ma le posizioni sono rimaste le stesse: forzisti e dem hanno detto “no” attaccando il dilettantismo della maggioranza e definendo la legge uno “spot elettorale”. Il senatore berlusconiano Massimo Berutti ha paragonato la legge a “una clava, un martello con il quale forgiare l’ennesimo slogan le cui conseguenze saranno dannose per il Paese”. Per Enrico Aimi (pure lui forzista) questa norma “rischia di tramutare questa assemblea in una sorta di dottor Frankenstein del codice penale, operando al di fuori dei principi di civiltà che caratterizzano il nostro ordinamento”. Per Monica Cirinnà del Pd è semplicemente “una nuova formulazione pericolosa” rispetto a quella fatta approvare dai dem la scorsa legislatura e “c’è il rischio che torni la confusione e l’incertezza interpretativa”. Per la collega dem Anna Rossomando “si rischia di avere, seppure involontariamente, l’effetto delle cosiddette sentenze suicide. Norme suicide non ne avevamo ancora viste, ma siamo nel governo del cambiamento”.