I Palinsestiestivi sono il nuovo bubbone scoppiato a Viale Mazzini. Oggi era prevista la presentazione della programmazione di Raiuno per l’estate messa a punto da Teresa De Santis, ma l’ad Fabrizio Salini ha bloccato tutto, rinviando la conferenza stampa al 7 giugno. Cosa non va giù a Salini? L’ad avrebbe alzato il sopracciglio per il nuovo programma, dal titolo Io e te, affidato a Pierluigi Diaco (voluto dall’area leghista), in programma dopo il Tg1 delle 13.30. Altro nome finito nel mirino dell’ad è quello di Monica Marangoni, cui verrà affidato uno spazio al mattino. Marangoni, la cui manager è Francesca Chaouqui (molto amica di De Santis), è la compagna del capo di gabinetto del ministro leghista Lorenzo Fontana, Cristiano Ceresani, che negli ultimi tempi, anche per via di un libercolo da lui dato alle stampe, si è fatto notare per le sue posizioni ultra cattoliche e conservatrici vicine a quelle di certi ambienti leghisti. Nell’estate di Raiuno, poi, ci saranno anche l’attore Beppe Convertini, per condurre La vita in diretta, e Nunzia De Girolamo, reduce da Ballando con le stelle, assoldata per quattro puntate di Linea Verde.
Di Maio bacchetta l’alleato: “Se parla fa salire lo spread”
Ritorna lo spread. E stavolta diventa l’ultimo argomento di scontro tra Luigi Di Maio e Matteo Salvini. Ieri il differenziale tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi è salito fino a quota 280 punti base, proseguendo un’ascesa che va avanti da due settimane. Un periodo in cui il leader leghista è tornato a criticare – dichiarazione dopo dichiarazione – i vincoli di bilancio imposti dall’Europa. L’ha fatto anche ieri: “Sforare il vincolo Ue Deficit/Pil del 3%? Non si può, ma si deve”, ha detto Salvini. “Se servirà infrangere alcuni limiti del 3% o del 130-140% – ha aggiunto – tiriamo dritti”. Frasi ovviamente pronunciate a mercati aperti. E subito censurate dal dirimpettaio di governo: “Mi sembra abbastanza irresponsabile far aumentare lo spread – ha detto Di Maio, senza mai nominare esplicitamente il leghista – parlando dello sforamento del rapporto debito-Pil, che è ancor più preoccupante dello sforamento deficit-Pil”. In serata, ospite di DiMartedì su La7, ha aggiunto: “Si può anche parlare del 3 per cento ma bisogna sapere come arriviamo a quel punto. Sempre con un dialogo con la Commissione europea, altrimenti ricominciamo da capo come a dicembre. Questo lo so io, lo sa Salvini, lo sanno tutti”.
Imprese, clima e famiglia. Come vota la destra in Ue
Esiste una distanza abissale tra quello che i partiti sovranisti dichiarano e quello che votano in aula. Lo dicono i dati del report Europe’s two-faced authoritarian right, in uscita oggi. Lo cura Corporate Europe Observatory, think tank con sede a Bruxelles che analizza le relazioni dei gruppi di interesse con i partiti che siedono all’Europarlamento. Secondo i risultati dello studio, a dispetto della retorica, i sovranisti dipendono economicamente da donazioni di industria e filantropi stranieri (russi o americani) e non sempre votano compatti sui temi della famiglia.
I partiti analizzati sono 14. Tra i big compaiono i francesi di Rassemblement National (RN), i tedeschi di Alternative für Deutschland (AfD), gli austriaci di Freiheitliche Partei Österreichs (FPÖ) e la Lega di Salvini. Ci sono partiti che vanno oltre la rete degli alleati del vicepremier in Europa, che provengono da gruppi europarlamentari più moderati, con diverse convergenze con il fronte sovranista. Come Ano, la Forza Italia della Repubblica ceca, fino ad oggi iscritta ad Alde; Fidesz, ancora al seguito dei Popolari europei per quanto modello di Salvini & Co; lo Ukip, il partito pro-Brexit inglese, e Diritto e Giustizia (PiS), polacchi capofila dei Conservatori e riformisti.
Secondo il report di Corporate Europe, sui temi dell’ambiente i sovranisti votano sempre allo stesso modo: contro le politiche che vogliono ridurre le emissioni di CO2. Il caso più clamoroso riguarda il no all’emendamento per eliminare le sovvenzioni europee ai combustibili fossili. Salvini, sul cambiamento climatico, diceva che oggi scontiamo “troppi anni di incuria e malinteso ambientalismo da salotto”. La Climate Action Network, alleanza di ong dal 1989, definisce il suo partito un “dinosauro” sul tema, con meno dell’1% dei voti pro-ambiente. Discorso analogo per gli austriaci di Fpö e gli olandesi di Pvv.
I sovranisti sono compatti anche quando si tratta di proteggere le grandi multinazionali. Lo dimostra il voto di tutti e 14 contro la creazione di un’authority per il contrasto all’evasione fiscale all’interno dell’Ue. Il motivo lo si scova tra i donatori e i lobbisti incontrati più di frequente dai partiti. Confindustria tra il settembre 2017 e l’aprile 2019 per sette volte si è presentata agli uffici dell’eurodeputato leghista Angelo Ciocca. Il think tank della parlamentare europea Barbara Kolm riceve finanziamenti principalmente dalla Japan Tobacco International e la British American Tobacco.
Ci si aspetterebbe compattezza dal fronte dei partiti di destra sulle politiche per la famiglia: non è così. Se la Lega ha votato a favore dell’introduzione della paternità in Europa, Fidesz, il partito di Viktor Orbàn, ha votato no. Eppure la ministra per la Famiglia Katlin Novak presenzia costantemente i meeting pro-family tipo quello di Verona.
Male anche quando si tratta di difendere i diritti dei lavoratori. Il voto sul framework strategico 2014-2020 per salute e sicurezza sul lavoro ha visto solo Lega, Jobbik e Fidesz (entrambi ungheresi) votare a favore. Eppure partiti come l’estrema destra di AfD in Germania dicono di voler proteggere i tedeschi dalla manodopera straniera a basso costo. Non interessa però quali siano le condizioni di lavoro. Tutti e 14 i partiti analizzati da Corporate Europe hanno votato contro o si sono astenuti sulla legge per migliorare l’equilibrio tra lavoro e vita.
Partiti, servizi, massoni: una vita da Ferramonti
Ben nascosta nello sterminato elenco delle liste per le Europee c’è una candidatura a suo modo eccellente: torna in pista Gianmario Ferramonti. Un pezzo di storia italiana, scritto tra la politica di superficie e il potere vero, sotto traccia. Tra realtà e millanterie; partiti, massoneria nazionale e internazionale, servizi segreti, Un arresto (nel 1996, poi redento con l’archiviazione). “Non sono massone – dice lui – perché sono un uomo libero, ma i massoni li ho conosciuti bene”. Ha iniziato con Pontida Fin, la cassaforte della Lega di Umberto Bossi. Quasi 30 anni più tardi, riparte con l’ex ministro Mario Mauro e il suo partitino: Popolari per l’Italia.
Una candidatura di bandiera, la sua… chi glielo fa fare, con lo sbarramento al 4%?
Faremo il 5%.
Non vorrei turbare il suo ottimismo…
Vedrà. Per ora siamo invisibili sui media, ma abbiamo in serbo una bella sorpresa.
Mi dica.
Non le anticipo niente. Un evento di portata internazionale. Abbia pazienza.
Pazientiamo. Ma che c’entrano i popolari di Mauro con la Lega?
Nel 2002 sono stato segretario della Dc rifondata da Angelo Sandri. Purtroppo ci hanno negato lo scudo crociato, rimasto all’Udc. Ma con i democristiani sono sempre stato a casa.
Credevo fosse leghista.
All’epoca (primi anni 90, ndr) c’era il pericolo che tutto andasse a puttane con la “gioiosa macchina da guerra” di Occhetto, mi sono messo a lavorare per tenere uniti insieme i vari pezzi del centrodestra.
È anticomunista, quindi.
Anti-totalitario. Il comunismo di per sé sarebbe una cosa meravigliosa.
Era pure trumpiano, ricordo bene?
Conservo ottimi rapporti con il presidente, ma non ho mai detto che volevo fare un partito trumpiano, l’Italia è un’altra cosa.
Però da Trump a Mauro…
Ci danno per morti prima di nascere. Mi viene in mente un ministro socialista che mi prendeva in giro quando iniziai a lavorare per la Lega: “Vai con i cadaveri”. Gli risposi che entro tre anni al governo ci sarebbero stati i leghisti. Tre anni dopo lo stesso ministro mi chiedeva di organizzare un incontro con Bossi. Lui rispose così: “(imita la voce roca del Senatur, ndr) Lascia stare, con i cadaveri non si parla”.
Lei ha lavorato in tutti i partiti del primo centrodestra.
Lo sa che il nome “Alleanza nazionale” fu inventato da Vittorio Feltri? Lo propose nel 1993 per uno strano patto elettorale tra Lega e Msi per le Comunali di Belluno. Qualche tempo più tardi, quando era evidente che gli ex missini avrebbero dovuto cambiare nome, ne parlai con Pinuccio Tatarella. E lui rispose: “Gianfranco (Fini, ndr) ha detto che è una cazzata”. Poi Tatarella si è convinto: “Sai che c’è, lo facciamo lo stesso!”. E registrammo lo statuto. Poi Fini si prese An nel 1995.
Quel centrodestra era maggioritario, ma Berlusconi fu abbandonato prima da Bossi e poi da Fini. Come mai?
Non piaceva ai poteri forti italiani. E segnatamente ad Agnelli e Cuccia. Lo fecero fuori sfruttando Bossi, che in quell’occasione fu un pollastro. Cascò nella trappola e fece crollare la baracca. Umberto era un po’ ingenuo.
Invece Salvini ingenuo non è…
Non ho ancora capito se mi piace o no, ma è un ragazzo molto intelligente. Ha avuto anche culo, va detto (ride). Ma prima di arrivare al potere temo abbia combinato qualche guaio… ho paura che glieli faranno pagare.
Sarà il prossimo premier?
Questo governo non durerà a lungo, ma Mattarella non scioglierà le Camere. E il prossimo premier sarà ancora Giuseppe Conte. Senza la Lega, ma con ampie convergenze. Scommette?
Non indovino mai. Il sovranismo le piace?
Io sono un patriota.
Ma ha conosciuto le patrie galere .
Sono finito in carcere per un’inchiesta che non è arrivata nemmeno a processo, fu archiviata prima. Ma la privazione della libertà è stata un’esperienza importante, mi ha aiutato ad apprezzarla di più una volta uscito.
Ci racconta il suo legame con la massoneria?
È molto chiaro. Sono sempre stato affascinato da quel mondo, senza farne parte. Non sopporto i vincoli di ubbidienza. Ma i vari faccendieri italiani li ho conosciuti quasi tutti. Se vuole glieli metto in fila.
In ordine di notorietà.
Licio Gelli, Flavio Carboni, Francesco Pazienza, Luigi Bisignani, Alfredo Di Mambro, Renato D’Andria, Filippo Rapisarda, Mario Foligni.
L’amicizia più stretta?
Di Mambro era il grande capo della massoneria americana in Italia. Abitavo a casa sua, lo chiamavo “papà”, avevamo un rapporto fortissimo. Ma la lobby più potente del mondo è un’altra.
Quale?
I culattoni.
È un’espressione un po’ colorita, diciamo.
(ride) Gli omosessuali.
Salvini diserta il comizio (e un’altra contestazione)
Non sarà una fuga, come assicurano dal Viminale, però è un fatto: Matteo Salvini ha rinunciato al suo comizio di Napoli. Domani pomeriggio alle 18.30 sarà in città, ma solo in prefettura per partecipare al Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Poi tornerà subito a Roma. L’evento elettorale che si sarebbe dovuto tenere in serata – ipotizzato prima in piazza Matteotti, poi al teatro Augusteo – è stato annullato.
Come accade sempre più spesso, ad accogliere il vicepremier ci sarebbe stata una vivace contestazione. In passato a Napoli i cortei anti-Salvini si sono trasformati spesso in scontri di piazza con la polizia, stavolta non sarebbe stato così: gli anti-leghisti partenopei stavano preparando una protesta differente. Simile a quella già sperimentata con successo a Catanzaro pochi giorni fa: a parlare sarebbero stati i muri. Lenzuola e striscioni avrebbero tappezzato l’area del comizio del ministro. E poi un’altra trovata creativa: la diffusione pubblica del celebre audio di Salvini a Pontida del 2009. Quello in cui il giovane Matteo – ancora secessionista – cantava con i militanti il coro contro Napoli e i suoi abitanti (“Senti che puzza, scappano anche i cani…”).
“Sarebbe stato un modo per ricordare a tutti chi è Salvini, anche a chi ha la memoria corta”, spiega Viola Carofalo, attivista del centro sociale Je so’ pazzo e portavoce di Potere al Popolo. “Non sorprende che abbia annullato il comizio – aggiunge – visto che queste contestazioni gli stanno capitando sempre più spesso e in sempre più luoghi”.
Chi è vicino a Salvini ovviamente nega che la sua arringa elettorale sia stata annullata per paura di contestazioni (“È stato a Napoli senza battere ciglio anche quando fuori c’era la guerra civile”, fanno notare). Però nessuno sa spiegare le ragioni dell’annullamento.
Per lo staff di Palazzo Chigi “non c’è una ragione specifica”, ma mancanza di tempo e impegni generici che gli hanno imposto il ritorno a Roma e il cambio di programma. Chi collabora con Salvini al Viminale lascia intendere che l’evento non fosse nemmeno stato organizzato in via ufficiale. Sicuramente però era stato annunciato sabato scorso (e con una certa solennità) da Pina Castiello, donna forte del Carroccio partenopeo e sottosegretaria con delega al Sud: “Il 16 maggio sarà il primo comizio in piazza a Napoli di Matteo Salvini. Segnerà anche l’inizio dello sfratto per De Magistris e per il governatore della Campania De Luca”.
Nessuno sfratto, invece, e nemmeno un comizio. A Napoli invece è arrivata (ieri) Marion Maréchal, la nipote di Marine Le Pen, leader dei nazionalisti francesi. Ha raggiunto il fidanzato Vincenzo Sofo – noto per il blog sovranista Il Talebano – candidato della Lega alle Europee nella Circoscrizione Sud, per un comizio al centro culturale di destra “Pietro Golia”.
I salviniani locali per adesso dovranno accontentarsi. Non c’è ragione di dubitare che “il capitano” abbia scelto di disertare l’evento napoletano per impegni sopraggiunti. Ma è difficile non notare – a prescindere dal comizio annullato – un salto di qualità nel rapporto del ministro dell’Interno con i contestatori: l’espressione stizzita (e virale) per il selfie-beffa con le due ragazze che si baciavano accanto a lui, il telefonino fatto sequestrare alla Digos alla giovane salernitana che chiedeva conto delle frasi sui terroni, il lenzuolo con la scritta “Non sei il benvenuto” rimosso dai vigili del fuoco a Brembate e quello di Salerno (“Questa Lega è una vergogna”) sequestrato dalla polizia. Ieri a Verona un altro striscione polemico è stato issato fuori da un palazzo da un gruppo di manifestanti No Tav (con la scritta “Prima gli esseri umani e poi… i 49 milioni”). La scritta è stata filmata dagli agenti della Digos. L’unica parola che conta davvero sul consenso della Lega e del suo leader sarà pronunciata alle urne la sera del 26 maggio. Intanto, però, si registra un salto di qualità nella forma delle proteste e nella quantità delle manifestazioni contro Salvini. E il suo nervosismo nello scegliere sempre gli stessi nemici: i centri sociali. “Quattro zecche” o “moscerini rossi”.
Sanità, la norma anti-raccomandati fa litigare il governo
L’emendamento punta ad allentare i legami tra sanità e politica, in attesa di una legge organica che li rescinda. E di fatto vuole essere un primo passo per riequilibrare la possibile, futura autonomia dei sistemi sanitari di alcune regioni, centralizzando il controllo sui dirigenti. È anche questo il senso della norma “anti-raccomandati” presentata ieri in Senato da Luigi Di Maio e dalla ministra della Salute Giulia Grillo, che prevede l’introduzione di una graduatoria per titoli dei candidati direttori generali, che diventi vincolante. Si introdurrebbe così una norma transitoria in attesa di una riforma organica rappresentata dal ddl M5S in materia che, ha detto Di Maio, “va approvato entro l’anno”. Intanto però il Movimento vorrebbe che la norma, scritta dalla deputata Dalila Nesci, venisse approvato con un emendamento al decreto sul commissariamento della Sanità in Calabria, in votazione in queste ore in commissione Affari sociali. E Di Maio già solleva il problema: “Vengo a sapere che nella maggioranza qualcuno ne sta bloccando l’approvazione. Sarebbe molto grave”. L’ennesima puntata dello scontro con il Carroccio.
Nazareno, riunione sul caso Marini: ancora non si dimette
Il Pd si è riunito per concordare una exit strategy riguardo la situazione della governatrice umbra Catiuscia Marini. La presidente regionale aveva annunciato le dimissioni dopo lo scoppio dell’inchiesta sulla sanità locale nella quale è indagata. Ma la scorsa settimana il consiglio regionale ha rinviato la data del voto sulle dimissioni. Ieri al Nazareno si sono incontrati il vice segretario nazionale Andrea Orlando, il commissario umbro Walter Verini, il vicepresidente della giunta regionale Fabio Paparelli, la presidente dell’assemblea Donatella Porzi e il capogruppo Gianfranco Chiacchieroni. L’obiettivo, ha spiegato Verini, è “dare uno sbocco ad una situazione difficile, che ha provocato una grave ferita all’istituzione regionale e al Pd dell’Umbria”. “Dalla riunione – continua – è emersa la necessità di valorizzare i risultati e le conquiste dell’azione di governo del centrosinistra in Umbria. Senza minimizzare il grave giudizio politico su quanto avvenuto in ambiti del sistema sanitario-amministrativo”. La formula bizantina descrive lo stallo: “L’orientamento è quello di tenere conto del gesto che la presidente Marini ha compiuto a tutela delle istituzioni e voltare pagina nel migliore dei modi”. Ma ancora niente dimissioni.
Altro guaio per Mr Fritture Roberti (Pd): “Si dimetta”
Èindagato anche per concussione Franco Alfieri, il candidato sindaco Pd di Capaccio-Paestum, in provincia di Salerno, nonché braccio destro del governatore dem Vincenzo De Luca, finito nella bufera di una indagine per voto di scambio politico mafioso con esponenti della famiglia Marotta, gli “zingari” di Agropoli, ritenuti dal tribunale del Riesame un clan camorristico (la Cassazione ha eliminato questa aggravante). E il capolista dem alle Europee, l’ex procuratore nazionale antimafia Franco Roberti, prende posizione: “Come ho sempre pensato nei casi in cui un pubblico ufficiale è accusato di reati gravi, Alfieri dovrebbe farsi da parte per sgomberare il sospetto che voglia strumentalizzare la propria posizione per difendersi. L’ho detto per Siri, vale anche per lui. La politica non è occupazione del potere, ma servizio per i cittadini, da svolgere immuni da ombre che ingenerino sfiducia”.
Agropoli è la città dove Alfieri è stato sindaco per due mandati fino al 2017 e l’accusa di concussione è contenuta nel decreto di perquisizione eseguito l’altro ieri su ordine del pm della Dda di Salerno Vincenzo Montemurro. Si indicano alcune delle imprese che hanno avuto appalti ad Agropoli e sulle quali Alfieri avrebbe fatto pressioni per alimentare piaceri e assunzioni intorno al voto di scambio. Raccolte carte relative agli appalti concessi alla Dervit spa, titolare del servizio di illuminazione pubblica aggiudicato nel 2017 con un contrattone di 25 anni, ed alla Agropoli mare sport. Il pm ha chiesto anche documentazione “inerente i servizi svolti dalla famiglia Marotta a mezzo delle società cooperative”, a cominciare da quelle che hanno fornito manodopera alle imprese della spazzatura. Dove trovò impiego Fiore Marotta, l’uomo intercettato nel 2013 con Alfieri mentre l’allora sindaco gli assicura di poter “inciarmare” per trovargli un posto e così avere l’affidamento in prova ed attenuare i domiciliari.
Zanda, Tav, Calabria e l’ex andreottiano: “Zinga” come Tafazzi
L’abbraccio con Paolo Cirino Pomicino, uno dei grandi vecchi della Dc, è solo l’ultima delle mosse di Nicola Zingaretti da quando si è insediato alla segreteria del Pd. Nei primi mesi della sua leadership non si è fatto notare per scelte di rottura. Per le candidature alle Europee, ha presentato tutta una serie di dinosauri come Patrizia Toja, Mercedes Bresso, Enrico Morando, oltre a riconfermare la prima fila renziana (da Simona Bonafè a Pina Picierno) per arrivare a notabili napoletani, come Andrea Cozzolino. Poi c’è stato il capitolo Luigi Zanda: nominato tesoriere dem, il senatore ha presentato una proposta di legge per aumentare le indennità dei parlamentari (che il segretario gli ha chiesto di ritirare) e una per ripristinare il finanziamento pubblico dei partiti. Appena vinte le primarie, Zingaretti ha scelto di andare nella Torino del Tav e non s’è fatto mancare neanche la nomina di Arcibaldo Miller, uno dei pochi pm graditi a Silvio Berlusconi, a capo dell’Ipab (Istituto Pubblica Assistenza e Beneficenza) Santa Margherita.
Oscillazioni pure sulla “questione morale”: Zingaretti ha fatto dimettere Catiuscia Marini, presidente dell’Umbria, dopo l’inchiesta sulle raccomandazioni nella sanità (ora il Pd locale s’è mezzo rimangiato questa decisione), ma non ha preso nessuna decisione per il presidente della Calabria, Mario Oliverio, indagato per corruzione.
Così il Pd si avvia alle Europee del 26 maggio. In vista delle quali, peraltro, il segretario ha cercato di tenere dentro tutti. Non solo in Europa, secondo lo slogan da Tsipras a Macron, ma soprattutto in Italia, dove in lista si va da Carlo Calenda a alcuni esponenti di Mdp. E ha appena riconquistato alla causa pure Laura Boldrini, che ha dichiarato il suo voto per il Pd. Per quel che riguarda le dinamiche interne, l’approccio è quello di essere il più conciliante possibile pure con la minoranza postrenziana. Fino al voto. Poi cercherà di portare il più possibile a sinistra il partito. Non solo: un’alleanza con i Cinque Stelle in questa legislatura viene esclusa categoricamente da tutti. Ma dopo il voto (soprattutto se anticipato) in prospettiva futura, una maggioranza con un M5S magari meno incentrato su Luigi Di Maio, appare realistica. Non a caso, nel suo libro appena uscito, il segretario del Pd ha chiarito che “il reddito di cittadinanza non va deriso o contrastato con iattanza”. Oltre a fare un’apertura di credito sul salario minimo.
Per le Europee, i renziani hanno fissato un’asticella alta: il 25%. Sotto, non sarà considerata una grande prova. In realtà, il numero atteso è il 22%: e gli equilibri rimarranno più o meno quelli di adesso. Perché Matteo Renzi sembra aver capito di non avere lo spazio per uscire dai dem, ma neanche ha la possibilità di riprendersi il partito. Si darà al fuoco amico. Previste una serie di iniziative: a fine giugno, l’ex segretario riunirà i suoi Comitati, Ritorno al Futuro. A inizio luglio, Lorenzo Guerini, Luca Lotti e Andrea Marcucci riuniranno la loro Base riformista (notare la sigla, Br) a Montecatini.
A proposito di riorganizzazioni, negli scorsi giorni, l’Ufficio di presidenza del Pd Senato, ha discusso e deliberato una nuova consulenza: la comunicazione del gruppo si avvarrà anche dei servizi della Jump, società di Marco Agnoletti. Ovvero, l’ex portavoce di Renzi ai tempi della scalata a Palazzo Chigi e poi il suo capo ufficio stampa nell’ultimo anno alla segreteria del Pd. Una vicinanza che non può essere smentita dal fatto che ora la Jump sta facendo anche la campagna elettorale di Elisabetta Gualmini e Pierfrancesco Majorino. L’iniziativa pare sia stata dello stesso Marcucci, il contratto non è ancora stato chiuso, ma si parla di qualche decina di migliaia di euro. Nel frattempo, i renziani fanno campagna elettorale solo per i “loro” candidati.
Dalla Prima fino alla Terza Repubblica. ’O Ministro dalle sette vite non molla mai
Eadesso vai con Zingaretti, vai col “nuovo Pd”. Non c’è che dire, a Paolo Cirino Pomicino bisogna dare una medaglia. Il tempo non lo ferma, il cuore ballerino resiste alle prime, seconde e terze repubbliche. Lui c’è. ’O ministro, il viceré, il capo della “banda dei quattro” (gli altri tre, secondo Guido Bodrato, democristiano di sinistra, erano Francesco De Lorenzo, Carmelo Conte e Giovanni Prandini), c’è. E lotta insieme a lui. Disegna scenari, patteggia candidature, indica la strada da seguire. Il potere è una cosa seria e lui, che la politica strappò alla neurochirurgia, sa come si esercita.
Come dimenticare quel pomeriggio di marzo a Napoli, uffici e studi della sede Rai, il “ciuccio” giocava una delle sue partite più importanti, ’o ministro e un codazzo di amici e clienti aveva deciso di vedere in differita il match. Bussò alla porta. Gli addetti alla vigilanza consultarono i funzionari ai piani alti, ma Pomicino non aveva tempo da perdere e soprattutto non voleva sfigurare con i suoi clienti. E allora sbottò, tirò un calcio al portone e fece un ingresso trionfale al grido di “Guagliù, mo’ trasimme tutti quanti, la Rai è di tutti, non è vero?”.
Di tutto e di più era il potere in Italia in quegli anni. E la politica, malattia che attirò fin da giovane il futuro braccio destro di Andreotti. Iscritto giovanissimo alla Dc, diventò assessore comunale a Napoli negli anni Settanta. Gavetta e voti, che lo portarono nel ’76 alla Camera. Lo scranno si riprodusse nel tempo, fino al 1992. Voti, strappati uno ad uno, conquistati in quel Vietnam delle preferenze che era la Napoli di Antonio Gava e Alfredo Vito, mister centomila voti. “Ho portato più soldi io a Napoli di quanti ne sono arrivati dall’Unità d’Italia ad oggi”, replicò ai giornalisti che lo accusavano di usare metodi clientelari. La sua arma di distruzione di massa, soprattutto delle finanze pubbliche, fu la Commissione Bilancio della Camera. Un centro di potere dove Pomicino occupò la presidenza dal 1983 al 1987.
Dai suoi uffici passavano le voci più significative della spesa pubblica. Una manna per amici imprenditori, sindaci, presidenti di provincia, capataz nelle regioni. Soprattutto del Sud. Un trampolino di lancio per conquistare ministeri importati, quello della Funzione pubblica nel governo De Mita (1988-1989) e del Bilancio col governo del suo punto di riferimento politico Giulio Andreotti, 1989-1992.
Ma ritenere che Paolo Cirino Pomicino sia stato solo il capo di un sistema clientelare corrotto, è sbagliato. ’O ministro aveva in mente la disarticolazione, anche dal punto di vista culturale, dell’avversario. I soldi degli “amici” gli servivano per finanziare giornali e riviste. Sono passati decenni, ma sul suo mensile Itinerario scrivevano economisti di sinistra, giornalisti vicini anche al Pci, fior di intellettuali.
Pomicino ha sette vite perché ha attraversato gli alti e i bassi della vita. Il potere e “Mani Pulite”. 42 processi, il carcere, le assoluzioni e le prescrizioni, le riabilitazioni. Un ciclone che avrebbe ammazzato un toro o consigliato un dignitoso ritiro dalle scene. Ma il viceré non è uomo da giardinetti, nel 2004 si candidò alle Europee con Clemente Mastella e rastrellò 42mila voti. Una città.
Con il ritorno in campo di Pomicino la Prima Repubblica sfiora l’eternità. E allora auguri a Zingaretti e al suo Pd che hanno scelto di correre con lui.