La competizione è truccata anche se il prezzo non sale

Se voletefarvi un’idea di quello che diventerà il dibattito principale in Usa e Ue, c’è un utile libro, chiaro e conciso, di Stefano Mannoni (ex Autorità delle comunicazioni) e Guido Stazi (Antitrust). Il dibattito è il seguente: Facebook e Google, creano pericolose distorsioni della concorrenza (e della democrazia) anche se i consumatori sembrano avere solo benefici dalla loro posizione dominante? C’è qualcosa di male nel ricevere sempre nuovi servizi a costo zero? Negli Usa si è affermata una cultura antitrust che sosteneva di no: quello che conta è l’efficienza, se il monopolista digitale si rafforza mentre i consumatori stanno sempre meglio, va bene così. La Commissione Ue, invece, vuole preservare anche la concorrenza: se Google strozza i competitor di alcuni suoi servizi, il benessere complessivo scende. Ora negli Usa alcuni candidati democratici vogliono smantellare Google, Facebook e Amazon, per ridurre il loro potere di mercato, separando i vari rami d’azienda.

 

 

Is competition one click away?

Mannoni e Stazi

Pagine: 112

Prezzo: 10

Editore: Editoriale scientifica

La sicurezza energetica di cui ha bisogno l’Italia

Gli americani starebbero aggredendo il Venezuela per mettere le mani sul suo petrolio. In Libia sarebbe la stessa cosa, solo che questa volta con Francia e Italia come protagoniste. Dall’inizio dell’800, quando i combustibili di origine fossile, prima il carbone e poi gli idrocarburi, si sono affermati come le principali fonti energetiche (oggi carbone, petrolio e gas coprono quasi l’80% del fabbisogno energetico globale), la sicurezza energetica è stata spesso identificata con il controllo diretto di queste risorse, oppure con la garanzia di potersele procurare a prezzi moderati.

L’Impero britannico ha basato il suo dominio sulla grande disponibilità di carbone per alimentare l’industria e poi la flotta. Dopo la decisione di Winston Churchill nel 1914 di convertire il sistema di propulsione della Marina imperiale dal carbone al petrolio, i britannici acquisirono il controllo diretto di Anglo Persian Oil Company (oggi BP) per garantirsi rifornimenti certi a prezzi vantaggiosi in Iran. La Germania nazista investì massicciamente nella tecnologia per produrre combustibile sintetico e, quando questo si rivelò insufficiente, orientò la campagna di conquista verso i ricchi giacimenti petroliferi del Mar Caspio. Gli Stati Uniti avevano supportato la presenza di società petrolifere americane in Medio Oriente già dopo la Prima guerra mondiale. Hanno poi partecipato a un colpo di Stato contro il primo ministro Mossadeq, reo di aver nazionalizzato nel 1951 il petrolio iraniano; hanno poi dichiarato guerra all’Iraq per due volte in poco più di un decennio, per impedire a Saddam di controllare il Golfo Persico, la regione con le maggiori riserve petrolifere del pianeta.

La storia sembra insegnarci che l’avvento dei combustibili fossili avrebbe costretto le grandi potenze a intervenire per prevenire choc dal lato dell’offerta o dei prezzi. Questa interpretazione si scontra però con il dato che, da dopo la Seconda guerra mondiale a oggi, i grandi paesi esportatori di idrocarburi hanno bloccato le esportazioni per una sola volta: con l’embargo dei paesi arabi dell’Opec nel 1973 (misura compensata però dall’aumento della produzione nei paesi non arabi dell’Opec come il Venezuela e l’Iran).

I grandi esportatori, dal momento in cui hanno acquisito il controllo delle proprie risorse naturali a metà anni 70, hanno sempre avuto come principale interesse quello di venderli. Sono stati semmai i grandi consumatori, in particolare gli Stati Uniti, ad aver ostacolato a più riprese il flusso globale del petrolio. È avvenuto dopo la nazionalizzazione di Mossadeq, e continua ad avvenire oggi con l’embargo all’Iran. È avvenuto dopo la sconfitta di Saddam nel 1991 con l’Iraq sottoposto a sanzioni. Avviene oggi ai danni del greggio venezuelano.

Se gli esportatori non hanno mai veramente creato problemi in passato, possiamo star certi che non lo faranno in futuro. Il dibattito di domani non riguarderà più il rischio del possibile raggiungimento del “picco” di produzione del petrolio, quanto il cosiddetto “picco della domanda”: il fatto cioè che il consumo di idrocarburi dovrà necessariamente diminuire in modo da ridurre, fino ad azzerare, l’aumento delle emissioni nette di CO2 entro metà di questo secolo.

La questione centrale per la sicurezza sarà dunque il modo in cui gestire la necessaria riduzione nell’utilizzo dei combustibili fossili. Tra i problemi principali vi saranno: evitare di rimanere indietro nella corsa alle nuove tecnologie per il risparmio energetico e le fonti rinnovabili (Francia e Germania hanno appena annunciato un investimento di oltre 6 miliardi di euro per produrre una “batteria europea” per auto elettriche); garantire energia a prezzi abbordabili alle fasce più deboli della società; limitare la dipendenza dei bilanci pubblici dalle entrate per l’utilizzo di prodotti petroliferi (come le accise); creare infrastrutture tecnologiche e giuridiche per un “new deal verde”, progetto verso il quale si stanno muovendo le sinistre dei paesi cardine dell’età delle energie fossili, gli Stati Uniti con Sanders e la Gran Bretagna con Corbyn.

Secondo lo stesso Piano Energia e Clima 2030 del governo, l’Italia dovrà passare da un consumo lordo di energia (escluse fonti rinnovabili) di 120 milioni tonnellate equivalente petrolio (mtep) nel 2017 a 116 mtep nel 2025. Il consumo di carbone dovrà nel medio periodo azzerarsi; quello di petrolio diminuire drasticamente; il consumo di gas dovrebbe passare da 75 miliardi di metri cubi a 60 miliardi di metri cubi nel 2030. Questa strada è tracciata non dalla cospirazione delle Greta Thunberg di turno, ma dal fatto che l’attuale modello di consumo energetico genererà danni climatici e fenomeni migratori dai costi sempre più impossibili da sostenere. Ogni nuovo investimento infrastrutturale orientato all’aumento del consumo di idrocarburi, dal Tap al gasdotto East Med, avrà dunque l’effetto paradossale di diminuire, piuttosto che aumentare, la sicurezza energetica dell’Italia.

L’energia viene prodotta e consumata non tanto tramite libere scelte individuali ma mediante l’utilizzo di sistemi e infrastrutture energetiche che derivano da decisioni politiche e da investimenti dei grandi attori economici pubblici e privati. Garantire sicurezza energetica agli italiani implicherà non un nuovo gasdotto, o l’estrazione di un barile in più in Basilicata, ma una drastica riduzione dei consumi di energia e una “rivoluzione verde” che, se non avviata per tempo e con saggezza, produrrà inediti problemi per il territorio e un massiccio incremento della diseguaglianza sociale.

Unicredit pensa a Commerz, ma Berlino non vuole

I dubbi degli osservatori finanziari sulle mosse dell’ad di Unicredit, Jean Pierre Mustier hanno ieri avuto una risposta concreta. La Reutersha rivelato che Unicredit ha ingaggiato Lazard e il suo banchiere Joerg Asmussen (ex vicemistro delle Finanze tedesco) e Jp Morgan per una potenziale offerta d’acquisto per Commerzbank. Solo in serata l’istituto italiano ha precisato che “non è stato firmato alcun mandato relativo a possibili operazioni di mercato oggetto di indiscrezioni ”. La banca fa sapere che cambi di strategia non arriveranno prima del piano industriale che sarà presentato a dicembre. La notizia ha però affossato il titolo di Unicredit, che in Borsa è arrivato a perdere il 2,5%, per poi chiudere a -1,69% mentre ha fatto schizzare quello della banca tedesca (+5%), che ha appena visto saltare le nozze con Deutsche Bank.

Al di là della smentita, gli advisor sono stati effettivamente sondati dai vertici di Unicredit, da tempo interessati a espandere le attività in Germania, con un tentato approccio avvenuto già nel 2017, fermato da Berlino e dalla pesante ristrutturazione del gruppo italiano, che in Germania è presente da anni con la controllata Hbv. Dopo aver detto solo pochi giorni fa di considerare “molto difficili” le fusioni transfrontaliere, si scopre così che Mustier ha provato a dare concretezza alle sue strategie. La velocità con cui la notizia è trapelata sembra suggerire che la fuga di notizie sia partita da Berlino. Un segnale della contrarietà del governo tedesco all’operazione, su cui i rumors erano già circolati un mese fa.

Tutte le mosse del banchiere ex Société Général, arrivato a giugno 2016, si spiegano solo col tentativo di puntare ad acquisizioni o fusioni sul mercato estero. Finora ha badato a pulire la banca dalla zavorra delle sofferenze, costata una perdita monstre nel 2016 con una ricapitalizzazione da 13 miliardi che ha schiantato i vecchi soci storici italiani. Per coprire una perdita in realtà di quasi 20 miliardi, creata dalle pesanti rettifiche sui crediti deteriorati, Mustier ha ceduto i gioielli di casa: la polacca Pekao, il gestore del risparmio Pioneer e il 30% della banca online Fineco. Nei giorni scorsi con un’operazione lampo ha ceduto un altro 17% di Fineco (incasso 1 miliardo), la più grande e profittevole fintech europea che in questi anni ha garantito forti acquisti di bond della controllante e utili corposi. La mossa, ha spiegato la banca, è parte di una strategia che prevede anche un alleggerimento graduale dei titoli di Stato italiani in portafoglio (il gruppo ne ha per 54 miliardi di euro), portandoli a scadenza.

Il sospetto che la seconda banca italiana, l’unica sistemica, si stia disimpegnando dal Paese per fondersi con un gruppo estero è sempre più concreto. Di fatto la “cura” Mustier, che ha sempre detto di voler puntare a una crescita organica, si è ridotta a una pulizia di bilancio e alla cessione degli asset che finora hanno garantito margini positivi (il titolo ne ha risentito, tornando verso i minimi storici, -95% dai massimi del 2007), visto che la banca retail fatica come tutti i competitor del settore, che infatti si sono gettati sul risparmio gestito. Anche le attività in Germania non vanno benissimo.

Nel silenzio del governo italiano (e ieri pure della Consob), i dubbi riguardano anche il bersaglio. È vero che Unicredit si posizionerebbe in un mercato dove la raccolta non è appesantita da uno spread alle stelle – con l’ipotesi di uno scorporo delle attività italiane (considerate più rischiose) dal resto del business – ma Commerz è in crisi da anni, con margini bassissimi e costi che superano l’80%. Al suo interno, col 15%, ha peraltro lo Stato tedesco. L’interesse per una banca retail in cattive acque è complicato poi dai dubbi sull’atteggiamento dei regolatori. È però in quest’ottica che alla presidenza è stato scelto Fabrizio Saccomanni, ex ministro e direttore generale di Bankitalia, da sempre legato al presidente della Bce Mario Draghi.

Eni, all’assemblea dei soci solo silenzi sulle inchieste

Delle due signore dell’Eni, l’una ha celebrato con tono ottimistico i successi della compagnia e i programmi futuri. Emma Marcegaglia, la presidente, ha espresso “grande soddisfazione per i risultati raggiunti nel 2018” e per il rafforzamento della “nostra posizione in Norvegia, Indonesia, Messico e Medio Oriente”. E ha annunciato un nuovo piano di acquisto di azioni proprie (buyback) e due possibili innovazioni al sistema di governance: la scadenza differenziata degli amministratori (staggered board) e il sistema monistico, nel quale l’organo di controllo è un’articolazione del cda.

La seconda delle signore dell’Eni aleggiava invece nel salone dell’Eur dove si è svolta l’assemblea 2019 degli azionisti, ma il suo nome è stato accennato soltanto da un azionista di Re:common (l’associazione che da anni fa inchieste contro la corruzione) che nelle sue domande ha detto l’indicibile. Marie Magdalena Ingoba, moglie dell’amministratore delegato Claudio Descalzi, secondo i documenti provenienti dal Lussemburgo è la proprietaria di una società (Petro Services Congo) che ha fornito servizi a Eni per 104 milioni di dollari. Se n’è liberata nell’aprile 2014, sei giorni prima che suo marito, già capo del settore Esplorazione di Eni, diventasse amministratore delegato. Dunque la compagnia petrolifera di cui Descalzi è ai vertici ha affidato lavori per milioni di dollari a una società della moglie di Descalzi. A questo conflitto d’interessi, che farebbe tremare i vertici di qualunque azienda e impegnerebbe le migliori energie della libera stampa, si aggiungono due procedimenti penali contro Eni e i suoi vertici promossi dalla magistratura italiana, per corruzione internazionale in Nigeria e in Congo. Una terza inchiesta della Procura di Milano ipotizza un “complotto” per “intralciare lo svolgimento dei processi in corso a Milano contro Eni e i suoi dirigenti” e “per screditare i consiglieri indipendenti di Eni spa, Luigi Zingales e Karina Litvack”. Litvack, la terza signora di questa giornata, che siede in cda in rappresentanza di fondi internazionali, scompare misteriosamente dalla sala dopo un intervento di Marcegaglia che la cita e smentisce una sua testimonianza sotto giuramento al Tribunale di Milano. Quanto all’inchiesta sul “complotto” – dice Marcegaglia – “Eni si è dichiarata parte offesa”. Eppure a capo del “complotto” c’è – secondo la Procura milanese – un manager Eni di primo piano, l’ex responsabile degli affari legali Massimo Mantovani.

Sono poi in corso due procedimenti promossi dal governo nigeriano, che ha emesso un mandato internazionale d’arresto per il dirigente Eni Roberto Casula, oltre che per gli ex ministri del petrolio e della giustizia del Paese africano; e ha chiesto a Eni e Shell, davanti all’Alta corte di giustizia di Londra, i danni per la corruzione che ritiene di aver subìto a proposito del campo petrolifero denominato Opl 245. Acquisito dalle due compagnie nel 2011 con un versamento di 1,3 miliardi di dollari, che però non sono andati al governo nigeriano ma sono finiti a politici africani, mediatori italiani e internazionali, con un “ritorno” (nelle ipotesi d’accusa) a manager Eni. Ora il governo della Nigeria chiede che il giacimento gli sia pagato, ipotizza che il suo vero valore sia di 3,5 miliardi di dollari e sonda la possibilità di revocare la concessione.

Niente di tutto ciò è filtrato nell’assemblea Eni. Descalzi, nella sua relazione, ha detto che in Medio Oriente e nel Golfo la società ha ottenuto dieci permessi di esplorazioni. Poi ha illustrato la svolta verde della compagnia, con investimenti di 80 milioni di euro per trasformare il Centro Olio Val D’Agri, in Basilicata, in una specie di Mulino Bianco dell’energia. Non ha detto nulla dei business di sua moglie con Eni. Non ha detto dove sono finiti due degli indagati nelle inchieste milanesi. Un portavoce Eni fa sapere che Roberto Casula “non ricopre incarichi operativi in Eni spa e società operative affiliate e si occupa di iniziative e attività di innovazione”. E Mantovani “ha assunto un incarico in una società di Eni che opera a livello internazionale in ambito Oil&Gas con base a Londra e si occuperà di alcune iniziative legate alla transizione energetica”.

Rc auto. Le compagnie provano (ancora) a risparmiare sui danni

La Rc auto, come si sa, è un obbligo di legge e, in Italia, pure croce dell’automobilista e delizia delle compagnie assicuratrici: il primo ha costi mediamente alti, le seconde alti hanno invece i profitti. Per capirci, nel periodo che va dal 2012 al 2017, a fronte di premi raccolti per circa 90 miliardi, gli utili sono stati circa 9 miliardi (dati Ivass), un’enormità se si pensa che nel mondo l’assicurazione obbligatoria è in genere in pareggio o ha redditività molto bassa e funge, più che altro, come fonte di liquidità da usare per rischi più redditizi: non un dato sorprendente, però, se si considera che le sole cinque compagnie maggiori (Unipol, Generali, Allianz, etc.) si dividono oltre il 70% del mercato italiano; in Francia per arrivare alla stessa quota ne servono una ventina.

E dunque? Chiederà il lettore. Qual è il punto? Il punto è che, nonostante gli ottimi risultati economici (e altri ne vedremo in seguito), le compagnie stanno tentando di abbassare ancora i costi di quel che pagano ai danneggiati. Per riuscirci, come altre volte in passato, stanno puntando sull’anello più debole della catena: chi ripara i veicoli, carrozzieri e meccanici. A questo fine domani al Cnel formalizzeranno un accordo con Cna, Confartigianato e altre che punta a realizzare, extra legem, una sorta di convenzionamento di massa degli autoriparatori: la cosa curiosa è che viene di fatto riproposto un modello di gestione dei “sinistri” che fu disdettato dalle associazioni nel 2003 dopo che l’Antitrust aveva aperto un’indagine per “intesa anticoncorrenziale”.

I fatti. La legge sulla concorrenza approvata nel 2017 stabiliva che si dovessero redigere delle “linee guida per la riparazione a regola d’arte” delle auto: una sorta di prontuario che – definendo regole, procedure e costi certi (ad esempio quali pezzi di ricambio per essere “a regola d’arte”?) – aiutasse l’assicurato a capire cosa succedeva alla sua auto e di cosa avesse diritto rispetto all’assicurazione. Ora l’Ania, la Confindustria delle assicurazioni, insieme a Confartigianato, Cna e altre associazioni – disertato il tavolo al ministero dello Sviluppo economico – si mettono d’accordo tra loro per produrre le “linee guida”: il documento letto dal Fatto Quotidiano, però, non fissa affatto alcuna “linea guida”, e anzi rinvia tutto a un oscuro futuro di successive “sessioni tecniche”, ma contiene un’assai interessante seconda parte “facoltativa”, che è l’oggetto di questo articolo.

L’accordo funziona così: se il carrozziere accetta di ricevere dalla compagnia quanto offre quest’ultima (“concorda il danno”), viene pagato direttamente e senza che l’assicurazione provi a resistere contestando l’importo del risarcimento. Chi accetta – ma solo previa iscrizione a Cna, Confartigianato eccetera – sarà iscritto in una lista di “carrozzieri buoni” sponsorizzata dalle compagnie anche attraverso una app a venire: i reprobi, invece, verranno caldamente sconsigliati al danneggiato. In pratica le assicurazioni rinunciano a esercitare eventuali clausole vessatorie, peraltro illegali, in cambio di un’influenza decisiva su costo e tipologia della riparazione: in sostanza si mira, come in passato, a “convenzionare” i carrozzieri trasformandoli in “dipendenti” delle compagnie. L’obiettivo è uno solo, cioè ridurre il costo dei risarcimenti che, peraltro, già cala da solo: il “costo medio dei sinistri” è sceso di quasi il 6% dal 2012 al 2017; quello totale da oltre 14 miliardi di euro a circa 10. Parola di Ania. Anche il contenzioso (che costa parecchio) è calato moltissimo: in un decennio le cause sulla Rc auto sono passate da 350 mila a 145 mila. L’incidenza dei sinistri ogni cento polizze è ormai in media europea: 6,16% nel 2017, sopra al 10% qualche anno fa. Solo i costi per i clienti rimangono fuori scala: nel 2016 – dice l’Ivass, che vigila sul settore – si trattava di 100 euro l’anno in più rispetto alla media Ue (in discesa, va detto, dai 185 euro del 2011).

Ma evidentemente ancora non basta e così si ritorna ai carrozzieri. La cosa può apparire secondaria, ma non lo è: sposta miliardi da alcune tasche ad altre tasche. Detto volgarmente: tra due soluzioni tecniche, il carrozziere “convenzionato” sceglierà quella meno costosa per i suoi “datori di lavoro”. Le “linee guida sulla riparazione a regola d’arte”, ad esempio, avrebbero dovuto fissare regole chiare sui pezzi di ricambio: l’accordo Ania & C. prevede, bontà loro, che siano “a norma di legge”, ma i ricambi possono essere molte cose (originali, equivalenti, alternativi, usati…) e, a parere delle compagnie, devono essere semplicemente quelli che loro stesse vendono ai carrozzieri convenzionati tentando di integrare l’intera filiera del danno (e di certo non sono quasi mai marchiati “casa madre”). È un futuro che in realtà è già il presente: citeremo a titolo di esempio due programmi di Unipol, la prima compagnia italiana per la Rc auto, ovvero la convenzione con MyGlass e il cosiddetto “Auto presto e bene”.

Se questo accordo che prova a mettere in riga i carrozzieri conviene alle imprese riunite in Ania, l’intesa che viene presentata domani al Cnel – che, sia detto en passant, ha spaccato il mondo associativo e non piace ai ministeri dello Sviluppo e del Lavoro – ha i suoi lati positivi anche per Confartigianato (che nacque nell’area Dc), Cna (area Pci) e soci: intanto per aderire bisogna iscriversi a una delle associazioni firmatarie – e questo genera soldi e, soprattutto, potere contrattuale – e poi questo nuovo sistema prevede pure la creazione di un consorzio tra i contraenti che gestisca il nuovo sistema informatico “di rendicontazione e liquidazione del danno” (se ingrana, un discreto business). A questo va aggiunto, solo per dare un’idea della pervasività potenziale dell’intesa che sarà presentata domani al Cnel, che la stima del danno e del lavoro necessario a ripararlo in Italia si appoggia su due soli database: il primo dell’editore di Quattroruote (Domus), a cui collabora Cna, l’altro della Bada srl dell’imprenditore Stefano Silla, realizzato con Confartigianato.

La sharing economy era una bolla

A volte i mercati finanziari sono irrazionali, a volte dimostrano buon senso: il debutto di Uber a Wall Street, venerdì scorso, è stato pessimo. Il valore delle azioni è salito fino a 45 dollari, poi ha iniziato a scendere fino a 36, l’azienda ha dovuto scrivere ai dipendenti per spiegare che anche Amazon e Facebook avevano faticato all’arrivo in Borsa. Gli investitori non hanno capito il potenziale della app che permette di avere passaggi in auto a prezzi competitivi (non in Italia)? Forse lo hanno capito fin troppo bene: la continua espansione in nuovi mercati, nuovi servizi e di fatturato (11,3 miliardi) non basta a generare utili. Nell’anno fiscale che si è chiuso a marzo prima della quotazione, Uber ha perso 3,7 miliardi di dollari. Nessuna start up aveva mai registrato un rosso così pesante prima di andare in Borsa, ricorda il Wall Street Journal. Difficile che gli investitori, che pure hanno comprato titoli Uber per 8 miliardi di dollari, rivedano a breve il proprio scetticismo. Lyft, la app concorrente di Uber, si è quotata il 29 marzo: ha raggiunto un picco a 88 dollari per azione, ma dopo meno di due mesi il titolo è scambiato intorno ai 50 dollari. C’è un confine sottile tra una start up e un’impresa che ha fallito. Quel confine lo stabilisce la pazienza degli investitori. Più il pioniere tecnologico è carismatico, vedi Elon Musk con la sua Tesla, più gli investitori saranno disposti a concedergli tempo per trasformare una intuizione geniale ma in perdita in una fonte di guadagni. Nel caso di Uber il fondatore, Travis Kalanick, è stato allontanato da due anni per il suo stile di gestione aggressivo e le accuse di molestie. In assenza del leader carismatico, ora gli investitori guardano solo ai profitti. Che non ci sono. Quella che con una geniale idea di marketing è stata fatta passare per sharing economy, economia della condivisione (dei servizi, non della ricchezza da essi generata) si sta rivelando una bolla. Che, come tutte le bolle, lascerà morti e feriti ma anche tecnologie e idee su cui altri potranno costruire nuovi business più sostenibili.

Gabetti, il “Richelieu” custode dei segreti della real casa Agnelli

Aveva gli occhi chiari, con un’impronta metallica, quasi d’acciaio. “Freddi, come quelli di un cane husky” scrissero una volta di lui. Per coincidenza, l’animale preferito da Gianni Agnelli e da sua moglie Marella. E dell’Avvocato, Gianluigi Gabetti era stato forse il più fedele servitore; stratega e regista dei salvataggi della dinastia e dell’azienda nei momenti più difficili delle crisi e delle tragedie familiari: sino a meritarsi l’appellativo di “Richelieu”.

Se n’è andato ieri a Milano, all’età di 94 anni (era nato a Torino il 29 agosto 1924), a quasi un anno dalla scomparsa di Sergio Marchionne: l’ultimo suo capolavoro quando, da Ginevra, lo aveva chiamato a guidare una Fiat disperata, con il futuro in mano alle banche e un “diritto di vendita” a favore di General Motors. Come finì è noto: il mantenimento della proprietà, l’acquisto della Chrysler e l’esodo verso gli Usa col nome di Fca. Un percorso che aveva poi visto la lenta uscita di scena di Gabetti: ma la nuova multinazionale di Marchionne era diventata possibile solo grazie alle mosse del finanziere, affiancato da Franzo Grande Stevens, “l’avvocato dell’Avvocato” che inventava i marchingegni societari per le sue intuizioni. Erano i due “Lord Protettori” che l’Avvocato, malato, aveva scelto come garanti della continuità oltre la sua stessa esistenza, affidandogli cariche persino nei trust riservati del Liechtenstein creati per una successione diversa da quella prevista dal Codice civile.

Piemontese, di una famiglia originaria di Murazzano nelle Langhe, figlio di un prefetto di Sassari, fratello dell’architetto neoliberty Roberto, il Richelieu della Fiat aveva cominciato nella sede torinese della Banca Commerciale salendo sino alla carica di vice direttore, scelto da Raffaele Mattioli. Giovanissimo era stato partigiano nelle “sue” Langhe e raccontava quei giorni con ironia: “Ho rischiato la pelle soprattutto in una bettola. A uno di noi partì un colpo che fece volare le posate. Mi salvai e lui fu punito”. Laureato in Legge, possedeva una cultura cosmopolita e si definiva rappresentante di un “capitalismo umanista”.

Doti che dovettero affascinare l’industriale-intellettuale Adriano Olivetti che lo strappò a Matteoli e lo mandò a rappresentare l’Olivetti a New York, dove conobbe la moglie, Bettina Sichel. Sino a un giorno del 1971, quando l’Avvocato lo pregò di accompagnarlo al Moma, chiedendogli di decidere in 24 ore se diventare amministratore dell’Ifi: nell’ottobre di quell’anno, arrivò nella sede torinese di corso Matteotti, la casa di “Vestivamo alla marinara”.

Gabetti governava le finanze dell’impero, mentre il “mastino” Cesare Romiti teneva in pugno la fabbrica negli anni del terrorismo rosso. Sarà Gabetti a concludere nel 1976 l’accordo con la Libia di Gheddafi per l’ingresso nel capitale da 515 milioni di dollari. Dieci anni dopo, i libici usciranno, incassando un miliardo e liberando la Fiat da un alleato inviso a Washington. Nel 1990, Gabetti lascia l’Italia e si divide tra New York e Ginevra, seguendo gli investimenti internazionali del Gruppo. Poco dopo, per limiti di età, si dimetterà e si ritirerà, continuando però a incontrare i grandi conosciuti come “ambasciatore” di Casa Agnelli (David Rockefeller, Henry Kissinger) e coltivando la passione per l’arte e la musica. Ma tutto, con la crisi dell’azienda, stava precipitando: il 13 dicembre 1997 muore Giovannino Agnelli, figlio di Umberto, erede designato dall’Avvocato. Il 25 gennaio 2003 se ne va Gianni Agnelli, seguito il 27 maggio 2004 dal fratello Umberto.

Il sabato prima dei funerali, a una breve colazione al ristorante “Il Cambio”, Gabetti si incontra con Grande Stevens e con il nuovo capo della famiglia, il giovanissimo John Elkann. Li avverte che Giuseppe Morchio, l’ad, pretende la nomina a presidente e il giorno dopo, nella riunione al Lingotto, convince tutti a dire no: “Sentimmo un elicottero che portava via Morchio dopo che l’avevo avvertito. E diventò ufficiale Marchionne”. Le scelte successive della Fiat e degli eredi dell’Avvocato avrebbero provocato a lui e a Grande Stevens le due esperienze più imbarazzanti nella loro carriera di “civil servant”. L’equity swap, la mossa che riportò l’azienda nelle mani degli Agnelli, costò loro un processo penale per “false comunicazioni alla borsa”. L’eredità dell’Avvocato divenne invece una querelle mediatico-giudiziaria con la figlia Margherita che li citerà a giudizio, assieme alla madre Marella. Un contrasto durissimo, simboleggiato da una frase mai confermata: “Margherita, lei non è degna della memoria di suo padre”. L’istanza della figlia di Gianni Agnelli, però, fu poi respinta, mentre nel 2013 la Cassazione dichiarò la prescrizione del reato legato all’equity swap, dopo un’assoluzione e una successiva condanna. Gabetti e Grande Stevens rivendicarono sempre la fedeltà al mandato avuto dall’Avvocato: quasi come quella di due ufficiali del Savoia Cavalleria. Negli ultimi anni, dopo la scomparsa della moglie, viveva a Torino: poche cerimonie ufficiali, le cene da due antiche amiche, Romilda Bollati di Saint Pierre e Gianna Recchi, incontri a Dogliani con Carlo De Benedetti. Concedendo rare interviste e non rivelando mai nulla sull’uomo, la famiglia e l’azienda che aveva servito per quasi 50 anni. Segreti che si sono spenti assieme ai suoi occhi chiari e d’acciaio.

Pa, servono 250 mila assunzioni: “Corsia diretta dalla laurea”

Allarme rossoper la Pubblica amministrazione: con mezzo milione di impiegati in dirittura d’arrivo verso la pensione, l’ente rischia di svuotarsi. E il ministro della Pa Giulia Bongiorno ritiene che gli effetti dell’esodo non si fanno aspettare: già adesso “servirebbero oltre 250 mila persone in più”. Per risolvere il problema, sembra che il governo stia pensando di rivolgersi ai giovani: c’è in cantiere un disegno di legge per consentire agli universitari un accesso “diretto” ai concorsi pubblici. Personale qualificato, che potrebbe godere di una corsia preferenziale: “Con il ministro dell’Istruzione Bussetti, abbiamo deciso di creare un corso – spiega la Bongiorno – che permetta al ragazzo che studia all’Università, alla fine del suo percorso, di poter fare un concorso direttamente nella Pa”. Questo rivoluzionerebbe la composizione dell’ente: ormai “non è possibile che si venga assunti solo a 35 anni”, aggiunge il ministro. Tuttavia i sindacati non sembrano convinti: la Cgil parla di un concreto “rischio di desertificazione”, e la Uil chiede di “passare dagli annunci ai fatti” sui rinnovi contrattuali.

Hacker o sorveglianza di massa: la falla di WhatsApp senza mandanti chiari

Non è un virus ma uno spyware quello che ha reso vulnerabili – potenzialmente – 1,5 miliardi di utenti di WhatsApp (sia Android che Apple), differenza non da poco: un virus è un software malevolo che infetta i dispositivi e ne modifica i connotati rendendoli spesso inutilizzabili. Si trasmette e si moltiplica. Lo spyware è invece un malware che è in grado di spiare (come suggerisce il nome) il dispositivo in cui entra quasi completamente. Questo significa che neanche la crittografia prevista per i messaggi di Whatsapp può proteggere le conversazioni perché diventano intercettabili dal dispositivo. In sintesi, un difetto di sicurezza di Whatsapp consentiva di installare spyware sugli smartphone con una semplice chiamata vocale. Lo spyware, Pegasus, veniva installato tramite una chiamata anche senza risposta (che in alcuni casi scompariva dalla cronologia).

La notizia era stata anticipata dal Financial Times e l’azienda, dal 2014 di proprietà di Facebook, dopo poco l’aveva confermata con un comunicato. “Questo attacco – ha detto – ha tutte le caratteristiche per essere legato a un’azienda privata che collabora con i governi realizzando spyware in grado di controllare le funzioni dei sistemi operativi degli smartphone. Abbiamo contattato diverse organizzazioni che difendono i diritti umani per condividere le informazioni in nostro possesso e siamo impegnati con loro per metterne al corrente la società civile”. Non si sa quanti utenti siano stati colpiti ma da Facebook raccomandano di “aggiornare l’applicazione alla sua ultima versione che ha sanato la falla.

Il produttore dello spyware è un’azienda israeliana che si occupa di cybersicurezza, la NSO Group. Al Financial Times non ha negato la produzione di Pegasus, ma ha detto lo spyware è prodotto per uso esclusivo di agenzie governative e forze di polizia impegnate nella pubblica sicurezza e nella lotta al terrorismo. E finché non si riuscirà a scoprire l’origine della diffusione di Pegasus e il numero degli utenti infettati, ogni teoria – dagli hacker indipendenti che rubano le informazioni alla sorveglianza di massa – sarà lecita.

Reddito, sono 1 su 4 i richiedenti idonei da avviare al lavoro

Sono 120 mila i primi beneficiari di reddito di cittadinanza che saranno obbligati a cercare un lavoro. Saranno convocati dai centri per l’impiego non prima di fine giugno quando – si spera – saranno anche stati assunti i 3 mila navigator. Il numero più atteso da quando è stato avviato il nuovo strumento contro la povertà è finalmente venuto fuori: è contenuto in uno scambio di documenti che c’è stato in questi giorni tra l’Agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro (Anpal) e le venti regioni. Si trattaperò di una cifra provvisoria. Innanzitutto perché, per ora, sono stati mappati solo i “capi-famiglia”, cioè le persone che materialmente hanno compilato e firmato il modulo e non anche tutti gli altri componenti del nucleo.

L’indagine dell’Inps ha quindi riguardato i 470 mila che figurano come richiedenti ammessi al sostegno nella prima infornata di aprile, non anche mogli, mariti, fratelli, sorelle e figli potenzialmente attivabili nel mercato del lavoro. Considerando questa platea ristretta, insomma, quelli che dovranno darsi da fare per trovare un’occupazione, pena la perdita del reddito, sono uno ogni quattro.

Facciamo un passo indietro. Come si fa a decidere se chi sta ricevendo il reddito di cittadinanza ha o non ha il dovere di andare presso il centro per l’impiego? La legge lo stabilisce sulla base di criteri oggettivi: quelli che hanno un’età compresa tra 18 e 29 anni, e gli over 30 che hanno perso un lavoro negli ultimi due anni. Tutti quelli che non sono compresi in questi due casi sono esonerati dal dovere di cercarsi un posto, ma devono stipulare il “patto per l’inclusione”. Significa che questa misura per qualcuno funzionerà come un percorso di reinserimento; per altri invece costituirà solo un’assistenza di tipo sociale. La domanda che in questi mesi ha infuocato il dibattito politico è stata sempre la stessa: in quali proporzioni avverrà questa suddivisione? La proposta tecnica inviata ieri dall’Anpal alle Regioni dà una prima importante indicazione, parlando di 120 mila da impegnare nella ricerca lavorativa su 470 mila. Questo rapporto conferma la previsione che l’Istituto di analisi delle politiche pubbliche (Inapp) aveva trasmesso durante le audizioni alla Camera, ossia che l’obbligo di presentarsi al centro per l’impiego avrebbe coinvolto solo il 25% dei beneficiari. Come detto, però, la percentuale potrebbe in parte subire qualche variazione.

Il decretone che ha istituito il reddito di cittadinanza, infatti, impone la dichiarazione di disponibilità anche a tutti gli altri componenti della famiglia, a patto che anch’essi siano maggiorenni under 30 o persone rimaste disoccupate nell’ultimo biennio.

Quindi ora bisognerà individuare tutti quelli in possesso di questo requisito tra il totale dei percettori del reddito di cittadinanza, circa 1,2 milioni nel primo mese. Numero che entro giugno è destinato a raddoppiare, perché prima del 10 maggio le domande totali sono state 1 milione e 125 mila.

Dal dato emerso sembra che il provvedimento bandiera del Movimento 5 Stelle stia andando soprattutto a chi è in gravi difficoltà e meno a chi ha bisogno solo di un sussidio di disoccupazione. Anche questa tendenza trova una spiegazione nella legge. Oggi chi viene licenziato ha già un’ammortizzatore sociale: la Naspi, che equivale inizialmente al 75% dell’ultimo stipendio e può durare fino a due anni. Viene conteggiata nell’Isee, quindi chi fa domanda di reddito di cittadinanza rischia di sforare i requisiti proprio perché prende già quell’altro tipo di sostegno. Ecco perché la maggior parte delle persone ai quali è stata assegnata la carta acquisti gialla è formata soprattutto da chi, se mai ha lavorato, ha comunque perso il posto più di due anni fa ed è da tempo rimasto senza sostegni al reddito.

Le Regioni, intanto, si preparano per prendere in carico il primo contingente di 120 mila disoccupati poveri. Entro fine giugno l’Anpal metterà a disposizione una applicazione web per lo scambio di informazioni tra le banche dati dell’agenzia e quelle delle Regioni, che potranno anche scegliere di inviare i documenti in formato testo. Entro novembre invece sarà completato il sistema informativo centralizzato. Questo il crono-programma, in attesa che arrivi il software per incrociare domanda e offerta di lavoro, per il quale sembra inevitabile una gara pubblica attraverso Invitalia.