L’ultimo acquisto dei dem: l’eterno ritorno di Pomicino

Paolo Cirino Pomicino ha visto il segretario del Pd Nicola Zingaretti per offrirgli il sostegno elettorale suo e di una pattuglia di fedelissimi pomiciniani, semisconosciuti politici ed ex politici locali, alle imminenti Europee. Ci sarebbero stati almeno due incontri tra Roma e Napoli e la strana chiave di lettura di questa costruenda intesa la offre un big dei dem partenopei dietro garanzia di anonimato: “Sono le prove tecniche del futuro governo Pd-Cinque Stelle. L’eminenza grigia del M5S è un ex andreottiano come Vincenzo Scotti, no? Bene: un altro ex andreottiano come Pomicino parteciperà al Pd e aspirerà allo stesso ruolo ed insieme lavoreranno a un’intesa tra Zingaretti e Di Maio”. Sorride a trentadue denti il parlamentare napoletano mentre rilascia la confidenza, consapevole che la chicca resterà impressa nelle orecchie di chi ascolta. Per il resto, conferma tutto: l’interesse di Pomicino per il Pd, gli incontri tra l’ex ministro del Bilancio della Prima Repubblica e il segretario che ha vinto le primarie, le riunioni su input di Pomicino tra ex democristiani e figli di ex democristiani per convincere i recalcitranti e i perplessi. “Ma quel mondo – spiega la nostra fonte – da qualche parte doveva andare: certo uno come Pomicino non può offrirsi ai Cinque Stelle, Forza Italia si è dissolta, della Lega al sud manco a parlarne. Il Pd forse è rimasta l’ultima forza politica che può definirsi un partito, con il quale dialogare”. E perché Zingaretti dovrebbe assorbire Pomicino nel Pd? “Perché, glielo assicuro, non ha chiesto nulla in cambio. Ed a uno che ti propone di portarti qualche voto e basta, tu che fai? Gli dici di no?”.

I pomiciniani recalcitranti, dicevamo. Il 41 enne Francesco Ranieri, sindaco di Terzigno e candidato del centro destra alle ultime politiche, è uno di loro, una collocazione ereditata dal padre. “Pomicino ci ha riuniti e qualcuno di noi ha espresso dei dubbi”. Quali? “Per me questo Pd di Zingaretti è troppo a sinistra, io mi sentirei a disagio. Io spero sempre nella ricostruzione di una nuova forza politica di centro moderato”. Ma i tentativi di rifare la Dc sono tutti falliti. “Lo so”. E il Pd può essere la casa dei moderati? “Non lo so. Ma se non mi rivedo in quello che si sta costruendo, se non me ne innamoro, non escludo di restare a fare solo il sindaco e ritirarmi a fine mandato”. E Pomicino come vi ha convinti? “Guardi che non abbiamo ancora preso una decisione definitiva: tra qualche giorno ci rivedremo, ci sono da fare ulteriori passaggi per capire in che direzione andremo”. Quindi scriverei una sciocchezza se scrivessi che Ranieri voterà Pd alle Europee? “In questo momento sì. Ma ho molti amici tra i dem”. Chi sono? “L’onorevole Lello Topo e il consigliere regionale Mario Casillo. Con Mario c’è un’amicizia più stretta, siamo vicini anche territorialmente”.

Topo è uno degli esponenti dell’area guidata da Lorenzo Guerini che secondo le indiscrezioni di questi giorni dovrebbe trasformare l’intesa tra Pomicino e Zingaretti in un sostegno alla candidatura dell’europarlamentare uscente Giosi Ferrandino, di nuovo in pista dopo l’assoluzione dell’anno scorso nel processo sulla metanizzazione Cpl a Ischia. Lei è amico anche di Ferrandino? “No, ma lo conosco e lo stimo, l’ho conosciuto per la sua attività di sindaco di Ischia”. Ferrandino che ieri abbiamo cercato invano per una dichiarazione, attraverso un paio di telefonate e un messaggio lasciato a un collaboratore.

Uno degli ex dc che se ne intende e che nel centrosinistra c’è già stato, Clemente Mastella, commenta così l’iniziativa di Pomicino: “Gli voglio bene ma è come un grande talento del calcio che gioca bene, dribbla tutti, ma non fa mai gol. Vivendo a Roma ha perso il polso delle realtà locali e non si rende conto che quello lui che era una volta non lo è più”. A Benevento si racconta che ad un raduno all’Excelsior di Napoli Pomicino avrebbe invitato anche alcuni mastelliani. Che hanno ascoltato interessati e poi avrebbero preferito rimanere con il sindaco di Benevento e con la moglie parlamentare di Forza Italia.

Pomicino, sornione, si gode la scena ritrovata. Intervistato dal fattoquotidiano.it, spiega i perché e i percome: “Scelgo un partito che si differenzia dagli altri, è l’unico partito non personalizzato. C’è stato un tentativo di personalizzarlo ma è stato sconfitto”. Traduzione: se c’era ancora Renzi non si sarebbe avvicinato. Invece ha bussato a Zingaretti. Che l’ha accolto a braccia aperte.

I pomicioni

Lo so che non dovrei, ma è più forte di me: appena sento parlare di Paolo Cirino Pomicino non riesco a non pensare alla sua leggendaria tangente della Madonna. Sullo scorcio degli anni 80, alla vigilia di un intervento a cuore aperto a Houston, l’allora ministro Dc fa un voto alla Vergine: se tutto andrà bene, aiuterà i piccoli ospiti del Villaggio dei Ragazzi di don Salvatore D’Angelo, a Maddaloni. L’operazione riesce perfettamente. Ma Pomicino, anziché metter mano al portafogli, chiama un noto costruttore, Francesco Zecchina, in lista d’attesa per gli appalti del dopo-terremoto. “Mi chiese – racconterà Zecchina al processo sulle tangenti per la ricostruzione post-1980, poi caduto come sempre in prescrizione – di dare un contributo di circa 100 milioni, in rate da 10 a Pasqua e 10 a Natale, per cinque anni, a don D’Angelo. Obiettai che mi sembrava singolare che dovessi pagare io di persona un voto fatto da lui. Ma lui replicò che dovevo pagare io”. “Se non fosse per la gravità delle imputazioni e per l’entità dell’esborso imposto – scriverà la Procura di Napoli nella richiesta di autorizzazione a procedere alla Camera – la vicenda sarebbe veramente grottesca… Pomicino pretende di fare opere caritatevoli con il denaro altrui, e questo appare francamente eccessivo”. Pomicino è fatto così: un mariuolo sveglio, pronto, intelligente, spiritoso e spudoratamente creativo. Anche come tangentaro.

Perciò, a dispetto della condanna definitiva a 1 anno e 8 mesi per finanziamento illecito (maxi-tangente Enimont), del patteggiamento di 2 mesi per corruzione (fondi neri Eni), dell’arresto per estorsione e degli altri 39 processi finiti fra prescrizioni, autorizzazioni a procedere negate, archiviazioni, proscioglimenti e assoluzioni, nonché del suo fondamentale contributo al boom della spesa e del debito pubblico negli anni 80-90, non riesce a starmi antipatico. Nel 2016 riuscì persino a rendersi utile (capita a tutti, prima o poi), schierandosi per il No al referendum di Renzi e inviando alcune letterine contro la schiforma Boschi-Verdini all’unico giornale che difendeva la Costituzione: il nostro. Infatti non è con lui che ce l’ho, ma con Nicola Zingaretti. Il “nuovo” segretario del “nuovo” Pd ha incontrato il 79enne andreottiano all’hotel Vesuvio di Napoli e gli ha strappato il prezioso sostegno per le Europee e le Amministrative del 26 maggio. In attesa della versione di Zingaretti, ecco quella di Pomicino, intervistato ieri dal nostro sito: “Se io dico che mi oriento a votare per il Partito democratico, i miei amici votano – per una parte – per il Partito democratico”.

Poi – ha aggiunto –, per entrare nel Pd, bisognerà ragionare”. È l’ultima transumanza del peripatetico partenopeo, che dopo la Dc trasvolò nell’ordine: in FI, in Democrazia europea, nel Ccd, nell’Udeur, nella Nuova Dc di Rotondi, nella lista Dc-Psi, nel Pdl, nell’Udc, nei fittiani di Noi con l’Italia e ora nel Pd. Un po’ a destra, un po’ al centro, un po’ a sinistra (si fa per dire). Lui naturalmente è liberissimo di riciclarsi e camuffarsi come e con chi vuole. Ma il bello è che trova sempre qualcuno che ci casca. Il problema non è Pomicino che s’offre, ma il Pd che se lo piglia. Zingaretti, dopo lunghe ricerche, era appena riuscito a trovare un buon candidato per la circoscrizione Sud, non solo incensurato – impresa già ardua nelle terre dei De Luca, dei Pittella, degli Oliverio e degli Adamo –, ma addirittura magistrato: Franco Roberti. Forse non sa che, trent’anni fa, nel battaglione di pm che indagavano a Napoli su Pomicino, c’era pure Roberti. O forse lo sa e ha pensato bene di riequilibrare quel tasso eccessivo di legalità con un simbolo conclamato dell’illegalità. Come se non bastasse Franco Alfieri, detto Mr Fritture di Pesce, indagato per voto di scambio politico-mafioso con la camorra e candidato Pd a sindaco di Capaccio-Paestum. O l’incredibile inciucio in Sicilia con Gianfranco Miccichè, già braccio e naso destro di Marcello Dell’Utri. O gli scandali delle giunte dem da Milano all’Umbria alla Calabria.
Noi, se guidassimo un partito che vuole rinnovarsi intorno ai valori della sinistra, e Pomicino ci avvicinasse per aderire, ci domanderemmo dove abbiamo sbagliato, cos’abbiamo fatto di male per piacergli tanto. E risponderemmo: “No, grazie, come se avessi accettato”. Anche se quello ci garantisse il suo pacchetto di voti, veri o presunti (“Se io dico che mi oriento a votare per il Pd, i miei amici votano per il Pd”), gratis. Anzi, proprio per quello: chi vuole rinnovare un partito non può accettare l’idea che i voti appartengano a qualcuno che se li porta appresso, ora a destra, ora al centro, ora a sinistra, manco fossero calzini o mutande. Poi dovrebbe domandarsi chi siano questi “amici” di Pomicino, e con quali mezzi e a che prezzo un ex politico che non conta più nulla da 25 anni “controlla” ancora uno stock di elettori. Infine dovrebbe rifiutarli pubblicamente, per motivi di decenza, ma pure di convenienza: se qualche persona di sinistra, di bocca buona e di stomaco forte era tentata di tornare a votare Pd per l’arrivo di Zingaretti (e per la simultanea dipartita di Renzi), ora ne sarà dissuasa dalla notizia del sostegno di Pomicino. Che, per quanti voti controlli, non basteranno mai a superare quelli che farà perdere col suo bacio della morte. Soprattutto ora che la questione morale è tornata in auge col caso Siri, le retate da Nord a Sud e il trionfale ingresso della famiglia Genovese nella Lega siciliana. Tutte ottime occasioni per segnare la distanza di una nuova sinistra da Salvini, che imbarca di tutto e non butta via niente. Ma parlare di morale a chi ignora persino l’abc del marketing, facendosi beccare mentre pomicia con Pomicino, è fatica sprecata.

L’eclissi solare di Shana Cleveland

Sono anni ormai che Shana Cleveland seduce nel suo ruolo di chitarrista e frontwoman delle La Luz, eppure per brillare finalmente di luce propria, al terzetto surf-rock tutto al femminile è servito un endorsement di Eddie Vedder, che l’anno scorso le elogiò dicendo che è una delle band che segue con maggior interesse. Da allora è cresciuto l’interesse nei loro confronti, e Shana Cleveland ha colto l’attimo per pubblicare il suo secondo album da solista intitolato Night of the Worm Moon, registrato durante un’eclissi solare (da qui il titolo). Composto da 11 brani dai testi che lasciano intravedere un’immaginazione senza limiti dell’autrice, è un album voce e chitarra, con sonorità acustiche rivestite da una patina oscura e da un onnipresente senso di malinconia. È stato ispirato in parte da uno dei suoi idoli musicali, l’afro-futurista Sun Ra, e influenzato dai romanzi di Octavia Butler, che affronta temi come avvistamenti Ufo e altre preoccupazioni cosmiche. In definitiva, un bel “folk pastorale con interessi cosmici”.

Il nuovo Morrissey torna a cantarle ai vecchi maestri

Esattamente 35 anni fa venne pubblicato l’album d’esordio degli Smiths, destinato a creare un culto attorno alla band e al suo istrionico leader Morrissey. Il 24 maggio vedrà la luce California Sun, il primo album di cover scelte personalmente da Mozza. Ma il disco, in realtà, è molto di più: è l’omaggio ai suoi mentori degli anni Sessanta e Settanta che più l’hanno influenzato e forgiato.

Ecco quindi una scelta tutt’altro che banale: dalle canzoni manifesto della protesta politica firmate da Bob Dylan e Phil Ochs sino alla celebrazione vera e propria del talentuoso alfiere del glam rock, Jobriath. Morning Starship, originariamente scritta nel 1973, creò un grande interesse per il suo autore, capace di estremizzare il glam di Bolan con lustrini e stravaganze mai viste: nella sua epica performance di Rock Of Ages al programma della Nbc The Midnight Special, si presentò sul palco con un casco da astronauta salvo poi aprirlo come tanti spicchi di arancia, come e più del Bowie di Starman e The Jean Genie. È importante soffermarsi su Jobriath poiché è stato l’idolo di Morrisey teenager, il suo immaginario artistico: è stato il primo artista dichiaratamente gay a firmare un contratto con una major e Morrissey avrebbe voluto portarlo in tour per la promozione di Your Arsenal ma il sodalizio non andò in porto per la malattia di Jobriath, deceduto in seguito a causa dell’Aids.

Le altre due muse prescelte sono Joni Mitchell e Laura Nyro, ovvero il gotha del cantautorato femminile. Don’t Interrupt The Sorrow della Mitchell è a metà strada tra Help Me e Harry’s House/Centerpiece; ascoltando il brano ci si chiede quanto Richard Ashcroft sia in debito con l’ex leader degli Smiths. Di Laura Nyro, diventata negli anni autrice di culto, è stato scelto Wedding Bell Blues, ricco di atmosfere Sixties e giocose, imperniato di una voce suadente, con l’aiuto ai cori di Billie John Armstrong dei Green Day. La rilettura di Only A Pawn In The Game di Bob Dylan è arrangiata sulla falsariga di Belfast Child dei Simple Minds per enfatizzarne ancor più il suo contenuto sociale. Il brano fu scritto in onore di Medgar Evers, attivista per il movimento dei diritti civili degli afroamericani e fu eseguito da Dylan durante la marcia a Washington per il lavoro e la libertà del 28 agosto 1963 nella quale Martin Luther King pronunciò il celebre discorso “I Have A dream”.

Days Of Decision di Phil Ochs fu pubblicata originariamente nel 1965 nell’album I Ain’t Marching Anymore, un disco dedicato essenzialmente alla protesta contro la guerra in Vietnam, uscito nello stesso periodo di The Times They Are a-Changin’ di Dylan: “C’è un cambiamento nel vento e una spaccatura nella strada. Puoi fare ciò che è giusto o puoi fare ciò che ti viene detto. E il premio della vittoria apparterrà agli audaci”. Anche Suffer The Little Children (da non confondere con la canzone degli Smiths senza l’articolo) della cantautrice canadese Buffy Saint-Marie va inserita in questo filone. La Saint Marie nacque in una riserva di indiani e ne sposò le lotte per i diritti civili; tra le sue composizioni c’è The Circle Game di Joni Mitchell. La cover di It’s Over di Roy Orbison ospita la cantautrice italo-americana Lp, conquistata dalla ricerca musicale di Mozza: “Ho capito che dietro questo lavoro c’è il cuore di uno studioso di musica. È esperto di tanti generi diversi ed è stimolante vedere l’entusiasmo e la conoscenza che porta alle persone attraverso il suo viaggio musicale”.

Con Loneliness Remembers What Happiness Forget (interpretata da Dionne Warwick) si cambia ritmo tra samba e Caraibi: le sonorità rendono questo il brano più vicino all’epopea degli Smith. Lenny’s Tune (scritta originariamente da Tim Hardin per Nico) è drammatica ed emozionante; in When You Close Your Eyes di Carly Simon Morrisey sembra volerci definitivamente sciogliere. Capita raramente che i brani migliori siano inseriti in fondo all’album: arrangiata divinamente, mantiene le atmosfere rétro e malinconiche dell’originale trasformandosi in un flusso di puro pathos con una coda strumentale di rara intensità. È la vetta musicale dell’album, è evidente che ama questa canzone alla follia, è riuscito a farla rinascere ed evolvere. È il suo suggello da interprete puro.

La follia della guerra rende pazzi

La guerra rende folli o solo i folli possono entrare in guerra? La pazzia batte il sistema o il sistema fa diventare pazzi? A 58 anni di distanza dal romanzo che cambiò la percezione rispetto ai conflitti e che segnò, secondo molti, l’inizio della letteratura post moderna, il Comma 22 di Joseph Heller è ancora, dannatamente, attuale. A riportarlo sullo schermo, dopo l’adattamento del ’70 di Nichols, è il divo con l’ossessione per la democrazia e per la pace, quel George Clooney scortato ieri persino all’anteprima stampa. Catch-22 è una serie originale Sky in sei puntate, in onda da martedì 21 maggio. La vicenda è nota: un reparto di aviatori americani di stanza a Pianosa (l’opera è girata in Italia, “nonostante le condizioni fiscali”) è impegnato a distruggere i tedeschi durante la Seconda guerra ma soprattutto a cercare di non impazzire, di fronte al numero sempre crescente di missioni da portare a termine prima del congedo. Nei panni di John Yossarian c’è uno strepitoso Christopher Abbott. Clooney, che produce la serie e firma la regia di due episodi, è invece il sadico tenente Scheisskopf. Nel cast anche Giancarlo Giannini, fiero di aver portato un pezzo d’Italia in un racconto in cui il nostro Paese soffre un po’ dello stereotipo spaghetti e mandolino. Action, drama and comedy ma, a differenza del romanzo, il piano temporale è lineare e la follia avanza, senza diventare via di fuga. Perché il Comma 22 è sempre valido: chi è pazzo può chiedere di essere esentato dalle missioni di volo, ma chi chiede di essere esentato dalle missioni di volo non è pazzo.

Addio a Doris Day

Que sera sera, quattro matrimoni e un funerale: a 97 anni se ne va Doris Day, nome d’arte di Doris Mary Ann Kappelhoff, già poliedrica donna di spettacolo e fidanzata d’America. Ragazza della porta accanto, così è passata alla storia, invero con licenza di stupire: ballerina provetta, cantante da 650 pezzi e attrice in trentanove film, ha stampigliato chioma biondissima, sorriso abbacinante e American Way of Life sull’immaginario collettivo.

Nata il 3 aprile 1922 a Cincinnati, Ohio, da una famiglia di cattolici tedeschi (il padre insegnante di musica sarebbe presto scappato con la migliore amica della moglie), a dodici anni è a Hollywood da promessa della danza, ma a quattordici deve già mollare il tip tap: un’automobile le rompe una gamba e le taglia la carriera.

Anziché buttarsi giù, cambia spartito: musica leggera. Va in tournée con Les Brown and His Band of Renown, e con Sentimental Journey firma una hit per i reduci: la conoscono tutti, lei conosce Al Jorden che sposa nel 1941 e lascia di lì a poco, dopo la nascita del figlio Terry, perché manesco. Dopo la Seconda guerra mondiale, che combatte esibendosi per le truppe, ci ricasca: il matrimonio con George Weidler dura nemmeno tre anni.

Sfortunata in amore, il cinema la ripaga con gli interessi: esordisce sul grande schermo nel 1948 in Amore sotto coperta di Michael Curtiz, il regista di Casablanca. Il film è buono, ma la battuta dell’attore Oscar Levant di più: “Fu il mio ultimo film con Warner Bros. e il primo di Doris Day: l’ho conosciuta prima che diventasse vergine”. Intuendone le potenzialità stellari, Warner la mette sotto contratto e la fa recitare a soggetto: Doris è la verginella, l’ingenua, nei fatti, la finta ingenua, e nel quinquennio ’59-’64 non ce n’è per nessuno, in coppia con Rock Hudson, altro campionissimo di divaricazione personaggio-persona, conquista il box office, per esempio con Il letto racconta.

Un bomba commerciale, la signora Day, al servizio del consumismo stelle & strisce: sovrapporne l’immagine alla fashion doll Barbie, lanciata nel 1959, non è peregrino.

Convincente Calamity Jane in Non sparare, baciami! (1953), ha il buon gusto, e il coraggio, di concedersi qualche scappatella dal vaudeville: eccelle nel drammatico Amami o lasciami, al fianco di James Cagney (1955), conquista ne L’uomo che sapeva troppo, l’auto-remake di Alfred Hitchcock del 1954. Vi canta indimenticabilmente Que sera sera (Whatever Will Be, Will Be), che varrà l’Oscar nel 1957 agli autori Jay Livingston e Ray Evans e le otterrà fama planetaria. E chissà, liberandosi per sempre dai cascami dell’ingenua, se avesse accettato il ruolo andato ad Anne Bancroft nel Laureato quanto ci avrebbe sedotto ancora. Del resto, nella vita le accadeva sovente: nel 1951, a 29 anni Doris è già al terzo matrimonio, lui si chiama Martin Melcher, e sarà un cattivo consigliere.

Negli anni Sessanta i film non sono più quelli che vuole lei, ma il marito: Doris accusa un forte esaurimento nervoso, Marty dilapida un patrimonio di 20 milioni di dollari. Dopo la sua morte avvenuta nel 1968, Doris fa causa al proprio avvocato che aveva massimamente contribuito al dissesto finanziario, vince – più che altro per la gloria – e cambia: basta cinema, è la televisione ad accogliere, dal 1968 al 1973, il Doris Day Show, strepitoso successo. C’è tempo per il quarto scambio di anelli, con Barry Comden, poi l’autobiografia, l’impegno animalista (à la Brigitte Bardot) sfociato nella Doris Day Animal League, un hotel-rifugio a Carmel-by-the Sea, e la Medaglia presidenziale della libertà, la più alta onorificenza civile, che George W. Bush le ha conferito per aver “deliziato i cuori degli americani mentre arricchiva la nostra cultura”.

 

Newsguard: come contrastare la disinformazione sul web

L’obiettivo è ambizioso: contrastare la disinformazione che sul web talvolta è frutto di ignoranza, spesso arma per mistificare la realtà. Questo si prefigge Newsguard (www.newsguardtech.com), che dopo Stati Uniti e Regno Unito, è disponibile anche in Italia. Newsguard utilizza valutazioni dei suoi giornalisti ed “etichette nutrizionali” elaborate su nove principi deontologici; le valutazioni vengono fornite gratuitamente agli utenti tramite un’estensione da installare nel browser, disponibile per Chrome, Safari, Edge e Firefox, e sui dispositivi mobile tramite il browser mobile Edge per dispositivi iOS e Android. Secondo un sondaggio di YouGov per NewsGuard, il 92% degli intervistati ritiene che le informazioni false e/o fuorvianti in Internet siano un problema. In Italia il consulente sarà Giampiero Gramaglia, ex direttore dell’Ansa.

Trump e l’America “modello Ungheria”

Ci fu un tempo che Viktor Orbán alla Casa Bianca voleva andarci, ma non riusciva a farsi invitare. Ieri, le porte della Casa Bianca, tenute chiuse da Bush Jr e Obama, si sono aperte per Orbán, anche se Trump non manda giù che quel suo sodale dichiarato abbia buoni rapporti con la Russia e faccia da testa di ponte alla Cina, offrendole una base nell’Europa centro-orientale per la sua Nuova Via della Seta.

Leader sovranista e anti-immigrati, Orbán è ieri divenuto il primo premier ungherese dal 2005 accolto alla Casa Bianca: grande ammiratore e sostenitore del magnate presidente, ne ha pure copiato lo slogan con il suo molto meno altisonante ‘Hungary first’. Non capendo, o non ritenendo grave, che nel confronto diretto con la Super-Potenza la piccola Ungheria ha solo da starsene buona, magari protetta, ma certamente docile. Nel colloquio, Trump e Orbán hanno ufficialmente discusso “di come approfondire la cooperazione su una serie di temi, fra cui il commercio, l’energia, la cyber sicurezza” e la Nato. I media magiari vicini al governo considerano l’incontro di Washington un incoraggiamento alla linea sovranista che Orbán porta da tempo avanti in Europa e che lo ha già messo in rotta di collisione con il Ppe, cui fa riferimento il suo partito Fidesz. Il Partito popolare europeo ha recentemente sospeso dai propri ranghi il partito ungherese. Orbán ha finora abbozzato, ma sta lavorando per una nuova maggioranza nel Parlamento europeo, che, dopo il voto del 23 e 26 maggio, metta insieme popolari e ‘sovranisti’ di destra, dalla Merkel a Salvini passando per Berlusconi e Orbán. Anni fa, il leader di Forza Italia regalò al premier ungherese, tifoso del Milan e giocatore appassionato, un set di maglie rossonere per la sua squadretta.

Anche per questi sapori d’ingerenza nelle vicende europee, la visita di Orbán ha suscitato malumori nel Congresso degli Stati Uniti: protestano i paladini dei diritti umani, che il premier ungherese, secondo l’Ue, non rispetta a pieno, minando l’indipendenza della magistratura, limitando la libertà di stampa colpendo le Ong e chiudendo la Central European University fondata dal miliardario ungaro-americano George Soros; e protestano anche i democratici, che avevano chiesto per iscritto al magnate presidente di non accogliere Orbán finchè “non avrà rimesso il suo Paese sulla strada della democrazia”. Anche qualche senatore repubblicano ha esortato Trump a sollevare nell’incontro con Orbán la questione dell’ “erosione” della democrazia in Ungheria. L’ambasciatore degli Usa a Budapest, David Cornstein, ha detto a The Atlantic: “Conoscendo Trump da 25 o 30 anni, posso dire che gli piacerebbe avere in America la situazione che ha Orbán in Ungheria”. Per correggere la deriva filo-magiara della Casa Bianca, il Dipartimento di Stato dice che gli Usa guardano all’intero gruppo di Visegrad (V4), Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia, come “un importante blocco regionale” che Washington “incoraggia a lavorare insieme”, vedendovi un grimaldello anti-Ue. Orbán era già stato alla Casa Bianca, accolto nel 1998 da Bill Clinton. Allora, però, era un giovane centrista e quasi progressista.

Assange, il caso non è chiuso. Ora lo vuole anche la Svezia

Il fondatore di Wikileaks, Julian Assange, a quanto pare non resterà a lungo a Londra. Da una parte la Svezia ha deciso ieri di riaprire le indagini a suo carico per stupro, dall’altra l’Ecuador, che l’ha consegnato l’11 aprile alla polizia londinese, ieri ha inviato negli Stati Uniti gli archivi digitali rimasti nell’ambasciata in cui l’aveva ospitato per sette anni, fornendo ulteriori prove alle accuse di Washington. In uno dei due casi, o in entrambi, l’hacker rischia di essere estradato, se non direttamente sul suolo statunitense, passando per quello svedese. A dare il via all’escalation contro di lui è stato proprio il gesto dell’ambasciata sudamericana a Londra di scaricarlo per comportamento scorretto durante la sua permanenza. Non appena uscito dall’ambasciata, infatti, l’avvocato di una delle due donne che già in passato l’aveva accusato di aver abusato di lei mentre dormiva nel 2010 durante un incontro di Wikileaks in Svezia, aveva chiesto la ripresa delle indagini, prima che potesse scattare la prescrizione nel 2020.

Nel 2017 le indagini a carico del fondatore di Wikileaks erano state chiuse perché era difficile condurre un’indagine in assenza dell’interessato, a quel tempo già rifugiato nell’ambasciata ecudoriana di Londra. “Ho deciso di riaprire l’indagine, c’è ancora un ragionevole dubbio per sospettare che Assange abbia commesso uno stupro”, ha dichiarato la procuratrice Eva Marie Persson. “Ora che ha lasciato l’ambasciata dell’Ecuador, sono dell’opinione che ci siano di nuovo le condizioni per portare avanti il caso”, ha aggiunto, spiegando che “ci sarà bisogno di un nuovo interrogatorio ad Assange” per concludere l’inchiesta.

Il 47enne hacker australiano – condannato da un tribunale di Londra a 50 settimane di carcere per aver violato i termini della libertà su cauzione nel 2012 – ha sempre negato le accuse parlandone anzi come un pretesto per l’estradizione negli Usa possibilità riaccesasi dopo il suo arresto. Negli Usa Assange rischia fino a 5 anni di carcere per “pirateria informatica”, per aver diffuso 450 mila documenti riservati della Difesa sulle guerre in Iraq e Afghanistan insieme all’ex analista dell’intelligence americana Chelsea Manning. Assange – ora detenuto nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh nel sud di Londra – già il 2 maggio era apparso in video alla corte dei magistrati di Westminister per dichiarare di non acconsentire ad essere estradato negli Usa. La corte si è aggiornata al 30 maggio. Ora saranno proprio le autorità britanniche a decidere a quale dei due processi e quindi a quale dei due procedimenti di estradizione dare la priorità. La riapertura delle indagini da parte della magistratura svedese “è frutto della pressione politica”, hanno commentato da Wikileaks con il suo direttore islandese Kristinn Hrafnsson che ricorda come invece la stessa procura nel 2010 avesse concluso che “il reato non sussistesse”, oltre al fatto che “l’incriminazione sarebbe stata possibile anche durante l’asilo di Assange nell’ambasciata ecuadoriana a Londra, ma che i pm svedesi non l’hanno mai formalizzata”, né avrebbero dato la possibilità all’indagato di essere interrogato a Londra, così come da lui richiesto. A ogni modo, sarà proprio grazie a questo che “Julian avrà la chance di riabilitare il suo nome” conclude Wikileaks. “Assange è innocente”, gli fa eco il suo avvocato svedese, Per Samuelsen, “molto sorpreso” che la procura abbia ritenuto “ragionevole riaprire un caso vecchio di 10 anni”.

Intanto il governo ecuadoriano di Moreno ha fatto sapere di aver inviato agli Usa tutti i dispositivi mobili – quindi gli archivi informatici – su cui il cyber-attivista ha lavorato nei sette anni in ambasciata a Knightsbridge, dove il prossimo 20 maggio entrerà una commissione del Dipartimento di giustizia degli Usa. Resta ora da vedere come si muoverà il Regno Unito. La legge prevede che in caso di doppia richiesta, abbia priorità la prima in ordine temporale. Già oltre 70 parlamentari inglesi hanno scritto al giudice perché dia priorità alla Svezia.

Da Brecht al carcere “Mi dicono terrorista solo per i miei libri”

La fotografia sulla porta di una piccola stanza del centro culturale curdo Ararat, a Roma, mostra il volto paffuto e sorridente di un ragazzo. Appartiene a Erol Aydemir anche se si stenta a crederlo una volta varcata la soglia, tanto questo trentenne curdo, rifugiato politico in Italia da quasi cinque anni, è dimagrito.

Da 54 giorni Aydemir, assieme ad altre 7 mila persone, la maggior parte di etnia curda residenti in Turchia, sta portando avanti uno sciopero della fame durissimo per chiedere il rilascio di Abdullah Ocalan; il rispetto delle leggi umanitarie sul trattamento dei prigionieri politici; il superamento degli Stati Nazione a favore del confederalismo democratico come già avviene nel Rojave (la zona a maggioranza curda della Siria). I medici che lo hanno appena visitato hanno detto preoccupati che ha perso 15 chili e il suo metabolismo ha già iniziato a mangiare la massa muscolare per sopravvivere.

“Fino a pochi giorni fa riuscivo ancora a leggere un po’, ma ora inizia ad appannarsi la vista e non ho più la forza di concentrarmi”.

Sul comodino accanto al letto in cui ormai passa gran parte della giornata ci sono due libri: I ventitré giorni della città di Alba di Beppe Fenoglio e Quando tutte le donne del mondo… di Simone de Beauvoir.

“Riesco a leggere qualche pagina solo di libri che ho già letto, mi affatico di meno e allo stesso tempo mantengo la mente in funzione”. L’acqua con sale e zucchero, le uniche sostanze che sta ingerendo da quasi due mesi a questa parte, non bastano più a farlo reggere in piedi. “Non vorrei morire, ma se vivere significa accettare che le persone, non solo Ocalan e noi curdi, vengano massacrate e umiliate dal comportamento fascista di Erdogan e dei tanti cosiddetti uomini forti in ascesa persino in Europa, come qua in Italia Salvini, sono disposto a morire”. Da quando Leyla Guven, co-segretaria del partito filo curdo democratico dei popoli, Hdp, 185 giorni fa ha dato il via a questo sciopero della fame di massa, sono già morte nove persone. “Noi curdi che seguiamo la dottrina politica di Ocalan non vogliamo uno Stato curdo, bensì un’autonomia confederata. Ci riteniamo gramsciani più che marxisti e lottiamo per il dialogo, la pace, non la guerra. Ma Erdogan e i magistrati che sono totalmente controllati dall’esecutivo, ci bollano di terrorismo così da poter cancellare ogni nostro diritto. L’ultimo esempio è l’annullamento del risultato delle elezioni locali non solo a Istanbul ma anche in Kurdistan. Venti dei 70 esponenti dell’Hdp che hanno vinto nel sud-est sono stati revocati perché accusati di essere sostenitori del Pkk”.

Anche Erol Aydemir era stato accusato di fare propaganda per il partito dei lavoratori curdi fondato da Ocalan (da 20 anni confinato, solo, nell’isola prigione di Imrali a scontare numerosi ergastoli, ndr) quando era studente universitario di economia.

Nato in un villaggio a 200 chilometri da Diyarbakir, la capitale de facto del Kurdistan turco, venne arrestato in seguito a un’incursione della polizia nella sua casa.

“Mentre studiavo Economia mi divertivo anche a portare in scena nei teatri locali testi di Bertolt Brecht e di altri autori non amati certo dai regimi. un giorno la polizia ha fatto irruzione a casa mia e mi hanno accusato di sostenere il Pkk perché avevo nella libreria cinque libri di Ocalan. Sono finito in carcere per due anni, poi mi hanno rilasciato per mancanza di prove, ma il tribunale d’appello ha ribaltato la sentenza condannandomi a 7 anni”. Tutto questo succedeva nel 2012, un anno prima della tregua che il governo turco stipulò con Ocalan e poi interrotta per volere di Erdogan quando nel 2015 il partito filo curdo riuscì a entrare in Parlamento contribuendo a sottrarre la maggioranza assoluta al partito della Giustizia e Sviluppo fondato dallo stesso presidente turco.

“A quel punto sono fuggito, non volevo stare in carcere sette anni, picchiato e trattato peggio di un animale, prassi comune nelle carceri turche non solo nei confronti di noi curdi”. Erol è riuscito a venire in Italia perché il fratello, che già abitava in Toscana, ha pagato i trafficanti di uomini per fargli passare il confine. “Ora sto facendo lo sciopero della fame non solo per noi curdi, ma anche per tutti coloro che sono oppressi e ingiustamente accusati di non fare il bene della comunitá. Avrei tanto voluto andare a sostenere Mimmo Lucano alla Sapienza, ma le mie condizioni non me l’hanno permesso”. La voce di Erol ormai è quasi un sussurro. “Ho sempre meno energia, anche parlare mi affatica, ma dentro di me mi sento sempre più forte e libero”.