Proibiti gli striscioni anti-Salvini, via libera invece ai neofascisti

L’ordine della Questura è arrivato ai pompieri di Brembate dieci minuti prima delle 8 di ieri mattina: c’è da rimuovere uno striscione contro il ministro dell’Interno Matteo Salvini in visita in provincia di Bergamo. I pompieri arrivano così con una scala e tolgono il lenzuolo sopra il quale si legge la scritta: “Non sei il benvenuto”. Il capitano dei vigili del fuoco Calogero Turturici spiega: “È stata un’operazione meramente tecnica. L’abitazione era vuota”. In effetti l’appartamento è da tempo disabitato, dalla morte dell’inquilina. Circostanza che conferma anche il questore di Bergamo Maurizio Auriemma.

Nell’ordine, firmato dallo stesso questore, si legge che “dovevano essere segnalate situazioni che potessero turbare l’ordine pubblico”. Altri striscioni contro Salvini sono stati rimossi, ad esempio, nel quartiere popolare di Zingonia dove proprio ieri sono iniziate le operazioni di demolizione delle torri. Ma nei pompieri c’è chi protesta, come Costantino Saporito, sindacalista dell’Usb: “È inaccettabile vedere vigili del fuoco usati impropriamente per rimuovere uno striscione che non rappresenta nessun pericolo”. Ma forse qualcuno è più realista del re, perché il ministro Matteo Salvini dice: “Basta che non ci siano problemi di ordine pubblico, che non si metta in pericolo la sicurezza dei cittadini o delle forze dell’ordine, poi ognuno scriva quello che vuole”. Resta da capire se la frase “Non sei il benvenuto” potesse realmente turbare l’ordine pubblico, anche perché durante la rimozione non si sono registrate proteste di alcun tipo. A 700 chilometri di distanza, nella capitale, invece, lo striscione “Lucano nemico dell’Italia” è stato fatto esibire ai trenta camerati di Forza nuova al seguito di Roberto Fiore, arrivati fino a seicento metri dalla manifestazione degli studenti della Sapienza in favore dell’ex sindaco di Riace.

Che ci sia in questo momento una doppia modalità d’azione delle forze dell’ordine rispetto a chi sta in piazza è più di una sensazione. Domenica pomeriggio a Settimo Torinese, secondo quanto denuncia una madre sulla sua bacheca Facebook, “mio figlio Davide, 18 anni, è stato malmenato e portato via da poliziotti in borghese”. È stato trascinato per alcuni metri dagli agenti dopo un accenno di rissa con un gruppo di leghisti, identificato e denunciato a piede libero. Altro indizio di un clima pesante è lo scambio di tweet al vetriolo di qualche giorno fa tra Roberto Saviano (“la polizia di stato ridotta a servizio d’ordine di un partito”) e l’account ufficiale della polizia che risponde per le rime allo scrittore: “Che pena leggere commenti ingenerosi per dispute politiche o per regolare conti personali”. Tweet rivendicato dal capo della polizia Franco Gabrielli in un’intervista al Corriere della Sera. Poi c’è la denuncia di Simone Sapienza (Radicali Roma), Paolo Stasolla (associazione 21 luglio) e Valentina Calderone (A buon diritto) rispetto ai fatti di Casal Bruciato nella periferia della capitale: “Nel pomeriggio del 7 maggio CasaPound ha posizionato un gazebo all’interno della corte di via Satta 20 con l’intenzione di svolgere un’assemblea pubblica. Non si hanno dati in merito all’avvenuta autorizzazione di tale manifestazione da parte della Questura, ma c’erano forze dell’ordine nelle vicinanze e non sono intervenute nonostante i comportamenti minacciosi e intimidatori adottati contro la famiglia rom assegnataria dell’immobile da parte dei promotori del presidio”. Altri striscioni contro Salvini sono stati prontamente rimossi, invece, a Salerno e Avellino.

Ieri sul tema è intervenuto l’altro vicepremier dello stesso governo Conte, Luigi Di Maio: “C’è tensione sociale. Alla Sapienza sono tornate le camionette delle forze dell’ordine come non accadeva da tempo”. La risposta dell’alleato Matteo Salvini arriva a stretto giro: “Le uniche minacce di morte le ricevo io. I reati calano, i morti sul lavoro aumentano”. La campagna elettorale per le Europee continua.

Dazi, la Cina risponde a Trump. Lo scontro affossa tutte le Borse

La Cina sfida Donald Trump, che aveva dato il via a nuovi dazi su 300 miliardi di export cinese, e annuncia nuove tariffe su 60 miliardi di dollari di prodotti made in Usa. Una mossa, quella di Pechino, che affonda le piazze finanziarie mondiali alle prese con un vero e proprio lunedì nero: le borse europee chiudono tutte in rosso con Milano in calo dell’1,35%, mentre a Wall Street le perdite superano il 3%. A preoccupare è l’ipotesi di una guerra commerciale a tutto campo che rischia di travolgere la già debole economia mondiale. Nonostante l’avvertimento di Trump a non lasciarsi tentare da rappresaglie perché – avverte – sarebbe “solo peggio”, la Cina va dunque avanti per la sua strada ed è pronta, secondo indiscrezioni, ad alzare anche il tiro: nel mirino di Pechino ci sarebbero infatti i titoli di stato americani e Boeing. Trump via Twitter tenta di rassicurare e invia un messaggio alla Cina: “L’accordo era quasi fatto e avete fatto un passo indietro. Evitate ritorsioni, o sarà solo peggio”.

L’avvertimento del tycoon però non ha fermato Pechino. Dall’1 giugno i dazi su una serie di prodotti americani saliranno al 20 o al 25% dall’attuale 10%. I negoziati tra i due Paesi sono ancora in corso.

Giornalisti, manager e volti tv: la struttura “Delta” del Carroccio

Un arrembaggio inarrestabile. Così si può definire l’avanzata in Rai da parte della Lega, che nelle ultime settimane ha deciso di scatenare la sua potenza di fuoco contro Fabio Fazio. Un assalto che va avanti dalla fine della scorsa estate, quando a Viale Mazzini molti hanno capito che il cavallo su cui scommettere, tra i due partiti di governo, era quello (ex) padano. Perché Matteo Salvini, dopo anni passati nello scantinato della tv pubblica, aveva e ha fame di poltrone. Lo si è visto subito, con l’elezione ripetuta due volte in Vigilanza per portare alla presidenza Marcello Foa, fino ad allora cronista de Il Giornale, peraltro quasi dimenticato oltreconfine, con un incarico manageriale al Corriere del Ticino.

La nomina di Gennaro Sangiuliano alla direzione del Tg2 è stata solo la seconda tappa di un’offensiva lanciata in tutte le direzioni e che sembra non conoscere un giorno di sosta. Non che i 5 Stelle si siano esentati dalla lottizzazione, vedi Giuseppe Carboni (ma non solo) giunto alla direzione del Tg1. Ma l’assalto leghista sembra di gran lunga meglio orchestrato. Con uomini e donne piazzati un po’ ovunque, ma anche leghisti dell’ultimissima ora, persone che fino a poco fa erano indicati in quota Pd.

È il caso, per esempio di Teresa De Santis, protagonista della storiaccia della cancellazione delle tre puntate di Che fuori tempo che fa di Fazio. I bene informati di mamma Rai raccontano che De Santis negli ultimi anni era accreditata in quota Pd, addirittura indicata come una dalemiana di ferro. E invece oggi la ritroviamo come direttrice di Raiuno in quota Lega. Un caso simile, dicono, è quello di Auro Bulbarelli: anch’egli in passato vicino ai dem e ora direttore di Raisport, sempre col benestare del Carroccio. Ma pure il direttore dei palinsesti Marcello Ciannamea, pur non essendo legato a nessuno, un tempo guardava più a sinistra che ai sovranisti.

Naturalmente Salvini ha piazzato la sua zampata anche nelle nomine dei vicedirettori dei Tg, nominati a metà dicembre. Uno dei vice di gran peso di Carboni al Tg1, per esempio, è Angelo Polimeno Bottai, che proprio col suo direttore qualche settimana fa è stato protagonista di una lite che per poco non si è trasformata in rissa e su cui è ancora in corso un’indagine interna. Mentre alla Tgr, vecchio pallino del Carroccio, la guida è doppia: vicini alla Lega sono considerati sia il direttore Alessandro Casarin che il condirettore Roberto Pacchetti. Non solo giornalisti, però: anche in azienda Salvini sta lasciando parecchie impronte. Massimo Ferrario, leghista della prima ora un tempo vicino a Bossi e Maroni, è in pole position per la carica di direttore delle produzioni tv, poltrona molto ambita per il budget che passa da quelle parti. Poi c’è Roberto Nepote, manager di lungo corso, da poco nominato a capo del marketing. Altro nome gradito ai leghisti è Pietro Gaffuri, che potrebbe andare al trasformation office, ovvero il ruolo di coordinamento tra le 9 direzioni verticali di contenuto e la direzione dei palinsesti: tutta la programmazione passerà dalla sua scrivania. Ma altre cariche sono nel mirino del partito padano, prima fra tutte la fiction. Mentre l’ex capo dell’ufficio legale, Pierpaolo Cotone, invece di andare in pensione è stato preso da Foa come responsabile del suo staff.

Tra le prossime nomine, poi, ci sono altri nomi in odor di Lega. Come il probabile nuovo vicedirettore di Raiuno Milo Infante: capostruttura in quel di Milano ma anche conduttore, da tempo è in attesa di un salto nell’empireo dei piani alti della tv pubblica. Come di area Lega sembra anche il nome scelto per la conduzione di Uno Mattina estate, l’ex direttore di Radio Padania oggi a Mediaset, Roberto Poletti. Lo spacchettamento dell’ufficio comunicazione, poi, favorirà anche Simona Martorelli, alla guida delle relazioni internazionali, e Fabrizio Ferragni a quelle istituzionali. Proprio quest’ultimo qualche tempo fa si è fatto notare per aver tentato di bloccare l’intervista proprio di Fabio Fazio a Luigi Di Maio, tentativo andato a vuoto ma che a Viale Mazzini ha lasciato uno strascico di veleni. E ha fatto capire quanto gli uomini vicini al Carroccio, pure gli ultimi arrivati, non abbiano freni nell’accontentare il nuovo padrone politico ed essere più realisti del re.

Non sappiamo se ha ragione Vittorio Di Trapani, segretario dell’Usigrai, secondo cui “in Rai operano due aziende: una ufficiale che risponde dall’ad e una parallela, che opera alle sua spalle ed esegue ordini politici”. Ma di questa altra struttura, che ha in Marcello Foa il suo punto di riferimento, si è avuta contezza in più di un’occasione negli ultimi tempi, a partire proprio dal caso Fazio. E tra i due, Salini e Foa, è andato in scena in duro scontro proprio la scorsa settimana. I due hanno anche alzato la voce sui palinsesti estivi e sulle nomine: col presidente che voleva rinviarle a dopo il 26 maggio e l’ad invece intenzionato a procedere.

 

Caso Fazio, l’ad Salini processa i leghisti di Rai1

Un confronto assai duro, con momenti di toni alti, quello che ha visto ieri protagonisti Fabrizio Salini e Teresa De Santis. Col primo che ora potrebbe annullare la decisione della direttrice di Raiuno, chiedendo a Fabio Fazio di continuare ad andare in onda. L’ad della Rai, furioso per non essere stato avvertito della cancellazione di tre puntate di Che fuori tempo che fa di Fabio Fazio (programma della seconda serata del lunedì), ieri mattina ha convocato De Santis nel suo ufficio al settimo piano di Viale Mazzini, insieme al direttore dei palinsesti, Marcello Ciannamea. E qui il clima si è fatto assai teso.

A quanto si sa, la decisione è stata presa in autonomia dalla direttrice della rete ammiraglia, che poi ha comunicato la scelta alla rete. L’unico a non sapere, dunque, era Salini. Qui, però, occorre fare una precisazione. A quanto si apprende, l’ad sapeva della cancellazione di due puntate: quella del 20 maggio (per un riequilibrio della par condicio) e quella del 3 giugno. Ma la puntata del 27 maggio, in seconda serata dopo i risultati delle europee, sarebbe dovuta andare regolarmente in onda.

Al di là del dettaglio, però, il problema è politico. Perché la cancellazione di Fazio ha il sapore dell’anticamera di un declassamento (forse a Raidue) ed è il risultato finale di un attacco leghista che va avanti da mesi, fronte su cui è impegnato in primis lo stesso Matteo Salvini, che di Fazio ha fatto uno dei suoi temi principali per le europee. “Io lo vorrei in onda sempre, anche a Natale e Capodanno, perché più fa campagna per la sinistra e più le persone votano Lega”, ha affermato ieri il vicepremier. Ma è chiaro che non è così, come ha detto chiaro e tondo il consigliere d’amministrazione in quota Lega Igor De Biasio. “Fazio deve ridursi lo stipendio. E poi, dato che fa una media inferiore a quella di Raiuno, deve anche cambiare rete”, ha spiegato in un’intervista al Messaggero. Tra l’altro la trattativa per arrivare a una riduzione dell’ingaggio e a un eventuale cambio della messa in onda per la prossima stagione era già oggetto di una trattativa tra il conduttore e Salini. Ma ora la sparata della De Santis rischia di comprometterla, col pericolo di inasprire i rapporti tra l’azienda e il conduttore, che gode di un contratto blindato, pieno di penali per mamma Rai. Anche per questo motivo Salini ora potrebbe a sua volta rivedere la decisione della De Santis e mandare in onda Fazio almeno il 27 maggio.

Nel frattempo impazza la polemica politica. “Su Fazio io la chiamo censura della libertà di espressione”, ha detto in un tweet il segretario del Pd Nicola Zingaretti. “Cosa aspetta la Vigilanza a chiedere le dimissioni della De Santis?”, si chiede Giacomo Portas (Pd). Mentre il presidente della Vigilanza Alberto Barachini (FI) fa notare “il paradosso dell’annuncio dato dallo stesso Fazio”. Ieri sera il conduttore è tornato sul tema punzecchiato dalle battute di Maurizio Crozza, in quella che per il momento è stata l’ultima puntata della stagione.

Fulmini, moschee e il flop del varo: la Lega fa Fantozzi

Col petto gonfio e l’italico orgoglio di chi sta per inaugurare un’opera iniziata da un paio di sindaci prima di lui, il sindaco e il ragionier Filini arrivano davanti alla chiusa. Tra folle plaudenti si tenta il “varo” dell’opera ma la bottiglia, lanciata sull’acciaio con vigore dal sindaco pisano Conti, continua a non rompersi e a rinculare nella sua direzione con l’aria di sfida di un livornese. Il tutto mentre il valoroso ragionier Filini gli spiega come si fa a spaccare una bottiglia, lui che ha la faccia di quello che non riuscirebbe a spaccare manco il guscio di un pistacchio. Morale: il remake della fantozziana scena “Contessa Serbelloni Mazzanti Vien Dal Mare” diventa il tormentone del weekend da nord a sud, dimostrando che quando c’è da prenderla beatamente per il culo la Lega unisce, non divide.

Ma accade perfino di meglio. Ricorderete la grande regata di canottaggio in Super Fantozzi in cui lo strabico dei fratelli Colsi passa sotto al ponte ad archi sul Tevere centrando in pieno un pilastro. Ecco. I primi di maggio, un camion elettorale che portava in giro un gigantesco manifesto della sindaca di Cascina, Susanna Ceccardi, è passato con disinvolta fierezza sotto un arco dell’acquedotto mediceo. L’autista però aveva fatto male i calcoli e il camion è rimasto incastrato sotto un arco, l’unico tra 954 archi da cui l’acquedotto è composto che in quel momento era puntellato dalle transenne perché a rischio crolli. Morale: i tecnici della Soprintendenza hanno dovuto effettuare dei rilievi sulla staticità del cantiere dopo l’impatto dell’acquedotto con la Ceccardi. È facile prevedere che ci abbia rimesso l’acquedotto. Alla narrazione già fantozziana va aggiunto che pochi mesi fa, il sindaco Conti voleva buttare giù tre archi dello stesso acquedotto del 1600 per ridurre i costi della Tangenziale Est, per cui il sospetto è che abbia capito come fare risparmiando sugli appalti. Andiamo avanti, perché la trama fantozziana prosegue. Il 4 maggio, Capitan Salvini giunge nel Pisano per il suo tour elettorale a suon di “ruspa”, anche perché proprio la sua beniamina Susanna Ceccardi, sempre in compagnia del Ragionier Filini (il deputato Ziello), pochi mesi fa era salita su una ruspa per abbattere un campo rom da quelle parti. Bene. Salvini va a San Giuliano Terme, saluta San Giuliano Terme e dopo una settimana qualcuno – ispirato dalla propaganda leghista – a pochi km da lì pensa bene di tirare fuori la ruspa dal garage e con quella ruspa di lanciarsi a mo’ di ariete contro la vetrata della Coop che custodisce la cassa continua. Insomma, non si può dire che gli slogan di Salvini non siano di ispirazione. Non solo. Durante il suo discorso lì il Capitano esclama con enfasi: “Basta criminalità, basta stranieri irregolari. Il Tribunale di Catania sta aprendo un altro processo. Dopo l’assoluzione mi vengo a fare un bagno qui!’’. Otto giorni dopo, nella zona dei bagni di Marina di Pisa, nella stessa notte avvengono quattro furti, tra bar, gelaterie e ristoranti. Proseguiamo il nostro racconto fantozziano a Pisa sempre sul tema sicurezza. Cinque mesi fa il sindaco Michele Conti dà il grande annuncio, con tanto di foto sul posto, stampa e strette di mano: “Alla stazione, al posto del punto Snai, sorgerà il punto sicurezza della Polizia municipale!”. Il prode deputato Ziello, che quando la Lega fa una cosa qualunque a Pisa c’è sempre come Fantozzi che presidia tutti i piani e gli uffici, da solo, ad agosto durante l’ispezione del megadirettore generale, rilascia una dichiarazione da Istituto Luce: “Un trionfo per la Lega. È da mesi che stiamo lavorando per la creazione di un presidio di sicurezza statico. Stiamo dimostrando che la sicurezza non la facciamo a parole ma con i fatti!”. Due mesi dopo il punto sicurezza è pronto. Però non apre. Perché?

Perché il punto sicurezza voluto dalla Lega non rispetta le norme di sicurezza. “Impianto elettrico non certificato, non conoscenza dello stato di manutenzione degli impianti di condizionamento, necessità di interventi di messa in sicurezza del locale, dagli spigoli sugli arredi alle sedute che devono essere fissate al pavimento”, secondo il verbale redatto da chi ha eseguito i controlli. Insomma, la Lega mette al sicuro i cittadini rischiando che la polizia municipale resti fulminata con una scossa da 20.000 volt. Geniale. Intanto, il tentativo della Lega di bloccare la costruzione della nuova moschea a Pisa è sostanzialmente fallito perché la Soprintendenza lo ha autorizzato, la proposta di far chiudere alle 21 i minimarket a Pisa che non vendono prodotti tipici toscani è ferma lì e infine, i propositi declamati dal sindaco di Pisa e da Salvini di impedire sabato 18 maggio la storica manifestazione antiproibizionista “Canapisa” (“Canapisa è l’apologia dello spaccio!” ha tuonato la Ceccardi), si sono dovuti scontrare con la dura realtà: la manifestazione a Pisa si farà.

La Lega dunque sta organizzando una contro-manifestazione che visto l’andazzo fantozziano ha buone probabilità di chiudersi così: Conti è al microfono, una timida vecchietta si avvicina per chiedergli la parola, lui le cede l’asta con galanteria e la vecchietta con un filo di voce esclama: “Per me la giunta Conti è una cagata pazzesca!”. 92 minuti di applausi.

La Lega chiede la testa di Lagioia, la sindaca Appendino lo difende

Piccola codadi polemiche da Librolandia 2019, con il capogruppo della Lega in Consiglio comunale, Fabrizio Ricca, che ha chiesto ieri le dimissioni del direttore del Salone Nicola Lagioia, subito difeso dalla sindaca di Torino Chiara Appendino: “Lagioia non si tocca, è patrimonio della città. Se la Lega vuole prendersela con qualcuno se la prenda con chi si è assunto la responsabilità politica della scelta (di aver estromesso Altaforte, ndr), ovvero la sottoscritta”. Lagioia, peraltro, è blindato dal contratto, che scadrà nel 2021: “Ho ancora due anni. Abbiamo riassorbito la spaccatura editoriale, riassorbiremo anche quella politica”. Eppure, nei giorni scorsi molti malumori serpeggiavano tra gli organizzatori torinesi contro la “direzione” romana del direttore, Raimo and friends. I numeri, però, danno loro ragione, forse anche grazie all’editore di CasaPound cacciato: i visitatori unici della 32esima edizione, conclusasi ieri, sono stati 148.034, in aumento rispetto al 2018. Annunciate già le date dei Saloni 2020 (14-18 maggio) e 2021 (13-17 maggio), che verranno progettate dalla stessa squadra di quest’anno, Lagioia in testa: “Io sono un uomo di dialogo, da parte mia la polemica è chiusa”. Arrivederci e grazie.

Il vero populismo combatte i sovranisti

Un’analisi chiara ed eterogenea di un’epoca che si appresta a finire, portando con sé nel baratro anche un vocabolario svuotato e mutato nel segno.

L’ultimo libro di PierFranco Pellizzetti, Il conflitto populista, è un saggio complesso che restituisce al lettore lucidità consentendogli di districarsi tra appropriazioni indebite di terminologie che nascondono interessi privati e fenomeni in cui l’ambizione democratica si fa sempre più pressante. L’autore parte dalla presa di coscienza di un mutamento, dall’elaborazione di un lutto. Lo stesso che Rutilio Namaziano, considerato l’ultimo poeta latino, descrisse nel De Reditu suo, amareggiato per la decadenza dell’impero romano d’Occidente. Lasciava Roma, invasa dai Goti di Alarico, alla volta della Gallia, con un senso di malinconico smarrimento.

Pellizzetti si dice pervaso dalla stessa tensione che lo spinge a intraprendere “un viaggio nell’imbarbarimento”. La crisi generalizzata del mondo anglosassone, fulcro del modello di eredità novecentesca vigente, ha portato all’inarrestabile consunzione del progetto di un progresso benevolo e inclusivo, finalizzato a creare “un vasto spazio sovranazionale di pace e cooperazione”. Delle forze politiche di un tempo non restano che scampoli. Prevale la mediocrità. Resta al potere una corporazione postdemocratica autoreferenziale. Il lavoratore è ridotto a mero consumatore. L’egemonia della finanza si è mutata in cleptocrazia. Dietro la logica di una maggiore sicurezza, si sono insinuate politiche di sorveglianza atte a indurre paura.

Questo è lo scenario che l’autore descrive dando avvio a una disamina dei vocaboli utilizzati dal potere, in modo manipolatorio, attraverso pratiche demagogiche. Da Donald Trump a Boris Johonson. Da Viktor Orbán a Beppe Grillo. Emerge così da un lato la spinta sovranista dilagante, ripiegata sull’ideale nazionalista. Dall’altro il suprematismo, che altro non è che razzismo. E infine il populismo, vocabolo che – secondo Pellizzetti – i vertici della piramide sociale usano in senso denigratorio per preservare le disuguaglianze. Ma il populismo vero è rappresentato dai movimenti popolari che fanno sempre più irruzione sulla scena pubblica. L’autoritarismo dilagante può, quindi, trovare un argine negli antagonisti, bollati come populisti, che in questa fase di svuotamento dell’assetto democratico, potrebbero aggregare i diversi interessi reali al fine di realizzare un’AltraPolitica che rifondi la democrazia.

La Sicilia di Salvini: piazze pienissime e urne semi-vuote

Piazze piene, urne un po’ meno. Ancora più vuoti, invece, saranno i consigli comunali. È una sconfitta netta quella della Lega ai ballottaggi siciliani. Il partito di Matteo Salvini perde il derby di governo con il M5S, e deve rinunciare a piazzare per la prima volta le sue bandierine su comuni dall’alto valore simbolico come Gela e Mazara del Vallo. Il Movimento di Luigi Di Maio, al contrario, vince due ballottaggi su due conquistando Caltanissetta, l’unico capoluogo al voto (dove nel 2014 aveva preso il 9%), e Castelvetrano, la città che ha dato i natali al boss Matteo Messina Denaro. Al secondo turno di Monreale, invece, non c’erano né leghisti né grillini: ha vinto Alberto Arcidiacono, sostenuto dal governatore Nello Musumeci, contro l’uscente Piero Capizzi, appoggiato da liste civiche. Per il resto l’isola si conferma granaio di voti per i grillini, che al primo turno avevano perso Bagheria e Gela, dove però i rispettivi sindaci erano stati allontanati ormai da un paio d’anni.

Quella delle due forze di governo era una sfida a distanza, visto che Lega e M5S non s’incrociavano in nessuno scontro diretto: per questo motivo c’era già chi ipotizzava uno scambio gialloverde. Se scambio è avvenuto, è stato solo giallo. A Caltanissetta, la città di Giancarlo Cancelleri, il sindaco grillino Roberto Gambino raddoppia i voti rispetto al primo turno: erano 6mila, ne ha presi più di 13mila. E per i 5 Stelle non hanno votato solo i 3.600 elettori che due settimane fa avevano scelto il leghista Oscar Aiello. Lo stesso Michele Giarratana, candidato sconfitto del centrodestra senza Carroccio, è passato da 11mila preferenze a 9mila. Ha raddoppiato i consensi anche il nuovo primo cittadino di Castelvetrano, Enzo Alfano: ha preso 4mila voti, ma la Lega non c’entra. Il grillino ha incassato probabilmente il sostegno degli elettori di Pasquale Calamia, unico candidato al quale il Pd aveva concesso sia il simbolo che la presenza di Nicola Zingaretti. Senza successo.

Nella città più araba d’Italia, cioè Mazara, i 5mila elettori del candidato M5S non si sono trasferiti al Carroccio. Il leghista Giorgio Randazzo, infatti, è passato da quasi 7mila voti a soli 9 mila ed è stato sconfitto da Salvatore Quinci, sostenuto da liste civiche di centrosinistra. Più evidente il flop dei salviniani a Gela: Salvatore Spata ha guadagnato meno di mille voti rispetto al primo turno, quando i 5 Stelle ne avevano presi quasi 6mila. Il risultato è la vittoria di Lucio Greco, l’uomo scelto dal Pd (senza simbolo) e da Forza Italia per “fermare i populismi”. Un patto del Nazareno all’ombra del petrolchimico, premiato dalle urne. “Ha funzionato. La città ha capito. Abbiamo evitato che la Lega di Salvini sfondasse”, dice il nuovo sindaco di Gela, mentre il redivivo Gianfranco Miccichè si spinge a dire che se “a Caltanissetta avessimo fatto lo stesso accordo avremmo vinto”. Lo storico viceré di Silvio Berlusconi in Sicilia non vuole sentire parlare di Nazareno ma conferma senza imbarazzo che “i simili devono stare insieme”. Un assist per Luigi Di Maio: “Quando vince il M5S si mandano all’opposizione il Patto del Nazareno e gli estremismi. Quando non vince il M5s, vincono coalizioni di Pd e Forza Italia come a Gela. Questo è inquietante per il futuro del Paese”, dice il vicepremier, tornato in Sicilia ieri pomeriggio per festeggiare i due sindaci eletti.

La doppia vittoria in terra di Sicilia, nonostante fosse solo un’elezione locale, regala ossigeno al capo politico del M5s dopo le sconfitte alle ultime regionali. “Quando ci danno per morti noi ci siamo sempre”, dice Di Maio con la testa al 26 maggio: “Credo che avremo delle grandissime sorprese anche alle Europee”. Pensa al voto Ue anche Salvini: “Non vedo l’ora di portare a Bruxelles il primo europarlamentare siciliano eletto con la Lega”. Per la verità, però, nei 5 comuni al voto ieri il Carroccio ha eletto solo 5 consiglieri (per il M5S sono 33), più il sindaco del piccolo Comune di Motta Sant’Anastasia al primo turno: i bagni di folla del ministro dell’Interno lasciavano presagire un finale diverso. “Abbiamo perso per una manciata di voti. Io credo alle piazze”, ha abbozzato Salvini. Nelle piazze, però, ci sono anche curiosi a caccia di selfie. Almeno in Sicilia.

Laura Boldrini ha deciso: alle Europee vota Pd

Ci dobbiamo occupare di Europa più che di Salvini e secondo me stiamo decidendo il futuro dell’Unione europea e dei nostri figli. Da tempo avevo proposto una lista di tutto il centrosinistra perché secondo me c’era bisogno di un’operazione innovativa. Purtroppo non è stato possibile, ma spero che tutte le liste del centrosinistra raggiungano la soglia del 4% per non disperdere voti. Io ho scelto di votare la lista del Partito democratico perché è la lista che ha fatto più sforzi per aggregare, perché il Pd appartiene alla famiglia socialista, che al Parlamento europeo è la componente progressista più forte”. Così ieri Laura Boldrini a Otto e mezzo ha fatto il suo endorsement a favore del Pd. Una scelta di campo, quella dell’ex presidente della Camera, candidata da Liberi e Uguali, accolta con entusiasmo dai vertici del Nazareno. “La scelta di Laura Boldrini rafforza le nostre convinzioni e il nostro progetto. La lista unitaria l’abbiamo pensata proprio per riunire un campo largo e mandare a casa il governo delle destre Salvini-Di Maio”, ha commentato Nicola Zingaretti. E Paolo Gentiloni: “Brava Laura Boldrini che annuncia il suo voto alla lista Pd, la scelta progressista e europeista contro il nazionalpopulismo”.

M5S, nuove regole sulla nomina dei dirigenti sanitari

Un disegno di legge sulla nomina dei dirigenti sanitari che nelle intenzioni, “deve allontanare le mani dei partiti dalla sanità” come assicura la senatrice Maria Domenica Castellone, capogruppo del M5S in commissione Sanità a Palazzo Madama. È il ddl che verrà presentato questa mattina in Senato dai Cinque Stelle in una conferenza stampa a cui parteciperanno il vicepremier Luigi Di Maio, il ministro della Salute Giulia Grillo e il presidente della commissione Sanità Pierpaolo Sileri. Il testo prevede che le regioni nominino i direttori generali esclusivamente tra gli iscritti all’elenco nazionale dei soggetti idonei alla nomina di dg, e che “al fine di garantire trasparenza e imparzialità”, venga istituito presso il ministero della Salute un albo nazionale dei commissari a cui venga demandata la valutazione dei direttori generali e degli altri dirigenti. Per la nomina del direttore generale il presidente della Regione dovrà individuare cinque commissari, di cui almeno due di regioni diverse rispetto al luogo dove si svolge la selezione, attingendo all’albo nazionale dei commissari mediante sorteggio pubblico.