Ammonterebbero a due milioni di euro le tangenti pagate dall’imprenditore Flavio D’Introno ai due ex magistrati di Trani, Antonio Savasta e Michele Nardi (nella foto), in cambio di sentenze favorevoli. L’avrebbe dichiarato ieri D’Introno, secondo i quotidiani locali, durante l’incidente probatorio in corso a Lecce, davanti al gip Giovanni Gallo, nell’inchiesta su presunte tangenti pagate in cambio di procedimenti penali favorevoli, che lo scorso 14 gennaio ha portato all’arresto di Savasta (ai domiciliari) e Nardi (in carcere), e dell’ispettore di polizia del commissariato di Corato (Bari) Vincenzo Di Chiaro (in carcere). D’Introno, raccontando quello che è stato definito il “sistema Trani”, avrebbe dichiarato di aver dato 1,5 milioni di euro, un rolex, diamanti e alcuni viaggi a Nardi, e 500 mila euro a Savasta: tutto per provare a sistemare i suoi problemi giudiziari. Inoltre avrebbe detto che Nardi gli confidò di avere aperto un conto allo Ior (l’Istituto per le opere religiose in Vaticano). D’Introno è indagato con l’ex pm di Trani Luigi Scimè, l’avvocato Giacomo Ragno, l’ex cognato di Savasta Savino Zagaria e il carabiniere Martino Marancia. Contestati episodi di corruzione, concussione, falso, calunnia ed estorsione.
Processo P3, prescrizione per Marcello Dell’Utri
Se Marcello Dell’Utri abbia mai fatto parte dell’associazione denominata P3 (la cui esistenza è stata riconosciuta in una sentenza di primo grado) non si saprà mai. Il processo in cui era imputato ieri si è concluso con la prescrizione. I giudici del Tribunale di Roma hanno disposto il “non doversi procedere” nei confronti dell’ex senatore di Forza Italia, ora ai domiciliari dove sta scontando (dopo un periodo in carcere) la pena a sette anni per concorso esterno a Cosa Nostra.
Il processo P3 per Dell’Utri – accusato della violazione della Legge Anselmi sulle associazioni segrete, corruzione e finanziamento illecito – ha subito un rallentamento perchè con la sua latitanza in Libano dopo la sentenza definitiva per concorso esterno, bisognava attendere la decisione del governo libanese in merito al via libera per l’estradizione.
Per questo nel 2014 la posizione dell’ex parlamentare è stata stralciata mentre il procedimento principale iniziava ad essere discusso nelle aule di giustizia, arrivando il 16 marzo del 2018 ad una sentenza di primo grado, con otto condanne inflitte – come quella a sei anni e sei mesi per Flavio Carboni o a quattro anni e nove mesi per Arcangelo Martino – ma anche molte accuse prescritte.
Secondo l’ipotesi di accusa iniziale, obiettivo della P3 era quello, “di condizionare il funzionamento degli organi costituzionali, nonché di apparati della pubblica amministrazione dello Stato e degli enti locali, con l’obiettivo di rafforzare sia la propria capacità di penetrazione negli apparati medesimi mediante il collocamento, in posizioni di rilievo, di persone a sé gradite, sia il proprio potere di influenza, sia la propria forza economico finanziaria”.
I giudici di primo grado non hanno dubbi sull’esistenza di questa associazione segreta: era una “struttura operativa – è scritto nelle motivazioni della sentenza – facente capo a Carboni, Martino e Lombardi” che “risulta essere tutt’altro che un’improvvisata compagnia di giro, animata da progetti puramente velleitari e irrealistici: possiede invece gli strumenti e le risorse per portare a termine le proprie strategie attraverso una sistematica, sotterranea opera di penetrazione nella sfera degli organi pubblici, volta a condizionarne e inquinarne i processi decisionali e le concrete modalità di azione”.
I pm romani inizialmente accusavano di far parte dell’associazione segreta anche Denis Verdini, ma per lui in primo grado è arrivata un’assoluzione con formula piena, ossia per non aver commesso il fatto, dall’accusa di far parte della P3 mentre lo hanno condannato a un anno e tre mesi di reclusione per un’ipotesi di finanziamento illecito.
Tra i rapporti di Carboni ricostruiti nella sentenza di primo grado ci sono anche quelli con Dell’Utri. “Flavio Carboni – scrivono i giudici – appare disporre (…) di relazioni privilegiate con esponenti di vertice del partito allora al governo”. E quindi con l’ex senatore Dell’Utri, “figura ‘storica‘ – lo definiscono i giudici – notoriamente vicina a (…) Silvio Berlusconi (mai indagato, ndr): elemento, questo, che funge da leitmotiv della vicenda oggetto del processo, ove gran parte degli episodi trattati attengono a questioni che direttamente o indirettamente sono collegate allo stesso Berlusconi o comunque a problematiche di suo interesse”.
Il prof della Bocconi e il nipote del boss fanno affari insieme
Da Reggio Calabria a Milano. A due passi da piazza Duomo, appartamento di pregio dietro la storica Pinacoteca Ambrosiana. In curriculum una cattedra all’Università Bocconi: oggi è professore associato del dipartimento di Management e tecnologia. Laurea alla Luiss, specializzazioni in Florida e decine di pubblicazioni. Insegnamento e ricerca, ma non solo. Anche affari, tanti, dall’immobiliare alla ristorazione di alto livello. Il tutto gestito attraverso società il cui procuratore è il nipote di un boss della ’ndrangheta lombarda. Un bel cortocircuito per il professor Vincenzo Morabito nato a Reggio Calabria nel 1968, il quale, nel 2015, dichiarava un reddito di 421 mila euro. Nel 1994 non superava i 3 mila. Già all’epoca risultava dipendente della Bocconi. Nel 1993, il professore – scrivono i carabinieri –, viene condannato a un anno e sei mesi dal Tribunale di Reggio Calabria con le accuse di associazione a delinquere ed estorsione. Un pasticcio. Anche per l’università. Il rettore della Bocconi Gianmario Verona contattato dal Fatto non ha voluto commentare.
Il nome di Morabito emerge dagli atti dell’indagine “Mensa dei poveri” che vede tra i 96 indagati, oltre a diversi politici, anche il governatore Attilio Fontana con l’accusa di abuso d’ufficio. L’indagine prosegue e ieri è stato sentito come testimone Massimo Bonometti, il presidente di Confindustria Lombardia. Vincenzo Morabito non risulta indagato e il suo nome viene collegato a quello di Bruno Romeo, calabrese di origine e nipote del boss Giosofatto Molluso, il padrino di Corsico che assieme al figlio Giuseppe faceva affari con Daniele D’Alfonso, l’imprenditore che, secondo i pm, foraggiava i politici di Milano. Nemmeno Romeo è indagato e risulta incensurato. Le ombre stanno nelle sue parentele, da un lato con gli zii Giosofatto e Francesco Molluso, entrambi collegati alla ’ndrangheta di Platì e dall’altro con il padre Salvatore anche lui considerato vicino alla cosca Barbaro-Papalia di Buccinasco. L’intera vicenda emerge nel marzo dello scorso anno e viene ricostruita in una informativa dei carabinieri di Monza. Tutto nasce da un incidente avvenuto all’interno della società Bto. Un danno provocato da un camion di D’Alfonso. Ne parla Giuseppe Molluso e svela che il cugino Bruno Romeo vi lavora come procuratore. Titolare del 100% delle quote è lo stesso Vincenzo Morabito. La Bto spa, annotano i carabinieri, ha un capitale sociale di oltre 2 milioni di euro e sedi dislocate in diverse regioni. Si occupa di business e organizzazione: la materia insegnata dal professor Morabito. Si legge di seguito: “Morabito” ha “partecipazioni in numerose società (…) dalla consulenza aziendale alla ristorazione agli affari immobiliari”. Una, la Hermas srl, è proprietaria del ristorante Valentino Vintage di corso Monforte 16. “Presso queste società – scrivono i carabinieri – è stabile il legame tra Morabito e Romeo, il quale ricopre la qualifica di procuratore”. I due vanno in tandem. Di più: l’incremento di reddito di Morabito “passato da 99 mila euro nel 2011 a 421 mila nel 2015” corrisponde alla “stessa epoca in cui Bruno Romeo è comparso nelle società”. La cosa viene segnalata dai carabinieri anche se al momento non ci sono sviluppi penali. Raggiunto telefonicamente dal Fatto, Vincenzo Morabito ha spiegato: “Bruno Romeo è un mio dipendente ed è stato selezionato da un’agenzia interinale, abbiamo verificato essere una omonimia”. Verifica errata, perché il Romeo procuratore della Bto è nato il 22 maggio 1975, stessa data di nascita del nipote dei Molluso.
E che il professore sia ben messo economicamente “disponendo di considerevoli somme di denaro contante” lo spiega Giuseppe Molluso a Daniele D’Alfonso. Dice: “Quello lì sta andando a comprare gli appartamenti all’asta, ne compra due o tre tutte le mattine, qualche giorno ti faccio raccontare da mio cugino che personaggio è (…). Quelli hanno tutte le cose con le banche”. Per questo “se non si fanno figure con loro è meglio, stanno comprando appartamenti in centro (…) anche a Roma e Firenze”. La Hermes ne ha 25. Due di questi in via Torino, uno in corso Venezia, un altro in corso Vittorio Emanuele. Insomma, i salotti buoni di Milano. Tre, invece, a Roma, due in via del Portico d’Ottavia nel centro del ghetto ebraico e uno in via Vittoria.
Di Morabito parla poi Francesca Pantano, compagna di D’Alfonso e immobiliarista del lusso. È il 7 marzo 2018, in quel momento Pantano si occupa della vendita del ristorante “Bebel’s” locale storico in via San Marco a pochi metri da via Solferino e dal Corriere della Sera. La donna va dritta: “Minchia è arrivato Morabito”. Poi riferisce le parole del professore: “Vogliamo comprare, ti diamo tutto in contanti”. Chiude Pantano: “Questo compra ristoranti à gogo”.
Manifesti Pro Vita: “Greta, salviamo i cuccioli d’uomo”
“Cara Greta, vuoi salvare il pianeta: salviamo i cuccioli d’uomo”. È bufera sul maxi-cartellone affisso dai “Pro vita” in via Tiburtina a Roma: ritrae l’immagine di un embrione in riferimento a Greta Thunberg, la giovanissima attivista svedese fondatrice dei Fridaysforfuture, il movimento che si batte contro i cambiamenti climatici. Il manifesto “è autorizzato” dal Comune fa sapere la polizia locale. L’immagine è al vaglio del dipartimento al Turismo del Campidoglio; la casistica fa capo alle prescrizioni previste dal comma 2 dell’articolo 12 bis del regolamento sulle affissioni pubbliche, che vieta espressamente “esposizioni pubblicitarie dal contenuto lesivo del rispetto dei diritti e delle libertà individuali”.
Altri due maxi-manifesti dello stesso tenore sono stati affissi nel quartiere Portuense e in via Cristoforo Colombo. Lo annuncia la Fondazione CitizenGO, tra i promotori del Family Day e del Congresso delle Famiglie di Verona, che inaugura così una nuova campagna per sostenere i candidati al Parlamento europeo contrari l’aborto.
“No all’attracco della nave saudita carica di armi”
“La nave saudita “Bahri Yanbu”, carica di armi che rischiano di essere utilizzate anche nella guerra in Yemen, sta cercando di attraccare nei porti europei per caricare armamenti destinati alle forze armate della monarchia assoluta saudita”. Lo denuncia Amnesty International in una nota, spiegando che “dopo aver caricato munizioni di produzione belga ad Anversa, ha visitato o tentato di visitare porti nel Regno Unito, in Francia e Spagna, e dovrebbe attraccare nel porto italiano di Genova a partire dal 18 maggio prossimo. La nave partita dagli Stati Uniti, passata per il Canada prima di arrivare in Europa, ha come destinazione finale Gedda, Arabia Saudita, con arrivo previsto il 25 maggio. È perciò reale e preoccupante la possibilità che anche a Genova possano essere caricate armi e munizionamento militare; ricordiamo infatti che negli ultimi anni è stato accertato da numerosi osservatori indipendenti l’utilizzo contro la popolazione civile yemenita anche di bombe prodotte dalla RWM Italia (con sede a Ghedi, Brescia, e stabilimento a Domusnovas in Sardegna)”.
Il ghanese Paul vince al Tar dopo il digiuno di fratel Biagio
Non era stato possibile rinnovare il suo permesso di soggiorno: per questo motivo, Paul Yaw, ghanese di 51 anni, aveva ricevuto un decreto di espulsione dall’Italia. Ma Biagio Conte, francescano laico fondatore della missione Speranza e Carità di Palermo dove Paul era ospite da ormai dieci anni, aveva ritenuto questo provvedimento “una palese ingiustizia”: per questo, entrambi avevano cominciato un digiuno di protesta che durava da 16 giorni, esibendo anche delle catene ai piedi. I due avevano scelto come teatro della protesta piazzale Anita Garibaldi, il luogo in cui venne ucciso padre Pino Puglisi. E lì sono rimasti fino a che, ieri, non è arrivata la notizia che aspettavano: l’espulsione non ci sarà, almeno per il momento. Il Tar ha infatti accolto la sospensiva del rigetto di permesso di soggiorno, in seguito al ricorso depositato da Giorgio Bisagna, membro dell’Associazione Adduma che si occupa di diritti umani e aveva seguito il caso di Yaw. Nel caso di rimpatrio forzato, il tribunale amministrativo ha infatti riconosciuto il pericolo di “un grave danno” per il ghanese. Paul aveva lavorato per dieci anni come idraulico all’interno della missione, vedendosi però negato il rinnovo del documento perché la sua attività non era stata ritenuta sufficiente ad ottenere il provvedimento per motivi di lavoro. Oltre che per lui e Biagio Conte, è stato un giorno di festa anche per le centinaia di palermitani che si erano uniti alla loro protesta pacifica e silenziosa. Anche il sindaco Leoluca Orlando è intervenuto, chiedendo loro di interrompere lo sciopero della fame, anche se la mobilitazione contro una “legge inumana”, quale sarebbe il decreto Salvini secondo il primo cittadino, “prosegue e proseguirà”.
Corte Ue: “Rimpatri vietati per rifugiati” Delinquenti inclusi
Non si può rimpatriare i rifugiati o i richiedenti asilo se in pericolo di vita, neppure se questi hanno commesso un reato. Una sentenza europea da ieri toglie complica la vita al ministro dell’Interno Matteo Salvini che, subito, tuona: “Ecco perché è importante cambiare questa Europa, con il voto alla Lega del 26 maggio. Comunque io non cambio idea e non cambio la legge: i richiedenti asilo che violentano, rubano e spacciano, tornano tutti a casa loro”.
Questa la sentenza della la Corte di giustizia Ue del Lussemburgo: “Fintanto che il cittadino di un paese extra-Unione europea o un apolide abbia un fondato timore di essere perseguitato nel suo paese di origine o di residenza, questa persona dev’essere qualificata come rifugiato ai sensi della direttiva (del Parlamento europeo e del Consiglio, 2011) e della Convenzione di Ginevra e ciò indipendentemente dal fatto che lo status di rifugiato ai sensi della direttiva le sia stato formalmente riconosciuto”. La Corte si è espressa sui casi specifici di un ivoriano, un congolese e un ceceno ai quali è stato revocato e negato lo status di rifugiato in Belgio e in Repubblica Ceca.
La direttiva del 2011, per la Corte, “deve essere interpretata e applicata nel rispetto dei diritti garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, i quali escludono la possibilità di un respingimento verso un siffatto paese; infatti, la Carta vieta, in termini categorici, la tortura nonché le pene e i trattamenti inumani o degradanti, a prescindere dal comportamento dell’interessato, e l’allontanamento verso uno Stato dove esista un rischio serio che una persona sia sottoposta a trattamenti di tal genere”. Inoltre per la Corte “la revoca dello status di rifugiato o il diniego del riconoscimento non hanno l’effetto di far perdere lo status di rifugiato a una persona che abbia un timore fondato di essere perseguita nel paese d’origine”.
Per il Pd la sentenza è una “picconata alle politiche del Viminale” e +Europa esulta: “I principi della Convenzione di Ginevra e della nostra Convenzione europea dei diritti umani si applicano a chiunque si trovi in uno dei territori degli Stati Ue – scrivono il deputato Riccardo Magi e Francesco Mingiardi, candidato alle europee – non possono essere elusi o aggirati. Salvini se ne faccia una ragione: a presidio dello Stato di diritto ci sono ci sono norme internazionali e nazionali, come l’articolo 10 della nostra Costituzione, di fronte alle quali le sue direttive non sono che carta straccia”.
Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia, spiega: “Il punto fermo è che non si può rimandare una persona indietro laddove rischi di subire gravi violazioni dei diritti umani o persecuzione. Il passo avanti è che questa protezione ora è inderogabile: anche nel caso di commissione di reato da parte del migrante non può essere indebolita da disposizioni nazionali”.
È sparito il processo ai capi di CasaPound e all’editore di Salvini
Francesco Polacchi, il titolare della casa editrice Altaforte e di Pivert, l’uomo che veste Salvini e ha pubblicato il libro intervista al ministro, è imputato a Roma per violenza o minaccia a incaricato di pubblico servizio per l’irruzione alla Rai nel 2008 controChi l’ha visto?. Insieme a Polacchi sono imputate altre 11 persone, compresi i vertici di Casa Pound: il presidente Gianluca Iannone, il segretario nazionale Simone Di Stefano e il vicepresidente Andrea Antonini. Polacchi e la sua casa editrice sono stati esclusi dal Salone del Libro di Torino e denunciati per le idee espresse in un’intervista sul fascismo. Una scelta discutibile. Anche perché dimostra come in Italia si dia più peso alle chiacchiere in radio che ai fatti contestati dai magistrati in un fascicolo che dorme da 8 anni nel disinteresse di tutti in Procura. Se non fosse stato per quell’intervista a La Zanzara, Polacchi sarebbe stato ammesso al Salone accanto al treno della memoria e allo stand della Rai e chissà se sarebbe mai iniziato il processo in cui la stessa Rai è parte civile contro di lui e i leader di Casa Pound.
Nella notte tra il 3 e il 4 novembre del 2008 un gruppo compatto di circa 25 persone entra poco prima dell’una di notte nel palazzo Rai di via Teulada che nel 1970 era uno dei primi obiettivi del golpe Borghese. Ovviamente l’intento nel 2008 è diverso ma le immagini di quella notte fanno impressione. Nel video girato dagli stessi invasori e poi postato con le immagini in parte oscurate si vedono tre ragazzi con il casco in testa, uno con il passamontagna, quasi tutti con il cappuccio a coprire il volto. Il vigilante li lascia passare e un testimone racconterà di aver sentito dire agli invasori che ce l’avevano con Chi l’ha visto?.
Federica Sciarelli aveva mostrato due ore prima in tv per la prima volta immagini che ribaltavano o almeno completavano la ricostruzione di Casa Pound sugli scontri avvenuti il 29 ottobre 2008 a Piazza Navona durante la manifestazione contro le politiche scolastiche del Governo Berlusconi.
Nei primi giorni dopo gli scontri del 29 ottobre 2008 i tg mostrarono solo le immagini dei militanti di destra attaccati verso mezzogiorno da quelli di sinistra a piazza Navona. Federica Sciarelli mostrò il 3 novembre le immagini inedite dell’antefatto: gli scontri a colpi di cinta in cui ad avere la meglio erano i militanti di Casa Pound su quelli di sinistra. La ricostruzione priva dell’antefatto è stata riproposta di recente da un breve servizio de Le Iene (in passato invece ‘ostili’ a Casa Pound per la storia del palazzo occupato) lodato da Davide Di Stefano, dirigente di Casa Pound. Davide Di Stefano è stato condannato con Francesco Polacchi a un anno e 4 mesi nel 2017, in primo grado, proprio per quegli scontri. Suo fratello, Simone Di Stefano, dovrebbe a breve andare a processo per l’irruzione in Rai.
Chi l’ha visto? quella sera trasmise proprio la scena in cui si vedeva Davide Di Stefano che colpiva duro a colpi di cinta un ragazzo di sinistra, anche lui con cinta in mano. Federica Sciarelli non faceva nomi ma sottolineava l’ora: le 11 di mattina. Lo scopo era correggere e completare lo scenario noto allora.
Il sottosegretario berlusconiano Nitto Palma il 5 novembre partì da quelle immagini nella sua relazione al Senato: “le riprese hanno evidenziato che appartenenti al Blocco Studentesco, intorno alle 11, hanno alzato cinghie verso altre persone (…) uno del Blocco, spalleggiato da un altro, ha colpito una persona ripresa di spalle anch’essa in possesso di una cinghia. Contemporaneamente altri giovani studenti si sono allontananti spaventati”.
Tra i militanti di destra impegnati in quello scontro della mattina mostrato da Chi l’ha visto? si vede anche Francesco Polacchi, senza cinta in mano, che si spinge con altri nel parapiglia. Federica Sciarelli (che nei giorni successivi fu minacciata al telefono da ignoti) faceva solo servizio pubblico. Non chiedeva di identificare gli aggressori e non lanciava una caccia al militante di destra. Comunque Casa Pound non gradisce.
Così in 25 persone circa entrano in Rai a mezzanotte e 50. Sul web diranno di voler fare “una corsa futurista”. Termine poco rassicurante visto che è stato usato da Gianluca Iannone per definire lo “schiaffo” all’organizzatore del festival Caffeina, Filippo Rossi, del 2012, (un pugno secondo Rossi) per il quale Iannone è stato condannato in primo grado, solo a una multa. Non sapremo mai cosa sarebbe accaduto se i “futuristi” avessero incontrato i giornalisti appena andati a casa.
L’incursione nel palazzo dura pochi minuti. Su Youtube circola un video con un commento nel quale si afferma falsamente che la conduttrice avrebbe chiesto al pubblico di “fornire nomi e indirizzi dei ragazzi del Blocco Studentesco (…) la televisione pubblica auspica dunque la caccia all’uomo”. Il video si chiude con questa scritta: “Chiedete ancora i nostri nomi? Cosa volete il morto? Non giocate mai più sulla nostra pelle”.
Qual è stata la reazione dello Stato a tutto questo?
La Rai denuncia e il pm Pietro Saviotti chiede il rinvio a giudizio nel 2010. L’udienza preliminare è fissata a marzo 2011. La Rai si costituisce parte civile. Il Gup però ritiene che il reato contestato (violenza e minaccia a pubblico ufficiale aggravata) deve andare subito a giudizio davanti al giudice monocratico senza il filtro del Gup. Subito si fa per dire. Il fascicolo 53213 del 2008 da sette anni è fermo. Nel frattempo il pm Saviotti è morto. “La dottoressa Santina Lionetti, che ha preso in carico il fascicolo ha chiesto di fissare l’udienza già nel 2011 ma il Tribunale non lo ha ritenuto urgente poiché il reato si prescrive nel 2028”, spiega l’avvocato della Rai Marcello Melandri. Nel 2017 c’è stato un sollecito. Non accolto. Nei giorni scorsi – su sollecitazione dell’avvocato Melandri, (probabilmente interessato dai vertici Rai dopo il ‘caso Polacchi’) il presidente del Tribunale Francesco Monastero ha deciso di fissare l’udienza. Al Fatto, Monastero spiega: “Abbiamo ereditato un carico di decine di migliaia di fascicoli come questo davanti al giudice monocratico. Li stiamo smaltendo. Appena ho avuto notizia del caso in questione ho chiesto di fissare l’udienza. La data sarà fissata entro pochi giorni. Dovrebbe essere entro luglio. Al massimo a settembre perché c’è la questione delle ferie di mezzo”.
Al processo ovviamente si dovrà verificare se il compianto pm Saviotti avesse visto giusto. Se i 12 militanti di destra, compresi i vertici di Casa Pound, siano colpevoli o innocenti. Anche perché non è chiaro dalla richiesta di giudizio del 2010 come siano stati identificati i 12 imputati, visto che il numero dei partecipanti è il doppio. Il capo di imputazione è molto duro. Il presidente Iannone, il segretario Simone De Stefano, il vicepresidente di Casa Pound Andrea Antonini, più Francesco Polacchi e altre 8 persone, per il pm Saviotti dovrebbero essere processate per minaccia a pubblico ufficiale aggravata: “Perché in concorso tra loro, in numero superiore a dieci (…) facevano ingresso in gruppo compatto e con atteggiamento intimidatorio nella sede Rai di via Teulada, superando gli addetti alla vigilanza e scavalcando i tornelli di ingresso alla ricerca di giornalisti e addetti. Spingendosi fino all’interno degli studi di regia, manifestando di ‘avercela con il programma Chi l’ha visto?’ e imbrattando i muri con ortaggi” La spedizione è definita dal pm “senza esito per l’allontanamento pochi minuti prima” dei giornalisti e autori della trasmissione. Interessante anche il movente. La spedizione era portata a termine “al fine di conseguire per alcuni di loro e per terzi l’impunità per la partecipazione alle aggressioni e alla rissa in piazza Navona il 29 ottobre”. Per il pm, Polacchi e compagni volevano impedire a Chi l’ha visto? di mostrare le immagini in cui si vedevano i militanti di Casa Pound che picchiavano.
Per questo i leader di CP “minacciavano i giornalisti, redattori e registi del programma televisivo Chi l’ha visto?, incaricati di pubblico servizio per impedire l’assolvimento delle attività di informazione (…) in relazione e a seguito della trasmissione del 3 novembre (…) in cui potevano essere riconosciuti alcuni dei partecipi”.
Grillo non chiude la campagna elettorale a Roma
Luigi Di Maio, il nuovo capo da un paio d’anni, chiuderà la campagna elettorale a Roma, venerdì 24 maggio. E il vecchio capo, cioè Beppe Grillo, non è previsto sul palco del comizio finale in piazza della Bocca della Verità. L’ennesimo segnale del M5S che cambia trapela da un’anticipazione dell’Adnkronos, secondo cui l’artista genovese non sarà nella Capitale per la serata conclusiva. Se i piani non cambiano all’ultimo minuto, Grillo si farà sentire solo tramite un videomessaggio. E sarebbe la prima assenza del co-fondatore in un comizio di fine campagna elettorale, da quando esiste il Movimento. Ma soprattutto l’ennesima conferma del ruolo sempre più marginale nel M5S di Grillo, che ormai parla quasi esclusivamente tramite un proprio blog, separato da quello del Movimento, il cosiddetto blog delle Stelle. Una distanza riassunta mesi fa così al Fatto da un big del M5S: “Ormai alcuni di noi chiamano Beppe solo per farlo sentire partecipe”. E fu sempre un’occasione per farlo sentire in gruppo una cena organizzata nello scorso Natale a Roma. Con Grillo, ma pochissimi big.
Conflitto d’interessi, il M5S congela il tetto dei 2 mandati
Il progetto di legge sul conflitto d’interessi, un fastidio per Matteo Salvini e una minaccia per Silvio Berlusconi, c’è, ed è stato depositato. Ma senza quella norma contro i proprietari di patrimoni sopra i 10 milioni di euro: innanzitutto perché è incostituzionale, e lo hanno riconosciuto gli stessi Cinque Stelle. Invece la proposta che vorrebbe rendere norma per tutti la regola dei due mandati in Parlamento, un totem del M5S, è stata congelata. Perché la pdl a prima firma Fabiana Dadone va ancora discussa, visto che il limite dei mandati è a forte rischio di incostituzionalità e, dicono, “c’entra poco in quel testo”. Ma non solo, soffiano voci dai 5Stelle. Ed è la conferma di una sensazione che confina con sospetto: la regola dei due mandati oggi c’è, ma domani chissà.
Sussurri in un giorno di ordinaria rissa tra M5S e Lega, in cui affiorano i timori del Movimento per il Consiglio dei ministri ufficiosamente previsto per lunedì. E con il numero due del Carroccio, Giancarlo Giorgetti, che a Porta a Porta dice: “Se il livello di litigiosità resterà questo dopo il 26 maggio, è evidente che non si potrebbe andare avanti”. Di certo se ne parlerà dopo il voto anche per la discussione sulla proposta sul conflitto d’interessi, a prima firma di Anna Macina. Perché l’inizio dei lavori è fissato il 29 maggio in commissione Affari costituzionali alla Camera. Prima sarà solo campagna elettorale, che bloccherà il Parlamento per due settimane. Poi si ripartirà dalla proposta di Macina e solo da quella, visto che il Movimento ha rallentato sul pacchetto annunciato pochi giorni fa dal capo Luigi Di Maio e dal M5S tutto, composto da tre proposte di legge su conflitto d’interessi, incompatibilità parlamentari e rapporti tra lobby e politica.
Perché c’erano regole da limare e soppesare, meglio. Anche nella pdl Macina, dove sono previste norme per tutti “i titolari di cariche di governo statali, regionali o locali”, nonché per “il presidente e i componenti delle Autorità indipendenti di garanzia, vigilanza e regolazione”. Cariche definite incompatibili con “qualsiasi ufficio o carica pubblica anche di natura elettiva” fatta eccezione per quella di parlamentare, o in enti pubblici di vario tipo. E che soprattutto non si potranno ricoprire se si detiene la proprietà o il possesso di partecipazioni superiori al 2 per cento di “un’impresa che svolge la propria attività in regime di autorizzazione o concessione rilasciata dallo Stato, dalle regioni o dagli enti locali” o che operi “in regime di monopolio”, nonché di “imprese che operino nei settori della radiotelevisione e dell’editoria o della diffusione tramite Internet”.
Così si comprende l’irritazione di Berlusconi, ieri a L’aria che tira: “Il conflitto di interessi non solo è ridicolo ma anche incostituzionale. Hanno paura di me e vogliono eliminarmi, ma la Corte costituzionale boccerà questa proposta di legge”. Però può rasserenarsi per il taglio della norma che voleva vietare le cariche di governo ai proprietari di patrimoni mobiliari e immobiliari sopra i 10 milioni di euro. Cancellata lunedì, dopo una riunione interna con il ministro per i Rapporti con il Parlamento, Riccardo Fraccaro. Perplesso per vari aspetti dalla norma, raccontano. Mentre è pronta anche la pdl sulle lobby, costruita dal vicecapogruppo Francesco Silvestri.
Verrà calendarizzata dopo quella sul conflitto d’interessi e prevede un registro pubblico dove dovranno iscriversi “tutti i portatori di interessi particolari” (cioè i lobbisti), tenuti a “conformarsi a un codice etico” nei rapporti con la politica. È poi prevista anche un’agenda degli incontri, che “rende trasparente l’operato e gli incontri dei soggetti che operano nelle istituzioni”. E le opposizioni? Il Pd ha presentato una sua proposta chiaramente pensata per Davide Casaleggio, che riguarda “chi abbia un incarico politico che dipende da società private, le quali usino piattaforme online per influenzare le scelte politiche”. Intanto, solite zuffe gialloverdi. Con Salvini che punge: “Inizio a notare troppi accoppiamenti fra Pd e 5Stelle”. E il M5S che ironizza: “Il vicepremier Di Maio ha chiesto un vertice all’ultimo Cdm, se la Lega ci tiene facciamo una richiesta con carta bollata”.