Era accusato di estorsione “a fin di bene”. Assoluzione per il segretario del Si Cobas

Era stato arrestato dopo un’operazione condotta dalla polizia con telecamere e microfoni nascosti, quindi costretto all’obbligo di dimora in Lombardia e processato a Modena per un reato infamante come l’estorsione. Nel corso del processo la pm Claudia Natalini ha poi chiesto l’attenuante dei “motivi di particolare valore morale o sociale”, come fosse una sorta di “estorsione a fin di bene”, perché quei soldi per interrompere i picchetti di sciopero, tra 60 e 90 mila euro secondo l’accusa, se davvero li aveva chiesti non erano per lui ma semmai per la “cassa di resistenza” destinata agli iscritti rimasti senza lavoro. E comunque aveva sollecitato una pena di due anni e quattro mesi. Ma ieri Aldo Milani, 71 anni, combattivo leader del Si Cobas che dichiara 40 mila iscritti e si è radicato nel difficile mondo della logistica, è stato assolto in primo grado dal Tribunale di Modena “perché il fatto non sussiste”.

La storia risale al gennaio 2017. Milani fu arrestato insieme a un misterioso intermediario, Danilo Piccinini, che si era inserito nella vertenza del magazzino di carni Alcar Uno dei fratelli Levoni a Castelnuovo Rangone (Modena). La polizia piazzò le telecamere durante un incontro tra i Levoni, Milani e Piccinini; vide passare di mano una busta con dentro cinquemila euro poi ritrovata addosso a Piccinini; in un brogliaccio fu registrata la frase “quello che vi do oggi consideralo un acconto”, ma secondo le successive perizie la frase era “ti do”, rivolta da Luca Levoni al solo Piccinini, e non “vi do”. Nel frattempo l’intermediario è stato condannato a due anni e quattro mesi con il rito abbreviato che prevede lo sconto di un terzo della pena. E ora arriva l’assoluzione di Milani, che ha sempre negato di aver chiesto soldi ai Levoni.

“Una montatura, una trappola orchestrata ad arte per fermare il sindacato”, ha sempre detto il sindacalista. Il Si Cobas, i cui metodi suscitano dibattito e polemiche anche da parte di altri sindacati di base, è da anni interlocutore della Federazione dei trasportatori anche a livello nazionale ed è stato protagonista di lunghe vertenze e blocchi delle merci, dai magazzini di Piacenza a quelli dei grandi spedizionieri e alla Granarolo di Bologna, dove lavorano per lo più facchini stranieri assunti da cooperative in subappalto. Nel complesso il settore della logistica vale poco meno del 10 per cento del Pil.

In tribunale, davanti al collegio presieduto dal giudice Federico Maria Meriggi, Milani è stato difeso dagli avvocati Alessandro Gamberini e Marina Prosperi di Bologna, che hanno sottolineato come “la golosità della preda” abbia fatto “dimenticare le regole della caccia”. In particolare i difensori hanno discusso il brogliaccio sbagliato ma anche l’intercettazione in cui un funzionario della polizia diceva a Lorenzo Levoni frasi come “abbiamo devastato i Cobas a livello nazionale” e “abbiamo fatto una cosa pazzesca (…) cioè come arrestare, non so, Luciano Lama ai tempi della Cgil d’oro (…), il segretario nazionale dei Cobas che è l’incubo di Granarolo, Ikea”. Il poliziotto rassicurava l’imprenditore: “Adesso vi togliete dalle palle questa gente e non solo voi, avete fatto un’opera sociale per tutti gli imprenditori onesti sotto schiaffo di tutta Italia, mica solo di Modena, eh”.

Codice della strada, novità per gli scooter i pedoni e le scuole

In autostradaanche con una moto o scooter con 120 di cilindrata. Pattini, monopattini e skate anche sulle aree pedonali. Maggior sicurezza per la circolazione dei ciclisti. Strade protette e con limiti ridotti davanti agli edifici scolastici. Sono alcune delle misure contenute nel testo base con le modifiche al Codice della strada, che la Commissione trasporti della Camera ha messo a punto e domani verrà approvato dal Comitato ristretto, che ha fissato nel 3 giugno il termine per la presentazione degli emendamenti. Una delle novità riguarda l’uso di moto e scooter, attualmente ammessi in autostrada solo con cilindrata superiore ai 150 cc: con le nuove modifiche, il divieto di circolazione su autostrade e strade extraurbane viene abbassato sotto i 120 cc. Ma la circolazione sarà consentita “solo a soggetti maggiorenni” con patente A, B o superiore o da almeno due anni con patente A1 e A2 (ovvero quelle per sedicenni e diciottenni). Per la sicurezza intorno alle scuole, arriva un nuovo tipo di strada: la ‘strada scolastica’, su cui i comuni stabiliranno “limitazioni alla circolazione” almeno negli orari di entrata e uscita, abbassando il limite di velocità a 30 km/h o meno e delimitando zone a traffico limitato.

Dal Cnr al gotha della fisica italiana. La rivolta dei precari della ricerca

Un matematico fuggito in Gran Bretagna, uno scienziato accasato negli Stati Uniti e un collega che ha optato per la Cina. Sono tutti ricercatori italiani, ma a una carriera in patria fatta di contrattini rinnovati di anno in anno hanno preferito l’estero. Queste storie saranno portate oggi in piazza Montecitorio dai precari di quattro enti pubblici di ricerca. Sparsi tra il Cnr e gli altri istituti ci sono oltre 1.500 studiosi che, pur con i requisiti di legge, sono ancora esclusi dalle stabilizzazioni. “Poi non lamentiamoci se in tanti lasciano questo Paese”, affermano i componenti dei comitati che riuniscono i precari di Cnr, Inaf, Infn e Ingv.

La situazione è paradossale: due anni fa la legge Madia ha permesso ai centri di ricerca di garantire un rapporto a tempo indeterminato ai cosiddetti “precari storici”: i dipendenti con almeno tre anni di anzianità negli ultimi otto. Gli istituti del ministero dell’Istruzione, o di altri dicasteri, contavano circa 4.500 persone in questa situazione nel 2017. Nonostante anche l’esecutivo giallo-verde avesse vincolato fondi alle stabilizzazioni, per un terzo della platea la situazione non è cambiata.

Il Cnr aveva 2.500 precari storici. La legge Madia prevede due percorsi di stabilizzazione. Con i dipendenti a termine si può procedere automaticamente alla stipula del contratto a tempo indeterminato. Per i collaboratori continuativi e gli assegnisti di ricerca serve un concorso ad hoc. Il Cnr ha stabilizzato 1.200 persone appartenenti quasi tutte al primo gruppo. Dalla selezione riservata al secondo sono risultati idonei 700. Ma per quest’anno i piani dell’ente prevedono l’ingresso solo per 208 di loro. Ne resteranno fuori in 500, assieme a 200 che non sono stati stabilizzati per altri motivi. Questo nonostante gli ultimi due governi abbiano destinato 75 milioni proprio al superamento del precariato nell’ente. Intanto in 200 sono andati a casa, perché non sono stati rinnovati nemmeno come precari.

Altri istituti non hanno nemmeno fatto i concorsi per collaboratori e assegnisti. Quello di Fisica nucleare (Infn) ha stabilizzato 170 dipendenti, ma non ha predisposto il bando per le altre tipologie (un centinaio di persone). La scelta non dipende dalle risorse, che in realtà ci sarebbero: 16 milioni vincolati dal governo, più 15 milioni di aumento già promesso sul fondo ordinario. Ultimamente l’Infn ha vinto cause al Tar contro alcuni precari esclusi. Sentenze contestate dai comitati, ma che l’istituto usa per rifiutare le richieste di stabilizzazione. Anche all’Ingv, che si occupa di geofisica e vulcanologia, non è arrivato alcun concorso e questo tiene fuori una quarantina di persone.

L’Italia spende solo l’1,3% del suo Pil per la ricerca e non attrae cervelli dall’estero. Ci era riuscito con Diana, dottoressa di ricerca brasiliana che dal 2013 lavora al Cnr. Sta per scadere il suo contratto, così ha deciso di tornare nel suo Paese d’origine. I coordinamenti vogliono un’inversione di tendenza: nel breve periodo la stabilizzazione dei precari; nel medio l’aumento dei fondi e l’assunzione di nuovi ricercatori, soprattutto di chi in questi anni è risultato idoneo ai concorsi.

Chiusura Strada dei Parchi tra inchieste e milioni in ballo

Una spada di damocle che pende su tutto il Centro Italia: questo rappresenta la minacciata chiusura del traforo del Gran Sasso, paventata dalla concessionaria dell’autostrada abruzzese per il prossimo 19 maggio. Strada dei Parchi (Sdp), la società che gestisce l’A24 e l’A25 (di proprietà della Toto holding spa) non fa passi indietro e tiene in ballo l’Abruzzo, anche se un accordo col ministero sembra vicino.

Tutto gira intorno all’inchiesta della Procura di Teramo che ha indagato Strada dei Parchi, insieme alla società del ciclo idrico delle acque Ruzzo e all’Istituto di Fisica nucleare del Gran Sasso, dopo due casi di inquinamento delle acque sotterranee. Uno riguarda la contaminazione da diclorometano proveniente da un esperimento dei laboratori di fisica nucleare, l’altro la contaminazione da toluene avvenuta nel maggio 2017 in concomitanza con la verniciatura dei tunnel autostradali. Una vicenda a tratti inverosimile a cui il ministero delle Infrastrutture, che ieri ha nuovamente incontrato i vertici di Sdp, cerca di porre rimedio, visto che si paventa l’isolamento della regione. Riunioni al ministero che si susseguono (si lavora ad un’intesa che sollevi Sdp dalle responsabilità e per trovare le risorse per la messa in sicurezza, dopo un incontro “positivo”, è stato riferito al termine dell’incontro di ieri) ma che sono legate prima di tutto alla questione della messa in sicurezza, anche antisismica, di buona parte della rete autostradale gestita da Strada dei Parchi.

Gran sasso. I soldi per mettere in sicurezza le falde sono stimati in 172 milioni, e arriveranno dallo Stato. Domani è atteso un nuovo incontro decisivo con la presenza anche degli enti locali. Lo Scontro è però anche su cosa fare nell’immediato. Secondo Strada dei Parchi, al momento, alla chiusura del traforo non ci sono alternative. “Attendiamo dal ministero le indicazioni che ci aspettiamo”, spiegano dalla società. E cosa vi aspettate? “Prescrizioni chiare sia a livello concessorio che di responsabilità penale, e un commissario per la gestione dei lavori. Il problema è strutturale, non riguarda la manutenzione ma il permanere del rischio di contaminazione tra autostrada e falde acquifere. Una questione che per il ministero non è di nostra competenza. Vertici e azienda sono chiamati in giudizio per un potenziale rischio di inquinamento, e la società non è in condizione di tenere aperto il traforo”.

Motivazioni fumose per il Forum H2O che da tempo denuncia il pericolo ambientale. “Le accuse alla concessionaria riguardano un deficit di precauzione in un fatto specifico di manutenzione – spiega Augusto De Sanctis del Forum – leggendo gli atti della Procura è evidente che per Sdp l’accusa è relativa al caso specifico: la presenza di toluene nelle acque a maggio 2017, avvenuta durante la manutenzione dei tunnel. Sdp non deve, e non doveva, intervenire con lavori straordinari ma, secondo i pm, solo accorgersi di essere in un posto vulnerabile e prendere le precauzioni necessarie nella gestione manutentiva ordinaria”. Anche per i fondi da stanziare per i lavori, argomento su cui la società si è affrettata a tirarsi fuori, secondo De Sanctis i “documenti pubblici dicono che nessuno ha mai chiesto soldi a Sdp per i 172 milioni necessari agli interventi strutturali”. In un primo momento il ministero ha fatto sapere che la chiusura del traforo poteva configurare anche la causa di revoca della concessione. Cesare Ramadori, presidente di Sdp afferma invece che “non può essere considerata interruzione di pubblico servizio”. Dopo l’incontro di ieri al ministero, un accordo sembra vicino. Di certo, con un emendamento al decreto Sblocca cantieri arriverà un commissario di governo per la realizzazione dei lavori.

Dietro le quinte. Molti osservatori ritengono che l’annuncio della chiusura del traforo sia collegata allo scontro in atto tra concessionario e Mit su altri temi. Il primo è la messa in sicurezza antisismica dei viadotti. Per fare i lavori Sdp aveva proposto un intervento radicale (7 miliardi circa), bocciato dal ministero. O un adeguamento rilevante collegato al rinnovo del piano finanziario scaduto da anni (la prima proposta ammontava a 3,1 miliardi) e ora al centro dei colloqui tra Sdp e ministero. Per i lavori urgenti sui viadotti il governo ha stanziato, oltre a 58 milioni già usati, altri 192 milioni. Sdp, però, sostiene che i fondi non siano mai stati resi disponibili. Il Mit ribatte che non è vero, e ha messo in dubbio le manutenzioni finora effettuate (tesi rigettata dalla società).

Carige, tutto da rifare Il Fondo interbancario non converte il bond

Tutto da rifare per il salvataggio di Banca Carige. Il cda straordinario del Fondo interbancario di tutela dei depositi, convocato per ieri dopo il dietrofront del fondo americano Blackrock, ha deciso di non procedere alla conversione del bond da 320 milioni di euro sottoscritto per puntellare l’istituto ligure. Il Fitd, partecipato idalle banche italiane, definisce “improvviso e inatteso” il dietrofront di Blackrock, con cui stava “concretamente collaborando” a una soluzione che li vedesse partner nell’ambito di un aumento di capitale complessivo da 720 milioni, a cui il Fondo avrebbe aderito con la conversione del bond. L’assemblea del Fitd si riunirà domani mattina per ratificare la delibera del cda. Non si tratta solo di un congelamento. È evidente che, al di là delle dichiarazioni di disponibilità di alcuni banchieri a un eventuale intervento di sistema se necessario, gli istituti eviterebbero di pagare il conto di un’altra crisi. Non è chiaro, infatti, se il Fitd parteciperebbe nel capitale di Carige , se si rendesse necessaria la ricapitalizzazione precauzionale dello Stato. I commissario trattano per una soluzione privata, che però sembra assai improbabile. La scadenza del 17 maggio potrebbe essere prorogata dalla Bce.

Napoli chiude “l’incubo” Vele “La lotta di Scampia ha vinto”

 

Il cielo sopra Scampia è grigio, ma i cuori sono allegri finalmente. Perché da oggi la storia di questa periferia delle periferie può cambiare. Si apre il cantiere per l’abbattimento di una delle tre vele superstiti, la Verde. L’ultima famiglia che abitava in quel palazzone morto è uscita, l’area è stata recintata, le ruspe sono già al lavoro. “Ha vinto la lotta”, c’è scritto su un lunghissimo striscione. Sulla terrazza della Vela Celeste (set di camorra vera e Gomorra per finta) si festeggia alla buona. C’è Luigi de Magistris e gli assessori Enrico Panini, Carmine Piscopo, Monica Buonanno e Alessandra Clemente, i giornalisti e i rappresentanti del Comitato di Lotta.

Per arrivare nel punto più alto della vela dobbiamo passare per l’appartamento di una delle ultime famiglie ancora residenti. Nello sfascio totale del palazzo, la casa ha conservato un suo decoro, sul tavolo la tovaglia buona e i pasticcini. Fuori parla De Magistris. “Quello che stiamo facendo qui oggi – dice – è un fatto molto più potente di mille colpi di pistola della camorra. Oggi iniziamo l’abbattimento, ed è una vittoria del popolo, il risultato del confronto anche aspro, tra abitanti delle Vele e istituzioni. È la vittoria di chi ha lottato per decenni in luoghi disumani senza mai perdere l’umanità”. Omero Benfenati e Lorenzo Liparulo, anima del Comitato di lotta, sono accanto al sindaco. E su questa immagine, che è la sintesi del “miracolo” Scampia, si dovrà riflettere. Perché qui, nel luogo del massimo degrado metropolitano, si è saldato un rapporto stretto tra il bisogno della casa, le lotte e le istituzioni. Senza barricate. Senza ronde e urla fasciste. “Le graduatorie per assegnare le case sono state fatte in modo ordinato e soprattutto senza imbrogli”, ci dice Omero, “è stata dura ma presto le Vele spariranno dal paesaggio di Scampia. “180 giorni di lavoro, questa è la scadenza”, calcola il direttore dei lavori dell’impresa che dovrà abbattere la vela Verde. “Ma non vi aspettate il botto finale con la dinamite – aggiunge l’ingegner Salzano – il palazzo dovrà prima essere risanato dai rifiuti e dall’amianto, poi lo smonteremo mattone per mattone”.

Sulla terrazza, intere famiglie che fino a poco tempo fa vivevano nelle Vele applaudono quando il sindaco dice che “oggi abbiamo vinto 3 a 0 contro la camorra e il degrado”. Le scale dissestate della Vela Celeste dove siamo, l’ascensore rotto da anni, l’amianto e le montagne di monnezza nei cortili, ti parlano della non vita dentro questi palazzoni abbandonati. “Ci mangiava l’umidità, non avevamo riscaldamento, avevo paura a far uscire i miei bambini da casa”. Salvatore ha tre figli, nati e cresciuti qui, finalmente ha avuto una nuova casa popolare. “È bellissima – dice con le lacrime agli occhi – è asciutta e abbiamo il riscaldamento autonomo”. Per entrare in graduatoria ha dovuto saldare il conto delle bollette non pagate. Lo ha fatto come tutti gli altri “abusivi”. Un miracolo e una lezione di vita. Si ricorda il passato, le sofferenze, la lotta e chi non c’è più. Ivan Grimaldi, morto a vent’anni, tetraplegico. Non usciva più di casa. Chi scrive scambiò due chiacchiere con lui qualche anno fa. Era su una sedia a rotelle paralizzato dalla testa in giù. “Qui diventi pazzo, è sporco, umido. Sto male. Vorrei spazi più puliti, senza droga e violenza”. E Vittorio Passeggio, l’uomo che inventò il Comitato di lotta iniziando da solo. Lui e un megafono. Anni di battaglie fino a sfinirsi. Chi ha memoria ricorda anche l’architetto Franz di Salvo, il progettista delle Vele. Sognava le Unité d’Habitation di Le Corbusier, esperimento riuscito in Francia a Villeneuve Loubet, ma la malapolitica e le emergenze trasformarono Scampia in un incubo. Ricordi e allegria, quando Rosario Caldore, cresciuto nel degrado della Vela Gialla tra guerre di camorra e desolazione (“ero giovane e non dimentico i miei amici morti”), invita tutti a cantare una canzone del fratello Luciano, di mestiere cantante. Un verso fa così: “Si saglie ‘ngoppa e Vele nun se vere ‘o mare”. E tutti cantano con la speranza di vedere un giorno il mare e mai più lo schifo delle Vele.

Non sono le bufale a fare la censura

“Facebookchiude 23 pagine: fake news, proteggiamo il voto” , “23 pagine di bugie e istigazioni all’odio”, “Facebook blocca le fake news dopo le segnalazioni di Avaaz”: con un’abile traslazione dei rapporti di causa-effetto, ieri i titoli dei giornali cartacei e online erano più o meno tutti di questo genere. Il messaggio era che il social network avesse censurato e chiuso queste pagine da 2,4 milioni di seguaci totali e orientate politicamente (perché a sostegno o del Movimento 5 stelle o di Salvini e della Lega) perché colpevoli di aver diffuso fake news. In realtà, la truffa è diversa: le pagine sono state chiuse soprattutto perché erano nate con un nome (ad esempio “Bombe Sexy”) e poi erano diventate “Vogliamo il movimento 5 stelle al governo”. Questo significa che il povero utente che sperava di vedere belle fanciulle si trovava invece, senza volerlo e con l’inganno, contenuti di altro tipo. Una pratica che viola i termini d’uso così come l’incitamento all’odio o la duplicazione degli account. Certo, le fake news ci sono, ma non bastano – per fortuna – a chiudere le pagine. I social non possono diventare il ministero della verità, e lo sanno.

Dal Tav al reddito, quando il falso è dei giornali

L’Unione europea ha pronta una procedura di infrazione contro l’Italia per deficit eccessivo. Il reddito di cittadinanza provocherà l’assalto agli uffici postali. Anzi no, contrordine lettori, è un flop. Intanto gli immigrati costringono al matrimonio una bambina di nove anni. Se queste notizie vi preoccupano, tranquillizzatevi. Sono fake news. Solo che non nascono nei bassifondi dei social, bensì dai nostri maggiori quotidiani (un articolo più ampio sul tema si trova sul mensile Fq MillenniuM attualmente in edicola).

Celebre il caso di una certa Beatrice Di Maio, individuata da La Stampa come una produttrice di bufale contro Pd e Quirinale. “Ha qualcosa a che fare con la Casaleggio o la comunicazione ufficiale del M5S?”, si chiedeva il quotidiano. Si trattava in realtà di Tommasa Giovannoni Ottaviani, moglie del forzista Renato Brunetta, che agiva in proprio. Ancora, avrebbe meritato qualche verifica in più il trattamento riservato all’allora deputato Luigi Di Maio nell’indagine su Raffaele Marra, l’ex vicecapo di gabinetto della sindaca di Roma Virginia Raggi: “E Di Maio scrisse alla sindaca: Marra è un servitore dello Stato” (Corriere della Sera). “M5S, le chat che smentiscono Di Maio. Scrisse a Raggi: Marra è uno dei miei” (Repubblica). Peccato che quei titoli fossero basati su uno scambio WhatsApp finito monco negli atti giudiziari. Nella versione integrale, diffusa la mattina dopo, così Di Maio rispondeva alla Raggi: “Quanto alle ragioni di Marra. Aspettiamo Pignatone (il procuratore di Roma, ndr). Poi insieme allo staff decidete/decidiamo. Lui non si senta umiliato. È un servitore dello Stato. Sui miei il Movimento fa accertamenti ogni mese. L’importante è non trovare nulla”. Una telefonata all’interessato avrebbe chiarito tutto per tempo.

È invece esploso pubblicamente a inizio anno lo scontro interno al Corriere della Sera. Il corrispondente da Bruxelles Ivo Caizzi ha accusato il direttore Luciano Fontana di aver pubblicato titoli del tutto fuorvianti nel dibattito incandescente sulla manovra economica del governo gialloverde. Il primo novembre 2018, ha sostenuto Caizzi, il quotidiano apriva “titolando in prima pagina su una “procedura d’infrazione” Ue contro l’Italia inesistente, oltre che tecnicamente impossibile, in quella data”.

Oppure fate finta di arrivare oggi da Marte e provate a farvi un’idea sul Tav leggendo i quotidiani: sarà un disastro economico e ambientale oppure un’infrastruttura fondamentale per restare in Europa? E chissà se qualcuno ha deciso di tenersi lontano dagli uffici postali leggendo, all’avvicinarsi del debutto del reddito di cittadinanza, titoli come “Uffici postali e Caf potrebbero andare in tilt” (La Stampa, 6 marzo) o “Reddito, partenza nel caos” (Repubblica). Poteva non distinguersi Libero? “Un’orda mai vista invaderà Poste e Inps”. Un incubo, dal quale per fortuna è stato facile risvegliarsi il giorno dopo: “L’assalto al reddito parte al rallenty” (Repubblica, 7 marzo).

Quando i protagonisti sono gli immigrati, è ancora più facile che le fake news bollinate dalla carta stampata imbocchino il senso unico, come la raccapricciante storia di una sposa-bambina di 9 anni abusata dal marito “musulmano” pubblicata dal Messaggero a novembre 2017, poi completamente smentita dai carabinieri di Padova. Quando ormai i commenti indignati di politici e opinionisti di prima pagina avevano inondato l’opinione pubblica.

Fake news e pagine fuorilegge. Come funziona la guerra social

Sono poco più di 100 le pagine italiane che la Ong Avaaz, movimento cittadino globale, ha segnalato a Facebook dopo due anni di ricerca sulla circolazione della disinformazione online e delle fake news per proteggere le elezioni europee, 23 invece quelle che il social network ha chiuso ed eliminato. Lo ha fatto perché violavano i termini e le condizioni d’uso del social ma nelle scorse ore è passato il messaggio che siano state chiuse perché diffondevano fake news. Non è però esattamente così.

Le pagine.Le pagine chiuse possono essere divise sostanzialmente in due categorie: ci sono quelle che almeno apparentemente, dal nome, sembrano affrontare temi di carattere generale (“Un caffè al giorno”, “Dannati e Ribelli”, “Ragazzi”) altre invece con un taglio politico già dal nome (“Vogliamo il M5S al governo”, “Beppe Grillo for president”, “Lega Salvini Sulmona”, “Lega Salvini Premier Santa Teresa di Riva”). Entrambi i tipi, secondo la Ong, diffondevano articoli non veri, attribuendo dichiarazioni false a personaggi famosi o spacciando per veri video tratti da film per provocare reazioni indignate (come i frame di un gruppo di ragazzi di colore che distruggono un’auto).

La chiusura.Le pagine non sono però state chiuse perché diffondevano fake news. Il social network le ha chiuse perché violavano i termini e le condizioni di utilizzo. Ad esempio, erano nate con un nome (“Associazione allevatori della provincia di Messina” o “Ragazze Sexy”) e solo in un secondo momento si erano trasformate in quacos’altro, conservando però gli stessi follower. Una pratica vietata da Facebook, così come la duplicazione degli account. E infatti, delle oltre cento segnalate, il social ne ha bloccate solo 23. Certo, le pagine non chiuse veicolavano anche contenuti di disinformazione, cercando di influenzare gli utenti (che, essendosi iscritti a un altro tipo di pagina, poi si trovano invece a subire post contro i migranti). Facebook è perciò intervenuta in un altro modo: riducendo la visibilità degli articoli riconosciuti come bufale e dei gruppi e delle pagine che li diffondevano (ma in questi casi non interviene la chiusura della pagina).

Gli strumenti. Soprattutto in vista delle elezioni europee, infatti, Facebook ha previsto un programma di tutela per la disinformazione online. Lo ha annunciato a inizio maggio in teleconferenza con i media europei: 40 team che a Dublino per le violazioni, 21 organizzazioni indipendenti di fact checking nell’Ue, che operano in 14 lingue per analizzare le notizie e che quindi poi ne certificano la maggiore o minore attendibilità informando gli utenti e fornendo loro un link da cui poter leggere il risultato dell’analisi.

La ong.Avaaz in questi giorni è stata accusata di essere una organizzazione finanziata da Soros. “In tema di fake news è a fagiolo – spiega Luca Nicotra, che ne è portavoce in Italia –. Siamo finanziati dal basso, i nostri bilanci sono trasparenti”. Hanno coinvolto i cittadini europei in questa ricerca attraverso un sito (fake-watch.eu) e chiedendo di segnalare i casi strani. “Siamo in prima linea sulla libertà di informazione. Abbiamo chiesto a Facebook almeno di apportare le correzioni ai contenuti che dovessero essere ritenuti sbagliati dai fact-checker, spiegando chi li contesta e come”.

Terreno scivoloso.La lotta alla disinformazione online continua comunque a essere un terreno scivoloso perché presuppone che qualcuno abbia diritto all’ultima parola sulla veridicità di qualcosa. Per questo Facebook non può censurare i contenuti (ma li elimina se violano le policy mentre per ridurne la visibilità si affida a fact-checker esterni) e i governi hanno molto timore ad affrontare il problema, che coinvolge la libertà di espressione. Un conto sono i fatti (facilmente smentibili come nel caso dell’auto o delle frasi false), un altro le informazioni legate a temi e dibattiti più vasti e complessi. Creare un precedente potrebbe essere molto rischioso.

Forza Italia contro Morra, che si difende: “Sono trasparente”

Una conferenza stampa per denunciare “fatti gravi” compiuti dal presidente dell’Antimafia, Nicola Morra. L’hanno organizzata ieri a Montecitorio i deputati Roberto Occhiuto, Jole Santelli e Giorgio Mulè, tutti di Forza Italia. I tre in sostanza documentano che Morra il 20 febbraio 2018 (quando ancora non guidava la Commissione) si è rivolto alla Guardia di Finanza per depositare un dvd in cui c’è una intercettazione ambientale avvenuta nel suo soggiorno: cinque giorni prima, infatti, aveva aveva invitato a casa sua un indagato, Giuseppe Cirò, ex capo segreteria del sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto – fratello del deputato Roberto, ndr – denunciato poi dal primo cittadino dopo aver scoperto una serie di illeciti rimborsi ai danni dell’amministrazione comunale. In pratica, dicono i parlamentari forzisti, “lo ha trasformato in un delatore e creato una struttura inquirente parallela allo Stato”. Con l’aggravante, secondo la ricostruzione, che il magistrato che ha poi diposto la trascrizione dell’intercettazione è diventata consulente dell’Antimafia. Una affermazione “meschina”, secondo Morra, che si è difeso così: “Il mio operato è trasparente, sfido a dimostrare il contrario in tribunale”.